Niccolò Palmeri
Somma della storia di Sicilia

SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA]

CAPITOLO IX. I. Stato della Sicilia. — II. Timoleonte muove da Corinto: giunge a Tauromenio: pericolo da lui corso in Adrano. — III. Resa di Dionigi: presa di Acradina: fuga dei Cartaginesi: Iceta cacciato da Siracusa, che vien ripopolata. — IV. Cartagine gli muove guerra. — V. Segnalata vittoria di Timoleonte al Crimiso: prende e mette a morte Iceta: estermina tutti gli altri tiranni. — VI. Sua condotta e morte.

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CAPITOLO IX.

I. Stato della Sicilia. — II. Timoleonte muove da Corinto: giunge a Tauromenio: pericolo da lui corso in Adrano. — III. Resa di Dionigi: presa di Acradina: fuga dei Cartaginesi: Iceta cacciato da Siracusa, che vien ripopolata. — IV. Cartagine gli muove guerra. — V. Segnalata vittoria di Timoleonte al Crimiso: prende e mette a morte Iceta: estermina tutti gli altri tiranni. — VI. Sua condotta e morte.

I. — Siracusa era caduta in quella spossatezza, che sempre tien dietro alle grandi perturbazioni degli stati. in miglior condizione erano le altre città. Piccoli tiranni erano surti da per tutto e faceano a gara per opprimere i popoli. Le campagne erano infestate da guerrieri, che aveano combattuto per le diverse fazioni, ed ora viveano di rapina. Cartagine, che fin’allora era stata spettatrice degli sconcerti di Sicilia, usando l’occasione, avea spedito grandi forze per sottomettere l’isola tutta. La potenza di Siracusa, ch’era stata dicco insuperabile alle armi cartaginesi era quasi del tutto caduta. Dionigi, invece di correggersi per le sciagure; era divenuto più rotto nelle passioni, più sfrenato nei costumi; tanto che i più illustri cittadini aveano in grandissimo numero abbandonata Siracusa, per non soggiacere al durissimo governo di lui. Molti tapinavano in Grecia; molti erano venuti a fermarsi sulle sponde dell’Adriatico, e vi aveano edificata Ancona; molti erano iti ad unirsi ad Iceta, cui era venuto fatto usurpare la tirannide di Leonzio: non perchè costui fosse meno malvagio degli altri tiranni; ma per aver comune con essi l’odio verso Dionigi. Inabili costoro a cacciare una seconda volta il tiranno, spedirono alcuni de’ loro a chiedere soccorso a Corinto.

Iceta, comechè secretamente si fosse accordato coCartaginesi di ajutarli nell’acquisto dell’isola e di averne in merito la tirannide di Siracusa, pure fece le viste d’approvare altamente il pensiere; ed unì i suoi a’ messi siracusani. Sperava egli, che, mentre la Grecia tutta era minacciata dall’ambizione di Filippo e sconvolta dalle sue mene, Corinto non a avrebbe impreso una spedizione difficile e lontana. Ma i Corintî, e per la comunanza del sangue coSiracusani, e per l’odio della tirannide, e per la pace che allora godeano, promisero il chiesto soccorso.

Mentre nell’assemblea di Corinto tutti erano per la scelta del generale, un uomo del volgo nominò Timoleonte, e quella voce riscosse il plauso universale. Se tutti i Corintî erano nemici de’ tiranni, n’era costui nimicissimo; a segno che avea consentito che sotto gli occhi suoi fosse stato messo a morte Timofane suo fratello cui altra volta avea salvata la vita in una battaglia, perchè avea usurpata la tirannide, e non s’era mai lasciato persuadere a lasciarla alla buona. Da quel fatto riportò grandi applausi da alcuni, grande vitupero da altri. Però volea darsi la morte. Distoltone dagli amici, si era ritirato in una sua villa, ove menava, da vent’anni, nella solitudine i giorni suoi, senza tramettersi nelle pubbliche faccende.

II. — Mentre i Corintî apprestavano la spedizione, Iceta, per distornarli, scrisse loro essere inutile l’armamento; perchè, per lo ritardo del loro soccorso, egli avea conchiusa lega coCartaginesi i quali guardavano il mare, per vietare il passo alle loro navi. Tal messaggio, col far conoscere il tradimento di costui, invece di far sospendere, affrettò la spedizione. Timoleonte mosse l’anno 4o dell’Olimpiade 108 (345 a. C.) con sette navi di Corinto, due di Corcira ed una di Leucade. La sua partenza fu preceduta od accompagnata da quei portenti, che facilmente s’inventano, e si credono anche più facilmente quando secondano le passioni del volgo. Le sacerdotesse di Cerere e Proserpina dissero aver visto le Dee prepararsi ad un viaggio, e dire dover esse navigare con Timoleonte; però la prima delle galee fu ad esse intitolata e nominata da esse. Andato Timoleonte a sacrificare nel tempio di Delfo e consultare l’oracolo, una benda trapunta di corone e di vittorie ch’era sospesa in voto alla volta, cadde e venne a cincergli la fronte. Nel mettersi in mare, una fiaccola luminosa fu vista calare dal cielo, essere di scorta ai naviganti, e venirsi a fermare in quel lido d’Italia, in cui i nocchieri aveano divisato di approdare.

In Sicilia intanto le imprese de’ Cartaginesi e d’Iceta prosperavano senza portenti. Iceta coll’ajuto dell’armata cartaginese era venuto ad assediare Siracusa. Trovatovi lunga resistenza, levato il campo, si ritirava coll’esercito in Leonzio. Dionigi venne fuori ad inseguirlo, e ne molestava già il retroguardo. Rivoltosi l’esercito d’Iceta dieaddosso ai Siracusani, i quali, dopo lungo combattere, furono rotti. Tremila de’ mercenarî furono uccisi; gli altri fuggirono verso Siracusa: ma i soldati d’Iceta gl’incalzavano, in modo che con essi entrarono in città, e se ne fecero padroni, restando a Dionigi la sola isola colla rocca, che venne tosto assediata.

