Niccolò Palmeri
Somma della storia di Sicilia

SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA]

CAPITOLO IV. I. Nuovi maneggi degli Ateniesi. — II. Alcibiade. — III. Seconda spedizione: prime operazioni degli Ateniesi. — IV. Stato di Siracusa: Assedio: Battaglia. — V. Arrivo di Gilippo. — VI. Presa del Plemmirio. — VII. Battaglia navale. — Arrivo di Demostene. Disfatta degli Ateniesi all’Epipoli. — Battaglia navale. — Altra Battaglia. — Fuga degli Ateniesi. Resa di Demostene e di Nicia.

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CAPITOLO IV.

I. Nuovi maneggi degli Ateniesi. — II. Alcibiade. — III. Seconda spedizione: prime operazioni degli Ateniesi. — IV. Stato di Siracusa: Assedio: Battaglia. — V. Arrivo di Gilippo. — VI. Presa del Plemmirio. — VII. Battaglia navale. — Arrivo di Demostene. Disfatta degli Ateniesi all’Epipoli. — Battaglia navale. — Altra Battaglia. — Fuga degli Ateniesi. Resa di Demostene e di Nicia.

I. — L’esito della guerra, che avrebbe dovuto sgannare gli Ateniesi, maggiormente gli mise al punto; sì che prestarono fede alla voce ( tali voci sono mai mancate) di non essersi conquistata la Sicilia, perchè i Siracusani aveano unte le mani dei comandanti. A tale giunse la precipitazione del giudizio che Eurimedonte ne fu condannato ad una multa, gli altri due al bando. guari andò, che il destro si offrì ad Atene di ritentare, con più forze e maggior fidanza, l’impresa.

Leonzio era restata, per la pace, soggetta a Siracusa. La plebe ivi tumultuando, chiedea nuova ripartizione di terre; i patrizî coll’ajuto dei Siracusani la cacciarono dalla città; ed eglino stessi l’abbandonarono, per essere ridotta pressochè vôta. Si ridussero in Siracusa, ove ebbero la cittadinanza. Non guari dopo pentitisine, molti vennero ad abitare i due castelli Focea e Bricinna presso Leonzio e loro s’unirono alcuni degli esuli. Saputo il caso in Atene, fu secretamente spedito in Sicilia un Feace, per commettere male fra i Siciliani; promettendo larghi ajuti a chi ne chiedea, per riaccendere la guerra intestina.

Brighe erano nate al tempo stesso tra gli Egestani e i Selinuntini a causa di maritaggi violati, e del territorio egestano che i Selinuntini aveano occupato, oltrepassando il fiume Anfisbete, ch’era il confine. Si venne all’armi; gli Egestani furono dispersi. Ricorsero ad Agrigento e a Siracusa, che non vollero darsene pensiero. Chiamarono in ajuto i cartaginesi; ma questi non pensavano allora a portar le armi in Sicilia. Disperati, chiesero soccorso ad Atene, e con essi gli esuli Leontini, offrendo 60 talenti al mese per lo mantenimento di sessanta galee.

II. — Al desiderio generale degli Ateniesi di sottomettere la Sicilia si aggiungevano allora le istigazioni di Alcibiade. Costui, nobile, ricco, generoso, prode, eloquentissimo, bello della persona, coronato in Olimpia, vincitore degli Spartani, era l’idolo del popolo. I saggi lo tenevano pericolosissimo cittadino; perchè pieghevole al vizio come alla virtù, cupido di gloria, anche più di danaro, nessuno scrupolo lo frenava nella scelta dei mezzi di giungere ai suoi fini. Vide costui in quella guerra un bel destro d’acquistare autorità e ricchezze: però si diede a tutta possa a persuadere gli Ateniesi a portar le armi in Sicilia. Nel suo fervido immaginare vedea, e facea vedere alla moltitudine, non che la Sicilia, ma Cartagine, la Libia, il Peloponneso già sottomessi ad Atene. Invano molti, e soprattutto Nicia, vecchio e sperimentato capitano, si opposero a tanto delirio, e rammentarono invano i trecentomila Cartaginesi disfatti sotto Imera. Solo poterono ottenere, che si mandassero messi in Sicilia, per esaminare se gli Egestani aveano ricchezze tali, da adempiere alle larghe promesse che faceano.

Tutto allora cospirò per deludere gli Ateniesi. Saputo quella risoluzione, gli Egestani si diedero a raggranellare da per tutto vasi d’oro e di argento e preziosi arredi; togliendoli in presto dai vicini Maravigliarono i messi ateniesi al vederne in tanta copia ne’ tempî, nelle case, e nei conviti. E fin si dice che ne’ pubblici granai fu sopramposto ai grandi mucchi di frumento uno strato di monete, per far loro credere di esser quello, danaro ammonticchiato. Ed a tutto ciò si aggiunge il dare sessanta talenti per primo pagamento delle sessanta galee. Ingannati coloro, trassero in inganno i loro concittadini. Posto il partito, la guerra fu vinta; e furono scelti comandanti Alcibiade, lo stesso Nicia e Lamaco, prode capitano, ma tanto povero, che la repubblica ebbe a fargli le spese del vestito e fin de’ calzari.

