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SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA] CAPITOLO VI. I. Prime imprese di Dionigi. — II. Assedio di Gela: sua caduta. — III. Pace co’ Cartaginesi. — IV. Nuove imprese di Dionigi. — V. Fortifica Siracusa: si prepara alla guerra. — VI. Dichiara la guerra a Cartagine: assedia Mozia: l’espugna. — VII. Ritorno de’ Cartaginesi. — VIII. Presa di Messena. — IX. Assedio di Siracusa. — X. Totale disfatta de’ Cartaginesi. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I. — Mentre la Sicilia era ad un pelo d’essere tutta soggiogata da Cartagine, le circostanze straordinarie un uomo straordinario fecero sorgere, che seppe rilevare lo forze della nazione e salvarla. Dionigi, dopo d’essersi riavuto delle ferite riportate combattendo a’ fianchi d’Ermocrate, si era segnalato in varî incontri co’ Cartaginesi. Riunito il popolo di Siracusa, dopo la caduta d’Agrigento, per discutere lo stato della repubblica, mentre tutti stavano costernati in silenzio, levatosi egli, accusò i comandanti d’essersi lasciati corrompere dai Cartaginesi. Il magistrato per quel detto lo condannò, come sedizioso, ad una multa che non era in istato di pagare; però perdeva il diritto di parlare, finchè non l’avesse pagato. Era presente lo storico Filisto, nobile, ricco, prode guerriero; e, perchè odiava il governo democratico, pagò la multa per Dionigi, e dichiarò che in tutto quel giorno avrebbe pagato per lui, acciò il popolo conoscesse la verità.
Incuorato da tanto appoggio, ripigliò Dionigi con più calore l’argomento, enumerò i tradimenti dei generali, e disse esser causa del male il conferirsi la suprema autorità della repubblica solo a’ nobili e ricchi, i quali miravano al loro privato profitto, e s’avvantaggiavano delle pubbliche calamità per meglio opprimere il popolo. Se il governo fosse affidato ad uomini di schietta fede, senza natali e poveri, non altro studio avrebbero eglino, che il bene della repubblica. Questi sentimenti sono sempre graditi alla moltitudine, vere o false che fossero le colpe che si danno a chi governa. Tumultuosamente i comandanti furono deposti, ed altri ne furono scelti, fra’ quali lo stesso Dionigi. Egli, che ben altri disegni covava in mente, cominciò sin dalle prime a mostrarsi alieno da tutte le deliberazioni dei suoi compagni. Mai non veniva con esso loro a parlamento. Da sè solo spesso convocava il popolo, per intrattenerlo delle cose della guerra presente. Si cercavano per tutto soldati; egli disse al popolo: prima di procurarne altrove, essere da richiamarne i cittadini banditi ed armarli; non essere da dubitare della fede loro, da che aveano amato meglio andar tapini di qua e di là, che pigliar le armi contro la patria. Il popolo il consentì. Egli venne così ad acquistare una mano di faziosi, pronti a seguirlo in ogni impresa.
In questo, i Geloi chiesero ajuto ai Siracusani. Vi fu spedito Dionigi con duemila fanti, e quattrocento cavalli. Anche lì la plebe altamente querelavasi de’ patrizî. Dionigi fece produrre in pubblico le accuse; condannò a morte i rei; ne vendè i beni; ne divise il prezzo ai soldati. Di ciò furono tanto lieti i Geloi, che con isplendida ambasceria ringraziarono il popolo siracusano. Comandava in Gela lo Spartano Decippo; Dionigi cercò guadagnarselo; non riuscitogli, lasciò Gela, promettendo ai Geloi, che presto sarebbe stato di ritorno. Giunse in Siracusa mentre il popolo veniva fuori dal teatro. Chiestogli notizie della guerra, rispose nulla saperne; sapere solo che, più degli esterni nemici eran da temere gl’interni; gli altri generali essere questessi, i quali, mentre i nemici erano sul confine, invece di pagare gli stipendî alla truppa, addormentavano il popolo con vani spettacoli. Ove mirassero non saperlo; questo essere certo, che Imilcone avea a lui mandato un araldo col pretesto di trattare la restituzione dei prigionieri, dal quale fu a lui bucinato di non guardare molto addentro nella condotta dei suoi compagni; però non volere egli avere più parte al comando, essere venuto per deporlo.
Tali semi di leggieri barbicarono. Il domane nel gran consiglio del popolo molti si diedero a gridare: non essere altro mezzo di salvare la repubblica che il dare al solo Dionigi la suprema potestà; doversi tutti rammentare che, quando Siracusa era retta dal solo Gelone, trecentomila Cartaginesi erano stati disfatti in una sola battaglia; ora, che il comando era in più mani, Selinunte, Imera ed Agrigento erano cadute; e lo stesso era da temere per tutte le altre. Nissuno osò contraddire. Dionigi ebbe la tirannide, varcati appena i venticinque anni.
Il primo uso che fece della suprema potestà fu di raddoppiare gli stipendî ai soldati; assicurando i cittadini d’esser sua cura trovare il modo di sovvenire alla spesa. Ordinò poi che tutti i cittadini atti all’armi, che non avean quarant’anni, armati, e con viveri per trenta giorni, seco si conducessero in Leonzio. Ivi stanziavano tutti gli esuli, gli stranieri, ed altra gente di scarriera, vogliosa sempre di trescar nel torbido. Una sera fece ad alcuni suoi fidi levare un grande schiamazzio, come per volerlo uccidere. Egli, mostrandosi tutto pauroso, fuggendo, si chiuse nella cittadella e stiede tutta la notte in arme. Al far del giorno convocò il popolo; espose il pericolo corso; chiese una guardia per la sua persona; gli fu concesso destinare a ciò seicento soldati da lui scelti. Egli scelse a ciò i suoi più fidi, e ne accrebbe il numero sino oltre a mille; raccolse da ogni parte soldati stranieri, adescandoli con carezze e con larghe mercedi; riformò l’intiera milizia, dando il comando delle schiere ai suoi confidenti; rimandò a Sparta Decippo; soldati mercenarî chiamò da Gela. Di ritorno in Siracusa, per acquistarvi dipendenze, sposò la figliuola dell’estinto Ermocrate, e diede sposa la sorella a Polisseno, fratello della vedova di quello. Dafneo, che avea comandato l’esercito spedito in soccorso d’Agrigento, e Demarco, potenti cittadini, mulinavano il modo di smaltirlo; ei li prevenne; li accusò di molti delitti; li fece condannare a morte.