I Cartaginesi, appena sbarcati, erano corsi ad assediare Entella, città popolata di Campani. Chiesero costoro ajuto alle altre città. I soli Galarini (44) mandarono mille de’ loro, i quali, intrapresi ed accerchiati da’ nemici, furono tagliati a pezzi. Spaventati di ciò gli altri Campani, che abitavano in Etna, e che pur voleano accorrere, se ne rimasero. Entella, malgrado la fortezza del sito, fu espugnata.

In tale stato eran le cose in Sicilia, quando Timoleonte giunse a Reggio. Trovò egli venti navi cartaginesi nello stretto, pronte a contrastargli il passo, ed un messo d’Iceta, che lo invitava a passare egli solo in Sicilia, per ajutarlo de’ suoi consigli, e stabilire d’accordo quanto era da fare per le cose de’ Siciliani, purchè rimandasse le navi e la gente. Rispose Timoleonte essere pronto a tornare colla gente sua a Corinto: ma perchè non potesse apporglisi a delitto l’avere abbandonata la impresa, chiedea che ciò fosse stabilito in presenza del popolo reggino comune amico, che in ogni caso potea farne fede. Acconsentitovi coloro, fu raunato il popolo, Il messo d’Iceta, i capitani delle navi cartaginesi e Timoleonte vi vennero. I Reggini, combinata prima con Timoleonte la cosa, traevano in lungo il ragionare; ed intanto le galee corintie venivano fuori l’una dopo l’altra dal porto, senza che vi si opponessero i Cartaginesi, ch’erano sulle navi, credendo che ciò fosse d’accordo co’ loro capitani; questi ne aveano pur sospetto, vedendo Timoleonte fra essi. Uscite dal porto le navi, vi fu chi fece d’occhio a Timoleonte per farnelo avvisato; ed altri, per dargli agio di scantonare, gli si misero avanti come per affollarsi a parlare. Egli corse al porto, e, salito sulla ultima galea che restava, forzando di remi, venne a raggiungere i suoi. I Cartaginesi, avvistisi della beffe, si mordevano le dita; e i Reggini dicevan loro, ch’eglino, grandi fabbri d’inganni, doveano anzi compiacersi degl’inganni altrui.

Timoleonte prese terra a Tauromenio. Reggea la città Andromaco, padre dello storico Timeo, uomo virtuosissimo, vago di libertà, nemico dei tiranni. Da lui ebbe la città per farne la sede della guerra. Tutto quel popolo fu pronto a seguirlo. Fu questo il solo soccorso che da prima ebbe in Sicilia; perocchè le città siciliane, oltre all’essere rifinite per le tante sciagure, dopo l’esempio dello spartano Faracide e dell’ateniese Callippo, i quali, venuti predicando libertà, s’erano poi mostrati peggio che tiranni, erano entrati in diffidenza di tutti gli stranieri. Per lo che, ponendo mente al piccol numero de’ Corintî (chè da mille erano), a paragone de’ numerosi eserciti d’Iceta e di Cartagine, aveano poca fede e meno speranza in Timoleonte. Solo in Adrano piccola città, che ebbe nome da un Dio, venerato da tutti i Siciliani in un antichissimo tempio presso, si levò una fazione in suo favore. Vi accorse egli per sostenerla con milledugento soldati. V’accorse Iceta con cinquemila per opprimerla. Quando Iceta colla sua gente vi giunse, sul cadere del giorno, Timoleonte n’era discosto meno di trenta stadî. Saputo il loro arrivo, senza permettere a’ suoi di sostare, corse loro sopra. Stanchi del viaggio, dati ad alzar le tende e preparar la cena, i soldati d’Iceta non ressero all’improvviso attacco. Si volsero in fuga con tanta celerità, che soli trecento ne furono uccisi e ’l doppio presi. Tutto il campo venne in mano di Timoleonte.

La vittoria spense le fazioni degli Adraniti, i quali concordemente aprirono le porte della città al vincitore. Maraviglie essi narrarono. Le porte del tempio di per loro stesse s’erano spalancate, e il Dio fu visto vibrar la lancia e grondar di sudore, durante la mischia. Fole erano queste nate dalla esaltata immaginazione della gente; ma la gente ebbe grande ragione di credere che i numi vegliassero sempre a difendere e prosperare le imprese di Timoleonte.

Divulgata quella vittoria, non tempellarono più i Siciliani. Tutte le città libere a lui si diedero; Tindari e le altre, in cui erano tiranni, cercarono il suo ajuto per iscuoterne il giogo. Spaventatone Iceta fece di farlo uccidere a tradimento. Due sicarî da lui spediti vennero in Adrano. Timoleonte preparava un sacrifizio per rendere grazie al nume del prospero successo. I due scherani a lui bel bello s’accostarono; erano già per trarre i pugnali che avevano soppanno, quando uno sconosciuto, che tenea loro dietro, con un gran fendente stese morto un di que’ due e fuggì, cercando salvezza sopra un’alta rupe presso. Fuggì l’altro assassino, e corse ad abbracciare l’altare del nume chiedendo mercè. Gli fu promesso il perdono, senza sapersi di qual delitto; ed ei confessò il misfatto ch’erano per commettere, egli ed il morto, e per cui incarico. Preso in questo l’uccisore d’in su la rupe, veniva gridando non meritare gastigo per avere vendicato il padre, ucciso, già tempo, in Leonzio da quel malvagio. Molti colà si trovavano, ch’erano stati presenti a quel caso, e lo attestarono. Fu rimandato libero il mandatario d’Iceta; e l’altro, non che impunito, ebbe dieci mine in dono da’ soldati corintî. Timoleonte sacrificò al nume per doppia ragione; e per la vittoria riportata, e per la vita come per portento salvata.

