Niccolò Palmeri
Somma della storia di Sicilia

SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA]

CAPITOLO VIII. I. Prime operazioni di Dionigi II. — II. Venuta di Platone in Siracusa. — II. Esilio di Dione: ritorno di Platone in Grecia: viene un’altra volta in Siracusa: ne parte — IV. Dione si apparecchia alla guerra: giunge in Sicilia: entra in Siracusa. — V. Arrivo d’Eraclide: Dionigi abbandona Siracusa. — VI. Dione si ritira in Leonzio: ritorna in Siracusa: è messo a morte: Dionigi ripiglia la tirannide.

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CAPITOLO VIII.

I. Prime operazioni di Dionigi II. — II. Venuta di Platone in Siracusa. — II. Esilio di Dione: ritorno di Platone in Grecia: viene un’altra volta in Siracusa: ne parte — IV. Dione si apparecchia alla guerra: giunge in Sicilia: entra in Siracusa. — V. Arrivo d’Eraclide: Dionigi abbandona Siracusa. — VI. Dione si ritira in Leonzio: ritorna in Siracusa: è messo a morte: Dionigi ripiglia la tirannide.

I. — Morto appena il vecchio Dionigi, il maggiore de’ figliuoli, che avea avuti dalla Doride, che anche Dionigi avea nome, lasciato dal padre erede della tirannide, convocò l’assemblea del popolo, per esserne riconosciuto; e lo fu. Nessun principe ha mai principiato a regnare con circostanze più prospere. Un vasto dominio; un popolo già per lunga consuetudine uso alla monarchia; pace con tutte le nazioni; un esercito di centomila fanti e diecimila cavalli; un’armata di quattrocento galee; arsenali zeppi d’armi e di macchine; immensi tesori. Ognuno avrebbe presagito un governo gloriosissimo. Pure è ben difficile trovar nella storia più terribile esempio delle umane vicende.

Il vecchio Dionigi avea fatto crescere il figliuolo affatto ignaro de’ pubblici affari. Chiuso, finchè visse il padre, nell’interno del palazzo, non avea avute altre discipline, che giullerie e puerili sollazzi. Venuto al trono, fatto prima erigere al padre un magnifico sepolcro entro la rocca, per procacciarsi il pubblico favore, liberò tremila prigioni dalle carceri; e rilasciò al popolo tre anni d’imposte.

Era allora per ispirare la tregua conchiusa dal morto tiranno coCartaginesi. Il giovane e dappoco Dionigi, pieno di paura, chiamò a consiglio i cortigiani, per discutere ciò ch’era da fare. Mentre gli altri si mostravano non men paurosi di lui, Dione cominciò a rimproverare la costoro ignavia; mostrò poi lo stato florido del paese, per cui potea Dionigi scegliere a senno suo la pace senza viltà, la guerra senza timore. Se volea la pace, si offrì ad andare egli stesso a trattarla in Cartagine; se la guerra, disse esser pronto a provvedere a sue spese altre sessanta galee, se si credea che la numerosa armata, lasciata dal vecchio Dionigi, non fosse sufficiente.

Quel discorso fu a Dionigi tanto gradito, che indi in poi mostrò di seguir sempre i consigli di Dione; il quale, , eloquente, d’alto legnaggio, prudente, adorno d’ogni maniera di utili cognizioni, doviziosissimo com’era, oscurava in tutto gli altri cortigiani. Però costoro facevano ogni loro possa per farlo cadere. Cominciarono a far nascere sospetti nell’animo dell’inesperto Dionigi, facendogli credere ch’egli mirasse a spogliarlo del governo, per darlo ad alcuno de’ figliuoli della sorella sua. Cattavano al tempo stesso l’amicizia del tiranno coll’adulazione, e col procacciargli a larga mano quei piaceri, ai quali per le prime abitudini era inclinevole. E tanto fecero, che Dionigi, dimentico delle platoniche insinuazioni di Dione, tutto si diede all’ubbriachezza ed ai più sfrenati e turpi sollazzi.

Pure non disperava Dione di trarre quel giovane, maleducato più presto che maligno, a migliori costumi. Venivagli sempre dicendo, non essere le numerose armate, le migliaja di soldati, che davano consistenza agl’imperi: ma l’amore e ’l rispetto de’ sudditi essere i nodi adamantini, che tengono connesse tutte le parti dello stato; potere egli esser amato o rispettato, finchè si mostrava superiore agli altri solo per le dovizie e penobili arredi, mentre il suo contegno e le azioni sue erano simili a quelle de’ più vili plebei; essere però necessario volgere ogni suo studio all’acquisto di quella sapienza, di che il volgo mancava; e ciò poterlo di leggieri ottenere col chiamare a Platone, sotto la cui scuola sarebbe presto divenuto sapiente.

L’arrendevole Dionigi entrò allora in fregola di divenir filosofo. Scrisse egli stesso a Platone per invitarlo a venire in Siracusa. All’invito di lui si unirono le preghiere dello stesso Dione e quelle di tutti i pittagorici d’Italia; i quali speravano che, imbevuto il giovine della platonica filosofia, indotto si sarebbe a deporre la tirannide. Ma la tirannide avea grandi fautori in Siracusa. Coloro, che ministri erano e partecipi de’ capricci e delle dissolutezze del tiranno, e che alcun pro traevano dall’attuale forma di governo, erano naturalmente nemici della severa platonica filosofia e di qualunque innovazione. Per dare alla tirannide un nuovo sostegno, indussero Dionigi a richiamare dall’esilio Filisto; il quale, bandito per domestiche brighe dal primo Dionigi, s’era ritirato in Adria.

Era stato Filisto il primo a dar mano al vecchio Dionigi nell’usurpazione della tirannide; era sempre stato il suo amico ed uno de’ più prodi generali suoi; e in tutti i tentativi, che dalla fazione repubblicana si erano fatti per cacciarlo dal governo, Filisto era sempre stato dalla sua. Forse costui, col lungo studio delle vicende de’ popoli, e massime del popolo siracusano, s’era convinto che, se in tutti i paesi il passaggio dal governo popolare all’anarchia era facile, in Siracusa era sempre stato facilissimo e quasi istantaneo; e che quella città era stata gloriosa e potentissima, solo quando la suprema autorità, posta nelle mani di un solo, non dava luogo ad interne perturbazioni. Certo, se tali erano i costui pensieri, i fatti anteriori e quelli che poi seguirono, ampiamente ne fanno l’apologia, e mostrano aver egli avuto più solito intendimento di Dione; il quale, pieno la mente della platonica utopia, voleva assai più largamente governo. Questi dispareri pigliaron poi forza e carattere di nimistà, dopo il ritorno di Filisto, per essere costoro due divenuti i capi di due fazioni, che acremente pugnavano.