II. — Entrava, in questo, la primavera dell’anno 4 della 93 Olimpiade (405 a. C.). I Cartaginesi, distrutto quanto restava d’Agrigento, si accostarono a Gela, e fermarono il campo a settentrione, presso il fiume che scorrea di costa alla città. Era ivi una statua colossale d’Apollo, di bronzo, che i Geloi aveano in gran venerazione; trattonela, la mandarono a Tiro. Circondarono poi il campo di palizzate e di fosso. Gela, comechè vasta, era mal munita. Ciò non di manco i cittadini presero a difendersi con tal animo, che, essendosi proposto di mandare a Siracusa per maggior sicurezza le donne, i vecchi e i fanciulli, costoro ridottisi nella pubblica piazza, abbracciati gli altari, dichiararono di non volere quindi rimoversi. Gli altri cittadini si divisero; parte stavano a combattere sulle mura; parte venivano fuori a molestare i nemici, mettendone a morte quanti spicciolati loro si paravano innanzi.
Dionigi, raccolta gente dalle collegate città di Italia, da Siracusa e da altre città di Sicilia venne in aiuto dì Gela, con un esercito di trentamila fanti e mille cavalli, ed un’armata di cinquanta galee. Si fermò ad oriente della città presso il mare, perchè l’armata potesse in ogni caso soccorrere l’esercito. Stettero venti giorni i due eserciti ad osservarsi. Finalmente Dionigi dispose di attaccare contemporaneamente in tre diversi punti il nemico. Una mano di truppe ausiliarie delle città italiane dovea correre sulla dritta verso il mare, ed attaccare l’estremità del campo nemico, ove i Cartaginesi aveano alcune schiere per guardare il mare; un’altra di Siciliani, girando per la sinistra, dovea assalire l’altra estremità del campo; lo stesso Dionigi dovea co’ mercenarî dirigersi al centro, ove i Cartaginesi aveano piantate le macchine contro la città; la cavalleria poi, ch’era di là dal fiume, guadatolo, dovea entrare in azione; e compir la rotta de’ nemici, se questi avean la peggio; proteggere i Siciliani, in caso di disastro.
Gli ausiliari italiani attaccarono con grand’impeto i nemici; fugarono le prime schiere; penetrarono ne’ ripari: ma il caso volle che le altre due schiere non erano ancora giunte, per cominciar contemporaneamente l’attacco; onde tutto l’esercito cartaginese si rivolse contro i soli italiani, i quali, stretti da tutte le partì si ridussero in un angolo del Vallo. Vennero fuori i Geloi per soccorrerli; ma poi sul timore che, mentre eglino combatteano, i nemici non penetrassero per altra parte in città, tornarono indietro. Gl’Italiani sarebbero tutti periti, se le navi accostatesi al lido, a furia di dardi non avessero molestato il nemico, e dato loro tempo di campare in città, perduto mille dei loro.
Giunti all’altro corno i Siciliani vi combatterono con ugual valore, ma fecero poco frutto; chè i Cartaginesi, disfatta già la prima schiera, li assalirono in tal numero, che ebber dicatti potersi anch’eglino ritrarre in città colla perdita di seicento di essi. Mentre da quel lato si combattea, Dionigi, visto per quel contrattempo andare a vôto il suo disegno, senza avventurar la sua gente, si ridusse entro le mura. In un consiglio di guerra fu risoluto d’abbandonare la città. Per non darne sospetto ai Cartaginesi, per un’araldo Dionigi chiese loro il permesso di seppellire i morti. Fatto notte poi, tutto il popolo di Gela si mise in via verso Siracusa. Sulla mezza notte mosse Dionigi collo esercito, lasciando in città solo duemila soldati leggieri; i quali, stati tutta notte ad accender fuochi di quà e di là, per far credere d’essere ancora la città abitata, sul far del giorno corsero a raggiungere gli altri. Passando per Camarina, città aperta e senza difesa, Dionigi la fece pure evacuare dagli abitanti, che seco si diressero a Siracusa.
La commiserazione per que’ due popoli, che abbandonavano i patrî lari; il non vedere alcuna schiera nemica ad inseguirli da presso; il non avere Dionigi fatto entrare in mischia i suoi mercenarî, fece concepire a molti il sospetto, che il tiranno volea più presto favorire, che nuocere ai Cartaginesi, acciò il timore della guerra tenesse sempre a lui soggetto il popolo. Però gl’Italiani presa la via de’ monti, abbandonarono l’esercito. Una mano di cavalieri, che maggiormente odiava il tiranno, studiando il passo giunse a Siracusa, prima che colà si fosse saputa la rotta di Gela; corse a saccheggiare la casa di Dionigi; ne maltrattò con ogni villania la moglie.
Venuto Dionigi in sospetto delle costoro intenzioni, lor tenne dietro con seicento fanti e cento cavalli. Trovò chiusa la porta d’Acradina. Affastellatevi dietro le canne che ivi presso erano abbicate per servire alle fornaci da calce, vi mise fuoco. Mentre la porta ardea sopraggiunse il resto dell’esercito. Arsa la porta, per essa entrò. Alcuni de’ cavalieri, ch’erano dei maggiorenti, senza aspettare il concorso del resto del popolo, vollero opporvisi. Sopraffatti dal numero, vi restarono uccisi. Dionigi, percorrendo la città, trasse vendetta di tutti coloro, che aveano presa parte alla sommossa.
III. — In questo, i Cartaginesi spedirono a Siracusa un araldo ad offrir la pace; la quale fu tosto conchiusa a tali condizioni: restassero soggetti a Cartagine oltre le sue antiche colonie, i Sicoli, i Selinuntini, gli Agrigentini, e gl’Imeresi; i Geloi ed i Camerinesi tornassero ad abitare le città loro, ma senza cingerle di mura e restando tributarî di Cartagine; i Sicani, i Messeni i Leontini si vivessero colle loro leggi; i Siracusani stessero sotto il dominio di Dionigi; le navi prese nella guerra fossero scambievolmente restituite.
Quel trattato accrebbe il sospetto, che Dionigi, più che il vantaggio generale, avesse avuto in mira di raffermare la sua tirannide. Non sarebbe da meravigliare se costui nel fior degli anni era cupido d’impero; ma la pace era allora necessaria, e forse la tirannide non lo era meno. I Siracusani, scissi dalle fazioni, dati alle lussurie, non avrebbero potuto resistere ad un lungo assedio. Che che ne sia, i posteri devono saper grado all’ambizione di un uomo, che seppe far uso del potere, per elevare tanto alto la potenza siracusana.
IV. — Conchiusa la pace, Imilcone ritornò in Cartagine, dopo d’aver perduta per la peste e nei varî incontri una metà della sua gente; e Dionigi si diede ad afforzare Siracusa e render più salda la sua autorità. Cinse l’isola d’Ortigia di alto muro e forte, lungo il quale costrusse più torri; e sotto vi fabbricò portici e botteghe, in cui assai gente potea stare. Nel centro dell’isola edificò una vasta cittadella, la quale potea ben sostenere ogni straniero o cittadino assalto. Chiuse con muro il piccolo porto, che sessanta galee capiva; e vi lasciò una porta, per cui una sola potea passare. Divise poi le migliori terre del contado a’ mercenarî e familiari suoi; le altre agli antichi e nuovi cittadini, ed a’ servi manomessi, che da lui aveano avuto la cittadinanza, e però neopoliti si dicevano. Assegnò a molti case in città, tranne quelle dell’isola, che donò a’ suoi più fidi ed a’ mercenarî.
