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SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA] CAPITOLO VII. I. Dionigi ripopola Messena; edifica Tindari; assedia Tauromenio; disfà i Cartaginesi; muove contro Reggio. — II. Lega delle città italiane. — III. Nuova spedizione de’ Cartaginesi; pace. — IV. Imprese di Dionigi in Italia; assedia Reggio; l’espugna. — V. Altra spedizione dei Cartaginesi; vittoria; disfatta. — VI. Morte di Dionigi; suo governo; suo carattere. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I. — Cessata la guerra, i soldati mercenarî, gente per lo più rigattata, divennero più insolenti del solito; perocchè l’andar creditori degli stipendî, che durante la guerra non erano loro stati puntualmente pagati, dava loro ragione o pretesto di insolentire. Diecimila di costoro capitanati dallo spartano Aristotile, chiedeano gli stipendî, e minacciando li chiedeano. Dionigi, per attutire la loro arroganza, ne imprigionò il capitano. Le minaccie divennero più aperte. Era per nascere alcun grave sconcerto. Dionigi promise loro di mandare Aristotile a Sparta, e rimettere ai cittadini di lui il giudizio dei delitti, che gli apponea. Assegnò poi ai gregarî la città e ’l contado di Leonzio, in isconto degli stipendî dovuti; di che, per l’ubertà del paese, furono lieti. Disfattosi così di costoro, per la sicurezza della sua persona e del suo stato, nuova gente assoldò.
Al tempo stesso, per fare risorgere la distrutta Messena, vi mandò a stanziare mille Locresi, quattromila Medimnei e seicento Messenî, cacciati dagli Spartani dal Pelopponeso, da Zacinto e da Naupatto. Sparta s’ebbe a male, che quest’ultimi avessero avuto per loro stanza una città di gran nome. Dionigi, per non dare alla repubblica ragione di querela, diede a quegli esuli parte del territorio di Abacena, ove fabbricarono una nuova città, che Tindari dissero (35). Cessato allora il timore della guerra, que’ Siciliani, che per cansare la servitù erano iti qua e là tapinando, rimpatriarono: così la Sicilia venne ripopolandosi.
I Reggini, in questo, ch’erano i più ostinati nemici di Dionigi, credettero, e forse ben s’apponeano, ch’egli avesse fatta risorgere Messena, per potere più facilmente portare le armi contro di loro. Però, chiamati in ajuto gli esuli siracusani, e quanti erano nemici del tiranno, sotto il comando del Siracusano Elori, vennero ad assediare Messena; ma i nuovi cittadini, uniti ai mercenarî di Dionigi, vennero fuori; li ruppero; corsero diviati ad assalire Mile, ove si erano rifuggiti i Nassî e i Catanesi, che Dionigi avea cacciati dalle città loro; e l’espugnarono. I Nassî, che forse a tal patto s’erano resi, ebbero libertà e cercarono stanza in altre città dell’isola.
Non pago di tal vantaggio, Dionigi credè opportuno il momento di trar vendetta da’ Reggini, pel rifiuto di dargli una moglie, e per la insolente risposta. Procuratosi prima l’amicizia delle città lungo lo stretto, imprese a sottomettere que’ Sicoli, che aveano edificato Tauromenio, i quali poteano essergli infesti nella spedizione che meditava. Nel cuor dell’inverno dell’anno 3o della 96 Olimpiade (394 a. C.), venne a cingere la città d’assedio. Nè l’asprezza dei luoghi, nè il rigore della stagione, per cui ogni cosa era piena di neve, lo disanimarono; che anzi, sperando che gli abitanti, fidati nelle naturali difese, fossero poco vigili nel far le scolte, per coglierli alla sprovveduta, una notte procellosa e senza luna, inerpicandosi per quelle bricche, gli venne fatto d’insignorirsi di uno dei forti, e facilitar la strada al resto dell’esercito per accostarsi alla città. Accorsovi gran numero i Tauromenî, volsero in fuga gli assalitori, de’ quali molti vi lasciarono le armi e molti la vita. Egli stesso, offeso gli occhi dal ghiado, ferito nel volto, cadde per un colpo ricevuto sulla corazza, e fu per restarvi preso; pure ebbe dicatti fuggire, lasciandovi tutta l’armatura, tranne l’usbergo.