III. — Riuniti poi alla sua gente gli Adraniti e i Tindaritani, corse a Siracusa, e tanto inaspettato vi giunse, che Tica venne in suo potere senza resistere. Mamerco tiranno di Catana, potente e dovizioso principe, cercò sottrarsi al destino che lo minacciava, con istringersi in lega con lui. Timoleonte n’ebbe soldati, viveri e danaro in copia. Dionigi stretto da due parti, disperando delle cose sue, anzichè al cittadino traditore, volle rendersi allo straniero virtuoso. Mandò messi a Timoleonte per proporgli la resa, che fu tosto convenuta. Euclide e Telemaco da Corinto con quattrocento soldati entrarono nella cittadella l’anno 1o dell’Olimpiade 109 (344 a. C.), cinquanta giorni dopo l’arrivo di Timoleonte in Sicilia. Vi trovarono, oltre i tesori e i nobili arredi del tiranno, settantamila armature; arsenali pieni di saettame, di macchine e d’attrezzi di guerra; duemila fanti e molti cavalli, che vennero al servizio di Timoleonte. Dionigi venne al campo del vincitore. Con pochi danari fu mandato a Corinto, ove menò nelle bettole, fra baldracche, paltonieri ed istrioni il resto de’ giorni suoi.

I Cartaginesi vennero allora con tutte le forze loro in soccorso d’Iceta. Centocinquanta legni da guerra entrarono nel gran porto e posero a terra sessantamila soldati, che alloggiarono in Acradina. Sorprendente spettacolo offriva allora Siracusa. Tica ed Ortigia erano in potere di Timoleonte e de’ Siciliani; Iceta teneva Neapoli e l’Epipoli; i Cartaginesi Acradina. Tanto vaste e munite, ognuna per se, erano le diverse parti, dalle quali quella gran città era composta, che in esse poteano stare eserciti nemici così numerosi. La sola Acradina, al dire di Plutarco, pareva formata dalla riunione di più città.

Padroni i Cartaginesi ed Iceta di Acradina, di Neapoli e del porto, per le molte navi che vi aveano, si studiavano di affamare i Corintî che erano nella rocca, ma non veniva loro fatto; chè da Catana andavano e venivano sempre piccole barche cariche di viveri, le quali piaggiando, e avvantaggiandosi dei marosi, giungevano alla cittadella, e vi portavano la vettovaglia a spilluzzico, senza che i Cartaginesi potessero impedirlo. Però Magone, che comandava i Cartaginesi, ed Iceta presero consiglio di correre ad insignorirsi di Catana. Levato da Siracusa il miglior nerbo della gente loro, mossero a quella volta. Dall’alto della rocca si avvide il corintio Leonte della loro partenza e dello scarso numero di coloro che restarono di presidio in Acradina, lasciò scappare il destro. Li assalì, li fugò. Acradina venne in suo potere. Vi trovò frumento e denaro in gran copia. Vi si fermò; e senza por tempo in mezzo, alle antiche nuove fortificazioni aggiunse, per unirla alla rocca. Magone ed Iceta erano già poco di lungi da Catana, quando un soldato a cavallo, correndo a tutta lena, diede loro l’avviso della caduta di Acradina. Tornarono indietro velocemente; ma trovarono che Leonte vi s’era afforzato in modo che non era facile lo sloggiarnelo.

Un’altro contrattempo di più grave momento accadde in que’ a’ Cartaginesi. Saputo in Corinto i primi felici successi di Timoleonte, furono a lui mandati altri duemila fanti e dugento cavalli. Giunta tale gente in Turio, trovato i Cartaginesi che guardavano lo stretto, colà si era fermata. Annone, che comandava le navi di Cartagine, visto che costoro non andavano più oltre, accennavano di voler valicare lo stretto, credè essersene levati dal pensiero. E però volle usare uno stratagemma, per indurre que’ Corintî, che presidiavano la rocca di Siracusa, a rendersi. Fece coronare i suoi marinai, ornò le sue triremi di scudi greci, e navigò verso Siracusa. Entrò nel gran porto; si avvicinò alla rocca, facendo levare alla sua gente grida festive, dicendo che aveano soprappresi i Corintî, mentre passavano il mare. Mentre costoro teneano dietro a tali baje, que’ Corintî, accostatisi a Reggio, trovarono il mare sgombro di navi nemiche e tranquillo sì che passarono Sicilia sopra barchette da navichieri, traendosi dietro per le briglie i cavalli. Timoleonte colà s’era recato con buon nervo di gente. Unitovi quel rinforzo, assalì Messena che peCartaginesi allora si teneva; l’espugnò; e con tutta la gente a Siracusa si diresse.

Erano presso Siracusa certi stagni formati dalle acque dell’Anapo che rimpozzavano, nei quali erano anguille in gran copia. I soldati di Timoleonte e que’ d’Iceta, comechè combattessero ferocemente tra loro, quando erano in azione, ne’ giorni di sosta usavano familiarmente; e molti dell’una e dell’altra parte a questi stagni venivano per pescare anguille. Pescando un giorno, e cianciando un da Corinto con un Siciliano dell’altra parte, parlavano della magnificenza della città, della bellezza del porto, dell’amenità de’ campi: «Come mai» diceva il primo all’altro «voi, che pur siete di sangue greco, avete potuto unirvi a questi barbari, naturali nemici dei Greci? Non dovreste voi desiderare che non una, ma più Sicilie si frapponessero fra essi e voi? Perchè impegnarvi a far divenire barbara questa bella città, e deserti questi campi, con darli in mano a questi feroci Affricani? Pensa forse il vostro capitano che costoro sin dalle colonne di Ercole e dal mare Atlantico sian qui venuti, solo per accrescere il dominio di lui? Non trarreste maggior prò e gloria maggiore unendovi a noi per cacciar i barbari, e render libera e felice la Sicilia?» Forse tale discorso quella sola volta, solo fra quei due ebbe luogo; perocchè que’ sentimenti, altamente approvati, tanto rapidamente si diffusero fra i soldati d’Iceta, che Magone n’ebbe lingua, e, già sapendo l’imminente arrivo di Timoleonte colle nuove schiere, tanto si rimescolò per la paura d’essere tolto in mezzo, che, non fidando nelle prepotenti sue forze malgrado le preghiere di Iceta rimise sulle navi l’esercito e tornò in Libia, ove per lo rossore si diede la morte, e ’l suo cadavere fu appeso alla croce.