Fornite tali opere, volea Dionigi sottomettere tutte le città sicole, e particolarmente quelle che aveano favoreggiato i Cartaginesi. Venne ad accamparsi ad Erbesso (28). In Siracusa, in questo, mentre si riuniva il resto dell’esercito, e si apprestavano le macchine per quell’assedio, i soldati nei loro crocchi cominciarono a mormorare del tiranno, ed a rimproverarsi l’un l’altro per non aver dato mano a que’ cavalieri, che lo aveano respinto. Un Dorico, capitano proposto da Dionigi, sentendo uno de’ suoi soldati a parlare in tal guisa, lo riprese; rispostogli colui con maggiore insolenza, gli si avventò come per percuoterlo; gli altri corsero in difesa del compagno; misero a morte Dorico; e vennero fuori, gridando libertà e morte al tiranno. La truppa trasse da tutte le parti e loro si unì.
Dionigi, tornato di volo in città, trovò che i ribelli, afforzatisi all’Epipoli, aveano scelto a loro comandanti gli uccisori di Dorico, ed aveano chiamato in loro soccorso una mano di cavalieri che, nemici della tirannide, erano iti a stanziare in Etna, quando Dionigi ebbe il supremo potere. Ottanta galee di Reggio e di Messena vennero in loro ajuto. Lo stato del tiranno, chiuso da tutte le parti, era così pericoloso, che i suoi stessi mercenarî lo abbandonarono.
In tale stretta, Dionigi, confortato dallo storico Filisto a fare i massimi sforzi per conservare la tirannide, finse di cedere. Propose ai ribelli di spogliarsi dell’autorità, purchè gli fosse concesso di andare altrove co’ suoi. Vi aderirono coloro. Si convenne, che Dionigi sarebbe partito con cinque navi da carico. Come se l’affare fosse del tutto finito, molti tornarono alle loro occupazioni nella città e ne’ campi. L’astuto Dionigi, mentre così li teneva in pastura, avea chiamato una schiera di quei Campani, che i Cartaginesi aveano lasciato in Sicilia; i quali, deposti, per correr più celeri, i loro fardelli in Agira, in numero di mille e dugento, giunsero inaspettatamente in Siracusa; e, superata la resistenza di quei pochi che stavano a guardare l’isola, vi penetrarono. Altri trecento mercenarî vi vennero. I ribelli non sapevano lo che si fare. Altri volea, che si continuasse, malgrado quel soccorso, l’intrapreso assedio; altri proponea d’abbandonare la città. Mentre costoro stavano a bisticciare, il tiranno venne fuori colla sua gente, e li volse tutti in fuga nel sobborgo che si diceva Neapoli. Pochi ne morirono; chè Dionigi girando per la città, ordinava ai suoi di risparmiare la vita de’ fuggitivi. Molti vennero ad unirsi alla cavalleria, o con essa si ritrassero in Etna. Dionigi gl’invitò a ritornare, promettendo di dimenticare il passato e di accoglierli umanamente. Alcuni, tratti dallo amore delle famiglie, accettarono l’invito, e ’l tiranno fu fedele alla promessa. Altri più ardenti repubblicani, con animo inteso a vendetta, ivi rimasero, ed ebbero poi a pentirsene.
Dionigi, rimunerati i Campani, li rimandò. Eglino vennero a fermarsi in Entella ove furono ricevuti inquilini. Una notte, assalite le case dei cittadini, misero a morte quanti aveano varcata l’infanzia; e, sposate le vedove, si fecero padroni della città.
Correa allora l’anno 1o della 94 Olimpiade (404 a. C.). Gli Spartani, superata la guerra del Peloponneso, impresero a toglier via da per tutto, ove poteano, il governo democratico. Con tale intendimento venne in Siracusa un Aristo. Costui indettatosi prima con Dionigi, cominciò in pubblico a mostrarsi nemico della tirannide, e pronto a dar mano a coloro, che volessero ridursi a libertà. In quella città, in cui lo spirito repubblicano era forte radicato, molti a lui si unirono, e particolarmente Nicotele da Corinto che comandava la milizia. Ma quel furfante, conosciuto così l’animo di costoro, li palesò al tiranno; il quale mise a morte il Corintio, e mal ne incolse agli altri. Vedi virtù Spartana!
Era allora la stagione della messe. Mentre la maggior parte de’ cittadini era pe’ campi, Dionigi, assalitone le case, ne trasse tutte le armi. Rassodata così la sua autorità, disarmati i cittadini, si rivolse ad accrescere il dominio siracusano, con sottomettere le città calcidiche, Leonzio, Catana e Nasso. Ma prima volle torsi dagli occhi il bruscolo del castello d’Etna, ove stanziavano que’ cavalieri siracusani, che bravando, aveano rigettato il suo invito di deporre gli odî e tornare alla patria. All’avvicinarsi dell’esercito, inabili com’erano a difendersi, costoro si resero; ed ebbero ad essere prigioni, ove non vollero essere cittadini.
Accostatosi poi a Leonzio, intimò Dionigi la resa alla città. Visto che i Leontini si preparavano a gagliarda difesa, non avendo in pronto le macchine, si ritirò; e, come colui che, prima di venire alla prova dell’armi, cercava giungere coll’astuzia al suo fine, mentre facea sue mene contro Catana e Nasso, facendo le viste di portar le armi contro i Sicoli, si diresse ad Enna. Come ne fu presso, indusse un Aimnesto, potente cittadino di quella, ad usurpare la tirannide, promettendogli ogni ajuto, sulla speranza che costui gli avrebbe poi aperte le porte della città. Ma quello, fattosi tiranno, si negò ad ammetterlo entro le mura. Dionigi se ne ricattò. Gli Ennesi, da lui istigati, corsero all’armi contro il tiranno; nel subbuglio entrò in città, con pochi seguaci, per una porta ch’era mal custodita; gli venne fatto avere nelle mani Aimnesto; lo consegnò al popolo, per punirlo a posta sua; e si ritrasse, senza recare altra molestia, per incuorare le altre città ad aver fede in lui.