Bollivano le menti a segno che per le case, pei ginnasî, pei trivî altro non si facea che delineare la figura della Sicilia, ed encomiarne i porti, le città, il suolo, la ricchezza. Assai cose accaddero, che la superstizione de’ tempi facea credere di sinistro augurio. Ciò non di manco gli animi non si raffreddavano. Mentre l’armata era già per partire, furono trovate mutilate tutte le statue di Mercurio. ch’erano avanti le case. Un tal sacrilegio fu apposto ad Alcibiade. Non si osò di arrestarlo, per tema de’ soldati e galeotti, che lo amavano; non si volle dichiararlo innocente, com’ei chiedea; gli si ordinò di partire, lasciando la cosa in pendente.

III. — Nell’anno secondo della 91 Olimpiade (415 a. C.) mosse l’armata ateniese. Si vedevano tutte le galee, coronate le prore, aggirarsi per lo Pireo. Le forbite armature, disposte con bell’ordine su per le antenne, riflettendo i raggi del sole, faceano come un incendio, che dall’onde emergea. Alte pire di legni odorosi ardevano lungo il lido. Da per tutto erano uomini a far libazioni con vasi d’oro e d’argento, e darne bere ai futuri conquistatori della Sicilia.

L’armata si ridusse da prima a Corcira, per unirsi alle forze delle città alleate, e quindi si diresse in Sicilia. Precessero tre galee, spedite per indagare lo stato delle cose. Il resto dell’armata, respinta dalle città della Magna Grecia, s’era fermata presso Reggio, senza potere entrare nel porto; chè i Reggini s’erano anche essi negati, non che ad entrare cogli Ateniesi in lega, a riceverli in città. Di ritorno le tre galee riferirono esservi in Sicilia città amiche, ne’ cui porti potea riparare l’armata; ma non esser da contare sull’ajuto degli Egestani, dai quali non più di trenta galee potea aversi.

Venuti i tre comandanti a consiglio, Lamaco propose di correr tosto a Siracusa. Un tale avviso fu rigettato dagli altri due. Voleva Nicia che si andasse a Selinunte, si obbligassero i Selinuntini a rifare gli Egestani dei torti loro, procurare quel miglior vantaggio, che si potea, ai Leontini, e fare ritorno in Atene. Alcibiade si ostinò a volere, che si ribellassero prima dalla lega dei Siracusani tutte le altre città, e poi colle loro forze unite assalir Siracusa. Il suo avviso prevalse. Tentò prima d’ogni altra, di sedurre Messena; ma non gli venne fatto. Solo potè ottenere la compra dei viveri, di che avea mestieri. Sessanta galee vennero a Nasso, e vi furono ben ricevute. Avanzate presso Siracusa, dieci n’entrarono nel gran porto. Incontrata una galea siracusana, la presero. Vi si trovarono sopra i registri di tutti i cittadini, divisi per tribù, che si conservavano nel tempio di Giove, di dal porto, e in quella occasione si facevano venire per conoscere quanti ne erano atti all’armi. Spaurirono gli Ateniesi, come ebbero quei registri per le mani; perocchè un oracolo avea loro predetto, che avrebbero preso tutti i Siracusani; avverato in quel modo il vaticinio, null’altro avean da sperare.

Ritornata l’armata verso Catana, fu dai Catanesi negato l’ingresso alla truppa, per esservi in città molti partigiani di Siracusa. Solo fu dato ingresso a’ generali. Mentre Alcibiade aringava il popolo, i suoi soldati, sfondata una delle porte della città, entrarono; gli amici di Siracusa fuggirono; la città indi in poi per Atene si tenne. Tentò Alcibiade far lo stesso in Camerina; ma i Camarinesi stettero neutrali, vollero ammettere in porto più d’una galea.

Di ritorno in Catana, vi trovò Alcibiade una galea, venuta da Atene a recargli l’ordine di tornare in Grecia, per discolparsi della mutilazione delle statue. Gli fu forza obbedire. Lasciando il comando agli altri due, si partì. Giunto in Turio nella Magna Grecia, segretamente fuggì. Gli Ateniesi lo dannarono a morte in assenza. Come lo seppe, disse: Ma io farò loro vedere d’esser vivo. Ne avea ben d’onde; chè con quanto impegno avea indotto Atene a muover guerra a Siracusa, si diede a persuadere Sparta a soccorrerla.

Nicia intanto e Lamaco percorrevano la Sicilia, per intimorire le città amiche di Siracusa, ed avere soccorsi dalle nemiche. Vennero ad Imera, e furono respinti. Tirarono verso Egesta e Selinunte. Cammin facendo, saccheggiarono Iccara (23). Fra le spoglie fu la famosa Laide allora bambina, la quale, portata in Grecia, divenne celebre per la sua bellezza. In Egesta riscosse Nicia i trenta talenti, che coloro aveano in pronto. Di ritorno volle assediare Ibla, la quale, tutto piccola che era, lo respinse. Quindi si ridusse in Catana.

IV. — I Siracusani, che da prima non avevano dato credito alla voce che gli Ateniesi fossero per muover loro guerra, ed avevano trascurato di prepararvisi, seguito lo sbarco dei nemici, diedero straordinaria autorità ad Ermocrate, Sicano ed Eraclide, i quali si diedero a procurare alleanze e soccorsi. Agrigento e Nasso si chiarirono amiche d’Atene. Selinunte, Gela ed Imera stettero per Siracusa. Le altre tutte furono sulle prime neutrali.

