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SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA] CAPITOLO V. I. Stato di Siracusa dopo la vittoria. — II. Invasione de’ Cartaginesi. — III. Assedio e distruzione di Selinunte e d’Imera. Ermocrate — IV. Fondazione di Terme Selinuntina. — V. Assedio d’Agrigento: presa della città. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I. — La battaglia d’Imera, e la disfatta degli Ateniesi a Siracusa, sono due avvenimenti gloriosissimi per la Sicilia. Pure, ove si ponga mente alle circostanze che li accompagnarono, si vedrà di leggieri, che la vittoria de’ Siciliani in Imera fu tutta opera del gran senno di re Gelone, ovechè la gloria della disfatta degli Ateniesi è più degli stranieri, che de’ Siracusani. Gelone previde la tempesta; seppe prepararvisi; non distrasse mai le sue forze, per la vana gloria di portar le armi in paese straniero; seppe tenersi amiche tutte le città siciliane, e particolarmente Agrigento, da cui ebbe immensi ajuti; e, quando poi fu il caso, affrontò con gran cuore il pericolo, senza lasciarsi sopraffare dalle prepotenti forze del nemico. Quell’antivedimento, quell’unità di consiglio, mal si cercherebbero in un governo popolare. I Siracusani, lungi di prevenire il disastro, se lo trassero addosso, con dare gravi ragioni di querela ad alcuna città, tollerare i soprusi d’alcun’altra, ed entrare in una pericolosa rivalità cogli Agrigentini; per lo che le città oppresse ebbero a chiamare le armi straniere. Siracusa era cinta di nemici, prima che i nemici fossero venuti in Sicilia. In Atene si faceano grandi armamenti, e i Siracusani stavano a musare. Ermocrate, per avvertirli a prepararsi alla difesa, ne riportò biasimo e mala voce, come spargitore di male nuove e false. Il tempellare di Nicia, lo stratto divisamento d’Alcibiade d’andar vagando di qua e di là, salvarono Siracusa. Se si seguiva il parere di Lamaco, di corrervi sopra di primo lancio, i Siracusani non aveano scampo; anzi, comechè avessero avuto alcun tempo di prepararsi allo attacco, sopraffatti dalle prime operazioni degli assalitori, già pensavano di rendersi. Un’ora più tardi, che un pugno di Lacedemoni e di Corintî fossero arrivati, Siracusa avrebbe già piegato il collo alla straniera dominazione.
Nè i Siracusani si fecero scuola di tali errori. Insolenti dopo la vittoria, e sempre incauti, allontanarono Ermocrate, il cui senno avrebbe loro risparmiato tanto danno, e ’l cui valore tanto avea contribuito alla vittoria; e lo mandarono in Grecia con ventidue galee, due delle quali erano di Selinunte, per continuare la guerra cogli Ateniesi. A ciò pure contribuì Diocle, il quale assai prevalea in Siracusa, come colui che caldo democratico era. Sospettò egli in Ermocrate l’ambiziosa mira d’usurpar la tirannide, e comunicò a tutto il popolo i suoi sospetti.
Allontanato Ermocrate, i Siracusani vollero un nuovo corpo di leggi. Fu dato l’incarico di compilarle a parecchi, fra’ quali lo stesso Diocle; il quale tanta parte vi ebbe che quelle leggi furon dette Dioclee, e furono in vigore, finchè Siracusa non cadde in potere de’ Romani. Ma, mentre i Siracusani pensavano solo all’interno reggimento, senza darsi alcun pensiero dell’esterna politica, nuova e più grave tempesta piombava sulla Sicilia.