II. — Tale era lo stato della corte di Siracusa, quando Platone vi giunse l’anno 1o della 104 Olimpiade (364 a. C.), o in quel torno. Il tiranno gli venne incontro sino al lido. Allo scendere dalla nave, fattolo salire sopra un carro magnifico, tratto da quattro cavalli bianchi, seco lo menò al suo palazzo. Pubblici sacrifizî furono ordinati, per render grazie agli Dei di tanto favore. Il palazzo del tiranno cambiò d’aspetto. Al bagordo successe la compostezza; alle beverie la temperanza. In tutte le sale si vedevano filosofi a disputare, geometri a delineare. In poco d’ora Dionigi tanto s’imbevve di platonica filosofia, che un in un pubblico sacrifizio, come il banditore gridò, secondo il consueto, di pregare gli Dei per la lunga conservazione del tiranno e della tirannide, Dionigi sdegnato esclamò: Cessa da tali imprecazioni.

Filisto ed i suoi intanto tutto mettevano in opera, per far cadere in discredito la contraria fazione, e denigrare tutto ciò che si facea o si proponeva di fare. Non per desiderio di pubblica libertà, da per tutto dicevan costoro, voler Dione che Dionigi rinunziasse la tirannide, ma per ottenerla per , e trasmetterla poi ai figli della sorella; con tale intendimento consigliare di licenziare gran parte dell’esercito e disarmar le galee, col pretesto di scaricare il popolo. Lamentavano poi il destino di Siracusa, che era stata sempre invincibile da’ numerosissimi eserciti, ed ora sottomessa era da un sofista, che volea indurre il tiranno a rinunziare al potere ed alle dovizie, che sono un bene solido e reale, per tener dietro a vane chimere. Queste maligne insinuazioni cominciarono ad imprimersi nell’animo di Dionigi, il quale bergolo era anzi che no.

Dione in que’ , forse con animo di procurare una pace vantaggiosa con Cartagine, avea scritto a que’ magistrati, che qualora la repubblica volesse pacificarsi, a lui, e non ad altri, si dirigessero. La lettera, come che ciò fosse avvenuto, fu intercettata e recata a Dionigi, il quale la mostrò a Filisto; questi tardò a cogliere quel destro di disfarsi di Dione. I disegni di costui, diceva egli al tiranno, sono oramai manifesti: vi consiglia a diminuire le vostre forze, per non potere difendervi; col mettervi sempre avanti vane fanfaluche, vuole indurvi a deporre il potere; ed intanto s’accorda conemici, perchè questi gli dessero mano; l’autorità vostra, anzi la vostra vita è in pericolo, finchè la mala peste dimora in Siracusa.

Dionigi, convinto da que’ detti, con profonda dissimulazione cominciò a fare a Dione miglior viso del solito; trattolo poi un giorno, amichevolmente cianciando, al lido sotto la cittadella, cambiando ivi contegno, gli mostrò la lettera da lui scritta a Cartagine; con poche asprissime parole gli rinfacciò il tradimento; e senza permettergli pure una parola in sua discolpa, lo fece salire su d’una nave, che pronta era, e lo mandò via.

III. — Tutta la fazione repubblicana fu costernata da tale inaspettato avvenimento; Platone lo fu più degli altri. Il tiranno, per tranquillare gli spiriti, dichiarava non avere bandito Dione, averlo solo allontanato per poco tempo. E per mostrare di non aver alcun malanimo contro di lui, lasciò a’ suoi congiunti l’amministrazione de’ suoi beni, che grandissimi erano; e diede a Megagle, di lui fratello, due navi, per mandargli nel Peloponneso, ove s’era ritirato, masserizie, arredi, danaro e quanto potea aver mestieri. Addoppiò al tempo stesso le sue carezze a Platone, per indurlo a dimenticare l’amico. Ma il filosofo ostinatamente chiedea o il ritorno di quello, o la libertà di partire; e tanto più ostinatamente lo chiedea, in quanto vedea già dileguate le sue speranze di ridurre a migliori costumi il tiranno. La crapula, l’ubbriachezza, le sfrenate lascivie erano tornate in moda.

Dionigi si ostinava a pretendere che il filosofo, non che restasse, ma preferisse nella sua amicizia lui a Dione. Lo pregava, lo minacciava, poi si pentiva delle minaccie e chiedea perdono. Finalmente una guerra sopraggiunta tolse a Platone quel fastidio. Ebbe libertà di partire; ma si volle prima la promessa di ritornare, fatta la pace. E Dionigi dal canto suo promise di richiamare allora Dione.

Costui intanto viaggiava per tutte le città della Grecia; frequentava le scuole de’ più illustri filosofi; accattava la benevolenza di tutti i grandi uomini; ed era per ogni dove accolto con istraordinarie onorificenze, tanto che i rigidi Spartani lo chiarirono loro cittadino. Giunta la fama di ciò a Siracusa, Dionigi, tra per l’invidia, e il timore che Dione potesse trovare la Grecia alcun appoggio per ritornare con armata mano in Sicilia, ne fu maggiormente sdegnato. E, per togliergli i mezzi di nuocergli, non permise più che a lui si mandassero le rendite delle vaste possessioni, che fece amministrare a persone da lui poste sopra ciò. Per far vedere poi che, per lo allontanamento di Platone, non avea messa da parte la filosofia, chiamava alla sua corte filosofi ed uomini dotti da tutte le parti. Il più gradito fra questi era Aristippo da Cirene, filosofo arguto e satirico, ma condiscendente a tutte le dissolutezze del tiranno, a segno che non si arrossiva di qualunque viltà, purchè avesse il favore di lui, e potesse soddisfare la sua ghiottoneria. Fu visto una volta prostrarsi a piedi di Dionigi. Rimproverato di ciò, rispose: Non vedete che costui ha le orecchie ne’ piedi? A lui fu data la sopraintendenza della cucina: i cuochi da lui riceveano gli ordini.