Venne poi ad assediare Erbita (29); ma, trovatovi resistenza, egli, che ad altro mirava, si rivolse a Catana, ove un Arcesitao, che comandava la città, da lui compro, gli aprì notte tempo le porte. Fattosi così padrone della città, disarmato i cittadini, vi lasciò un presidio e tirò a Nasso. Vi comandava un Procle. Anche costui ebbe unte le mani e consegnò la città. Il traditore, oltre il pattuito premio ebbe libertà coi suoi; gli altri cittadini e i Catanesi ridotti in servitù, furono venduti alla tromba. Le terre di Nasso furono divise ai Sicoli vicini. Catana fu data a’ Campani. Cinto poi d’assedio Leonzio, offrì a que’ cittadini, se si arrendeano di queto, di menarli a Siracusa e dar loro la cittadinanza. I Leontini, sopraffatti dalle sue prepotenti forze, amarono meglio accettare il partito, che correre il rischio d’incontrare lo stesso destino de’ Nassî o de’ Catanesi.
Arconide intanto, che comandava gli Erbitani, conchiusa la pace con Dionigi, riunito alcuni di que’ cittadini, una turba di mercenarî ed altra gente raunaticcia, che fuggiva per timore della guerra, venne a fondare una città, un miglio discosto dal lido settentrionale dell’isola, che Alesa fu detta, e per distinguerla da altre di simil nome vi si aggiunse quello d’Arconidia (30).
V. — In questo, Dionigi che, ingrandito già il suo dominio, covava in mente il pensiero di muover guerra a Cartagine, celando altamente i suoi disegni, veniva preparandovisi. E, perchè ebbe presente che gli Ateniesi, fattisi di leggieri padroni dell’Epipoli, aveano chiusa la città da ambi i lati con un muro, per non correre lo stesso rischio in ogni caso di futuro assedio, volle difenderne l’accesso dal lato dell’Eurialo; chè, dalla parte settentrionale, alte e scoscese rupi lo rendeano inaccessibile. Chiamati i più esperti architetti, fu disegnato un lungo e fortissimo muro, nel costruire il quale Dionigi mostrò non ordinaria potenza ed abilità. Scelse fra campagnuoli di Siracusa sessantamila liberi cittadini, ai quali affidò il lavoro. Altri faceano da picconieri, per trarre i massi dalla cava; gli scarpellini li affacciavano; seimila paia di buoi stavano a trainarli; ad ogni pletro, ch’era la sesta parte d’uno stadio, erano impiegati dugento muratori, sopra i quali stava un fabbriciere; e ad ogni stadio era un’architetto a vegliare per l’esatta esecuzione dell’opera. Lo stesso Dionigi, deposta la maestà del principe, stava tutto dì con parecchi amici a soprantendere al lavoro; incuorava gli uni; applaudiva gli altri; premiava i migliori; egli stesso mettea la mano a’ più aspri lavori. Per tal modo destò in tutti tanta emulazione, che faticavano fin la notte, e con maraviglia universale fu visto compito in venti giorni un muro lungo trenta stadî; costrutto di pezzi, ognuno de’ quali avea la lunghezza di quattro piedi (31); alto e forte, sì che potea reggere a qualunque urto; interrotto a quando a quando da torri della stessa costruzione. Compita quell’opera, edificò Dionigi una nuova città, presso l’antico tempio del Dio Adrano, ch’ebbe lo stesso nome (32), nell’anno 1o della 95 Olimpiade (400 a. C.).
I Reggini, in questo, impresero a vendicare i Nassî e i Catanesi, co’ quali avean comune il sangue, per essere anch’eglino d’origine calcidesi. Venivano essi anche istigati dagli esuli siracusani; che colà si erano ritratti, e faceano loro sperare che una gran fazione in Siracusa, al loro avvicinarsi, si sarebbe levata in armi contro Dionigi. Con un esercito di seimila fanti e seicento cavalli, ed un’armata di cinquanta galee, valicato il faro, vennero a Messena; e indussero i comandanti de’ Messenesi ad unirsi a loro, contro il distruttore di due città ad essi vicine. E quelli con quattromila fanti, quattrocento cavalli e trenta galee, si mossero. Giunti sul confine, Laomedonte, ch’era uno de’ condottieri, disse ai soldati di Messena: non essere giusto entrare senza alcun decreto del popolo, in guerra con Dionigi, dal quale non aveano ricevuto alcun torto. Persuasi di ciò i soldati, abbandonarono gli altri capitani e tornarono indietro. Mancato l’ajuto de’ Messenici, i Reggini non vollero andare più oltre. Gli uni e gli altri chiesero pace a Dionigi, ch’era venuto fuori ad incontrarli; e perchè quella guerra lo distogliea dalle vaste sue imprese, non accadde lungo pregare per averla.
Liberatosi da quel fastidio, pose l’animo Dionigi a fare ogni appresto per la guerra contro Cartagine. Chiamò i più esperti artieri delle città a lui soggette, dall’Italia, dalla Grecia; ed, invitandoli con larghe mercedi, n’ebbe in tal numero, che negli atri, tutto intorno de’ tempî, ne’ portici, lungo le piazze e fin nelle grandi case dei cittadini stavano artefici a lavorare armi d’ogni maniera, a posta delle diverse genti che doveano militare. I più illustri cittadini stavano sopra ciò. Egli stesso era sempre per tutto: sollecitava, prometteva. donava. Credesi inventata allora la catapulta, macchina micidiale per iscagliar da lontano dardi ed altre armi offensive in gran copia. Assai se ne fece e di varia grandezza. Oltre agli innumerevoli dardi più forti e più offendevoli del solito, furono costrutti cencinquanta mila scudi; pari numero di spade e d’elmi; e quattordici mila corazze di delicatissimo lavoro, che Dionigi destinò per gli ufficiali e pei mercenarî della sua guardia.
Colla stessa attività preparava al tempo stesso l’armata. Gente in gran numero mandò all’Etna e ne’ boschi d’Italia a tagliar pini ed abeti. Pronti vi stavano i bovi per lo traino del legname alla spiaggia: pronte le barche per trasportarlo a Siracusa; pronti qui i carpentieri per lavorarlo. Però colla celerità stessa vennero fatte oltre a dugento nuove galee, delle quali molte a cinque ordini di remi, sul modello di quelle inventate da’ Corinti, oltre a centodieci prima costrutte, e cencinquanta delle vecchie che furono restaurate. Per tener poi in secco e ben custodito tutto quel navile, fabbricò lungo il lido del porto censessanta grandi stanze, ognuna delle quali due galee potea contenere. Ponendo mente all’immensa spesa ed innumerevole gente impiegata in quell’armamento, parea, che tutti i capitali e tutto il popolo di Sicilia si fossero in Siracusa ridotti,
Provveduto le navi, le armi e le macchine, cominciò Dionigi a raccorre i soldati. Non prima lo fece, per non gravarsi di spese. Scelse i migliori di Siracusa e dell’altre città a lui soggette. N’ebbe in gran numero dalla Grecia, e particolarmente da Sparta. Intanto con sagace intendimento si mostrava amico di tutte le città siciliane, onde tutte fossero per lui. E perchè Messena e Reggio prevaleano, trasse alla sua i Messenesi, con dar loro alcune terre finitime: e chiese una sposa ai Reggini, per esser egli già da più anni vedovo. Ma coloro, che non aveano potuto sgozzare la distruzione di Nasso e di Catana, si negarono; anzi dice Plutarco: aver eglino risposto ai suoi messi, esser solo la figlia del boja sposa da lui. La clamorosa vendetta, che poi Dionigi ne trasse, rende credibile la villania. Sul rifiuto dei Reggini, si diresse ai Locresi; e n’ebbe la Doride, figliuola di un Esseneto, distintissimo fra que’ cittadini. Al tempo stesso sposò la Siracusana Aristomaca, figliuola d’Ipparino, ch’era stato uno dei generali di Siracusa. Giunse la prima su d’una galea a cinque ordini di remi, di recente costrutta, splendente d’ornamenti d’oro e d’argento. Nel medesimo punto fu tratta alla casa del bigamo sposo la Siracusana sopra magnifica quadriga.