II. — Gli Egestani, visto l’infelice esito della guerra da loro suscitata, tolleravano in pace le usurpazioni de’ Selinuntini. Questi, resi più insolenti, si diedero a maggiori usurpazioni; finchè quelli, non potendo sperare giustizia da Siracusa, chiamarono in loro ajuto i Cartaginesi. Avea allora in Cartagine il supremo magistrato, che colà si diceva Suffeto, Annibale nipote di quell’Amilcare, che avea perduto la vita sotto d’Imera. Giscone, padre di lui, e figliuolo di quello, secondo una barbara consuetudine di Cartagine, espiava collo esilio la sventura del padre, e s’era ritratto in Selinunte. Annibale agognava a vendicare l’esilio del padre e la morte dell’avo, e cancellare l’onta, che le armi cartaginesi aveano ricevuto sotto Imera. Pure lo teneva a freno il timore di Siracusa. Però avveduto com’era, cercò di metter zeppe tra Siracusa e Selinunte. Spedì suoi ambasciadori a Siracusa, per palesare le richieste fatte dagli Egestani, e rimettere all’arbitrio de’ Siracusani la controversia tra questi e i Selinuntini. Pensava egli che i Selinuntini si sarebbero dichiarati nemici di Siracusa, se il giudizio era contro di loro; o Cartagine avrebbe acquistato un diritto a pigliar le parti d’Egesta, se contro di questa era la sentenza. Gl’incauti Siracusani, come se nulla calesse loro di ciò, non vollero tramettersi nella briga; e risposero voler continuare in pace con Selinunte e con Cartagine.
Allora i Cartaginesi determinarono di portare le armi in Sicilia. Vollero prima tentare il guado, con mostrare di venir solo per la difesa degli Egestani. Nell’anno 3 dell’Olimpiade 92 (410 a. C.) spedirono cinque mila fanti affricani con ottocento cavalli, che si fermarono in Egesta. I Selinuntini, disprezzando quel poco numero di stranieri, continuarono le depredazioni sul tenere degli Egestani. Mentre stavano sparnicciati a dare il guasto a quelle campagne, colti dai Cartaginesi, mille ne restarono morti sul campo, gli altri fuggirono e non osarono più farsi vedere su quello d’Egesta.
III. — Inanimato da questo primo successo, raccolta gente da tutte le parti, ritornò Annibale in Sicilia con centomila uomini (altri dicono dugentomila) e numerosa armata; la quale, sbarcato l’esercito a Lilibeo, venne a fermarsi nel porto di Mozia.
I Cartaginesi, preso d’assalto un castello dei Selinuntini presso la foce del fiume Mazzero, ch’era il loro emporio, cinsero la città ed avvicinarono gli arieti e le torri di legno foderate di ferro, che seco menate aveano. I Selinuntini non meno tracotanti de’ Siracusani, non avean curato di fortificare meglio la città. Pure il presente pericolo die’ loro insolito coraggio. Tutti i giovani atti all’armi salirono sulle mura, per combattere. I vecchi andavano attorno, per dirigere le loro operazioni e far loro cuore. Le donne avean cura dei feriti, e preparavano il cibo ai combattenti. I ragazzi venivan portando loro armi e mangiare.
Una schiera di Campani volle segnalarsi penetrando in città per una parte, in cui il muro era mezzo diruto. Vi accorsero in folla i Selinuntini. Molti ne uccisero nell’attacco; e molti, nel ritirarsi fra le rovine del muro, restarono mal conci. La notte pose fine al combattere.
Avevano i Selinuntini, sin dal primo arrivo dei Cartaginesi, chiesto ajuto a Siracusa, a Gela, ad Agrigento. Quella notte stessa, altri messi spedirono per affrettarli. I Geloi e gli Agrigentini aspettavano i Siracusani, per correre tutti in corpo. I Siracusani, che non avean saputo nè prevedere nè prevenire la straniera invasione, aveano mosso guerra ad alcune città calcidiche. Al primo sbarco de’ Cartaginesi, s’erano scossi dal letargo; s’erano pacificati; cercavano raggranellare truppe. Non era più tempo. In quell’età non erano eserciti stanziali; e forse ciò, più che la forma del governo, contribuiva alla floridezza de’ popoli. Solo i tiranni voleano una guardia di mercenarî, per lo più stranieri. Ne’ tempi ordinarî ogni cittadino pigliava le armi, quando il bisogno della patria lo volea; ma in un momento non potea raccogliersi un esercito, nè numeroso, nè disciplinato.