Ma non tutti i filosofi, ch’erano alla corte di Dionigi, erano di tal fatta: molti anzi ve n’erano veramente sapienti. Fra costoro volea primeggiare Dionigi; ma no ’l potea. Nel disputare andava anfanando; storpiava le mal concepite idee di Platone; e movea le risa altrui. Però pose ogni studio ad indurre quel filosofo a ritornare in Siracusa. E, perchè conoscea che la sola via di venirne a capo era il fargli sperare il ritorno dell’amico, gli scrisse che, se veniva, poteva ottenere che Dione rimpatriasse, ma nulla avea da sperare per lui, negandosi. Allo stesso fine fece che la moglie e la sorella di Dione a lui ne scrivessero, per muover Platone a venire. A tali stimoli fece aggiungere le preghiere d’Archita da Taranto, capo de’ pittagorici d’Italia, il quale, avutone la parola di Dionigi, lo assicurò del libero ritorno.

Indotto da stimoli così potenti il filosofo, comechè già grave d’anni, venne per la terza volta in Siracusa. Le stesse accoglienze, le confidenze stesse riportò sulle prime. A lui solo era concesso accostarsi in qualunque ora al tiranno, senza essere prima dalle guardie frugato nella persona. L’astronomo Elicone avea, uno di quei , predetto un’ecclissi del sole; e, come si avverò per punto nel momento da lui assegnato, Dionigi gli regalò un talento. L’arguto Aristippo disse allora in un crocchio d’amici «Anch’io predico un gran caso: Dionigi e Platone saranno presto nemici.» Tal vaticinio s’avverò esattamente come l’ecclisse. Platone insistea sempre per lo adempimento della promessa di richiamarsi l’amico; Dionigi lo tenne per alquanti giorni in pastura, mettendo avanti vani progetti di pacificazione; ed intanto sperava piegarlo a forza di smancerie. Il filosofo non lasciava aggirarsi sedursi; e sempre tornava con più fermezza alla dimanda. Il tiranno, che non pativa contraddizione, trovate vane le vie del cavillo e della dolcezza, ebbe ricorso al rigore. Assegnò stanza al filosofo nella cittadella fra’ mercenarî, che l’odiavano, dai quali ricevea continue villanie. Forse vi sarebbe il buon vecchio giunto a mal termine, se, inteso di ciò Archita, non avesse tosto spedito in Siracusa due de’ suoi; i quali, in nome di tutta la setta, vollero da Dionigi l’adempimento della promessa di lasciare libero il ritorno a Platone. Tanto prevalevano costoro nella pubblica opinione, che il tiranno non potè negarsi, e ’l filosofo si fu partito.

Da quel momento l’odio di Dionigi verso Dione non ebbe più misura. Ne fece vendere alla tromba tutti i beni e ne appropriò il prezzo. Per aggiungere al danno anche lo scorno, obbligò Arete di lui sorella e moglie di quello, che sola restava de’ figli del vecchio Dionigi, da lui fatti morire, a far divorzio; e la forzò a maritarsi ad un Timocrate, suo familiare.

IV. — Non restava allora a Dione altro mezzo di vendicare i torti della patria e i suoi, che la guerra; ed a questa s’accinse. Riunì nell’isola di Zacinto da ottocento guerrieri e molti filosofi. Ignoravano i primi il loro destino. Come seppero ch’era la spedizione diretta contro il tiranno di Siracusa, nicchiarono. Dione facea loro cuore con dire, che Dionigi avea gran fama, non gran forza; perchè a lui mancava, ciò che la vera forza agl’imperi, l’amore dei sudditi, i quali anzi anelavano il loro arrivo, come segnale della rivolta. Confortati così i soldati, fece Dione un sacrifizio ad Apollo; terminato il quale, fece bandire allo scoperto le mense per tutta la truppa. Alla vista di tanti vasi d’oro e d’argento, sparsi per le tavole, si rianimò la confidenza e ’l coraggio de’ soldati. Non essere possibile, pensavano eglino, che un uomo di età matura e tanto dovizioso, s’accingesse ad una impresa così ardua, senza essere sicuro della riuscita. Il coraggio loro venne poi accresciuto da uno ecclisse della luna, accaduto sul momento della partenza; perocchè Milta da Tessaglia, ch’era in voce di valente indovino, gridò essere quello manifesto indizio di prosperi eventi; e che la potenza dei tiranno siracusano era per essere, come quell’astro, oscurata.

Con tali auspicî mosse Dione dall’isola di Zacinto nell’agosto dell’anno 4o dell’Olimp. 105, (357 a. C.) (39). Dionigi, che forse prevedea che Dione sarebbe finalmente venuto a tal passo, avea mandato Filisto con molti legni a Japigia, per intraprenderlo. Dione, sia che avesse avuto lingua di ciò, sia lo avesse temuto, fece rotta, quanto al largo potè, dai lidi d’Italia; e, senza essere scoperto dai Siracusani, giunse dopo dodici giorni al capo Pachino. Non volle prender terra così vicino a Siracusa; e, malgrado le proteste de’ piloti, che assai temevano del vento di settentrione, che cominciava a levarsi, altrove si diresse. Non s’erano appena allargati che il vento divenne furioso; una fiera tempesta si mosse, accompagnata da densa caligine, da folgori, da tuoni e da dirotta pioggia. I legni, battuti dai flutti, spinti con forza dai venti, furono per rompere sulle coste d’Affrica, finalmente il vento cadde e si volse ad ostro; il mare si abbonacciò; il cielo si schiarì: le navi, voltate le prore, giunsero in poco d’ora ad Eraclea, città soggetta al dominio cartaginese. Vi comandava un Sinalo, grande amico di Dione: pure, non sapendo quali legni erano quelli, i suoi soldati corsero al lido per impedire lo sbarco: ma, come videro i Greci scendere dalle navi, si volsero in fuga, rientrarono in città, e i soldati di Dione in confuso con essi. In quel trambusto si incontrarono gli amici. Si fece alto. I Greci, che avean creduto di trovare una terra nemica, trovarono all’incontro ospitalità ed ogni maniera di conforto.

Sinalo informò l’amico non essere in quel momento Dionigi in Siracusa; essere partito con ottanta galee alla volta del mare Adriatico, per visitare alcune città, da lui non guari prima edificate in quelle spiagge. Avuta tale notizia, i soldati, comechè stanchi dal disagio sofferto in mare chiesero di partire. Dione non volle rallentare il loro ardore. Lasciate a Sinalo le bagaglie, le macchine e le armi, che in gran quantità portate avea, per fargliele giungere a Siracusa, mosse col suo drappello.