Il domane giunse Timoleonte. Non trovato i Cartaginesi, saputo la loro fuga, i suoi soldati ne celiavano, e promettevano un premio a chi loro additasse ove s’erano nascosti i barbari. Ciò non però di manco Iceta non volle cedere Neapoli e l’Epipoli, e si preparò a difenderle gagliardemente. Timoleonte lo assalì contemporaneamente da tre parti. Egli stesso attaccò Neapoli dal lato dell’Anapo; Isia da Corinto dalla parte di Acradina; Dinarco e Demareto colle schiere di fresco venute assaltarono l’Epipoli. I nemici furono da per tutto respinti. Neapoli e l’Epipoli vennero in potere di Timoleonte, senza che alcuno de’ suoi soldati fosse morto o ferito. Ciò fu ascritto a miracolo della fortuna; ma è più ragionevole il credere che i soldati d’Iceta, già sedotti, disposti veramente erano a rivolgersi contro i Cartaginesi. Per la fuga di Magone ciò non ebbe luogo; ed in quella vece cessero il posto senza opporre resistenza. Come che andata sia la cosa, quella vittoria tanto celeremente si divulgò, che in Corinto si ignorava l’arrivo in Sicilia della seconda spedizione, quando vi giunse l’avviso del passaggio e della presa di Siracusa.

Sgombra affatto Siracusa da’ nemici, Timoleonte, memore d’essersi apposto a delitto a Dione il non aver demolita la cittadella edificata dal vecchio Dionigi, malgrado la debolezza e la straordinaria magnificenza della mole, la fece ai cittadini spianare. Nella gran piazza che restò, fece edificare la curia; perchè la giustizia e le leggi, sostegno della libertà del cittadino avessero sede in quel sito stesso, in cui stata era la tirannide, che l’avea oppresse.

Ma Siracusa avea mestieri di ben’altro soccorso. Era quella città dopo tante perturbazioni divenuta così spopolata, che nella gran piazza era cresciuta tale quantità di cespi ed erba tanto folta, che vi si menavano a pascere i cavalli e gli armentieri vi si sdrajavano. Le altre parti della stessa erano tanto deserte che Plutarco usa la poetica espressione che erano divenute covili di cignali, di cervi e d’altro salvaggiume; intantochè i Siracusani cacciavano ne’ sobborghi e intorno alle mura stesse (45). E coloro che abitavano nei sobborghi e negli isolati, non volevano più tramettersi ne’ pubblici affari ed aveano preso in odio le pubbliche adunanze, onde emersi erano per lo più i tiranni.

Per ripopolare la città, Timoleonte fece ai Siracusani scrivere lettere a Corinto per avere nuovi coloni. I Corintî mandarono tali lettere, non che in tutte le città di Grecia, ov’erano spettacoli ed altri concorsi, ma fino in Asia, ove sapeano d’essersi ritratti molti dagli esuli Siciliani, facendo da per tutto pubblicare a suon di tromba, che i Corintî dopo aver abolita la tirannide di Siracusa invitavano tutti i Siracusani ed ogni Siciliano a rimpatriare. E però si recassero a Corinto, ove avrebbero navi e condottieri per lo viaggio. Di tali esuli, e d’altri d’altre città di Grecia, diecimila ne furono mandati. Molti anche vi vennero dall’Italia e da altre città di Sicilia; e per tal modo sessantamila nuovi cittadini allora si stabilirono in Siracusa. A coloro furono dati i terreni; ma le case si volle che le comprassero, lasciando agli antichi cittadini, che ritornavano, il dritto d’essere preferiti nella compra. Da tale vendita trasse Timoleonte mille talenti, che servirono ai bisogni della repubblica. Altro danaro, senza gravare il popolo, ebbe dalla vendita delle statue dei tiranni. Timoleonte volle che ciò si fosse fatto, dietro un solenne giudizio. Si usò fin la formalità di richiedere d’una in una quelle statue per comparire innanzi i giudici. Si esaminarono le azioni di coloro, cui que’ simulacri rappresentavano, e, posto il partito, il popolo decise quali erano degni d’esserne conservata l’effigie e la memoria. Sublime pensiero fu questo. Il popolo veniva così ad acquistare un’alta idea della sua dignità e de’ suoi diritti; lo spirito pubblico si esaltava. Ed a tale esaltazione, che Timoleonte sapea bene addirizzare, sono ad ascriversi le grandi vittorie da lui riportate con pochissima gente, che il volgo attribuiva a cagioni soprannaturali. Al tempo stesso, non atterrando tumultuariamente quelle statue, veniva a stabilirsi nel fatto, come principio della nuova repubblica, il non infligere gastighi, pure a coloro che sono tenuti pubblici nemici, se non previo un legale giudizio; senza di che, quale che fosse la forma del governo, la libertà è vôto nome. Giustissimo fu poi il giudizio. Di tutte le statue, di cui Siracusa era piena, solo quella di Gelone fu conservata, in premio della gloriosissima battaglia d’Imera.