Divulgatosi e forse con esagerazione, tal disastro, Messena ed Agrigento rinnegarono l’autorità di Dionigi e tornarono al governo popolare. Presto riebbe Messena con un tranello. Saputo che molti dei maggiorenti erano in voce d’essere suoi amici, pose ogni studio ad accrescere tali sospetti, per commettere male frai cittadini. Devastando il contado, risparmiava i poderi di costoro; un soldato fu da lui fatto entrare in Messena, cui consegnò un talento d’oro, con ordine di ripartirlo fra que’ tali. Soprappreso il soldato, o fattosi egli stesso sopraprendere, svelò l’incarico avuto. Il popolo tumultuando cominciò a chiedere la punizione dei traditori; nel subuglio Dionigi entrò senza resistenza in città e se ne fece padrone.
Magone intanto, già ammiraglio ed ora pretore di Cartagine, che in Sicilia allora era, tentò di rimettere le cose de’ Cartaginesi. Raccogliendo gli sparsi avanzi dell’esercito disfatto, stringendo lega co’ Sicoli, mostrandosi umano e carezzevole coi Greci nemici del tiranno, venne a raggranellare un piccolo esercito; col quale, l’anno 4 dell’Olimpiade 96 (393 a. C.), accostatosi prima a Messena, ne devastò le campagne, e, carico di preda, venne a fermarsi presso Abacena, città che era dalla sua. Qui sopraggiunto Dionigi col suo esercito, si venne alle mani. Il Cartaginese, perduto in quel conflitto ottocento dei suoi, si ritrasse in Abacena.
Dionigi tornò allora in Siracusa. Non guari dopo ne venne fuori con cento galee, cariche di soldati; e corse ad assalire Reggio. Giuntovi, mise foco alle porte ed appoggiò le scale alle mura. I pochi cittadini, che all’impensato assalto si trovavano in armi, accorsero per ispegnere il foco. Elori da Siracusa, che il comando avea della terra, visto che, per lo scarso numero dei difensori, mentre questi s’affaticavano per ispegnere l’incendio, il nemico potea penetrare altronde in città, consigliò ai Reggini di accrescer più presto le fiamme. E quelli, raccolti legne e sermenti per tutto, vi appiccaron foco. La fiamma tanto alto si levò, che gli assalitori ebbero a farsi indietro. Ciò diede tempo agli altri cittadini di accorrere; onde Dionigi fu forzato a ritrarsi. La notizia sopraggiuntagli di una nuova spedizione, che si preparava in Cartagine, l’obbligò a conchiudere coi Reggini la sosta d’un anno, e fare ritorno in Sicilia.
II. — Intanto le città greche della bassa Italia, che allora Magna Grecia avea nome, conosciuto che le spesse incursioni di Dionigi, più che contro Reggio, eran dirette contro la libertà di tutte; si strinsero in lega comune contro lo ambizioso tiranno di Siracusa e contro i Lucani che per lui parteggiavano. Ma le armi cartaginesi, già venuti in Sicilia, diedero per allora pace all’Italia.
III. — Cartagine, comechè spesso abbattuta, non depose mai l’ambizione di sottomettere tutta la Sicilia. E così copiose erano le sorgenti di sua dovizia, che, tosto dopo la sconfitta, era in istato di raccattar gente di qua e di là (chè i soldati suoi erano in massima parte mercenarî), e tornare più animosa al cimento. Nell’anno 1o della Olimpiade 97 (392 a. C.), Magone, meno esperto e più disgraziato capitano d’Imilcone, fu preposto al comando dell’esercito spedito in Sicilia, che si vuole di ottantamila combattenti.