Dugento cavalieri agrigentini furono i primi ad unirsi a lui. A mano a mano come s’innoltrava, Geloi, Camarinesi, Leontini e quanti erano Siracusani sparsi per l’isola, vennero ad ingrossare la sua truppa. Giunta, in questo, la fama dello sbarco e dell’appressarsi di lui a Siracusa, Timocrate, che per parte del tiranno vi comandava, spedì un messo per dargliene avviso; ma questo non giunse (40); e Dionigi seppe solo dalla voce pubblica l’arrivo di Dione, quando costui era già in Siracusa.

Come Dione si avvicinava, la fama esagerava le sue forze; ed i suoi partigiani cominciarono a levar la testa, presidiavano l’Epipoli, posto importantissimo per la difesa delle città, alcuni Leontini ed una mano di quei Campani che aveano stanza in Catana. Corse voce fra costoro che Dione, prima di Siracusa volea assalire Leonzio e Catana; però, abbandonato il posto, si ritrassero alle case loro.

Dione, come fu presso l’Anapo, sostò e fece un sacrifizio al sole nascente. I suoi soldati, vistolo coronato di fiori pel sacrifizio, vollero coronarsi anch’essi. In questo, Siracusa cominciò a tumultuare; il popolaccio dava addosso a tutti i delatori del tiranno e li metteva a morte a furia di bastoni. I maggiorenti, vestiti di bianche tuniche, vennero incontro al liberatore della patria, inermi, perchè Dionigi gli avea disarmati. Timocrate, che più d’ogn’altro avea da temere, come colui che avea sposata la moglie di Dione, fuggì; e, per trovare scusa alla sua codardia, veniva da per tutto magnificando le forze di lui, e con ciò maggiormente lo favoriva.

Procedeva intanto Dione, splendidamente armato, in mezzo a Megagle suo fratello ed all’ateniese Callippo; lo seguiva la sua guardia di cento soldati stranieri; e poi con bell’ordine tutto il resto dell’esercito. Entrò per le porte Menetidi. Lunghesso le strade, per cui passava, erano esposte vittime, mense e tazze; corone e primizie a lui si offrivano; e a lui, come ad un Dio, porgevano i loro voti i cittadini. Entrato in Acradina, si fermò in un sito detto i Pentapili, ove Dionigi avea fatto eriggere un orologio solare; salitovi su, cominciò ad aringare il popolo. Nel suo discorso raccomandava ai Siracusani a difendere con forte animo la libertà, che dopo quarantottanni riacquistavano, il popolo concordemente elesse lui e suo fratello supremi comandanti con ampio potere: ed a loro richiesta furono scelti venti altri personaggi, che loro colleghi fossero nel comando; dieci dei quali furono tratti dal numero di coloro, che ritornavano allora dall’esilio. Venuto poi all’Epipoli, liberò que’ cittadini, che ivi erano tenuti prigioni. Indi circonvallò la rocca, che si preparava ad assediare, ove riunite erano le forze del tiranno.

Dionigi, entrato nella rocca, sette giorni dopo che Dione era in città, mandò a lui secreti messaggi per tentarlo. Dione rispose che si dirigesse in pubblico ai Siracusani, resi già liberi. Rimandò Dionigi gli ambasciatori stessi, per proporre al popolo di ristringere la sua autorità, con minorare le imposte ed alleggerire le fatiche delle militari spedizioni, che quindi innanzi non avrebbe imprese senza il consentimento dei cittadini. I Siracusani si rideano di tali proposizioni. Dione disse ai messi, che, prima di qualunque proposta, Dionigi deponesse il governo. Allora egli si ricorderebbe d’essere suo cognato, per fargli ottenere giuste e moderate condizioni. Finse piegarsi il tiranno, e chiese alcuni de’ cittadini entro la rocca, per trattare l’accordo; ma, come vi furono, li ritenne. Mentre in città tutti credeano, che in lungo andava la conferenza, e ne aspettavano l’esito, sul far del giorno i mercenarî assalirono il vallo che cingea la rocca, e, superatolo, diedero addosso ai cittadini; i quali, sbalorditi dall’impensato assalto, si volsero in fuga. Accorsero i soldati di Dione; ma i Siracusani gl’impacciavano col fuggire a traverso di essi, e gli assordavano colle loro grida; però non potevano udire, eseguire gli ordini de’ capitani. Dione, non potendo comandare colla voce, comandò coll’esempio, cacciandosi nel più folto de’ nemici; e tuttochè uomo fatto già fosse, mostrò la gagliardia di un giovane. Conosciutolo, i nemici per offenderlo, i suoi per difenderlo, intorno a lui si affollavano; ed egli incorava gli uni, facea macello degli altri. Traforato in più parti lo scudo, ferito in una mano, pur continuava a combattere. Le armi nemiche, che si spuntavano sulla sua corazza, lo percotevano senza forarla. Finalmente per una forte pinta andò giù. I suoi soldati lo sottrassero dalla mischia. Un Timonide restò a comandare per lui. Pur, comechè stanco e ferito egli fosse, salito a cavallo, si diede a correre per la città, rianimando il popolo per tornare a combattere; e, venuto ad Acradina, ne trasse una schiera dei suoi, che v’era rimasta di presidio, e seco la condusse al combattimento.

Aveano sperato i soldati del tiranno, che facendo con tanta foga una improvvisa irruzione, si sarebbero di leggieri fatti padroni della città; ma, trovatovi tanta resistenza, perduto molti dei loro, già cominciavano a rinculare, quando sopraggiunse Dione con que’ soldati freschi ed animosi. Allora a tutte gambe, e con più grave perdita, corsero a rinserrarsi nella rocca. Dei soldati di Dione, settantaquattro perirono, ma di que’ del tiranno, da milletrecento. I Siracusani furono tanto lieti della vittoria, che regalarono cento mine per uno ai soldati di Dione: e questi presentarono al loro capitano una corona d’oro (41).

Fallito quel colpo, tentò Dionigi un’altra frode. Un araldo venne fuori dalla rocca, portando tre lettere a Dione, una delle quali avea nella soprascritta Al padre. Volle Dione che tali lettere innanzi tutto il popolo fossero lette. Le prime due erano della moglie e della sorella, che a lui si raccomandavano. Voleano i Siracusani, credendo scritta dal figliuolo la terza lettera, che Dione la leggesse da . Nol consentì, e la fece leggere ad alta voce. Si trovò che, invece del figliuolo, gli scrivea lo stesso Dionigi. Gli rammentava in prima essersi egli un tempo adoprato a sostenere la tirannide; lo minacciava poi d’incrudelire contro la sorella, la moglie e il figliuolo, che nella rocca erano, se non desisteva; alle minaccie tramettea gravi scongiuri e dolorose querele; lo esortava in fine a non abolire, ma assumere per la tirannide, per non esporre gli amici, i parenti e stesso all’odio de’ Siracusani.