Annibale ben sapea intanto usar del tempo. Gli infelici Selinuntini, ch’erano sulle mura, cadeano a migliaja, per mano degli arcieri e frombolieri, che d’in su le torri l’imberciavano. Le mura stesse, battute dalle macchine, andavano in rovina da tutte le parti. Gli assalitori, che perivano, erano sempre rimpiazzati da altri; gli assaliti d’ora in ora minoravano; pure il coraggio loro raddoppiava, come il numero minuiva. Finalmente dopo dieci giorni d’acre combattimento, venne fatto ad una schiera d’Iberi di penetrare in città per le rotte mura. V’accorsero i Selinuntini.
I nemici, obbligati a combattere in vie anguste, nelle quali poco poteano avvantaggiarsi del numero, attaccati di fronte dai cittadini, oppressi dall’atto dalle donne, che d’in su le case facevano un continuo menare, di tegole, di travi, di sassi e di quanto veniva loro per le mani, poco progredivano; ma non cedevano; perchè le schiere posteriori, passando sopra i cadaveri, venivano sempre a rinfrescare la battaglia. Finalmente verso sera, inondata già la città per tutto, que’ cittadini che restavano in armi si ritrassero nella gran piazza e vi perirono combattendo. Quando più non vi fu nè una tegola da trarre, nè un uomo da combattere, la città fu presa, l’anno 4 dell’Olimpiade 92 (409 a. C.), dugento quarantadue anni dopo la sua fondazione.
Non possono esprimersi a parole gli eccessi del feroce vincitore. Tutte le case furono predate; tutte le persone furono contaminate dalla rapacità e dalla brutale incontinenza degli Affricani. Saccheggiate le case, vi si appiccava foco, per farvi perire qualche infelice vecchio o fanciullo, che v’era rimasto. Se alcuno ne scappava, era scannato per le vie; ed inferocendo fin sopra i cadaveri, si mutilavano e se ne portavano in trionfo le teste. Solo fu perdonato alle matrone, che co’ loro figli s’erano ritratte nei tempî; non per riguardo al sesso o alla condizione, ma solo per la tema, che disperate, non avessero dato fuoco a que’ delubri, sottraendo così alla cupidigia del vincitore gl’immensi tesori ivi riposti.
Sedicimila cittadini perirono; cinquemila ne furon fatti prigioni; assai altri ne fuggirono, fra’ quali duemila cinquecento si ridussero in Agrigento, ove ebbero da quegli splendidissimi cittadini ogni maniera di conforto.
Giunsero al tempo stesso in Agrigento tremila Siracusani, che voleano recarsi a soccorrere Selinunte. Saputone la caduta, spedirono messi ad Annibale, per offrire il riscatto de’ prigioni, e pregarlo a risparmiare i sacri tempî. L’orgoglioso Affricano, conosciuto già che nulla avea da temere da Siracusa, rispose che i Selinuntini, per non aver saputo difendere la libertà, ne erano indegni; e che i tempî non erano più sacri, avendo gli Dei abbandonata la città.
Miglior frutto fece il Selinuntino Empidione. Era stato costui sempre amico de’ Cartaginesi. Avea fatto ogni possa, per distogliere i suoi concittadini dalla guerra. Cogli altri fuggiaschi era venuto in Agrigento. Recatosi poi a piede del vincitore, ne fu ben accolto, ne ottenne la restituzione di tutti i suoi beni, la libertà di tutti i suoi congiunti, e il permesso a tutti i fuggitivi di rimpatriare e coltivare le terre loro, a patto di essere tributarî di Cartagine.