Posto piede a terra, si diresse costui ad Agira, sperando trarre quei cittadini alla sua. Reggea la terra un Agiri, d’armi e di dovizie potente innanzi ad ogni altro siciliano tiranno, da Dionigi in fuori. Negatosi egli ad entrare in lega cogli stranieri, il punico generale nè s’attentò di stringervelo colla forza, nè seppe andare incontro a Dionigi, che già era in via, per impedire la congiunzione delle costoro forze. Si fermò, come stando infra due, sul tenere d’Agira presso al fiume Crisa, detto oggi Dittaino; e la strada per a Morganzio. Dionigi, il cui esercito non oltrepassava i ventimila combattenti, come fu presso al nemico, conosciuto, per suoi messi che lo precessero, l’animo d’Agiri, con pochi compagni venne in Agira. Strinsero lega. L’Agirino unì le sue alle forze siracusane; diede, senza volerne prezzo, tutti i viveri, di cui i nuovi alleati aveano mestieri nella campagna; e Dionigi gli promise un aumento di territorio, se le cose loro giungeano a lieto fine. Venuti fuori, si diedero a travagliare il nemico con mostrarglisi ora di fronte, ora sui fianchi, ora alle spalle; e dargli continui gangheri, senza venir mai alla prova delle armi. E per esser eglino più pratichi de’ luoghi, guardavano tutte le vie, ed intraprendevano i viveri e i foraggi, diretti al campo cartaginese; intantochè Magone, col suo numeroso esercito, venne presto a patir di fame. Voleano i soldati di Dionigi venire alle mani; ma il cauto lor capitano, sicuro di vincere senza avventurare la sua gente, sempre si negò. Di ciò disgustate alcune delle sue schiere, lo abbandonarono. Egli vi riparò con dar libertà agli schiavi. Ma poco poterono egli fruirne; chè i Cartaginesi, stanchi di tal maniera di guerra, sul punto di perir tutti d’inedia, chiesero pace e la ebbero: però gli schiavi furono restituiti ai loro padroni.
Il partito poi della pace fu, che le città dei Sicoli, compresavi Tauromenio, venissero sotto il dominio di Dionigi. Magone sgombrò il paese. Dionigi, entrato in Tauromenio, ne cacciò i Sicoli, e la ripopolò con una mano di mercenarî a lui fidi.
IV. — Allontanato il pericolo, accresciuto il suo stato, tornò Dionigi alla guerra d’Italia (anno 3o Olimpiade 97: 390 a. C.). Con un esercito di ventimila fanti e mille cavalli, ed un’armata di centoventi galee, pose a Locri; e poi venne saccheggiando tutto il tenere di Reggio. In quell’estremo lido si fermò; e l’armata vi venne piaggiando. Le città greco-itale, giusta i patti della lega, spedirono sessanta galee in soccorso di Reggio. Dionigi andò loro contro con cinquanta de’ suoi legni. Le volse in fuga, e, mentre esse afferravano il lido di Reggio per salvarsi, i Siciliani, accappiatene le poppe, le tirarono in mare. I Reggini accorsi, a furia di dardi li molestavano. Una fiera tempesta si levò in quel momento, per cui le navi siracusane sbattute dalla violenza delle onde, si rompevano urtando tra esse, o arrenavano sul lido di Reggio, e vi erano prese a man salva. Sette se ne perderono, e con esse millecinquecento uomini o annegati o trafitti o presi. Dionigi stesso potè a malo stento salvarsi su d’una quinquereme, guadagnando a notte avanzata il porto di Messena: e quindi, per essere già imminente l’inverno, conchiusa prima allenza co’ Lucani, si ridusse coll’esercito in Siracusa.
In quell’anno stesso i Lucani ebbero guerra coi Turî. In una battaglia questi furono rotti. Coloro fra essi che cansarono la morte, si ritrassero sopra un colle presso il mare; onde scoprirono alcune galee, che venivano a quella volta. Credutole amiche, scesero al lido, e molti, buttatisi in mare, giunsero sopra que’ legni. Erano essi Siracusani comandati da Leptine, che venivano in ajuto de’ Lucani. Ciò non di manco, Leptine ebbe commiserazione di costoro; li riceve tutti sulle sue navi (erano oltre mille); e, giunto a terra indusse i Lucani a lasciarli liberi, a patto di pagare ognuno di loro una mina d’argento (36), facendosi egli mallevadore per essi. Al tempo stesso, fece pacificare i Lucani con tutte le città greche di quelle parti.