Provveduto così alle cose di Siracusa, si rivolse Timoleonte ad estirpare i tiranni delle altre città. Iceta ebbe a pattuire di staccarsi dalla lega di Cartagine; demolire le fortezze di Leonzio; e viversi da privato cittadino fra’ Leontini. Leptine tiranno d’Engio, d’Apollonia e d’altre città, vistosi assalito entro Engio e sul punto di restarvi preso, volontariamente a lui s’arrese; ed ei lo mandò a Corinto, per dare ai suoi concittadini il grato spettacolo dei tiranni siciliani da lui deposti. Fornite tali imprese, per non fare che i soldati mercenarî stessero in ozio e fossero di peso allo stato, li mandò, sotto il comando di Dinarco e Demarato, a molestare il paese soggetto a Cartagine. Molte città vi presero, e tale bottino ne traevano che, non solo bastava al loro mantenimento, ma assai danaro mandavano all’erario della repubblica. Fu ripresa Entella. Quindici di quei cittadini, che grandi fautori s’erano mostrati de’ Cartaginesi, furono messi a morte. Allora tutte le città di greca origine, e molte delle Sicole che erano sotto il dominio de’ Cartaginesi, si resero libere ed a Timoleonte s’unirono.

IV. — I Cartaginesi, minacciati di perdere quanto aveano in Sicilia, fecero uno estraordinario sforzo. Un esercito di settantamila guerrieri, raccolti dalla Libia, dalla Gallia, dall’Iberia, dalla Liguria, venne in Sicilia; lo accompagnava l’armata di dugento galee e mille navi, sulle quali erano macchine, carri, viveri e quant’altro era mestieri per la guerra. Asdrubale ed Amilcare, supremi comandanti, aveano ordine di non attaccare particolarmente tale o tal’altra città; ma cacciare del tutto i Greci dalla Sicilia. Come si seppe in Siracusa che quel trapossente esercito era sbarcato a Lilibeo, i Siracusani spaurirono a tal segno, che soli tremila vollero seguire Timoleonte, il quale, uniti a costoro quattromila tra mercenarî ed altri Siciliani, senza far caso del gran numero de’ nemici, corse ad incontrarli sul loro stesso tenere; perchè la guerra non molestasse il paese amico. Come fu presso Agrigento, mille di quei mercenarî, dei quali era capo un Trasio, uomo tracotato, si negavano ad andare più oltre, e davano del folle a Timoleonte, che, con seimila fanti e mille cavalli, voleva affrontare un esercito decuplo del suo, otto giornate lontano da Siracusa; onde i soldati non potevano avere scampo dopo una disfatta, sepoltura dopo la morte. Timoleonte, senza turbarsi, diede a costoro licenza di ritornare; scrisse a’ magistrati di Siracusa di accoglierli benignamente e pagar loro gli stipendî. Lungi di rammaricarsi per questo, si tenne fortunato che costoro si fossero ritratti prima dell’azione. Col resto del suo piccolo esercito tirò verso il Crimiso, che oggi dicesi Belici, e mette foce ad oriente dell’antico Selinunte, di dal quale sapea essere accampati i nemici. Cammin facendo gli vennero incontrati alcuni muli carichi d’appio (46), di che forte si turbarono i soldati, tenendolo cattivo augurio; perchè di tale erba solevano i Greci coronare i sepolcri. Timoleonte, per togliere dall’animo loro quella superstizione, fattili fermare, disse quanto conveniva per rianimare il loro coraggio, e conchiuse che non era da dubitare della vittoria; dacchè gli Dei apprestavan loro le corone; alludendo al costume de’ Corintî di coronare d’appio i vincitori dei giuochi istmici. Ciò dicendo corse a quei muli, e, fatto una ghirlanda d’appio, se ne coronò. Tornati animosi per questo i soldati, vollero anch’eglino coronarsi d’appio e maggior cuore presero dalla vista di due aquile che volavano, una delle quali aggrappava un serpente, e l’altra le tenea dietro gridando, come per farle cuore: di che gl’indovini trassero ottimo augurio. Rimessosi l’esercito in via, venne a fermarsi su di un colle, che soprastava al Crimiso.

V.Spirato il mese di Targelione, era allora prossimo il solstizio d’estate. Sul far del giorno tutta la sopposta pianura era coperta da nebbia densissima, che non facea distinguere gli oggetti. Da un confuso rombo che dalla pianura movea, conobbe Timoleonte, essere prossimi i nemici. Levato il sole, la nebbia venne addensandesi sulle alture; onde i Corintî senza essere veduti, scoprirono tutto l’esercito cartaginese che s’accingeva a guadare il fiume. Precedevano le quadrighe. Un corpo di diecimila fanti, gravemente armati, le seguiva. Dallo splendore de’ costoro arredi, dai grandi scudi bianchi che portavano, e dal lento ed ordinato proceder loro, si distingueva essere questa la schiera eletta di cittadini cartaginesi. Tutti gli altri corpi indistintamente venivano appresso.

Seppe Timoleonte cogliere il momento, in cui, passando le schiere d’una in una, potea egli combattere con quella quantità di nemici che volea, senza che il resto dell’esercito, separato dal fiume, potesse subito accorrere. Scese al piano; dispose le genti sue in fila; mise nei lati i Siciliani delle città confederate, frammisti ad alcuni stranieri, e tenne con se nel centro i più prodi fra i Siracusani ed i mercenarî. Ordinò alla cavalleria comandata da Demarato di attaccar di fronte i Cartaginesi, appena guadato il fiume, prima che si fossero ordinati. Volle che i fanti si tenessero stretti, unendo scudo a scudo, e in tale atto aspettassero il comando per dare addosso ai nemici, tostochè la cavalleria li avesse in alcun modo disordinati. Le quadrighe che coprivano la fronte de’ Cartaginesi, impedivano ai cavalieri di giungere ad essi; però per non esserne sgominati, venivano aggirandosi e caracollando, per cogliere qualche momento di venire con più vantaggio all’attacco.