Ottenuto quel trionfo, Annibale corse ratto ad Imera. Il suo esercito s’era accresciuto di ventimila Sicoli, che sempre pronti accorrevano a combattere contro le città di greca origine. Diocle era venuto in soccorso d’Imera, con tre o quattromila Siracusani. Tanto i tempi eran diversi da quelli del gran Gelone. Come giunse, Annibale pose su di un’altura in riserba quarantamila soldati. Col resto dell’esercito strinse la città. Non solo si fece uso delle macchine, per atterrare le mura; ma si facevano grandi scavi sotto le fondamenta di esse, si venivano puntellando con grosse travi, alle quali poi si dava foco: venuto meno il sostegno, le mura, non più soffolte, cadevano. Per una di quelle brecce tentarono di penetrare i Cartaginesi. I Siciliani li respinsero e la notte rifabbricarono il caduto muro. Il domani, gl’Imeresi e i collegati, in numero di diecimila, vennero fuori ed impetuosamente attaccarono i nemici.
La subita sortita, lo straordinario ardimento loro, fecero credere a’ Cartaginesi che copiosissimi ajuti fossero sopraggiunti la notte. Però, come coloro che tutto aombrava in que’ luoghi, nicchiarono al primo incontro. Quando poi tutti vollero dare addosso a quel drappello, per volersi affollare in piccolo spazio, si disordinarono; e del disordine si avvantaggiarono gl’Imeresi, per incalzarli e volgerli in fuga. Inseguendoli, ne uccisero cinquemila (secondo Eforo diecimila). Era già per accadere la seconda non meno sanguinosa disfatta, quando Annibale fece, più che di pressa, avanzare la riserba. I Siciliani, stanchi già ed alquanto disordinati nell’inseguire i nemici, non poterono tenere l’impeto di quarantamila scelti soldati, che freschi venivano. Si ritirarono. Solo tremila Imeresi sostennero a piè fermo l’urto di tutta quella schiera, e tutti combattendo perirono.
In questo, s’accostarono ad Imera venticinque galee siracusane. Erano queste state spedite in Grecia in favore de’ Lacedemoni contro gli Ateniesi. Al primo sbarcare. de’ Cartaginesi erano state richiamate, e venivano in soccorso d’Imera.
Corse allora voce d’avere i Siracusani determinato di mandare tutte le forze loro in ajuto d’Imera. Di quella voce s’approfittò Annibale, per far credere ch’egli era per tornar di volo a Mozia, per imbarcarvi l’esercito, e correr sopra Siracusa mentre era indifesa. Sel credette l’incauto Diocle; e senz’altro aspettare, ordinò, che quelle galee portassero fuori del confine imerese metà de’ Siracusani, e ritornassero a levare l’altra metà. Gl’Imeresi, abbandonati dai Siracusani, disperavano della salvezza della patria. Molti s’imbarcarono su quelle galee, per esserne trasportati a Messena; molti partirono con Diocle, che non volle aspettare il ritorno delle navi, e prese la via di terra, con tanta fretta che lasciò insepolti i cadaveri dei Siracusani morti in battaglia. Pochi cittadini restarono risoluti a perire colla patria; e quei pochi sostennero essi soli, il domani, l’assalto di tutto l’esercito cartaginese. Nè potè venir fatto ad Annibale in tutto quel giorno di penetrare in una città mezzo diruta, difesa solo da un pugno d’eroi. Al nuovo giorno, essendo già in vista le navi siracusane, che tornavano, i Cartaginesi rinnovarono con più rabbia l’assalto. Con pari valore si difendevano gl’Imeresi, quando un gran tratto di muro crollò. Un corpo d’Iberi penetrò per quella via in città, ed aprì il varco agli altri. I pochi difensori non poterono far fronte a tutti. La città fu presa. Spogliatine i tempî e le case; trattone quanto v’era di prezioso; e, fra le altre cose, le celebri statue di bronzo rappresentanti Stesicoro, vecchio, curvo sul bastone, con un libro in mano; Imera; e la capra; la città fu dalle fondamenta spianata, in modo che pochissimi avanzi ne additano il sito, che tutt’ora conserva il nome di piano d’Imera. Ma tutto ciò appagava la pubblica vendetta, non la particolare. Annibale frenò sulle prime la rabbia de’ soldati, che mettevano a morte quanti cittadini loro si paravano innanzi. Volle serbato a sè solo quel feroce trionfo. Tremila cittadini, che restavano, furono da lui tratti nella pianura, ove l’avo avea perduto la vita. Ivi, fattili prima crudelmente scudisciare, l’un dopo l’altro, tutti li sgozzò. Tale fu la tragica fine d’Imera, dugento quarant’anni dopo di essere stata edificata.