Dato luogo al pubblico gioire per quel doppio maritaggio, convocò Dionigi l’assemblea del popolo. Disse: il tempo esser giunto di trar vendetta di Cartagine, mentre la peste mietea il fiore della gioventù affricana. La proposizione non potea essere più gradita, sì per lo rancore che ognuno avea contro i Cartaginesi, sì perchè i Siracusani speravano, che, avuto le armi, potea loro, quando che fosse, venir fatto di ristabilire il governo republicano. A voce unanime fu vinta la guerra. E tale era l’odio universale contro i Cartaginesi, che, sciolta appena l’assemblea, il popolo, forse istigato da Dionigi, si diede a saccheggiare le case e predare le barche di tutti i Cartaginesi, che per ragion di commercio erano in Siracusa. Le persone stesse furono imprigionate ed in ogni modo malmenate. Sull’esempio di Siracusa le altre città fecero lo stesso.
VI. — Entrava, in questo, l’anno 4o dell’Olimpiade 95 (397 a. C.); quando Dionigi spedì un’araldo a Cartagine, per dichiarare: che il popolo siracusano avea decretato di muover guerra a’ Cartaginesi, se tosto non isgombravano tutte le città greche di Sicilia. Grande fu lo sbigottimento di Cartagine. Dovea levarsi un nuovo esercito; che i conquistatori di Selinunte, d’Imera e d’Agrigento erano tutti periti dalla peste. I più distinti senatori furono spediti in varie parti d’Europa a far leva di gente.
Dionigi intanto, con ottantamila fanti e tremila cavalli, si diresse a Mozia, ricchissima e popolosa città, di sito e d’arte munitissima, che era come la sede del dominio cartaginese. A lui vennero ad unirsi i Selinuntini, gl’Imeresi, gli Agrigentini, i Geloi ed i Camarinesi. Come giunse in quelle parti, gli Ericini, presi di timore per lui si dichiararono. Leptine suo fratello vi venne con una armata di dugento galee, seguita da cinquecento navi da carico, che portavano macchine, armi e viveri per l’esercito.
Era Mozia nell’isoletta presso il promontorio Egitallo, detto oggi S. Todaro, un miglio e mezzo oggi discosta dal lido di Sicilia. Avea dal lato meridionale un mare di basso fondo e tutto sparso di scogli e piccole isolette; ed andava a terminare in un gran seno, che formava il vasto porto, detto allora de’ Moziesi, poi di Lilibeo, quando questa città vi fu fabbricata sulle rovine di Mozia, e finalmente ne’ tempi moderni, di Marsala. Era la città congiunta al lido con una strada che i Moziesi aveano a grandi spese costrutta sul mare, e che all’appressarsi de’ Siracusani aveano demolita. Dionigi imprese a costruirne una nuova per que’ bassi fondi, per potere accostare le macchine alla città. E, perchè l’opera era lunga, lasciatovi il fratello Leptine, egli con gran parte dell’esercito si volse a sottomettere le città cartaginesi, e quelle fra le sicane che per essi erano. Tutte, tranne Ancira (33), Egesta, Entella, Panormo e Solunto, vennero in suo potere. Dato il guasto alle campagne di Solunto e di Panormo, venne a stringer d’assedio Egesta ed Entella; ma, trovatovi forte resistenza, per non dilungarsi dalla principale impresa, fe’ ritorno a Mozia. Trovò che Leptine avea tratte le galee nel fondo del gran porto, e disposte le navi onerarie lungo il lido. Progrediva intanto la costruzione della strada, a segno che già le macchine si venivano avvicinando alla città.
In questo, Imilcone venne fuori coll’armata, per soccorrere Mozia, di cui molto calea a Cartagine. Staccato dieci galee, le mandò a Siracusa, per distruggervi quelle navi che vi erano; e loro venne fatto; chè entrate nel cuor della notte nel porto, molte galee sfondarono co’ rostri. Ma non per questo Dionigi si rimosse. Imilcone, venuto a Selinunte con cento legni, seppe, che le galee siracusane erano tratte in secco nel porto di Mozia; tentò di farsene padrone o distruggerle, assalendole all’impensata. Venuto fuori da Lilibeo, sul far dell’alba giunse in quel mare. Assalite le prime navi, alcune ne affondò, alcune ne incese. Dionigi, pensando che le navi cartaginesi erano poste in fila all’imboccatura del porto, onde le sue sarebbero state obbligate a combattere poche per volta come uscivano, non volle avventurarle; ma fece accostare al lido gli arcieri, i frombolieri, e le catapulte, che, con un continuo trarre di ciottoli e dardi, teneano lontani i nemici. Coll’altra gente intanto cominciò a trarre a mano le sue galee in quel basso fondo, in cui i Cartaginesi non poteano penetrare. Ottanta ne furono trasportate in quel giorno. Tale non prevista operazione fece credere all’ammiraglio cartaginese, che Dionigi volea fare sboccare le sue galee dall’altro lato. Però temendo o di esserne posto in mezzo, o di dover combattere con una armata doppia della sua, voltate le prore, tornò a Cartagine,
Liberato Dionigi da quell’intoppo, tutto si rivolse all’assedio. La strada fu in poco d’ora compita; le macchine furono poste in opera. Ma nè il gran numero degli assalitori, nè la sicurezza di non potere più sperare alcun soccorso straniero, fecero venir meno il coraggio de’ Moziesi, che, accorsi in sulle mura, faceano ogni maniera di resistenza. Gli assalitori cogli arieti battevano le mura; colle catapulte faceano strage de’ difensori; e torri adopravano a sei palchi, alte così che pareggiavano i tetti delle case, mosse da ruote, pieni d’arcieri e frombolieri, che respingevano i cittadini. Ma questi pertinacemente si difendevano, sulle mura alzavano lunghissime antenne, sopra le quali erano elevati uomini, armati d’usbergo, che scagliavano stoppa unta di pece ed accesa, contro le macchine e le torri, e molte ne affocavano. Un corpo di Sicoli corse a spegner l’incendio, e nello spegnerlo molti ne perivano. Perivano al tempo stesso gli assalitori e gli assaliti, o trafitti da’ dardi o pesti dai ciottoli o bruciati dalle acque e dall’olio bollenti, che a gorghi si versava.