Non istette più ad aspettare Timoleonte. Comandava a Demarato di caricare dall’un dei lati i nemici, ed a’ suoi di assalirli dall’altro. Levò lo scudo; si mosse egli il primo, mettendo tal voce, che fu da tutti creduto che un qualche nume avesse gridato per lui. I Cartaginesi coperti il corpo di usberghi di ferro, la testa di celate di rame, e difesi da grandi e pesanti scudi, respinsero il primo urto delle lance. Ma come si venne alle spade, in cui la maestria e l’agilità spesso prevalgono alla difesa delle armi, la mischia divenne calda e sanguinosa. In questo le nebbie, che sul mattino levate s’erano dalle pianure, addensatisi in aria, scaricarono una grandissima tempesta di pioggia e di grangnuola, accompagnata da folgori e tuoni e da forte vento, che spirava contro ai Cartaginesi e li accecava; mentre il fragore dei tuoni, il mugghiare del vento, il fracasso che facevano le grandini nel percuotere gli scudi, li assordavano; però ben potevano parare i colpi de’ Siciliani, ai quali la tempesta veniva alle spalle, udire la voce dei capitani, I cavalli, aombrati dai continui lampi e dal frastuono, si arretravano; le quadrighe divennero d’impedimento alle prime schiere, e queste alle altre che sopravvenivano. Quei fanti cartaginesi, che primi erano stati a guadare il fiume, si trovarono chiusi dalle quadrighe di fronte, dal fiume da tergo, dalla cavalleria e da’ fanti di Timoleonte, che ne facevano aspro governo, sui lati. Il fiume, in questo, gonfiato per la dirotta pioggia, traripò; per cui le pianure d’ambi i lati divennero pantano. Quelle prime schiere, malgrado la pertinacia, con cui gran tempo resisterono, furono finalmente sgominate. Gravi per le pesanti armature, rese anche più gravi per le vesti inzuppate d’acqua, i soldati di Timoleonte ne facevano macello. Molti cercavano salvezza nel tornare indietro e ripassare il fiume; ma urtando le schiere posteriori, che accorrevano, le scompigliavano; gran numero ne cadevano, ed erano assorti dal fiume; perciò pochi ne arrivavano all’altra ripa, e questi, stanchi e disordinati com’erano, venivano assaliti e vi restavano o morti o presi; e nel tentare la fuga o sdrucciolavano, o cadevano nelle pozzanghere che l’acqua faceva. Le schiere che restavano di del fiume, s’affollavano per accorrere tutte; ma il fiume, il suolo, il temporale nol consentivano, e doveano guadare il fiume a spizzico, e combattere sempre con grande svantaggio; chè i Siciliani erano superiori per lo numero, per l’ordine e per la sicurezza della vittoria che accresce a più doppî l’ardire del soldato.

Perduta così la miglior parte di quel grande esercito, coloro che restavano, confusi e spauriti, abbandonate le armi, le salmerie e quanto aveano, si volsero a fuggire in rotta, si tennero sin che furono a Lilibeo. Tale era il loro spavento, che non osarono rimettersi allora in mare per tornare a Cartagine, per non esporsi all’ira degli Dei, che, a creder loro, combattevano per Timoleonte e’ Siciliani. Restarono sul campo, oltre quelli che annegarono, diecimila Cartaginesi, fra’ quali tremila alla ricchezza delle vesti furono conosciuti d’essere cittadini di Cartagine. Cinquemila prigioni furono messi a comune, oltre quelli che i soldati trafugarono. Dugento quadrighe, mille corazze, diecimila scudi di gran prezzo vennero in mano del vincitore. Tale fu la copia e la ricchezza delle spoglie, che i soldati impiegarono tre giorni a raccorne, comechè avessero solo pigliato ciò ch’era d’oro o d’argento, senza curare le cose di ferro o di rame. Bellissimo era il vedere la tenda di Timoleonte tutta parata di armi ed arredi ricchissimi.

Il terzo giorno fu eretto il trofeo. Colla notizia della vittoria, mandò Timoleonte a Corinto le armi più belle. Volle così che la sua patriagloriasse che solo in essa i tempî si vedessero ornati di barbare e non di cittadine spoglie. Lasciato poi i soldati mercenarî a depredare il paese nemico, fece ritorno a Siracusa. Come vi giunse, volle che que’ mille codardi, che non aveano voluto seguirlo, prima del tramontare del sole sgombrassero il paese. Passati costoro in Italia, resisi infesti ai Bruti, ne furono tagliati a pezzi.

Saputo intanto in Cartagine la gran disfatta, tutta la città fu in lutto. Usa la repubblica a combattere con soldati stipendiarî, raccolti da tutte le parti, non avea mai in altra guerra sofferta una perdita di tanti suoi cittadini e dei migliori. Tenne perduto quanto in Sicilia possedea. Assoldò allora per la prima volta schiere di Greci, e ne diede il comando a Giscone, che in quella stretta richiamò dall’esilio, ed in Sicilia lo mandò con quella gente e settanta galee. A tale spedizione maggiormente fu indotta Cartagine dalle istanze d’Iceta e di Mamerco, che con essa si strinsero in lega. Pure ebbe ordine Giscone di difendere i proprî, più che di attaccare i dominî altrui, e far di ottenere una pace da Timoleonte.