I rapidi progressi dell’armi Cartaginesi spaventarono tutte le città siciliane. Se Annibale non avesse sospeso il corso delle sue vittorie, per tornare in Cartagine a raccorre gli applausi dei suoi, forse tutta Sicilia sarebbe caduta sotto il giogo affricano. Ma ne’ governi puramente democratici i popoli, benchè talvolta siano spinti ad azioni al di là del naturale, spesso ne’ più gravi pericoli anneghittiscono e soccombono. I cittadini, invece di correre con comune accordo ad affrontare il comun pericolo, si danno a rinfacciare l’un l’altro la causa del male. Le fazioni diventano più accanite. In que’ fortunosi momenti tutti voglion fare, e nessuno fa. I buoni, che potrebbero salvare la patria, o si ritirano, o sono cacciati.
Tale era allora la condizione delle città siciliane, e particolarmente di Siracusa, che per la sua potenza avrebbe potuto respingere una seconda volta i Cartaginesi. Le forze di quella repubblica dalla morte di Gelone, non che fossero diminuite, erano anzi accresciute: mancava solo un capo che avesse saputo riunirle, e addirizzarle al segno. Diocle, che allora prevalea era buon legislatore; ma poco conoscea le armi, e meno la politica. Geloso della libertà, avea allontanato Ermocrate, che solo potea fare risorgere i giorni gloriosi di Gelone.
IV. — Ermocrate, che, nel congresso di Gela, avea proposta una lega generale delle città siciliane, contro ogni straniero invasore, avea ben preveduto la spedizione degli Ateniesi, e avea avvertito i Siracusani a prepararsi alla difesa. Non gli si era dato ascolto. Sopraggiunti poi gli Ateniesi, avea avuto il comando dell’armi, ed assai prove di coraggio e di prudenza avea date. Ottenuta la vittoria, era stato destinato a comandare la piccola armata, che andò colle navi spartane contro Atene. S’era segnalato nella battaglia tra Sesto ed Abido.
L’anno appresso, sopraggiunta l’armata collegata, di là dello stretto di Cirico, dagli Ateniesi con forze a gran pezza superiori, non potendo altrimenti salvare le navi e la gente, fatto sbarcare i soldati, mise foco alle navi, per non farle cadere in mano de’ nemici, come avvenne agli spartani. Diocle e la fazione repubblicana gli apposero a delitto l’incendio delle navi; lo accusarono; per decreto del popolo fu bandito. Dimesso allora il comando della truppa, che seco avea, in mano de’ nuovi comandanti, si ritirò nell’Ellesponto presso Farnabazzo suo amico.
Come a lui giunsero le notizie della caduta di Selinunte e d’Imera e la negghienza di Diocle, tutto esule che era, volle correre in difesa della Sicilia. Venne a Messena; col danaro avuto in presto da Farnabazzo fabbricò cinque navi, assoldò mille uomini, ai quali vollero unirsi mille degli Imeresi, che colà erano riparati, ed anelavano di trarre alcuna vendetta de’ Cartaginesi. Offrì i suoi servizî a Siracusa; que’ ciechi repubblicani lo respinsero. Non iscorò per questo. Venne a Selinunte; ne rifece in parte le mura; vi richiamò gli antichi cittadini; e ve ne trasse de’ nuovi. Raccolto un piccolo corpo di seimila venturieri, si diede a scorazzare tutto il paese posseduto da Cartagine. Venutigli incontro i Moziesi, gli sconfisse e molti ne uccise. Accostatisi in Panormo, gli abitanti vennero fuori per combatterlo. Cinquecento ne mise a morte, gli altri fugò. Discorrendo i luoghi devastati dai Cartaginesi, venne ad Imera; con pietosa cura vi raccolse le ossa de’ Siracusani, che Diocle avea lasciati insepolti; e sopra carri magnifici li mandò a Siracusa, tenendosi egli sul confine. Sperava, che i suoi concittadini, per quell’atto, avessero rivocato il bando. Ben lo voleano molti; ma i più, tanto maggiormente gelosi della libertà quanto erano più vicini a perderla, comechè avessero bandito Diocle, per aver lasciati insepolti i cadaveri de’ suoi, si negarono a richiamare Ermocrate.