Per questa nobile e virtuosa azione, lungi di riportare gli applausi del fratello, n’ebbe mala voce; a segno che lo rimosse dal comando dell’armata, che affidò all’altro fratello Tearide. Volea Dionigi che, invece di pacificare que’ popoli, si fosse impegnato a commetter male tra essi, perchè si fossero scambievolmente macerati; onde gli fosse venuto agevole in appresso sottometterli tutti. Empio pensiere, cui le moderne età hanno dato il nome più solenne, ma non meno turpe, di politica (an. 4 Olimp. 97: 389 a. C.).
L’anno appresso tornò Dionigi alla guerra d’Italia. Venuto prima a Messena, spedì Tearide con quaranta galee a dar la caccia ad un’armatella di dieci galee reggine, che sapea essere ne’ mari di Lipara. Furono prese e condotte a Messena. Dionigi, messi in ceppi quanti erano sopra que’ luoghi, li lasciò in custodia de’ Messenesi. Valicato lo stretto, andò a cinger d’assedio Caulona. Le città collegate, per soccorrerla, riunirono le loro forze in Crotone, e ne diedero il comando al siracusano Elori; chè assai Siracusani, banditi dal tiranno, andavano in que’ tempi raminghi per le città della Magna Grecia. Elori, con venticinquemila fanti e presso a duemila cavalli, a grandi giornate s’avanzò verso Caulona. Giunto sul fiume Elori, fece fermare l’esercito, ed egli con cinquecento scelti soldati s’avanzò. Dionigi gli venne incontro, ed al far del giorno l’assalì. Elori, comechè colto all’impensata, cominciò a difendersi, e spedì messi al suo esercito per accorrere. Quei messi, qual ne fosse stata la cagione, tardarono; però, quando l’esercito alleato arrivò, Elori e’ suoi compagni, pertinacemente combattendo, erano tutti periti. Gl’Italiani rinfrescarono la battaglia, che fu gran pezza ostinata e sanguinosa; pur finalmente, scuorati dalla notizia divulgatasi della morte d’Elori, furono volti in fuga. Molti ne furono poi presi e morti da’ Siciliani, che l’inseguivano. Una numerosa schiera si ritrasse sur un’erto colle. Dionigi li accerchiò. Arido era il sito. Vi stettero tutto il giorno e la notte appresso. Finalmente la sete, la fame, la stanchezza, il disagio, li vinsero. Chiesero al vincitore la libertà di ritrarsi a qual prezzo gli fosse a grado; rispose che si rendessero a discrezione. Si negarono da prima; ma dopo otto ore fu loro forza arrendersi. Deposte le armi, scesero, Dio sa con qual cuore, l’un dopo l’altro al piano. Dionigi, picchiando il suolo col bastone, li numerava. Sommarono a diecimila e più. Mentre s’aspettavano di essere messi in ceppi, Dionigi diede loro libertà senza ricatto; e pace diede alle città della Magna Grecia, senz’altra condizione, che quella di staccarsi dall’alleanza co’ Reggini. In merito di tale azione fu presentato di una corona d’oro.
Reggio, rimasta sola chiese pace anch’essa. L’ebbe ma a ben duro partito. Si vollero trecento talenti, cento statichi e tutta l’armata di settanta galee. Venuto poi Dionigi a Caulona, che a lui s’era resa, la spianò; ne diede il territorio ai Locresi; e ne trasferì a Siracusa gli abitanti, ai quali diede la cittadinanza e cinque anni d’immunità. Lo stesso fece l’anno appresso d’Ippona.
La pace data a’ Reggini fu foriera dell’estrema loro sciaura. L’anno 1o dell’Olimpiade 98 (388 a. C.), venuto Dionigi a fermarsi con tutte le sue forze sullo stretto, come a tutt’altro inteso, cominciò a chiedere a quei cittadini viveri per tutta la sua gente, promettendo di pagarli fra poco. Pensava egli che per tal modo o avrebbe consumata la loro annona, se ne davano, e li avrebbe reso inabili a sostenere un lungo assedio; o, se si negavano, avrebbe avuto un pretesto di ricominciare la guerra. I Reggini da prima diedero vettovaglie in copia; ma quando videro che il tiranno menava in lungo senza ragione la sua dimora in quelle parti, venuti in sospetto dell’inganno, non vollero darne più oltre. Avuto allora Dionigi il destro che cercava, restituì gli ostaggi e si preparò all’assalto.