Le mura, rotte da innumerevoli macchine, dapertutto cadevano. Gli assalitori si teneano padroni della città. Ma gli assaliti, barricate le strade, fattosi muro delle case, con più ostinazione combattevano. L’attacco divenne più mortale; chè gli assalitori doveano con più stento e maggior pericolo sgombrare i ruderi delle cadute mura, per accostare le macchine a demolire le case. Così si combattè dall’alba sino a sera, quando Dionigi fece ritrarre i suoi. Fatto poi notte, un Archilo da Turio, con una scelta schiera de’ più audaci, appoggiando le scale da una casa mezzo demolita, vi salì, e venne ad occupare un posto vantaggioso, per cui il resto dell’esercito entrò in città. V’accorsero i Moziesi; ma i loro ultimi sforzi furono vani. La città fu presa. I Siracusani, inaspriti dalla lunga resistenza, memori delle crudeltà usate dai Cartaginesi verso i Siciliani, fecero man bassa su i cittadini, che sarebbero stati tutti spenti, se Dionigi, il quale più alla vendetta mirava al pro, non potendo in altra guisa frenare l’impeto del soldato, non avesse bandito di risparmiare coloro che riparavano ne’ tempî. Così la gran parte dei Moziesi ebbero salva la vita; e da Dionigi furono venduti, tranne pochi Greci che per Cartagine aveano combattuto, capo dei quali era un Daimene, il quale una co’ compagni fu fatto morire in croce.
Immenso fu poi il bottino, tratto da’ soldati in quella opulentissima città; ed oltracciò Dionigi largamente li premiò. Archilo che il primo era salito sulle mura, ebbe cento mine (34); e tutti gli altri uffiziali e soldati all’avvenente delle rispettive azioni. Smantellate più del tutto le mura e le fortificazioni di Mozia, vi lasciò un presidio di Sicoli, comandato dal siracusano Bitone; ed egli, sul finire dell’estate dell’anno 1o della 96 Olimpiade (396 a. C.), ritornò coll’esercito in Siracusa. Leptine suo fratello restò in que’ mari con centoventi galee, per opporsi ad un nuovo sbarco de’ Cartaginesi.
VII. — Ma già Cartagine avea raccolte genti da per tutto, e pronte erano a passare in Sicilia. Erano, secondo Timeo, centomila fanti (Eforo dice trecentomila), tremila cavalli, quattrocento carri da guerra, altrettante galee e cinquecento navi onerarie. Imilcone, destinato comandante della spedizione, tenne alto silenzio sul luogo dello sbarco. E perchè Dionigi non potesse averne lingua, consegnò a tutti i comandanti delle navi un foglio chiuso e sugellato, con ordine di aprirlo in alto mare. Lettolo, vi trovarono la disposizione di fare rotta a Panormo. Mentre in quella direzione con prospero vento navigarono, Leptine che con trenta galee era in que’ mari, corse ad attaccare le prime navi. Cinquanta ne colò a fondo; sopra le quali erano cinquecento soldati e dugento carri; sopraggiunto il resto dell’armata, temendo d’esser tolto in mezzo, si ritirò.
Giunto Imilcone in Panormo, dato appena riposo all’esercitò tirò verso Mozia. Cammin facendo, ebbe per tradimento Erice; e i Sicoli, ch’erano di presidio a Mozia, inabili a difendersi in una città di cui erano state spianate le fortificazioni; a lui la resero. Era in questo Dionigi ritornato all’assedio d’Egesta. Voleano i suoi correre incontro ai Cartaginesi ed isfidarli a campal battaglia. Ma Dionigi conoscea, che a Siracusa eran dirette tutte le mire del nemico; però lasciò accagionarsi di poco cuore e in Siracusa tornò. Prima di partire consigliò le città sicole ad abbandonare le terre loro, promettendone delle migliori, ed unirsi a lui. Molti, e gli Aliciani in particolare, temendo, non egli irritato del loro rifiuto, avesse dato il sacco ai campi loro, mostrarono d’aderire; ma, dilungatosi appena, vennero a collegarsi ai Cartaginesi. Dionigi intanto, nel ritirarsi, richiamava i presidî da lui lasciati nelle città soggette, per riconcentrare tutte le forze in Siracusa.
VIII. — In questo, Imilcone si diresse con tutto l’esercito a Messena. Molto a lui calea di avere quella città; nel cui porto potea la sua numerosa armata riparare con sicurezza, ed al tempo stesso impedire qualunque soccorso, che Siracusa potesse avere dall’Italia e dal Peloponneso. Per non trovare intoppo, pattuì coi Termimeresi e Cefaledini il passaggio sul loro tenere. Insignoritisi poi dell’isola di Lipara, onde trasse una contribuzione di trenta talenti, s’avviò coll’esercito a Messena; e l’armata veniva seguendolo radendo il lido. Giunto al capo Peloro, vi si fermò. Non avea Messena allora fortificazioni tali, da potere resistere ad un’attacco vigoroso. Molti dei cittadini voleano rendersi di queto. I più, memori che un oracolo avea predetto che i Cartaginesi un giorno avrebbero portato l’acqua in Messena, interpretandolo che vi sarebbero stati servi; mandate prima nelle città vicine le mogli, i figliuoli e le cose preziose; lasciata la città, vennero fuori animosi, per impedire al nemico ogni correria. Avvistosene Imilcone, spedì dugento galee contro la città, restata indifesa. Il vento le favorì; in un attimo furono nel porto; e le genti, che sopra vi erano, presero terra. I pochi rimasti in città tentarono difendersi, ma furono sopraffatti dal numero; dugento di essi, non avendo altro scampo, si buttarono in mare per salvarsi a nôto; ma solo a cinquanta venne fatto afferrare l’opposta riva, gli altri annegarono. Coloro, che erano usciti, tornarono più che di pressa; ma vana fu l’opera loro. La città fu presa. La maggior parte de’ cittadini fuggì alle vicine castella; Imilcone corse loro appresso; li assediò; ma, trovata forte resistenza, per non dilungarsi dallo scopo principale dell’impresa, ch’era Siracusa, tornò indietro; e diede ordine di spianare la città, di cui in poco d’ora non restarono pur le vestigia. Tutte le città sicole allora, da Assoro in fuori, si unirono ai Cartaginesi.