V. — Una lettera tale produsse l’effetto, che il tiranno si era proposto, quello cioè di rendere Dione sospetto al popolo, che cominciò a temere, ch’egli non cedesse ai due potentissimi sentimenti l’ambizione e l’amore de’ suoi. In tal pericoloso momento giunse Eraclide in Siracusa. Era costui valente capitano, ed in più incontri s’era distinto nel servizio del tiranno. Ma al suo valore non rispondevano le altre virtù; stemperato nell’ambizione, versatile ne’ proponimenti, imprudente nella condotta, infido nell’amicizia. Consorto di Dione da prima, era stato del pari bandito. Quando la massima unione tra loro era necessaria, venne con esso in iscrezio; ed invece d’accumunar le forze contro il comune nemico, apprestò da se una piccola armata di sette galee e tre altri legni, e venne, per far da solo la guerra (42). Bello della persona, piacevole ne’ modi suoi, attirava di leggieri i voti della moltitudine, che mal comportava il sussieguo e ’l burbero piglio di Dione; difetto, di cui lo stesso Platone non avea potuto correggerlo, e che nocevolissimo era in un momento in cui, come con molto senno dice Plutarco, i Siracusani voleano essere governati alla popolare, anche prima d’essere ridotti a popolo.

L’essere poi venuto in quel tempo Filisto coll’armata in ajuto dei tiranno, fece che il popolo credesse aver più mestieri delle galee d’Eraclide, che de’ fanti di Dione. E però, riunitasi l’assemblea, senza farne inteso Dione, fu dato ad Eraclide il comando del mare. Sopraggiunto Dione, se ne dolse come di un gran torto che a lui si faceva, dopo avergli conferito il comando generale di tutte le forze. Tanto disse, che l’assemblea rivocò, ma di mala voglia, il decreto fatto. Chiamato poi in disparte Eraclide, fra e lui lo rimproverò, perchè, non per desio del bene pubblico, ma per ambizione, suscitasse sedizioni contro di lui, in un momento in cui ogni lieve spinta potea mandare in rovina la causa comune. Convocò poi egli stesso l’assemblea del popolo; conferì ad Eraclide il comando delle navi, ed indusse il popolo ad assegnare anche a lui una guardia per la sua persona. Si mostrava Eraclide ravveduto; facea le viste d’essere amico di Dione; e intanto di soppiatto veniva malignando tutte le azioni di lui, per suscitargli nemici.

Era, in que’ , in Siracusa un Soside, famoso per la nequizia e sfrontatezza. Era costui un di coloro, che abbondano in ogni società, i quali credono che la libertà consista nel far la guerra a chi governa. Levatosi una volta nell’assemblea, cominciò a rimproverare ai Siracusani la bessaggine di non avvedersi, che liberati si erano da un tiranno stolido ed ubbriaco, per sottomettersi ad un padrone sobrio e svegliato (intendea dire di Dione); il domane, fece vedersi per la città ignudo, insanguinato, ferito il capo e ’l volto, correndo pauroso, come chi fugge persone che lo assaliscono; gridando che i soldati di Dione lo aveano così malconcio, per vendetta di ciò che avea detto il giorno avanti. Si levarono alte querele per questo nel popolo. Si dicea essere la servitù al sommo, quando la libertà della parola è tolta, e ne va della vita a chi osa palesare il suo pensiere.

Mentre il popolo era tumultuante per tal fatto, venne Dione e prese a parlare. Disse e provò aver quel Soside un fratello tra le guardie di Dionigi, per insinuazione del quale avea inventato quella menzogna; perocchè il tiranno non potea sperar salvezza altronde, che dalle discordie fra’ cittadini. Furono chiamati chirurgi per esaminare le ferite di quell’uomo, testimoni furono prodotti, e fu manifestamente provato essersi costui da stesso ferito con un rasojo. Ne fu dannato a morte. Ciò non di manco restò nel popolo un mal umore contro i soldati di Dione, che dava presa ad Eraclide ed alla sua fazione di tentar sempre alcun colpo per levargli il comando.

Vie maggiormente si levarono costoro in superbia per una segnalata vittoria, riportata in mare; nella quale fu preso lo stesso Filisto e crudelissimamente trattato. Denudatolo prima, i Siracusani fecero ludibrio dello scarno corpo del vecchio guerriero, sparso di ferite riportate per la gloria di Siracusa. Gli recisero il capo; e rammentandosi che quando il vecchio Dionigi era assediato nella rocca, ed altri lo consigliava ad abbandonare la tirannide e fuggire, aveagli ei detto che dovea solo lasciare il governo, quando ne era tratto per una gamba, per punirnelo lo legarono per una gamba, che storpia avea, e lo consegnarono ai fanciulli; i quali, strascinatolo prima per tutte le parti, lo buttarono giù nelle latomie. Deplorabile effetto delle civili perturbazioni! Fine così ignominioso toccò ad uno de’ più grandi uomini che illustrarono la Sicilia; il quale era forse il meno reprensibile fra tutti coloro ch’ebbero parte agli avvenimenti d’allora.

Dionigi, mancatogli il gran sostegno di Filisto, mandò a dire a Dione d’essere pronto a consegnare la rocca, le armi e’ soldati mercenarî coi loro stipendî per cinque mesi, con questo che gli fosse concesso partire di queto, e gli restasse la rendita di un vasto podere, che avea presso Siracusa, e Giato si chiamava. Dione fece proporre l’affare innanzi al popolo. I Siracusani che si tenevano sicuri di prender vivo il tiranno, respinsero la dimanda. Dionigi, posto sulle navi le persone più care e le cose più preziose, consegnata la rocca ad Apollocrate suo figliuolo, ingannando la vigilanza d’Eraclide, andò via e si ritirò in Locri.