I Reggini, comechè disperati di soccorso, si accinsero con gran cuore alla difesa. Quanti erano atti a portar le armi, le presero; e, capitanati da un Pitone, fecero mirabili prove. Non che si difendevano entro le mure delle numerose macchine poste in opera dagli assalitori; venivano spesso fuori e le incendiavano. In varie sortite molti di essi perivano; ma non minore era il numero dei nemici che cadevano. Lo stesso Dionigi in uno di quegl’incontri fu per lasciarvi la vita, ferito di lancia presso il pube; ed assai tempo passò prima di guarirne. Però, disperando di prendere la città d’assalto, la cinse d’assedio. Padrone del mare che gli infelici Reggini non avean più una scafa; padrone della campagna, chè nessuno si movea in favor loro, potè accerchiare la città in modo, che impossibile divenne il trar viveri ed altro da fuori.
Ciò non però di manco, i Reggini non si piegarono. Quando ebbero logorati tutti i viveri, si diedero a mangiare i cavalli, i cani e fino i più sozzi animali; e, finiti anche questi, ne bollivano le cuoja per cibarsene; e venivan fuori per addentar la poca erba, che nascea lungo le mura (37). Dopo undici mesi d’assedio, peritine gran numero di fame, i pochi, che mal vivi restavano, s’arresero (an. 2o Olimp. 98: 387 a. C.). Trovò Dionigi la città popolata solo di cadaveri; perocchè, dal lento muoversi in fuori, i vivi non erano allo aspetto dissimili dagli estinti, che a migliaja ingombravano le contrade. Pure quello spettacolo non valse ad allentare la rabbia del tiranno. Quindicimila di quegli sciaurati furono mandati in catena a Siracusa; degli altri, ebbero libertà coloro che si ricattarono al prezzo d’una mina; quelli, che non aveano da pagare tal danaro furono venduti alla tromba.
Ciò fu un nonnulla appo le crudeltà, con cui fu trattato il comandante Pitone. Fattone prima buttare in mare il figliuolo, lo fece legare ad una alta macchina e condurre per la città, ferocemente battendolo cogli scudisci. Pure, non che avvilirsi, ivasi Pitone recando a gloria il soffrire tanto per non aver tradito la patria. Dettogli che il figliuolo era stato, il giorno avanti, annegato, rispose: Sarà felice un giorno più di me. I soldati stessi del tiranno sentiron pietà di quell’infelice; altamente ne mormoravano; tanto che Dionigi, temendo uno sconcerto, pose fine alla tragedia con mettere a morte lo sventurato una con tutti i suoi. Vuolsi che costui sia stato, un tempo, tanto amico e familiare del tiranno, che gli confidava quanto avea in animo di fare contro Reggio. Egli, per non tradire la patria, allontanatosi dall’amicizia di lui, era venuto ad avvertire i suoi concittadini con isvelar loro i secreti pensieri di quello.
Debellati i Cartaginesi, rese come a lui soggette le città della Magna Grecia, appagata la sua vendetta contro i Reggini, si rivolse Dionigi a più lontane imprese. Strinse lega cogl’Illirici; fondò colonie nell’isole del mare Adriatico, acciò le navi siracusane trovassero, da per tutto, amico ricovero. Al tempo stesso abbelliva e rendea più magnifica Siracusa, fabbricandovi darsene, tempî, ginnasî.
Avido di danaro per sostenere tante imprese, e poco scrupoloso de’ mezzi di averne, venuto fuori con sessanta galee, corse a saccheggiare, sulla spiaggia d’Etruria, un famoso tempio presso Agilla; dal quale trasse mille talenti. Accorsero gli Agillesi, per vendicare il sacrilegio, ma furono disperse dal tiranno; il quale altri cinquecento talenti trasse dalle loro spoglie e dal sacco dato a quel paese. Impiegò quel danaro a far preparamenti per la guerra, che volea muovere a Cartagine. Venne ribellando alcune delle città, alla repubblica soggette. Ne fu chiesta la restituzione; si negò. La guerra fu dichiarata.