Siracusa non era allora più ristretta nella sola isola di Ortigia. Altri due borghi s’erano formati e si dicevano Acradina e Tiche; ognuno dei quali, per l’estensione, il popolo e la nobiltà degli edifizî, potea dirsi una città. Acradina era con ponti legata ad Ortigia; più sopra era Tiche. Più verso settentrione era un seno di mare, che si diceva porto di Trogile. Sopra Tiche era un poggio, il quale, per istare a cavaliere della città, lo chiamavano Epipoli. Di verso libeccio, ove poi venne a sorgere Neapoli, erano estese pianure, ingombre di pantani. L’Anapo scorrea da quel lato. Di dell’Anapo era il tempio di Giove Olimpico. Di fronte ad Ortigia da Oriente era il promontorio Plemmirio; tra esso e l’isola, l’ingresso del vastissimo porto.

Nicia intanto si stava in Catana, dottando di accostarsi a Siracusa, perchè la numerosa cavalleria siracusana avrebbe impedito lo sbarco. Per venirne a capo, sedusse un Catanese, di cui i Siracusani si fidavano. Costui recatosi in Siracusa, disse che gli Ateniesi tutte le notti lasciavano il campo, e venivano a sollazzarsi in città; e propose di assalire alla sprovvista il campo, mentre i Catanesi amici avrebbero chiuse le porte, fatti prigioni coloro che erano dentro e dato foco alle navi. I Siracusani sel crederono e corsero a Catana. Trovarono il campo vôto. Tornarono di volo, ma gli Ateniesi erano di già sbarcati presso la foce dell’Anapo. Li attaccarono, e valorosamente combatteano, quando una bufera, mossa istantaneamente, fece voltar faccia ai fanti, che sarebbero andati tutti in rotta, se la cavalleria non avesse frenato gli Ateniesi. I Siracusani si ritrassero in città, lasciato un forte presidio al tempio di Giove, ove erano grandi ricchezze. La stagione avanzata non permise a Nicia di restare più oltre in campo aperto. Fece ritorno in Catana e Nasso.

Durante l’inverno, da ambe le parti si fecero preparamenti e si cercarono alleanze. Nicia si accostò a Messena. Perdutovi tredici giorni, tornò a Nasso. Scrisse ad Atene per avere cavalleria e denaro; cavalli chiese ugualmente agli Egestani; e ferro, e mattoni, e quanto era mestieri, per circonvallare Siracusa.

I Siracusani dal canto loro mandarono ambasciatori a Corinto ed a Sparta, per averne soccorso. Di leggieri l’ottennero, dai Corintî per la comunanza del sangue, dagli Spartani per l’opera di Alcibiade, ivi a bella posta chiamato. Però questi spedirono Gilippo con forze di terra; quelli, navi e valenti capitani di mare. Dall’una e dall’altra parte si fece ogni sforzo per avere l’alleanza di Camerina; ma i Camerinesi stettero saldi nel mostrarsi neutrali, comechè di soppiatto ajutassero i Siracusani.

Sull’entrare della primavera dell’anno 2 della Olimpiade 91 (415 a. C.) Nicia venne fuori da Nasso; e, dato prima il guasto a’ campi di Megara, sottomessa Centuripe, saccheggiato il paese di Inessa e d’Ibla, si ridusse a Catana; ove trovò mandati da Atene trecento talenti, trenta arcieri a cavallo e dugento cinquanta cavalieri senza cavalli, di cui doveano provvedersi in Sicilia, che di bellissimi allora ne produceva.

I Siracusani aveano destinato settecento fanti di grave armatura, per difendere dal lato di Tiche l’accesso all’Epipoli, posto di grave momento, difeso quasi da tutti gli altri lati da scoscese rupi. Gli Ateniesi li prevennero. Sul far del giorno, preso terra fuori del porto, vi giunsero per la via dell’Eurialo, mentre i Siracusani ignoravano ancora lo sbarco. Corsero i settecento fanti per isloggiarneli; ma vi spesero invano la vita trecento d’essi, fra’ quali lo stesso Diomilo, che li comandava. In questo, Nicia, avuto quattrocento cavalieri da Egesta e dalle città amiche, comprati i cavalli pedugento cinquanta Ateniesi, tenendosi abbastanza forte per difendersi dalla valorosa cavalleria siracusana, incominciò le operazioni dell’assedio. Un doppio muro cominciò a costruire dalla punta di Tiche al porto di Trogile, per cingere la città da quel lato. I Siracusani tentarono d’impedirlo, e furono respinti; però Ermocrate si diede a costruire un’altro muro, che veniva a tagliare la linea del muro nemico, onde questo non potesse essere continuato. Fattolo e fortificatolo con palizzata e torri di legno, vi si lasciò una mano di gente per custodirlo. Costoro sbadatamente lo guardavano. Avvistosene gli Ateniesi, alla sprovveduta li assalirono, li fugarono, gli inseguirono sino alle porte della città. Il muro dei Siracusani fu demolito, la palizzata portata via.