Questi, confortato da’ suoi amici, tentò acquistar di forza il comando. Accostatosi notte tempo alla città, v’entrò con pochi compagni per la porta dì Acradina, che i suoi amici in città aveano aperta. Sparsasene voce in città, i Siracusani, maggiormente confermatisi nel sospetto, che costui volea usurpare la tirannide (e forse allora s’apponeano al vero) gli corsero in contro per respingerlo. Nella mischia egli fu ucciso con molti dei suoi. Coloro che lo aveano favorreggiato, ne riportarono il bando. Era fra i suoi compagni Dionigi, che cadde ferito. Il destino, che serbava costui a più alte vicende, fece che alcuni suoi amici, facendolo credere estinto, lo salvassero, e, trattolo a casa loro, lo guarissero.
Non altro seppero fare i Siracusani allora in difesa della Sicilia, che mandar messi a Cartagine, per querelarsi dell’invasione e della distruzione di Selinunte e d’Imera. Alla vana querela diede Cartagine una vana risposta; ed intanto raccogliea grandi forze per menarle contro Agrigento. Per meglio estendere il suo dominio nelle parti meridionali dell’isola, mandò una colonia ad edificare una nuova città, appo le sorgenti d’acqua termale, che Terme indi fu detta, Selinuntina, per distinguerla dall’altra dello stesso nome sul mar tirreno (26), sul cadere del 1 anno della 93 Olimpiade (408 a. C.).
V. — Raccolta intanto gente da Cartagine, dalla Numidia, dalla Mauritania, dall’Iberia, dall’isole Baleari e dall’Italia, ne fu formato un esercito, secondo Timeo, di centoventimila uomini, ma, al dir d’Eforo, di trecentomila. Fu scelto a comandante lo stesso Annibale; e per essere egli già grave d’anni, fu dato a compagno Imilcone, suo parente. Precessero quaranta galee. I Siracusani se ne avean posto ugual numero sulla spiaggia d’Erice. Come le navi cartaginesi s’accostavano al lido, vennero attaccate. Quindici ne furono colate a fondo, le altre col favor della notte camparono. Saputosi la disfatta in Cartagine, Annibale venne con cinquanta galee, per impedire le operazioni dell’armata siracusana. Il resto de’ legni affricani, facendo altra rotta vennero in Sicilia.
I Siracusani intanto avean chiesto ajuto dalle città d’Italia, e da Sparta; e lettere aveano scritto a tutte le città siciliane, per animare i popoli a pigliar le armi. Gli Agrigentini, che prevedeano d’esser contro loro dirette le forze de’ Cartaginesi, con ogni studio si prepararono alla difesa. Era allora Agrigento al sommo dell’opulenza. Lieta di un fertile contado, coperto in maggior parte di vigne ed olivi; per la fiorentissima agricoltura ne traeva vini, oglio, biade ed ogni maniera di produzione, delle quali avea largo e vantaggioso spaccio in Cartagine. Tali ricchezze eran venute sempre accumulandosi; chè Agrigento, dalla sua fondazione, non avea mai sofferto alcun saccheggiamento od altra molestia. Tanta era la ricchezza della città, che la magnificenza e ’l lusso v’erano estremi. Tempî, acquidotti, vivaî, grandiosi vi erano. Magnifici sepolcri s’erigevano, non che agli uomini, ma fino ai cavalli, agli uccelli ed agli animali domestici, che ognuno avea cari. Della somma ospitalità degli Agrigentini e delle preziose masserizie loro, cose appena credibili si narrano da Diodoro; e la sontuosità delle loro mense in quell’età era ita in proverbio. Tanto erano essi usi alla mollezza ed agli agi, che, essendo allora stato prescritto, che tutti coloro, che doveano andare in sentinella, dovessero portare solo una coltrice col cortinaggio, due guanciali, ed una coltre soppannata, alte querele si levarono; perchè teneano ciò troppo duro.