Riunite in Messena le genti di Cartagine, di Iceta e di Mamerco, ebbero da prima alcun vantaggio. Quattrocento soldati stranieri, che colà erano stati spediti da Timoleonte, sopraffatti dal numero, si restarono uccisi; e lo stesso destino toccò a que’ mercenarî, che sotto Eutimo di Leucade erano restati sul tenere di Cartagine, colti in agguato presso Iera. Lo che fu tenuto giusto gastigo dei Dei, per essere stati costoro a parte del furto fatto al tempio di Delfo. Nella premura di raccattar gente per la spedizione di Sicilia, avea dovuto Timoleonte assoldare anche tali sacrileghi. Mamerco, che poeta era, tronfio di tali vittorie, fece appendere gli scudi de’ vinti in voto agli Dei, scrittovi sotto: «Co’ nostri rozzi scudicciuoli abbiam presi questi scudi purpurei, splendenti d’oro, di avolio e d’ambra

Era allora Timoleonte ito con poca gente contro Calauria (47). Iceta fatta una correria in quel di Siracusa, tornato indietro, venne a passare presso Calauria, come spregiando Timoleonte. Questi, lasciatolo andare alquanto, gli fu sopra colla cavalleria e i fanti leggieri. Quello, valicato il fiume Dammiria, si fermò per difendergliene il guado. Precipitose erano le ripe. Le compagnie facevano a gara, volendo ognuna essere la prima a passare. Timoleonte, temendo non quella gara fosse cagione di scompiglio e di disastro, volle che la sorte stabilisse la precedenza. Posti in un lembo della sua clamide gli anelli di tutti i capi delle compagnie e scossili, il primo a venir fuori portava inciso un trofeo. Ebbri i soldati da quello augurio, non istettero più saldi: precipitarsi al guado, passarlo oltre, venire alle mani conemici, ucciderne mille, fugare il resto, deposte le armi, fu tutt’uno. qui Timoleonte si tenne. Raccolto maggiore esercito, s’accostò a Leonzio. Gli venne fatto avere nelle mani Iceta con tutti i suoi, presi ed a lui condotti dagli stessi loro soldati. Morte ebbero tutti. Iceta ed Eupolemo suo figliuolo, perchè tiranni e traditori: Eutimo comandante della cavalleria per avere deriso i Corintî, dicendo ai Leontini di non temere se uscivano casa le donne di Corinto. Ed a morte dannate furono le mogli e le figliuolo d’Iceta dal popolo siracusano, per vendicare la moglie, la sorella ed il piccolo figliuolo di Dione.

Volse indi le armi Timoleonte contro Mamerco. Gli venne costui incontro. Si affrontarono all’Alabo (48). Dopo lungo combattimento il tiranno fu volto in fuga, lasciati sul campo duemila dei suoi soldati, molti de’ quali erano Cartaginesi, che Giscone gli avea dati. Il generale affricano, viste andar sempre di bene in meglio le imprese di Timoleonte, chiese a lui pace, ed egli ne dettò le condizioni: restasse l’Alico confine del dominio cartaginese; fosse libero ogni Siciliano suddito di Cartagine di venirsi a stabilire in Siracusa, e portar seco la famiglia e i beni; non desse più soccorso la repubblica ai tiranni di Sicilia.

Mancato così a Mamerco l’appoggio di Cartagine, navigò in Italia per levare un esercito di Lucani. Ma i tiranni aveano allora a temere più dalle idee, che dalla spada di Timoleonte. L’odio per la tirannide s’era appiccato anche ai soldati dei tiranni. Come Iceta, dalle genti sue fu tradito Mamerco. Abbandonatolo in Italia, vennero coloro, che l’aveano accompagnato, a consegnare Catana a Timoleonte. Rifuggì Mamerco a Messena presso Ippone, che avea ripresa la tirannide, Timoleonte fu lento a venire a cinger d’assedio la città. Ippone, nel tentare la fuga per mare, fu preso. Condotto nel teatro, i Messenesi, flagellatolo prima, l’uccisero, e vollero che presenti vi fossero i ragazzi per imparare come si puniscano i tiranni. Mamerco volontariamente s’arrese, a patto d’essere giudicato dai Siracusani, senza che Timoleonte l’accusasse. Scrittore di poemi e di tragedie com’era, avea composta un’aringa, colla quale sperava molcire gli animi de’ Siracusani; ma, cominciato appena il discorso, il popolo ad alte grida gli ruppe le parole. Disperato, corse furioso a dar del capo negli scalini del teatro per morire. Non morì, come volea; morì, come non volea.

Restava ad estirpare un racimolo di tirannide. Stanziavano in Etna i Campani, gente feroce e sleale, usa a servire i tiranni, pronta a vendersi a chi lo volesse divenire. Espugnata la città, Timoleonte ne li cacciò e li disperse. Nicodemo tiranno di Centuripe, ed Apolloniade d’Agira lasciarono le città e la tirannide, quello di forza, questo di queto. Gli Agirini ebbero la cittadinanza di Siracusa.

VI. — Spenti del tutto i tiranni, volle Timoleonte che tutte le città siciliane si stringessero in lega generale. Spedì un araldo per tutte le città della Grecia a bandire che il senato e ’l popolo di Siracusa offrivano case e terre a chiunque volesse venire in Sicilia. I Greci v’accorsero in folla come per venire al possedimento di una nuova eredità. Quarantamila ne vennero in Siracusa; diecimila in Agira; Magello e Feristo da Elea nuova colonia recarono ad Agrigento, ed un’altra a Gela Gorgo da Ceo; Camarina altronde crebbe, i Leontini vennero a stanziare a Siracusa.

Diede allora opera Timoleonte a riformare le leggi di Siracusa, coll’ajuto di Dionigi e di Cefalo, valenti giureconsulti, fatti a bella posta venire da Corinto. Conobbero costoro, che il dare di colpo ad un popolo leggi del tutto nuove, è lo stesso che ridurlo senza leggi; e però lasciarono intatte quelle che i diritti privati dei cittadini risguardavano, che lunga consuetudine avea consacrato. Emendarono solo le altre che alla composizione del governo ed al dritto pubblico si riferivano. La Sicilia cambiò allora d’aspetto; l’agricoltura, il commercio, le arti, le scienze fiorirono; la ricchezza crebbe; nobilissimi edifizî per tutto si levavano.