Un egual muro imprese Nicia a costruire dall’altro lato, a traverso la pianure, sino al gran porto. Anche da quel lato un muro traversale eressero i Siracusani, fortificandolo con un fossato. Gli Ateniesi scesero dall’Epipoli per distruggere quel muro. Valicarono le paludi con grosse tavole buttatevi su; ed attaccarono i Siracusani, che erano venuti fuori a difesa del muro. Dopo aspro conflitto i Siracusani si volsero in fuga, altri verso la città, altri verso l’Anapo. Trecento Ateniesi corsero ad occupare il ponte, per toglier loro lo scampo; la cavalleria siracusana li assalì, li disperse. I fuggiaschi ripresero cuore, voltarono faccia, ed una colla cavalleria attaccarono l’ala destra degli Ateniesi. Le prime schiere piegavano. Lamaco, che comandava l’esercito, perchè Nicia, tormentato da dolori nefritici, era restato con pochi servi all’Epipoli, vi accorse con altra gente. Vistolo Callicrate, comandante della cavalleria siracusana, gli corse sopra; e quello non ischivò lo scontro. Venne fatto al siracusano ferire a morte il nemico; e questo, tutto ferito, gli die’ tal colpo, che ambi nel momento stesso caddero estinti a piè de’ loro cavalli.

Inanimati da ciò coloro, ch’eran fuggiti verso la città, corsero ad assalire l’Epipoli. Nicia, saputo la morte del compagno, visto i nemici che a lui correano, con subito consiglio mise fuoco alle macchine ed a tutto il legname, ch’era lungo il muro. Soprastettero i Siracusani alla vista di quello incendio, di cui ignoravano la cagione. In quel momento il resto dell’esercito, respinte le schiere siracusane, dalle quali era stato attaccato, volò a difendere il generale e ’l posto. L’armata ateniese entrava nel porto. I Siracusani temendo di essere accerchiati, rientrarono in città; e gli Ateniesi continuarono il muro.

Poco mancava a condurre quel muro sino al mare. Dall’altro lato il muro era in parte compito, in parte a metà. L’esercito ateniese guardava l’Epipoli; l’armata il mare. In tale stato i Siracusani, scuorati dalle sconfitte, ignari dei soccorsi di Sparta e di Corinto ch’erano per giungere, disperati di averne dalle altre città che agli Ateniesi si venivano accostando, cominciarono a nutrire pensieri di resa.

Gilippo intanto con venti galee, delle quali dieci erano corintie comandate da Pite, due di Leucade e tre d’Ambracia, navigava per le città di Italia, per premunirle contro una prossima invasione degli Ateniesi; perocchè la voce sparsa d’essere già Siracusa cinta da tutti i lati, facea prevedere che, venuta in potere degli Ateniesi, questi, giusta il piano della guerra, avrebbero rivolte le forze loro contro l’Italia. Saputo poi in Taranto di non essere disperate le cose di Siracusa e potervisi penetrare per la via dell’Epipoli, Gilippo venne in Sicilia. Prese terra ad Imera. Ne trasse soldati, e riunitili ai suoi ed a quelli, che ebbe da Selinunte, da Gela e da altre città sicole, tirò verso Siracusa.

V.Congilo, che sotto Gilippo militava, vi giunse sopra una nave, prima di lui. Trovò il popolo adunato per trattare i patti della resa. Si fece alto, all’avviso che Gilippo era per arrivare. Le truppe vennero fuori ad incontrarlo. Mentre gli Ateniesi, che nessun conto aveano fatto della missione dello Spartano, erano verso il mare intenti a recare a fine il loro muro, Gilippo entrò all’Epipoli per l’Eurialo, onde era entrato Nicia. Per un araldo fece intimare agli Ateniesi a sgombrare fra cinque giorni. Essi non che avessero risposto, gliene davan le baje, chiedendo se i Siracusani aveano assai da sperare per essere loro sopraggiunto un logoro mantello.

Gilippo, postosi ad oste sull’altura Temenite, il domane s’accostò, con una mano dei suoi, al muro degli Ateniesi, come per attaccarlo. Mentre così li teneva a bada, un’altra schiera assalì il castello Labdalo; ed, uccisine quanti v’erano di presidio, vi si afforzò. Ciò fatto, i Siracusani si diedero a costruire un muro, dalla città verso l’Epipoli, che dovea tagliare nella sua estremità il muro degli Ateniesi. Per tal modo, la città non potea essere circonvallata del tutto; e tagliata restava la comunicazione tra gli Ateniesi, che guardavano le mura da’ due lati. Tentò Gilippo assalirli di notte in un punto, in cui il loro muro era imperfetto; e ne fu respinto. Nicia vi lasciò a guardia le migliori sue truppe.

Conobbe intanto il generale ateniese che il posto dell’Epipoli era divenuto per lui, non che inutile, pericoloso. Lasciatolo, venne a fermare il campo nella pianura presso l’Anapo. Al tempo stesso edificò tre forti dall’altro lato del porto, sulle alte rupi del Plemmirio; nel maggiore dei quali ripose le bagaglie. Nel mare, a piè della rupe, fece stare all’ancora alcune galee, per impedire l’ingresso nel porto a qualunque nave nemica. L’esercito stava dal lato opposto, pronto in ogni caso ad imbarcarsi per combattere in mare.