All’avvicinarsi de’ Cartaginesi, tutti, che eran da ciò, pigliarono le armi. Fecero venire lo Spartano Decippo che in Gela stanziava, con millecinquecento soldati stranieri. Assoldarono da ottocento Campani, che con Annibale erano prima venuti, e poi si eran ribellati dal servizio cartaginese; i quali s’afforzarono su quell’altura, che stava a cavaliere della città, e si diceva rupe Atenea.
VI. — Il vincitore di Selinunte e d’Imera, sbarcato l’esercito, tirò verso Agrigento. Come ne fu presso, staccò un corpo di quarantamila Iberi ed Affricani, e li fece stare sopra i colli prossimi alla città; ed egli con tutto l’esercito si pose ad oste nelle pianure, e cinse il suo campo di profondo fosso. Costrutte poi due altissime torri di legno, le accostò a quella parte delle mura, che parea più debole, e stiede tutto il giorno a fare strage di coloro, che sopra vi erano. La notte gli Agrigentini vennero fuori ed incendiarono le due torri.
Volse allora l’animo Annibale a costruire bastite di pietre, contro la città; e, per trarne i materiali, ordinò alla sua gente di demolire tutti gli avelli, ch’erano in quei dintorni. I soldati, presi da superstizione, nicchiavano. Dato mano a demolire il sepolcro di Terone, un fulmine vi cadde. In questo, gravi malattie si manifestarono nel campo, forse per l’aria malsana di quelle pianure, di cui morì lo stesso Annibale. Tutto ciò era tenuto indizio dell’ira celeste. Esaltate le immaginazioni, parve ai soldati vedere la notte ombre minacciose e dolenti vagare nel campo. Però Imilcone ordinò di sostare dal demolire i sepolcri, e per placare l’ira degli Dei immolò un fanciullo a Saturno e sommerse vivi in mare i sacerdoti, in olocausto a Nettuno (27) ed arginò le ripe del fiume, che lì presso correa, per non essergli d’impedimento.
I Siracusani intanto spedirono in ajuto d’Agrigento un esercito di trentamila fanti ed oltre a cinquecento cavalli, sotto il comando dì Dafneo.
V’erano soldati di Messena, di Gela, di Camarina e delle città d’Italia. Un’armata dì trenta galee vi fu destinata. Imilcone, saputo la costoro mossa, mandò contro di essi quel corpo di riserba di quarantamila soldati. Valicato appena l’Imera, i due eserciti furono a fronte. Attaccata la mischia, gli Affricani furono del tutto rotti. Seimila ne furono uccisi; gli altri fuggirono; e i Siciliani l’incalzarono in modo che non poterono tornare al loro campo, che fu occupato dai Siracusani; i quali non inseguirono più oltre i fuggitivi, per tema, che non accadesse loro la stessa sventura degli Imeresi, che furono assaliti e rotti, mentre si teneano vittoriosi.
Gli Agrigentini, che dall’alto delle mura videro lo scompiglio de’ Cartaginesi, argomentarono da ciò la loro rotta, e chiesero ad alte grida di sortire, per compiere la disfatta; ma i capitani loro, sia che si fossero lasciati corrompere da Imilcone come corse voce, sia, com’è più probabile, che avessero temuto, non i Cartaginesi, numerosissimi com’erano, mentre parte di essi avrebbe combattuto, gli altri, avvantaggiandosi d’essere la città vôta, vi fossero penetrati, si negarono. Molti de’ soldati Agrigentini coi loro capitani vennero al campo dei Siracusani ed altamente si dolsero di questi. Un Menete da Camarina, prefetto di quella città, maggiormente gli aizzò, sì che, senza ammetterli pure a discolpa, quattro ne furono lapidati. Fu solo perdonato ad Argeo, ch’era il quinto, per la giovanile età sua.