Dionigi intanto fece venire mille mercenarî lacedemonî; provvide di viveri Leonzio e le vicine castella; pose a guardia d’Etna que’ Campani, ch’egli avea fatto abitare in Catana. Egli stesso venne fuori da Siracusa con trentamila fanti, tremila cavalli ed un’armata di centotrenta legni, fra’ quali erano poche galee. L’esercito si accampò, centosessanta stadî discosto da Siracusa, in quel promontorio, che oggi si dice capo di Agosta: l’armata restò sull’ancore in quel mare.
Imilcone al tempo stesso mosse da Messena con tutte le sue forze. L’armata comandata da Magone con tutto il naviglio si diresse a Nasso; l’esercito marciò verso il monte Tauro, che sta a cavaliere di Nasso, abitato da Siculi, i quali vi fabbricarono la città, che, dal monte sul quale fu posta, ebbe il nome di Tauromenio. Giuntovi, il Cartaginese volea direttamente avanzarsi verso Catana; ma una forte eruzione dell’Etna, che scese sino a quel lido, l’obbligò a circuire tutto il monte. Ordinò all’ammiraglio di navigare verso Catana ed aspettarvelo.
Dionigi, conosciuta la mossa del nemico, venne coll’esercito a Catana; e destinò Leptine ad attaccare colle sue navi l’armata cartaginese, raccomandandogli di non disordinarsi mai nell’attacco, e combattere sempre con tutte le sue navi. Ma quello, come fu a fronte del nemico, dimentico delle insinuazioni del fratello, staccò trenta delle sue galee e le spinse contro il centro della linea nemica. Combatterono esse con gran valore; ma ripiegatesi le due ale dell’armata nemica, furono accerchiate; intantochè, dopo aver perduta gran gente, a mal’istento poterono salvarsi. Le altre accorsero in loro ajuto; ma, non combattendosi più in linea, furono di leggieri distrutte. Assai gente perì per l’ostinato conflitto; ed assai buttatisi in mare, per non avere altro scampo, v’erano uccisi a man salva. Segnalata fu la vittoria de’ Cartaginesi. Perderono i Siciliani in quella giornata cento de’ loro legni e ventimila uomini. Voleano i soldati di terra correre incontro all’esercito cartagincse, che marciava per la giogaja dell’Etna, soprapprenderlo in quelle bricche, ove non potevano i nemici avvantaggiarsi del numero e ricattarsi della perdita dell’armata. Ma Dionigi, tenendo presente il funesto caso di Messena, temendo che mentr’egli era lontano da Siracusa, l’armata vittoriosa non corresse ad assalirla, tornò colà di volo e spedì Polisseno suo congiunto a chiedere soccorso ai Greci d’Italia, a Sparta ed a Corinto; e gente con danaro, per assoldare le milizie, mandò in tutto il Peloponneso.
IX. — Giunto Imilcone in Catania, vi si fermò pochi giorni per dare onesto riposo ai soldati. Intanto invitava i Campani, che stanziavano in Etna ed in Entella. ad unirsi a lui. Forse avrebbero costoro accettato il partito; ma l’essere molti de’ loro al servizio di Dionigi, e come statichi in poter suo, li tenne. Ciò non di manco Imilcone con tutte le sue forze tirò verso Siracusa. Entrò nel gran porto l’armata. Erano dugento ed otto legni da guerra, splendidamente ornati delle spoglie tratte ai Siciliani, nella funesta battaglia di Catana; grande era poi il numero delle navi da carico. Imilcone piantò il suo padiglione presso al tempio di Giove Olimpico. Ne dintorni si fermò l’esercito. E, perchè prevedea che quell’assedio dovea tirare assai in lungo, mandò molte barche in Sardegna ed in Affrica, per provveder viveri. Egli intanto stette un mese senz’altro fare, che devastare il contado e cinger di muro il suo campo, per cui non ebbe gli stessi scrupoli, che avea avuto in Agrigento; demolì tutti i sepolcri ch’erano lì presso, e particolarmente i due magnificentissimi di Gelone e di Demarata, sua moglie. Prese il sobborgo d’Acradina, e vi saccheggiò il famoso tempio di Cerere e di Proserpina.
Fu, in questo, di ritorno Polisseno, menando seco trenta galee, comandate dallo spartano Faracide, ed altre navi cariche di gente disse esser per sopraggiungere. Dionigi e Leptine suo fratello vennero fuori, con quaranta galee, incontro ai legni amici, per iscortarli. Le altre galee siracusane, rimaste sull’ancore, scoprirono una nave cartaginese, che portava viveri al campo nemico. Corsovi sopra cinque di esse, la presero. Mentre la menavano in città, quaranta delle galee cartaginesi vennero per ritorgliela. Mosse contro a queste tutto il resto dell’armata siracusana. Sanguinoso fu il conflitto, che ne seguì. Finalmente venne fatto ai Siracusani di prendere e colare a fondo ventiquattro delle galee nemiche; tra le quali la capitana venne in loro potere. Le altre fuggirono inseguite da’ Siciliani, che gonfi di quel vantaggio, cominciarono a provocare a battaglia tutta l’armata nemica. I Cartaginesi sopraffatti dal caso imprevisto, non vollero cimentarsi più oltre.
Tale vittoria, riportata da’ Siracusani, assente il tiranno, esaltò gli animi loro a segno, che molti già venivano istigando il popolo a cacciar Dionigi e tornare al governo repubblicano; mentre l’esser egli lontano, e l’aver essi le armi in mano, davan loro buon destro da ciò. In questo, Dionigi fu di ritorno. Convocata l’assemblea del popolo, cominciò a lodare il coraggio de’ cittadini ed a far loro cuore; assicurandoli, che presto avrebbero avuta la desiderata pace. Era per licenziar l’adunanza, quando si levò il patrizio Teodoro, che pel suo valore era appresso i Siracusani tenuto da assai. Non è da sperare, costui disse, lieto fine alla presente guerra, finchè il comando è nelle mani di Dionigi; il quale ad altro non avea mirato sin allora, che a procurare la rovina delle città greche. E qui si die’ a rammentare le gloriose gesta e gli splendidi trionfi del re Gelone. Dionigi, ei soggiunse, può solo recarsi a vanto i tempî spogliati, i beni altrui appropriati, gli schiavi fatti liberi e cittadini, i cittadini, anche più illustri o messi a morte o cacciati in bando, una rocca eretta contro il popolo siracusano, anzichè contro l’esterno aggressore, la guardia di essa affidata, ai cittadini non già, ma agli sgherri e mercenarî suoi, ai quali avea diviso le terre di Siracusa. Posto ancora che fossero per avverarsi le promesse di pace, poterne il popolo siciliano riportarne più presto danno che pro; imperocchè se i Cartaginesi si fossero insignoriti della città, avrebbero gravati i popoli di nuovi tributi; ma era da sperare, che avrebbero lasciate alla città le sue leggi: ovechè, vinti essi, più salda sarebbe divenuta l’autorità di Dionigi, il quale aver dovea più a cuore la guerra che la pace, dacchè nella guerra nulla avea da temere deI popolo, inteso a respingere il nemico, ma nella pace poteano i Siciliani levarsi in capo e scuotere il giogo. A scanso di ciò avea egli fatto sloggiare i cittadini di Gela e di Camarina: avea pattuito con Cartagine che molte città greche non fossero più abitate; e, contro la fede de’ trattati, avea in piena pace assalito Nasso e Catana, per ispianare la prima, e fare stanziare nell’altra gente straniera. Però, e’ conchiuse, ora che il presente pericolo legava le mani al tiranno, ora che il popolo era armato, dovere con unanime sforzo riacquistare la perduta libertà.