I Siracusani intanto continuavano il loro muro. Gilippo volle attaccare gli Ateniesi nello spazio compreso tra le due mura. L’angustia del luogo rese inutile la cavalleria, gli arcieri e i frombolieri. I Siracusani ebbero la peggio. Gilippo con grandezza d’animo confessò l’errore; promise emendarlo. Il domane, tratto l’esercito fuori della muraglia, l’attacco ricominciò; fu lungo. La cavalleria siracusana ruppe l’ala destra degli Ateniesi. Il resto dell’esercito fu spinto fin dentro i suoi ripari. I Siracusani compirono allora il loro muro, ajutati dalla gente portata da dodici navi di Corinto, di Leucade e di Ambracia, comandate da Erasinide da Corinto; le quali erano giunte, mal grado le venti galee, che Nicia avea mandato per intraprenderle, e quelle poste all’imboccatura del porto.

Gilippo fece allora un’altra scorsa in Sicilia, per accattare gente ed alleanze. Messi furono spediti, per chiedere nuovi soccorsi da Sparta e da Corinto; ed intanto le truppe si teneano in esercizio, le navi si apprestavano. Ajuti maggiori chiedea Nicia da Atene. «Tutto è perduto, scrivea egli, se non richiamate me, e mandate altri. Credea di aver chiuso Siracusa entro un muro, e al fin de’ fatti, mi trovo cinto dalla sua cavalleria. I marinari desertano. L’esercito ad ora ad ora vien meno pecontinui conflitti. Nasso e Catana nulla hanno più da darci. Tutta Sicilia è oramai nemica. Dal Peloponneso si aspettano grandi forzeNicia fu confermato; gli fu dato a compagno Demostene, che dovea partire nella primavera con grande armamento; sino al suo arrivo, furono scelti comandanti con Nicia, Menandro ed Eutidemo: ch’erano nell’esercito. Nel cuor dell’inverno fu spedito Eurimedonte con dieci navi e venti talenti; venti navi furono spedite ne’ mari del Peloponneso, per impedire, che indi venissero ajuti in Sicilia.

VI. — Ritornato, in questo, Gilippo, in un’assemblea del popolo fu stabilito di attaccare gli Ateniesi per mare e per terra. Aveano i Siracusani ottanta galee. Trentacinque erano nel gran porto; le altre nel piccolo, overa il navale, le quali doveano fare ogni sforzo per venire ad unirsi alte altre. Nicia, visto i movimenti dell’armata nemica, messi soldati sulle sue galee (erano settanta), ne destinò trentacinque ad attaccare le galee siracusane, ch’erano nel gran porto, ed altrettante ad impedire l’ingresso delle altre. Si attaccò la mischia presso l’imboccatura del porto. Coloro, ch’erano di presidio nei tre forti del Plemmirio, tratti dalla curiosità, ne vennero fuori, e s’accostarono al lido. Gilippo, la sera antecedente, avea staccata una forte schiera de’ suoi per circuire il porto, e trovarsi al far del giorno al Plemmirio. Come videro costoro i nemici distolti a rimirare la battaglia navale, a un punto preso assalirono il più grande dei forti, e di viva forza lo presero. Coloro, ch’erano a guardia degli altri due, spaventati dallo sprovveduto attacco, fuggirono. Era in que’ forti riposto tutto il denaro del pubblico e de’ privati, tutte le bagaglie, l’equipaggiamento di altre quaranta galee, che Nicia avea fatto costruire; senzachè, venuti que’ forti in mano de’ Siracusani, furono essi i padroni dell’ingresso del porto.

Non egualmente prospere andavano in mare le cose loro. Ben venne fatto alle galee, che erano di fuori, superare ogn’intoppo ed entrare nel porto; ma tanto impetuosamente v’entrarono, che, urtando fra esse, si disordinavano e si danneggiavano. Gli Ateniesi tornarono all’attacco e compirono la disfatta. Undici galee siciliane affondarono: di tre, ne furono presi vivi coloro che sopra v’erano; gli altri annegarono. Gli Ateniesi perderono tre galee.

Saputosi intanto in Siracusa essere per arrivare le dieci galee, che sì mandarono da Atene col denaro, fu spedito Agatarco con dodici navi, per intraprenderle. Le incontrò, le combattè, ne colò a fondo gran parte. Venuto a Calona in Italia, bruciò tutto il legname, ivi abbicato per fabbricarne molte galee per gli Ateniesi. Ricevè a Locri alquanti soldati tespiesi, colà portati dal Peloponneso. Di ritorno, venne a battaglia con venti navi nemiche; e malgrado il numero, solo una galea vi perdè, e rientrò in Siracusa.

Per prepararsi intanto i Siracusani ad una battaglia generale, prima che giungessero i nuovi ajuti da Atene, chiamarono gente dalle altre città che tutte, tranne Agrigento e poche città Sicole, erano già per loro. Un corpo di 2300 armati fu soprappreso dai Centuripini ed Agirini; 800 ne perirono, gli altri arrivarono. Da Camerina vennero 900 di grave armatura e 600 arcieri e frombolieri. Da Gela, cinque navi cariche di truppa, con quattrocento frombolieri e dugento cavalli, Aristone da Corinto riformò le navi siracusane, come i Corintî aveano fatto prima della battaglia di Naupatto, rendendone le prore più corte e più offendevoli.