VI. — Eraclide, per isviare la male voce, che a lui si dava per avere lasciato scappare il tiranno, fece ad un Ippone, oratore popolare, proporre nell’assemblea del popolo una nuova ed uguale distribuzione di terre fra tutti i cittadini, togliendone a chi troppo ne avea, per darne a chi non ne avea. Progetto messo sempre avanti da coloro, che hanno voluto mettere sossopra la società. Eraclide caldamente difese la proposta. Dione fortemente vi si oppose; per cui venne odiosissimo alla plebe, che avea parte, e forse la maggiore, nelle pubbliche deliberazioni. Per lo che il decreto fu vinto, e, per maggiormente aontarlo, furono tolti a’ suoi soldati gli stipendî ed a lui il comando, eleggendo venticinque capitani fra’ quali fu Eraclide. E, per togliergli qualunque appoggio, tentarono i soldati, con prometter loro la cittadinanza, se lo abbandonavano. Coloro nol consentirono; anzi, per sottrarlo alla furia della plebe e de’ suoi nemici, con essoloro ne lo menarono in Leonzio. Non fu lasciato partire senza molestia. Gli oratori tanto aizzavano il popolaccio, che una gran frotta venne ad assalirlo. Invano Dione pregava que’ forsennati a lasciarlo andare; invano accennava loro i comuni nemici, che d’in sulla rocca gioivano delle loro discordie; coloro che credevano di sopraffare quel pugno di stranieri, con più impeto andavan lor sopra. Pure Dione (tanto in lui potea la carità della patria) vietò a’ suoi soldati d’offendere alcun cittadino. Non ne fu mestieri. Volgersi, trar le spade, minacciare e scamojare la marmaglia, fu tutt’uno. Beffeggiati costoro fin dalle donne, vollero rifarsi, e tornarono ad inseguire Dione. Lo sopraggiunsero al guado di un fiume. Come egli, ed i suoi, perduta la pazienza, s’accinsero a menar le mani, meglio di prima la diedero a gambe. Pochi ne furono colti, e Dione liberi li rimandò, I Leontini all’incontro lo accolsero con somma cortesia; intantochè stipendiarono i soldati suoi, e diedero loro la cittadinanza.

In questo, Dionigi, il quale, comechè lontano non dormiva sugli affari di Siracusa, vi mandò un Nipsio da Napoli, con molte barche cariche di frumento e danaro. Nell’approdare, assalite furono quelle navi dai siracusani, e quattro ne caddero in poter loro. Ebbri di tale vittoria si diedero ad ogni intemperanza di beverie e di crapule; chè l’ubbriachezza e la ghiottoneria erano vizî ingeniti dei Siracusani. Ma quel generale e solenne bagordo presto tornò in lutto. Nipsio, come vide che in città ogni cosa era queta, spinse fuori i mercenarî del tiranno; i quali, superato il vallo mal difeso dalle sonnolenti guardie, fecero irruzione in città. I cittadini stupefatti, atterriti, ubbriachi, non sapeano opporre difese; e quei feroci soldati faceano quel governo, che volevano e potevano, di tutti coloro, ne’ quali si abbattevano. Uccisi erano gli uomini, demolite e saccheggiate le case, tratti alla rocca i fanciulli e le donne, che alte grida mettevano. Tutti sentivano che Dione e’ suoi fanti potevano soli salvar la città; tutti rammentavano la vigilanza di quello e ’l coraggio di questi in simili casi; ma nessuno osava proporlo, per tema d’Eraclide e de’ suoi. Intanto quella fazione avea soffogato la voce pubblica. Stringendo sempre più il pericolo, vi fu chi osò proporre di richiamare Dione e’ suoi soldati. Un grido concorde d’approvazione si levò.

Alcuni de’ cavalieri siracusani e de’ loro alleati corsero a briglia sciolta a Leonzio. Giuntovi, sbalzarono giù da cavallo, e si gittarono a piedi di Dione, esponendogli lo stato deplorabile di Siracusa e ’l pentimento de’ Siracusani. Dione menò la sua gente all’assemblea, ove concorse gran parte dei Leontini. Arconide ed Ellanico, ch’erano fra’ messi di Siracusa, narrarono il lacrimevole caso, e pregavano i soldati di Dione a venire in soccorso della città, e dimenticare le offese di quel popolo, già abbastanza punito della sua ingratitudine. A quel discorso alto silenzio successe. Tutti pendeano dal viso e dalla bocca di Dione. Si levò egli per parlare; ma le lagrime gli rompevano le parole. Finalmente riavutosi alquanto, disse «O lacedemoni, e voi o commilitoni, io vi ho qui convocati, perchè consultiate intorno a voi medesimi. In quanto a me poi, non mi si conviene or consultare intorno a me stesso, quando Siracusa perisce. E se fia ch’io salvar non la possa, a gittarmi io n’andrò e a sepellirmi tra il foco e tra le rovine della mia patria. Ma se voi soccorrer volete un’altra volta gli infelicissimi e sconsigliatissimi Siracusani, su via sollevatene la città la quale è pur vostro lavoro. Se poi tuttavia risentiti contro di essi, volete or voi trascurarli; possiate non di meno riportar dagli dei una degna ricompensa della virtù da voi per lo addietro usata, e della premura avuta per me, ricordandovi come Dione non abbandonò voi quando da prima ingiuriati foste da’ suoi cittadini, abbandonò poscia i suoi cittadini, quando caduti li vide in infelicità (43).» Non aveva ancora dato fine al suo dire, che i soldati ad alte grida chiesero di seguirlo. Messo in punto ogni cosa, la notte stessa partirono.

In Siracusa intanto la notte avea posto fine alla strage. I soldati del tiranno si erano verso sera ritratti nella rocca; per che Eraclide, e gli oratori popolari cominciarono a rimproverare il popolo, per avere richiamato Dione, e con ciò dato il destro a quegli stranieri di menar vanto di aver essi salvata la città. E tanto dissero, che i governatori mandarono messi incontro a Dione, per sospendere la sua mossa. Al tempo stesso messi mandarono i cavalieri e i maggiorenti, per accelerarla. Avuto que’ contrarî messaggi, Dione si avanzava tempellando a lento passo.

Al far del nuovo giorno, i soldati di Dionigi vennero in maggior numero, con più impeto e più feroci ad assalir la città; non si tennero alla strage delle persone d’ogni età e d’ogni sesso; poco curavano di saccheggiare con accese faci, e con dardi affocati appiccavano, da presso e da lontano, foco alle case. Dionigi, disperato delle cose sue, odiando i Siracusani, quanto n’era odiato, fece quell’ultimo sforzo, per seppellire la sua cadente tirannide sotto le rovine di Siracusa. Spaventevole riguardo offriva la città. Le contrade erano allagate di sangue e sparse di cadaveri; il giorno era oscurato dal fumo e dal polverio delle case, che ardevano e rovinavano; le orecchie erano assordate dal fracasso degli edifizî, che cadevano, dai gemiti di coloro che in varie guise perivano, dai lamenti di coloro che fuggivano, dalle feroci grida degli assalitori. Eraclide stesso tenne del tutto spacciata la città, se non accorreva Dione. Suo fratello e Teodote suo zio corsero a pregarnelo in suo nome.