A tal discorso i Siracusani rivolsero gli sguardi allo spartano Faracide, in cui speravano trovare un sostegno: ma costui, levatosi, cominciò a ribattere l’orazione di Teodoro; e conchiuse con dire, esser egli co’ suoi venuto per difendere Siracusa contro Cartagine, non per togliere a Dionigi la tirannide. Si unirono a lui i mercenarî del tiranno, che in quel momento sopraggiunsero, e si dichiararono pronti a sostenerlo: così le speranze della fazione repubblicana andaron del tutto fallite. Ciò non però di manco Dionigi, non che avesse in appresso mostrato alcun rancore verso Teodoro e gli altri, divenne indi in poi più umano e cortese verso tutti i cittadini.
Mentre in città tali cose accadeano, un morbo letale facea strage de’ Cartaginesi. Le schiere affricane ne aveano portato il germe; ed il male si era poi dilatato e più violento era divenuto, pei disagi, per le fatiche, per lo essere i soldati ristretti in piccolo spazio, per l’aria malsana delle vicine paludi e per li straordinarî calori dell’estate, che allora correa. Il volgo superstizioso ne accagionava l’ira degli Dei, per avere Imilcone profanato i sepolcri. Febbre, catarro, enfiagione della gola, attacco de’ nervi, dissenteria, dolori acutissimi nella spina dorsale, un peso alle gambe, pustole per tutto il corpo, erano i sintomi dei male. Spesso vi si aggiungeva la frenesia; per cui l’ammalato si dava a correre per lo campo, urtava, feriva e, quel ch’era peggio, comunicava il male a quanti gli si paravano avanti. Vana era l’opera de’ medici; al quinto o sesto giorno sopraggiungeva senza scampo la morte. Sulle prime, furono destinate persone ad assistere gli ammalati e seppellire gli estinti; ma in breve tanto ne crebbe il numero, che non si dava più nè assistenza a quelli, nè sepoltura a questi. Indi avvenne, che il puzzo di migliaja di cadaveri, putrefatti anche prima della morte, accresceva a più doppî la violenza del contagio.
X. — Dionigi seppe giovarsi della crudele situazione, in cui erano i nemici. Fatto mettere in punto nel piccolo porto ottanta delle sue galee, dispose che queste, comandate da Leptine e da Faracide, il domane sul far del giorno entrassero nel porto grande e corressero sopra l’armata nemica. Egli stesso venne fuori coll’esercito, nel cuor della notte, preparato ad attaccare il campo ed i forti che i Cartaginesi aveano eretti. Era fra la sua gente una schiera di mercenarî, prodi bensì, ma indocili e sediziosi. Per ismaltirli, ordinò loro che, di unita ad una mano di cavalli, attaccassero da un lato il campo nemico. Segretamente diede ordine ai cavalieri di ritirarsi celeramente, tosto che quelli fossero venuti all’assalto. Così fecero: quei meschini, sopraffatti dal numero, tutti vi perirono.
Mentre i Cartaginesi erano intesi a respingere quell’attacco, il tiranno col resto dell’esercito corse ad assalire i forti. In questo apparve l’armata siracusana, che a golfo lanciato veniva contro le navi cartaginesi. Somma fu allora la costernazione degli Affricani. Molti corsero sulle navi per difenderle; ma già, al primo urto delle galee siciliane, assai de’ legni loro erano stati fracassati. Rallentata la difesa de’ forti, l’un dopo l’altro caddero in mano de’ Siciliani. Superato quell’intoppo, Dionigi corse ad appiccare il foco a quaranta galee nemiche, ch’erano presso al lido. Fu vana ogni opera per ismorzar l’incendio; la fiamma rapidamente si appiccava da un legno all’altro. Coloro che sopra vi erano saltavano in terra, per ischivar la morte, e morte incontravano per mano dei Siracusani. Così mentre i Cartaginesi s’affaticavano a difendersi in mare ed in terra, perivano a migliaja ed in terra ed in mare. La notte pose fine a tanta strage. Dionigi si fermò presso il tempio di Giove e ’l campo nemico.
I forti espugnati, l’armata quasi del tutto perduta, l’esercito più che dimezzato dalla morìa e dalle spade siracusane, Imilcone era ad un pelo di restar preso coll’avanzo delle sue genti. Il funesto caso de’ comandanti ateniesi era presente alla sua memoria. Per cansare tal pericolo, mandò la notte stessa ad offerire trecento talenti a Dionigi, per avere libero il ritorno in Affrica coll’esercito. Il tiranno, che mirava sempre a trarre il maggior pro, che potea, dalle sue imprese col minore suo rischio, rispose che nè i Siracusani, nè gli alleati avrebbero mai consentito a lasciarli partire di queto; ma se a lui si fosse pagato quel danaro, avrebbe fatto modo che i soli Cartaginesi di soppiatto fuggissero. Fu forza accettare il partito. Fu consegnato entro la rocca il danaro. Dionigi si ritrasse coll’esercito in città. Imilcone co’ Cartaginesi, saliti sopra quaranta galee, solo avanzo dell’armata, abbandonato il campo e le bagaglie, nottetempo fuggirono. Avvistosene i Corinti, corsero a darne avviso a Dionigi. Se ne mostrò sorpreso. Finse dare ordine di armar le galee, per correr sopra ai fuggitivi; intanto menava in lungo le cose, per dar loro campo di scostarsi. I Corintî, impazienti, partirono soli; ma i Cartaginesi tanto si erano dilungati, che appena poterono raggiugnere le ultime galee, ed affondarne alcune.
Di tutto l’esercito, venuto all’assedio di Siracusa, centocinquantamila n’eran periti, per le malattie e per la guerra; le schiere che restavano abbandonate da’ Cartaginesi, si sbandarono. Ai Sicoli venne fatto di ritrarsi alle case loro. Gli altri, soprappresi da’ Siracusani, furono tutti tratti in ischiavitù. Solo un corpo di Iberi, ristrettisi in uno, ottennero, minacciando resistenza, di passare al servizio di Dionigi.
Immense furono le spoglie trovate nel campo. Fu ritolta con usura la perdita sofferta nella battaglia di Catana. Imilcone, giunto in Cartagine, non potendo patire il rossore di tanta disfatta, si lasciò morire d’inedia.