VII. — L’armata siracusana venne fuori ad offrire la battaglia. Erano ottanta galee. Gli Ateniesi con settantacinque non la ricusarono. Quel giorno e il domane, ebbero luogo soltanto leggiere avvisaglie; nelle quali i Siracusani colarono a fondo una o due navi nemiche. Il terzo giorno, Aristone ordinò, prima di partire, che tutti i venditori di camangiari ne portassero al lido. L’armata attaccò il nemico, e, fatta una delle solite scaramuccie, si ritirò. I soldati trovati sul lido i viveri pronti, mangiarono, si rimbarcarono e tornarono ad attaccare la battaglia. Gli Ateniesi, ingannati dalla ritirata de’ Siracusani, erano scesi a terra, curavano di mangiare; però disordinati e digiuni ebbero a combattere. Sette delle loro galee furono colate a fondo; le altre, mal conce, fuggirono fra le navi da carico, che Nicia avea disposto sul lido, d’in su le cui antenne erano scaraventati enormi delfini di piombo. Ne provarono l’effetto due delle galee siracusane, che fin inseguirono le nemiche; le quali, colte da quei delfini, ne furono scassinate e sommerse.

VIII. — Mentre Nicia deplorava la perdita di quella battaglia, giungeva Demostene, seco portando settantatre galee ateniesi ed altre tolte a nolo; cinquemila fanti di grave armatura; e grandissimo numero di arcieri, frombolieri ed altre truppe leggiere. Accagionava Demostene la mala riuscita della guerra, fino allora, alla dottanza di Nicia. Volle risarcire il male con ardite imprese. Si accinse tosto a demolire il muro, che i Siracusani aveano eretto, per impedire la congiunzione verso l’Epipoli, delle due muraglie fatte dagli Ateniesi. Gilippo e i Siracusani non poltrirono. Respinsero gli assalitori ed incendiarono tutte le macchine destinate a demolire il muro.

Fallito quel corpo, tentò Demostene di cacciare i Siracusani dall’Epipoli, sulla speranza che, venuto padrone di quel sito, di leggieri potea venire a capo di demolire il muro nemico. Sul far della notte, fatto indossare ai soldati viveri per cinque giorni, con numerose schiere colà si diresse.

Salì per l’Eurialo; gli venne fatto mettere a morte le scolte, e farsi padrone del primo posto. Accorsovi quei seicento che lo guardavano, furono del pari tagliati in pezzi o fugati. Alla voce d’essere attaccato l’Epipoli, vi accorse tutta la città in armi con Gilippo alla testa. I primi furono volti in fuga. Una schiera di Tebani, che appresso veniva, fece tal prova, che finalmente gli Ateniesi voltaron faccia. La luna, ch’era sul tramonto, facea vedere, non distinguere gli uomini. Le schiere ateniesi, che seguivano, tennero quei primi che verso loro fuggivano, nemici che correano ad assalirli; e contro di essi si avventarono. I soldati che fuggivano, erano Argivi e Corciresi, che cantavano l’inno di guerra in dialetto dorico; ciò maggiormente confermò gli altri nello errore d’essere Siciliani. L’errore comunicandosi di schiera, in schiera, fece che i Greci ferocemente combattessero fra essi. I Siciliani nel tramazzo ne facevano strage; assai ne perirono nel conflitto; assai nel fuggire precipitarono da quelli scosci; coloro, ai quali venne fatto allora campare, colti il domane dalla cavalleria, ne furono messi a morte.

La perdita di quella battaglia; la morìa che soffriva l’esercito per l’aria malsana delle pianure overa accampato; la sicurezza di non potere più sperare rinforzo da Atene, fecero sbaldanzire Demostene; sì che propose di lasciare la mal condotta impresa e ritornare in Grecia. Nicia vi si oppose da prima, sperando ancora che col temporeggiarsi, senza tentar più la fortuna, potea finalmente ottenersi alcun vantaggio. Ma, come vide che le forze dei Siracusani d’ora in ora più si accrescevano, per li soccorsi che sopraggiungevano dal Peloponneso e dalle altre città di Sicilia, anch’egli propose la partenza.

IX. — Mentre gli Ateniesi si disponeano ad imbarcarsi, senza che i Siracusani ne avessero avuto lingua, accadde una ecclissi lunare. Erano, appo i Greci, infausti i giorni che seguivano gli ecclissi; per che fu differita la partenza ivi a ventisette giorni, secondo Tucidide e Plutarco, a tre secondo Diodoro. La sosta fu la loro rovina. I Siracusani, venuti in cognizione del loro disegno, vollero in tutti i conti impedire la partenza loro per mare, sicuri di prenderli tutti a man salva in terra. Però l’armata siracusana venne ad attaccare l’ateniese. Erano settantasei le galee siracusane. Agatarco comandava la destra, Pite da Corinto il centro, Sicano la sinistra. Eurimedonte comandava la dritta dell’armata ateniese, più numerosa della dritta siracusana, Menardo il centro, Eutidemo la sinistra. Cercò Eurimedonte di avvantaggiarsi del maggior numero dei suoi legni, per accerchiare i Siracusani, estendendo la sua linea fin verso il lido. I Siracusani, dato con impeto entro il centro nemico, lo ruppero, tagliarono la loro linea, e cominciarono a stringere la destra ateniese verso un seno di mare, che era in fondo del porto, e Bascone si diceva. Gilippo, visto dalla terra la perdita inevitabile di tutti quei legni nemici, corse con parte della sua gente verso quel lido, per impedire che coloro, che erano sulle galee, si salvassero in terra, e coloro di terra salvassero le galee, tirandole in secco. Quella banda fu attaccata impetuosamente da una mano di Etruschi. Disordinati, come correano, i Siracusani non poterono far fronte. Nuove schiere vennero a sopraggiungere dal l’una e dall’altra parte. I Siracusani ebbero a ritirarsi con perdita. Ciò salvò in parte le galee strette a Bascone, delle quali solo diciotto vennero in potere dei Siracusani.