V. — L’anno 2o dell’Olimpiade 99 (383 a. C.) Magone, che allora avea titolo di re, mosse da Cartagine con grande esercito; di cui mandò parte nella Magna Grecia, e parte seco menò in Sicilia, per attaccare da ambi i lati il tiranno siracusano. Anche costui mandò alcune schiere in Italia; ma tenne le più scelte e numerose sotto di sè. Dopo varie avvisaglie di lieve momento, venuti a campal battaglia i due eserciti, vi perdè la vita lo stesso Magone con diecimila de’ suoi, e cinquemila ne restarono prigionieri. Il resto del punico esercito chiese pace. Dionigi, gonfio della segnalata vittoria rispose: che avrebbe posate le armi, solo quando i Cartaginesi, cedutogli quanto possedeano in Sicilia, avessero sgombrato del tutto il paese. Risposero: essere pronti ad aderire, ma non averne facoltà; però proposero una sosta, per aver tempo di far sapere in Cartagine lo stato delle cose, ed ottenere da quel senato l’approvazione alla proposta pace. Dionigi malavvedutamente vi aderì. I Cartaginesi impiegarono il tempo della tregua a raccorre nuova gente. Ebbe il comando dell’esercito il figliuolo del morto Magone; il quale, tutto giovane che era, seppe far buon uso del tempo, per disciplinar meglio i suoi soldati. Spirata la tregua, lungi di aderire alle dure condizioni proposte, si ripigliò la guerra. Toccò allora a Dionigi a pagare lo sconto. In una battaglia ebbe uccisi quattordicimila soldati, fra’ quali il pro’ Leptine, suo fratello.
Ottenuta la vittoria, i Cartaginesi si ritrassero in Panormo; e quindi proposero eglino stessi la pace. Dionigi ebbe ad aderire alle condizioni di restare sotto il dominio di Cartagine, oltre alle città che prima vi avea, Selinunte, e tutto quel tratto del territorio agrigentino, che stendeasi al di là del fiume Alico, detto oggi di Delia; e di pagare a Cartagine mille talenti per le spese della guerra.
Bastò quattordici anni la pace; durante la quale due volte mandò Dionigi soccorsi fino in Grecia agli Spartani suoi alleati. L’anno 3o dell’Olimpiade 101 (374 a C.) era Sparta in guerra contro Atene. Questa era alleata del re di Persia; quella del tiranno di Siracusa. Nove galee furono da questo spedite in Grecia. Incontrate dall’armata ateniese, vi restarono prese; ed Atene trasse sessanta talenti dalla vendita di esse e di tutti coloro, che sopra vi erano.
L’anno 4o poi dell’Olimpiade 102 (369 a. C.), quando Sparta, perduta la battaglia di Leuttre, era stretta dal valoroso Epaminonda, Dionigi vi mandò duemila mercenarî galli ed iberi, anticipando loro gli stipendî di cinque mesi. Assai si segnalarono costoro; e ritornarono in Sicilia altamente lodati e generosamente ricompensati.
Dopo il lungo ozio, riprese Dionigi le armi contro Cartagine. Nell’anno 1o dell’Olimp. 103 (368 a. C.) venne fuori, con un esercito di trentamila fanti e tremila cavalli, ed un’armata di trecento galee. S’insignorì di Selinunte, Entella ed Erice. Volle assalire Lilibeo; e ne fu respinto. Avuto notizia che il foco s’era appiccato all’armata cartaginese, credutola tutta perita, rimandò la maggior parte de’ suoi legni a Siracusa, lasciatine solo centotrenta nel porto di Erice. Ma il foco avea fatto poco danno al naviglio affricano. Dugento di quelle galee vennero ad attaccare alla sprovveduta i Siracusani; e la maggior parte dei legni loro furono presi o distrutti. Sopraggiunto l’inverno, si fece posa al combattere; ma Dionigi non potè più ricominciare quella guerra.