Era allora egli a pochi passi della città. Alle preghiere di costoro e di tutti i fuggitivi volò. Entrò per quella parte che dicevasi Ecatompedo, e spinse addosso ai nemici le truppe leggiere. Ordinò poi in lunga schiera i soldati di grave armatura e tutti i Siracusani, che, ripreso cuore per la sua venuta, traevano da tutte le parti. Li divise in più compagnie, che diresse per diverse vie onde venissero poi a sboccare da molte parti. I cittadini mettevano alte grida, ora minacciando i nemici, ora facendo voti agli Dei, ora esortandosi vicendevolmente, ora chiamando Dione loro salvadore, loro Dio, ed i soldati stranieri fratelli e concittadini. Dione dava loro l’esempio, gittandosi il primo fra il sangue, il foco, le rovine e i cadaveri, che ingombravano le vie. Quegli stessi intoppi non permettevano di venire ad ordinata battaglia. Pochi contro pochi combattevano nelle piazze, nelle contrade, ne’ vicoli, negli angiporti. I Siracusani, con quanta paura poco prima fuggivano, con tanta audacia venivano ora da tutte le parti al cimento. I nemici furono da per tutto respinti. Molti corsero a chiudersi nella rocca. Coloro che restarono dispersi per la città, furono tutti trucidati. Passarono i cittadini il resto della notte ad estinguere l’incendio e a riattare in alcun modo le case, per potervi riparare alla meglio.

Fatto giorno, gli oratori popolari, che tanto aveano declamato contro Dione, sparirono. Soli Eraclide e Teodote restarono, e corsero a darglisi in braccio, confessando pubblicamente la loro nequizia. Consigliavano i suoi amici a Dione a non perdonare costoro, ed a consegnare Eraclide a’ suoi soldati per punirlo. Nol consentì; e rispose loro che, se gli altri capitani aveano appreso nel campo come vincere i nemici; egli avea appreso nell’accademia come vincere le proprie passioni. Tornò amico d’Eraclide; non però costui depose il mal talento.

Rivolto poi l’animo a riattare il vallo, che cingeva la rocca, fece ad ogni cittadino tagliare un broncone, e portarlo ivi presso; messivi tutta notte i suoi soldati a piantarli e commetterli, con somma sorpresa de’ Siracusani e de’ nemici, si trovò al far del giorno la rocca cinta tutto intorno da fortissimo steccato.

Convocata in quel giorno stesso l’assemblea, Eraclide fu il primo a proporre di dare al solo Dione il comando di tutte le forze. La parte migliore altamente lo approvava, e gridava che si venisse tosto al partito. Si levò a tumulto la turba dei marinai ed altra simile gentaglia, non volendo che fosse tolto ad Eraclide il comando delle navi. Il dabben Dione v’acconsentì. Ma non fu condiscendente del pari per lo decreto, già prima vinto, dell’eguale ripartizione dei beni, che fece cancellare. Ciò mise il malanimo nella plebaglia, e diede campo ad Eraclide di mulinare nuove insidie contro di lui. Era allora in Neapoli, presso Agrigento, un Faracide spartano con una presa di gente, che per Dionigi militava. Ivi si condussero per combatterlo Dione ed Eraclide, l’uno per terra, l’altro per mare. Eraclide, mentre sottomano, per mezzo di Faracide tenea secreta pratica col tiranno, veniva poi dicendo, non volere Dione por fine con una battaglia alla guerra, per non perdere il comando. Dione per necessità venne alle mani, e n’ebbe la peggio. Come la sua perdita era stata assai lieve, si preparava ad ordinar meglio la sua gente, per un nuovo attacco, quando ebbe avviso che Eraclide, voltate le prore, s’era diretto coll’armata a Siracusa, per destarvi nuovi tumulti contro di lui, ed escluderlo una seconda volta dalla città. Messosi all’istante in via col fiore della sua gente, senza sostare in alcun luogo, giunse il domane verso vespro a Siracusa, mentre Eraclide ne era ancora lontano. Fallito a costui quel colpo, gli venne incontrato sul mare un Gesilo spartano, che, in cerca di ventura, a Siracusa era diretto per militare in quella guerra. Parve allora ad Eraclide avere un bel destro per levare il comando a Dione. Però fece sapere al popolo d’essere giunto uno Spartano per salvare la città, come, già tempo, salvata aveala Gilippo. Dione gli fece rispondere non avere Siracusa mestieri di comandanti. Quel dabbene Spartano, che non volea tramettersi in tali brighe, deposto ogni pensiere di comandare, pacificò i due comandanti. Giurò Eraclide di non tentare più nulla contro Dione; giurò lo Spartano di vendicare Dione, se l’altro avesse rotto il suo giuramento.

Ciò non di manco la pace fra costoro non fu più delle altre volte durevole. Per decreto del popolo fu licenziata l’armata, che di grande spesa era, e grande incentivo dava alle interne perturbazioni. Credevano altronde i Siracusani essere sufficiente stringere la rocca dalla terra. Eraclide non potè sgozzarla, e covava sempre più rei disegni.

In questo, Apollocrate, mancatagli ogni speranza di soccorso, divenuto tanto stremo di viveri, che i mercenarî suoi minacciavano sedizioni, cesse la rocca, con tutte lo armi, ed ogni apparato di guerra; ed egli, caricato le cose sue sopra cinque triremi, colla madre e le sorelle vi s’imbarcò sul far del giorno, ed andò ad unirsi al padre. I cittadini l’un l’altro s’animavano a correre al lido per essere spettatori di quella partenza, e, com’e’ dicevano, a vedere nascere il sole in Siracusa già libera. Entrato nella rocca Dione, gli venne incontro Aristomaca sua sorella, tenendo per la mano Ipparino suo figliuolo, ed Arete sua moglie, la quale tutta timida e vergognosa s’arretrava, dubbia dell’accoglienza ch’era per fargli il marito, per le seconde nozze contratte. Dione, abbracciati prima la sorella e ’l figliuolo, corse piangendo ad abbracciare anche la moglie, e mandò tutti e tre alla casa sua, dove volle continuare ad abitare, lasciando la rocca in mano del popolo.

Mentre tutti in Siracusa, presi da insolito giubilo pel grande evento, si davano a solenni stravizzi e ad ogni maniera di clamorosa allegria, ed il nome di Dione suonava gloriosissimo per tutto; tanto che non solo le città di Sicilia, ma Cartagine e la Grecia tutta aveano gli occhi rivolti sopra di lui, egli, per lo vestire positivo, per lo ristretto numero de’ servi, per la parca mensa, parea si vivesse, non in mezzo a’ trionfi, ma con Platone nell’accademia. ad altro volgeva il pensiero, che a comporre il nuovo governo di Siracusa.