Non avendo potuto distruggere interamente l’armata ateniese combattendo, Sicano, ammiraglio siracusano, le spinse contro un brulotto; invenzione sua, allora posta in uso per la prima volta. Venne fatto agli Ateniesi spegnerne il foco, prima d’accostarsi.

X. — Rivolsero allora i Siracusani tutti gli sforzi loro ad impedire affatto l’uscita dei legni nemici. Costrussero nell’entrata del porto come un palancato; mettendo in fila, da Ortigia al Plemmirio, molte navi ferme sull’ancore legate fra esse con forti catene di ferro, sopra le quali era un tavolato, per istarvi i frombolieri e gli arcieri. Una fila di galee vi posero avanti per difenderlo. Poco mancava al compimento del lavoro, quando gli Ateniesi si accinsero a fare un ultimo sforzo, per aprirsi una via. Abbandonati tutti i posti, misero il miglior nerbo dei loro soldati sulle navi e vennero fuori. Nel primo impeto venne loro fatto di superare l’ostacolo delle galee, che guardavano il passo; e già aveano cominciato a tagliare il palancato quando accorse l’armata siracusana. forte di settantasei galee. Qui nacque non più vista battaglia. Gli Ateniesi, consci d’essere la vittoria l’unico scampo loro, inanimati dalle replicate aringhe dei comandanti, memori de’ passati trionfi, preferivano la morte allo scorno di restar presi in quel porto. Dall’altro lato, tutto il popolo di Siracusa, e fino i vecchi, le donne, i fanciulli, accorsi in sulle mura a veder la battaglia, erano specchio al valor dei Siciliani; i quali, vistosi, al dir di Diodoro, come nel teatro della salvezza della patria, gonfi delle vittorie testè riportate su quegli stessi nemici, correano con feroce ardimento all’ultima prova di quella guerra.

Quasi dugento legni combatteano in quel solo angolo del porto di Siracusa. L’angustia del luogo non permetteva una battaglia ordinata. La sola rabbia dirigea i combattenti. Qui vedevi due navi aggrappate, sulle quali si combattea con tanta ostinata ferocia che pur uno non vi restava in vita. , sfondata una galea, coloro che sopra vi erano passavano d’un salto sull’altra e vi continuavano rabbiosi la pugna. Spesso, fatto in pezzi un legno, soldati, galeotti, capitani, abbatuffolati ne andavano giù; ma per lo sommozzare non isbollivano le ire; s’inerpicavano ad alcuna delle navi nemiche, ed uccisine e spintine in mare i difensori, se ne impadronivano. Inferocivano i combattenti, non che fra essi, ma contro que’ miseri, che in gran numero cadevano in mare; i quali, mentre si affannavano per ghermire alcun legno, alcuna fune, alcun mezzo di campar la morte, morte più crudele aveano con dardi, con pertiche, con uncini ferro. La battaglia d’ora in ora incrudeliva. Il fracasso delle navi, che cozzavano; i colpi d’innumerevoli remi, che rompevano il mare; il forte e continuo picchiare dei ciotti, che di qua e di si tiravano; le grida, ora liete ora minaccevoli, dei combattenti; il guaire de’ moribondi; gli urli dei feriti; i clamori degli astanti, faceano uno spaventevole frastuono, che a gran distanza rimbombava in terra. Da veruna delle due parti inchinava la vittoria. Nessuno facea vista di cedere. Tutti voleano perire piuttosto che incontrare, salvandosi, peggio che la morte, il vitupero dei suoi. Pur finalmente, venuto meno la vita ai più, la forza a tutti, il coraggio a nessuno, cesse la battaglia. Di tutta l’armata ateniese, solo sessanta galee restarono; della siracusana, men che cinquanta, e, più delle tante galee, fu sensibile ai Siracusani la perdita del prode Aristone da Corinto. Ma gli Ateniesi non poterono rompere il palancato.

XI. — Volevano Nicia e Demostene avvantaggiarsi del maggior numero di galee loro rimasto, e dell’essere i Siracusani dediti a celebrare gavazzando le feste epinicie (24), per tornare la notte stessa alla sprovveduta ad aprire il passo; ma le genti eran così rifinite, che non poterono indurvisi, e fu giocoforza tentar la fuga per terra. Per colmo di sventura, Nicia si lasciò gabbare da Ermocrate, generale siracusano; il quale da finte spie lo fece avvertire di non partir quella notte, perchè i Siracusani erano in arme a guardare i passi. Però gli Ateniesi soprastettero quella notte, e tutto il giorno appresso. Così i Siracusani ebbero il tempo di spargere la loro cavalleria per tutti i luoghi, che i nemici dovean traversare, e di rompere i ponti. Finalmente mosse l’esercito ateniese, in due schiere diviso, ognuna delle quali era disposta in quadrato, nel centro eran le bagaglie. Nicia comandava la prima; Demostene coll’altra lo seguiva. Tanta fu la precipitanza della fuga, che lasciarono in balia del vincitore gli ammalati e i feriti.