Un oracolo (nè oracoli, che indovinavano dopo l’accaduto, mancavano in quell’età) avea detto che egli dovea morire, quando avrebbe vinto i migliori di lui. Vuolsi ch’egli, credendo che l’oracolo parlava de’ Cartaginesi, per non fare avverare il vaticinio, non avesse mai osato portar le cose agli estremi contro d’essi. Ma non dei Cartaginesi, de’ poeti l’oracolo intese dire; imperocchè Dionigi avea la follia di credersi poeta migliore di tutti, ovechè tutti i poeti erano migliori di lui. Gli adulatori lo confermarono tanto in quella insania, che mal ne incoglieva a coloro, che osavano disprezzare i suoi versi.
Filosseno da Citera, buon poeta ditirambico, era una volta a mensa con lui: letto un suo poema, il tiranno ne chiese il parere del poeta. Non vale il fastidio d’udirlo con incivile franchezza colui rispose. Stizzito Dionigi, lo fece carcerare. Trattonelo il domane per l’intercessione degli amici, gli lesse un altro poema. Filosseno, rivolto alle guardie, disse loro: Riconducetemi al carcere. L’arguzia fece ridere lo stesso Dionigi. Un’altra volta lettogli alcuni versi d’una sua tragedia: Sono compassionevoli, disse il poeta; e ’l tiranno interpretò il detto in favor suo.
Il grande oggetto dell’ambizione di Dionigi era il riportare il premio ne’ giuochi olimpici. Nell’entrare dell’Olimpiade 97 (392 a. C.), mentre assediava Reggio, mandò in Olimpia il fratello Tearide a disputare per lui il premio della poesia e della corsa de’ carri. Vi giunse costui con magnificentissimo apparato. Cavalli de’ migliori fra i bellissimi che in quell’età ne producea la Sicilia; carri di straordinaria leggiadria, padiglioni, tessuti d’oro con delicatissimo disegno; ed un coro di scelti cantori, per declamare le poesie.
Sulle prime la splendidezza degli arredi e la bella voce de’ cantori attirarono la maraviglia e il concorso del popolo. A poco a poco l’illusione venne meno; i versi parvero, com’erano, cattivi; il popolo cominciò a dileggiarli; passò poi agli urli; e finalmente ne venne in tanto fastidio, che saccheggiò le tende. Non più fortunato esito ebbe la corsa de’ carri: alcuni di questi, uscendo dalla carreggiata, andarono sossopra; altri urtando fra essi si ruppero. Per soprassoma di sventura, la nave, che riportava gli avanzi di quella spedizione, assalita da fiera tempesta, a malo stento potè salvarsi nel porto di Taranto; e quindi Tearide e gli altri, dolenti e scornati. si ridussero a Siracusa.
VI. — Quel contrattempo non guarì Dionigi dalla smania di poetare. L’anno 3o dell’Olimpiade 98 (386 a.C ), mandò altri poemi in Olimpia, collo stesso esito. Ne fu per impazzire. Finalmente la fortuna gli fu più propizia in Atene. Celebrandosi ivi le feste di Bacco, vi mandò una sua tragedia, che fu premiata. Avuta la lieta notizia, poco dopo d’aver conchiusa la tregua co’ Cartaginesi, si diede pel giubilo ad ogni maniera d’intemperanza. In uno stravizzo fatto co’ suoi amici, tanto mangiò, e bevve così smodatamente, che ne tramortì; ed ivi a poco finì di vivere nel 63o anno della sua vita e 38o della tirannide.
Quanti hanno scritto di quest’uomo, da Diodoro in poi, lo dipingono come un despoto crudelissimo, senza fede, senza religione. Ma è da considerare, ch’egli ebbe ad aver nemici tutti i repubblicani; i quali ed a viva voce e negli scritti loro, si studiavano di denigrarne il nome. Un tale linguaggio, che allora poteva anzi essere una prova della libertà del popolo, adottato dagli storici posteriori, e per essi a noi tramandato, è divenuto argomento della servitù de’ Siracusani. Forse, se le storie dì Filisto fossero a noi giunte, conosceremmo meglio la natura del governo di Dionigi e ’l carattere di lui. Pure i fatti stessi narrati da Diodoro e dagli altri mostrano, che il tiranno non era despoto. L’assemblea del popolo da lui ne’ casi più gravi chiamata; la guerra contro Cartagine, stanziata dal popolo; i messi, spediti a dichiarar la guerra in nome del popolo; l’adunanza del popolo, convocata dopo la morte di Dionigi I, per esserne riconosciuto il figlio, provano che la somma autorità era nel popolo; e ’l tiranno aveva solo il comando delle armi e ’l potere esecutivo. E basta il discorso tenuto da Teodoro a mostrare quanto la parola era libera in tali adunanze.