Discepolo di Platone, odiava come lui la pura democrazia, che quel filosofo chiamava, non governo, ma mercato di tutti i governi; conciosiachè diveniva nel fatto o aristocrazia, od oligarchia, o peggio che monarchia, secondo che uno o più furbi agitavano e dirigevano a posta loro la plebe, sempre ignorante, volubile sempre, e che pur sempre è la parte più numerosa della società. E però volea Dione torre ad esempio i governi di Sparta e di Creta, e fare una mescolanza di re e di popolo, in cui, come in Corinto, nell’aristocrazia fosse la somma delle cose; il popolo vi avesse tanta parte che bastasse a contrappesare la influenza degli ottimati; e l’autorità del re tenesse in bilico il governo.

Con tale intendimento fece venire da Corinto uomini valenti, che lo ajutassero de’ loro consigli, e chiamò anche Eraclide. Ma il pensiere di Dione non andava a sangue a costui, il quale volea nella plebe la somma autorità, per farne strumento della sua nequizia. Però chiamato da Dione per intervenire in que’ consessi, rispondeva, essere pronto sempre ad intervenire nell’assemblea del popolo, altrove non mai. Intanto, per istigare il popolo contro Dione, veniva dicendo essere manifesta la sua mira alla tirannide; per questo non avere demolita la rocca, ed avere vietato al popolo di abbattere il sepolcro del vecchio Dionigi, e gittarne via il cadavere; per questo aver chiamati a parte del governo i Corintî, non fidandosi ne’ cittadini. Conosciuto allora Dione, che affatto invincibile era la malvagità di costui, più non si oppose a coloro, che volevano metterlo a morte; ed essi l’uccisero.

La morte del capo, come sempre è accaduto, rese più numerosa e più audace la fazione. Non guari andò che Dione soggiacque allo stesso destino. L’ateniese Callippo, amico e consorto di lui, per ottenere in quelle perturbazioni il governo di Siracusa, e compro, come si disse, per venti talenti dagli amici d’Eraclide, s’accinse a vendicarne la morte. Per compiere a man salva il reo disegno, veniva opponendo a Dione la mira d’usurpare la tirannide, per tramandarla ad Apollocrate figliuolo di Dionigi e suo nipote, essendo non guari prima morto Ipparino suo figliuolo. Con sicurezza poteva quel perfido spargere tali voci; perchè diceva a Dione che ciò faceva per indagare gli animi altrui; ed egli, attesa l’amicizia, sel credea. Pure la sorella e la moglie vennero in gran sospetto di costui; ed egli, per meglio deluderle, giurò la sua innocenza nel tempio delle Tesmofori, ossia Cerere e Proserpina; giuramento che allora si teneva terribile. Intanto avea tratti nella congiura i soldati di Zacinto. Una mano di questi vestiti di sola tunica, senz’armi entrarono in casa di Dione: gli altri congiurati chiusero l’uscio di strada e forte lo tenevano. I primi a lui s’avventarono, e lunga pezza faticarono per istrangolarlo; ma come ciò non veniva loro fatto, cercavano un ferro per ispacciarlo. Un Licone siracusano porse dalla finestra un pugnale, con cui lo scannarono.

Così finì di vivere l’anno 3o della 106 Olimpiade (354 a. C.) l’illustre Dione. Atroce caso, ma non insolito; dachè in ogni tempo coloro, che hanno dato la prima pinta alle popolari rivolte, comechè sulle prime applauditi, ne sono poi stati sempre le prime vittime. Furono tratte in prigione la sorella e la moglie lui, incinta com’era, che nelle carceri partorì. Rimesse poi in libertà, furono accolte da Iceta che grande amico era stato di Dione. Costui, non meno perfido dell’Ateniese, col pretesto di mandarle nel Peloponneso, le fece sommergere in mare col neonato fanciullo. Callippo ottenne la tirannide; ma ivi a tredici mesi ne fu cacciato da Ipparino fratello di Dionigi. Volle assalire Catana e Messena e ne fu respinto. Escluso da ogni altra città di Sicilia, venne a Reggio, ove fu ucciso da Leptine e Peliperconte l’anno 3o della 107 Olimpiade (350 a. C), e si disse col pugnale stesso, con cui era stato messo a morte Dione.

In que’ disturbi venne fatto ad Ipparino rendersi padrone della fortezza; ma la sua autorità era mal conosciuta in città. Tutto era disordine allora, non che in Siracusa, in ogni città di Sicilia. Gli amici di Dione e i buoni cittadini scrissero a Platone per proporre loro una forma di governo. Il filosofo propose tre re, e volea che fossero Dionigi, Ipparino suo fratello e Ipparino figliuolo di Dione, ignorando d’essere morto; un senato; un’assemblea del popolo; e un magistrato di trentacinque cittadini per vegliare all’osservanza delle leggi e presedere ai giudizî criminali, dai quali erano esclusi i re. Ciò non ebbe e forse non potea aver luogo.

Dopo la morte d’Ipparino, un Niseo ebbe la tirannide, sotto il cui governo i disordini crebbero a segno, che i più distinti cittadini abbandonarono la città e vennero ad unirsi ad Iceta, che reggea Leonzio. Siracusa era divenuta tanto debole, che Dionigi venne a cacciare Niseo e riprendere senza ostacolo la tirannide l’anno 3o dell’Olimpiade 108 (346 a. C.).





39 Quell’ecclisse accadde addì 9 agosto di quell’anno.



40 Vedi la nota V in fine del volume.



41 I soldati stranieri di Dione, che secondo Plutarco combatterono, furono 800; toltine li 74 morti, essendo la mina once 7, 6, tutto il dono sommò ad once 522,720. Ciò, se fu vero, una altissima idea delle ricchezze di Siracusa.



42 Diodoro e Plutarco (in Dione) discordano in alcune circostanze di questa rivoluzione. Io ho seguito il secondo; primieramente perchè chi scrive le azioni di un solo uomo entra in tutti i particolari; ciò che non potea fare Diodoro, che scrivea una storia universale, nella quale potea solo accennare la somma delle cose. In secondo luogo perchè Plutarco cita sempre l’autorità di scrittori, non che sincroni, ma presenti ai fatti che narra.



43 Plutarco in Dione. Traduzione del Pompei.



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