Ad ogni passo doveano combattere; chè i Siracusani, senza venir mai a campal battaglia, li andavano molestando. Sulla sera, si fermarono sopra una collina. Il domani vennero ad una pianura, per provvedersi d’acqua, ed avere viveri dalle vicine popolazioni. I Siracusani si afforzarono su di un erto colle, per cui quelli doveano passare. Tentarono aprirsi il varco di forza; furono respinti, e tornarono ond’erano partiti. Non essendo possibile continuare la via di Catana, ove s’erano diretti, vollero scendere al mare; per tirare verso Camerina e Gela. Accesi nel campo molti fuochi per ingannare i Siracusani, nel cuor della notte partirono. Demostene, con una metà della sua schiera, forviò, e si trovò, al far del giorno, nella via Elorina, presso il fiume Cacipari, detto oggi Cassibili, diciotto miglia lontano dagli altri. Al guado era una schiera siracusana. Gli Ateniesi, di viva forza, valicarono il fiume; e, sul mezzogiorno, si fermarono in una pianura, tra il Cacipari e l’Erineo, detto oggi Miranda. I Siracusani, al far del giorno, si avvidero della partenza dei nemici; frettolosamente l’inseguirono; e sopraggiunsero Demostene in quella pianura. Volle difendersi; ma, cinto per tutto dalla cavalleria, con tutta la sua schiera si rese. Fu permesso ai Siciliani il passare sotto le insegne di Siracusa, o tornare a casa loro. Seimila Greci furono prigioni. Consegnaron le armi e ’l denaro, che, versati negli scudi rivoltati, ne empì quattro; Demostene, non volendo sopravvivere alla sventura, si ferì; ma, trattenuto da’ Siracusani, non potè uccidersi.

Nicia intanto, colà avviatosi per unirsi a Demostene, giunse la sera su di un’altura presso l’Erineo. Il domani, si trovò accerchiato dai Siracusani, che gl’intimarono la resa; facendogli sapere che Demostene co’ suoi era prigione. Non volle crederlo. Spedì un uffiziale per farnelo certo. Avuta la notizia, offrì di pagare ai Siracusani tutte le spese della guerra; lasciando in ostaggio tanti Ateniesi, quanti talenti si fossero convenuti di dare, purchè ritornasse libero coll’esercito in Atene. La offerta fu ricusata. Si difese tutto il giorno. La notte, venne fatto a tre cento de’ suoi scappare, ma ivi a poco furono presi.

Al far del giorno ventisei del mese Metagitnione (25) nell’anno 4 della 91 Olimpiade (11 di settembre, 413 a. C.) l’esercito ateniese, combattendo sempre, giunge al fiume Assinaro oggi Falconara. I soldati, stanchi, grondanti di sangue, alidi, come giunsero alle sponde, si precipitarono nel fiume, con rabbia tale, che fin tra loro si uccideano, per poter bere di quell’acqua limacciosa ed insanguinata. Le ripe erano scoscese. I Siracusani dall’alto li ferivano a man salva. Un corpo di Spartani scese nel fiume, e ne facea strage. Nicia s’inginocchiò a piedi di Gilippo; pregandolo a por fine alla carneficina, rendendosi prigione co’ suoi. Diciottomila Ateniesi erano morti in via, e nel fiume, settemila ne furono allora presi.

I Siracusani rientrarono in città, coi due generali e tredicimila soldati prigionieri; traendo seco i cavalli de’ nemici, rasi i crini. Resta ancora, presso le sponde dell’Assinaro, una piramide, eretta da’ Siracusani per trofeo della vittoria. Lo scudo di Nicia, splendente d’oro e di porpora, si vide per secoli esposto in uno dei tempî di Siracusa. In un consiglio del popolo Diocle propose di frustare prima i due generali, e poi farli morire. Vi si oppose Ermocrate. Il vecchio Niccolao, che in quella guerra avea perduto i soli due figli suoi, raccomandò generosità e mansuetudine. Il feroce Gilippo sostenne il parere di Diocle, ed indusse il popolo ad adottarlo. Ermocrate, non avendo potuto salvare Nicia e Demostene, li avverti segretamente della sentenza, contro di loro profferita; ed essi si sottrassero all’ignominia con darsi la morte.

I gregari languirono gran tempo nelle oscure e sozze latomie di Siracusa. Alcuni di essi si salvaron poi per Euripide. I Siracusani tanto si deliziavano pei versi di quel poeta, che molti, che ne recitavano, ebbero doni e libertà. Coloro stessi, che dopo settanta giorni furono venduti, accattavano il vitto, cantando versi di Euripide.





23 Oggi Carini.



24 Si celebravano da’ Greci con beverie e banchetti tali feste dopo la vittoria; perciò furono dette Επινικια.



25 Secondo Petavio, l’anno degli Ateniesi cominciava dal novilunio, che segue immediatamente il solstizio di estate; perciò ogni loro mese pigliava metà di uno dei nostri, e metà del seguente. Il μεταγειτνιων correa dalla metà d’agosto a mezzo settembre: onde il giorno 26 corrisponde all’11 di settembre.



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