Compita così in tutte le sue partì l’impresa, si spogliò Timoleonte d’ogni autorità. Fattisi venire da Corinto la moglie e’ figliuoli, si ritrasse ad abitare presso Siracusa, in una bellissima villa, di cui il popolo gli avea fatto dono. Già grave d’anni, per malattia ereditaria accecò. Non però venne meno il suo nome; che anzi ebbe maggiore risalto dal rispetto e dall’amore di tutti i Siciliani e dalla sua modestia. legge si bandiva, trattato si conchiudeva, opera pubblica s’imprendeva, affare di momento si trattava in alcuna città, di cui non si volesse prima il consiglio e l’approvazione di lui. Presente lo voleano i Siracusani nelle gravi deliberazioni. Veniva all’assemblea su d’una biga; traversava tra gli applausi il teatro; sentiva di che si trattava; dava il suo parere, dal quale mai non si dipartivano; e fra gli applausi ritornava. Nessuno straniero a Siracusa arrivava, che il popolo nol menasse a Timoleonte; altro nome gli davano che quello di benefattore. E si stanziò, che in ogni caso di guerra straniera (49), da Corinto esser dovesse il comandante delle armi. Pure invece d’esser gonfio delle sue azioni, le attribuiva egli alla fortuna. Di questa cieca dea si mostrava devoto; eresse in casa sua un’edicola al caso fortuito; tal nume adorava; a tal nume sacrificava; a tal nume la casa stessa dedicò. pativa d’esser meno soggetto alle leggi di qualunque altro cittadino. E qui ben cade in acconcio il detto di Simonide, riferito da Plutarco, che ogni allodola aver deve la sua cresta, ogni democrazia i suoi calunniatori. Due oratori popolari vi furono, che nell’assemblea attaccarono Timoleonte. Lafistio chiese che egli desse mallevadori per una lite; volevano gli astanti levarsi a tumulto; nol consentì egli, dicendo, non ad altro fine avere egli volontariamente incontrato tante fatiche e tanti pericoli, che per fare che ogni cittadino potesse valersi dalla legge. Demeneto in un lungo discorso in piena assemblea, si fece a redarguire la sua condotta: null’altro rispose Timoleonte che levare le mani al cielo, e ringraziar gli Dei di aver concessa ai cittadini la libertà di parlare, di chi gli avea sempre supplicati.

Finalmente gli anni più che di una lieve malattia lo trassero a morte nell’anno 4o della 110 Olimpiade (337 a. C.). Scorsi alcuni giorni per allestire i funerali, e dar tempo alle genti straniere e alle vicine d’accorrere, il feretro pomposamente ornato, soffolto da giovani eletti a partito, fu portato a traverso la piazza, ove erano state le reggie dei tiranni. Lo seguiva innumerevole tratta di gente d’ogni età e d’ambi i sessi. Aveano tutti in dosso candide vesti, e coronati erano tutti, come se assistessero ad una festa solenne. Ma il contegno di tutti non era festivo. Non per consuetudine o per disposizione premeditata, ma per vero sentimento gli ululati e le lagrime di tutti interrompevano gli encomî che chiamavan beato. Deposto il feretro sopra la pira, Demetrio il banditore a ciò destinato per avere voce più sonora degli altri, pubblicò il decreto fatto, ed era questo: «Il popolo siracusano seppellisce colla spesa di dugento mine questo Timoleonte di Timodemo da Corinto: e vuole in oltre che perpetuamente venga onorato con gare musicali, equestri e ginniche, per avere egli abbattuti i tiranni, debellati i barbari, ripopolate le più grandi di quelle città, ch’erano state devastate, e stabilite ottime leggi ai SicilianiErettogli poi nella piazza il monumento, vi si fabbricarono intorno portici ed un ginnasio per esercitarvisi la gioventù; e quel luogo fu detto: Scuola timoleontea.





44 Di Galara o Galera, oggi Gagliano.



45 Plutarco dice, che le altre città s’erano inselvatichite a quel segno. I nostri storici hanno creduto che ciò sia avvenuto nelle altre città di Sicilia; ma dal contesto pare ch’egli abbia inteso parlare delle varie città, dalle quali Siracusa era composta.



46 L’appio è una specie di sedano selvatico; i Greci lo chiamavano σελινος. Per essere abbondantissimo in que’ campi, ne trasse il nome Selinunte. In tutte le monete di quella città se ne vede improntata la foglia.



47 Fazzello, e dopo lui alcuni de’ moderni storici, dicono che Timoleonte s’era recato in Calabria, e che Iceta venne colà a ritrovarlo. Non saprebbe capirsi come quel generale, destinato in Sicilia, avesse potuto passare in Calabria, mentre aveva a combattere in Sicilia un’esercito cartaginese e due potenti tiranni. Dalla narrazione di Plutarco si vede chiaro essere stata una città, e non una provincia, contro la quale Timoleonte portò le armi. Forse invece di Καλαυρια, deve leggersi Γαλαρια; chè Galaria era abitata da’ Campani, a’ quali Timoleonte fece guerra. Calauria è d’incerto sito, come Iera e ’l fiume Dammiria.



48 Oggi Cantara, che mette foce presso Agosta.



49 Plutarco dice così: ma troviamo che appresso, quando Agatocle usurpò la tirannide, Acestoride da Corinto comandava gli eserciti, e gli storici dicono, che ciò era in seguito di quel decreto. Allora Siracusa era in pace. Conviene dunque credere, o che vi sia stata una guerra straniera, che ignoriamo, o che il decreto non era limitato al solo caso d’una guerra straniera.



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