Tali fatti ci fanno conghietturare, che il governo di Siracusa in quell’età non guari differiva da quello, ch’ebbe, sino a pochi anni or sono, l’Olanda. Il tiranno e lo statoder tramandavano l’autorità ai loro successori; entrambi spesso ne abusavano; nè meno gravi, nè meno frequenti erano gli abusi della schietta democrazia. Ned è da dubitare, che se Guglielmo e Maurizio d’Orange non fossero stati, l’Olanda sarebbe tornata al giogo di Filippo II; e senza Gelone e Dionigi, Cartagine avrebbe sottomessa del tutto la Sicilia. Ed ove si ponga mente alla moderna storia d’Olanda; alle continue lotte tra il partito repubblicano e quello dello statoder; allo spesso espellere e richiamare di esso; alla strage de’ prodi e virtuosi fratelli di Witt; alle accuse di tirannia, che si facevano allo statoder; ed agli avvenimenti del 1787 (38); sembra vedere rinnovata la storia di Siracusa, e tornano in mente le occulte mene di Dionigi, la mano a lui data dagli stranieri, i delitti e le aperte violenze di lui, per giungere alla tirannide.
Per quanto poi concerne il privato carattere di costui, possiam dire, che la sua lunga e costante amicizia con Filisto e Dione da non lieve argomento di credere che non era nè scevro di virtù, nè affatto nemico di libertà. Filisto, coltissimo ingegno, scrisse la storia d’Egitto in dodici libri; quella di Sicilia in undici; quella dello stesso Dionigi in sei, con tanta lode, che Cicerone lo chiama: Piccolo Tucidide. Un’anima servile non avrebbe potuto avere alcun che di simile a Tucidide. Dione era grande amico di Platone, publicamente professava filosofia; ed in quell’età filosofo e di libero pensare, era tutt’uno. In tale stato era costui appresso il tiranno, di cui altronde era cognato, per esser fratello dell’Aristomaca, che lo indusse a chiamare a se Platone, che allora era venuto in Sicilia, per osservare da presso l’Etna; sulla speranza che il filosofo avesse indotto il cognato a deporre la tirannide. Platone venne. Fu ben accolto da prima. Ma gli austeri modi suoi stizzirono il tiranno. Caduto una volta discorso sulla tirannide, diceva Platone, essere incompatibili tirannide e virtù. Parlare da insano, disse adirato Dionigi; Parlar da tiranno, rispose con piglio severo il filosofo, che allora fu rimandato. Si narra aver Dionigi dato ordine al padrone della barca, che dovea condurre Platone in Atene, di metterlo a morte; ch’egli, in vece di ciò, lo abbandonò nell’isola d’Egina, ove fu preso e venduto; ricattato poi dagli amici, tornò in Atene. Ma il non esser concordi gli storici intorno a ciò, può far mettere in dubbio tal fatto.
Che che ne fosse stato, non è da dubitare che Dione continuò ad essere amico del cognato; come non è da negare, che Dionigi seppe concepire e recare ad effetto grandissime imprese; che il nome siciliano divenne per lui formidabile per tutto, che rese Siracusa magnifica, erigendovi gran numero di sontuosissimi ed utilissimi edifizî. E se in molte occasioni si mostrò crudele, vendicativo, simulato ed empio; in molte altre fu nobile, generoso, magnanimo, sagace e prode. Però può dirsi, avere egli sortito dalla natura tutte le buone e ree qualità, necessarie per afferrare il supremo potere in una repubblica, e tenerlo tanto a lungo.