Visto intanto Dafneo d’esser pericoloso l’assaltare il campo de’ Cartaginesi per essere ben munito, lo assediò. La sua cavalleria spazzando sempre la campagna, impediva che vi giungessero viveri. L’armata facea lo stesso in mare. Stettero così inoperosi gli eserciti da otto mesi, senza che gli Agrigentini, o i Siracusani si fossero attentati d’assalire i Cartaginesi, o questi quelli. Gli assalitori erano già divenuti tanto stremi di viveri, che i soldati campani, che con essi militavano, abbottinatisi corsero alle tende del generale, minacciando di disertare ai nemici. Imilcone a sommo stento gl’indusse ad aver pazienza; chè ivi a pochi giorni avrebbero viveri in copia: ed in pegno della sua fede consegnò loro le ciotole, nelle quali beveano i soldati cartaginesi.
Non erano queste vane promesse. Avea il punico generale saputo da un disertore, che i Siracusani aveano spedite le loro galee a scortare le navi, che doveano venire cariche di frumento e di viveri; però avea chiamate da Panormo e da Mozia quaranta delle sue galee, che fece porre in agguato, per intraprendere le navi siracusane; e gli venne fatto. I Siracusani; assaliti alla sprovveduta, perderono alcune delle loro galee; le altre fuggirono. Le navi da carico, spinte contro il lido, furono tutte predate. Cambiò allora lo stato delle cose. I Cartaginesi erano ben pasciuti, i Siracusani cominciarono a patir la fame.
In questo, que’ Campani, che per Agrigento militavano, avuti quindici talenti da Imilcone, passarono al suo campo. Con altri quindici talenti, come fama ne corse, fu guadagnato Decippo; il quale, non solo si ritrasse co’ suoi, ma persuase gl’Italiani a far lo stesso. Il pretesto che mettea avanti era la mancanza di viveri, ciò indusse gli Agrigentini ad esaminare quanto ne restava in città. Fu trovato esservene solo per pochi giorni. Quella numerosa e lussuriante popolazione non potè patire pure l’idea dello stento. Fu risoluto d’abbandonar la città sul far della notte. Al pubblicarsi di quella risoluzione, risuonarono le strade e le case di grida di disperazione. e di flebili ululati. Lagrimevole spettacolo fu poi il vedere dugentomila cittadini d’ogni età, d’ogni sesso, di ogni condizione, abbandonare piangendo i patrî lari. Nobili matrone, vergini venustissime, pargoli innocenti, vecchi, giovani, servi, padroni, nobili, plebei, passati istantaneamente dal sommo della mollezza alla miseria estrema, scortati dalle milizie si avviarono a Gela. Ivi giunti, i Siracusani li fecero poi stanziare in Leonzio.
Il domani, i Cartaginesi, non senza timore di sorpresa, entrarono in città. Vi misero a morte quei pochi cittadini, che non s’erano partiti, o perchè inabili al viaggio, o perchè in essi più potè l’amore della patria, che il timore della morte. Fra costoro era il generoso ed ospitalissimo Gellia; il quale s’era ritratto colla sua famiglia ed i suoi tesori nel tempio di Minerva, sulla speranza che i Cartaginesi avessero rispettato il luogo. Visto che gli altri tempî erano da essi saccheggiati, dato fuoco a quello in cui era, vi perì. Oltre al danaro, immensa fu la copia dei quadri, di statue, d’ornamenti e di domestiche masserizie, che i Cartaginesi trassero dal saccheggio della città; fra’ quali fu anche il famoso toro di bronzo, strumento della crudeltà di Falaride, che fu portato a Cartagine.
Imilcone, dato il sacco alle case, si diede a demolire i tempî magnifici, ch’erano nella città e nel contado. Le case furono risparmiate; perchè, essendo già presso il solstizio d’inverno, volle farvi svernare l’esercito.