Niccolò Palmeri
Somma della storia di Sicilia

SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA]

CAPITOLO X. I. Prime azioni d’Agatocle. — II. Usurpa la tirannide. — III. Lega contro di lui: pace. — IV. Guerra co’ Cartaginesi: battaglia sull’Ecnomo. — V. Agatocle porta la guerra in Affrica: modo di prepararvisi. — VI. Sue vittorie. — VII. Disfatta de’ Cartaginesi in Siracusa. — VIII. Stato della guerra in Affrica. — IX. Agatocle viene in Sicilia: ritorna in Affrica: ne fugge. — X. Nuove imprese: sua morte.

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

CAPITOLO X.

I. Prime azioni d’Agatocle. — II. Usurpa la tirannide. — III. Lega contro di lui: pace. — IV. Guerra coCartaginesi: battaglia sull’Ecnomo. — V. Agatocle porta la guerra in Affrica: modo di prepararvisi. — VI. Sue vittorie. — VII. Disfatta de’ Cartaginesi in Siracusa. — VIII. Stato della guerra in Affrica. — IX. Agatocle viene in Sicilia: ritorna in Affrica: ne fugge. — X. Nuove imprese: sua morte.

I. — Comechè Timoleonte avesse in tutte le città di Sicilia ristabilito le repubbliche, il rispetto e l’amore de’ popoli per lui non diede luogo a’ mali che sogliono accompagnare tali governi. Ma scorsi appena vent’anni della morte di lui, il frutto delle sue grandi imprese svanì. Dall’eccesso della libertà e della ricchezza nacquero le fazioni, e da queste le interne discordie, di cui si approfittò Agatocle per usurpare la tirannide di Siracusa (50). Nato costui in Terme-selinuntina da un figulo reggino, che, esule della patria, si era ivi da prima stabilito, era di poi venuto col padre ad abitare in Siracusa, ove avea passato l’infanzia, esercitando lo stesso mestiere. Bello com’era, un Damante, ricco cittadino, senera invaghito e seco l’avea tenuto. Venuto adulto, cominciò ad esser noto per la straordinaria gagliardia del corpo. Mossa guerra trai Siracusani ed Agrigentini, Damante comandò lo esercito de’ primi, ed in esso diede un posto distinto al bel garzone, il quale cominciò tosto ad acquistare nome e credito, fra’ soldati per la bravura, fra ’l popolo per l’audace e libero parlare. Morto non guari dopo Damante e lasciata erede delle sue facoltà la moglie, costei sposò Agatocle, con cui si dicea d’avere avuto anch’essa meno che onesta confidenza.

In una guerra tra Brutî e Crotoniati, Siracusa parteggiò per Crotone, e spedì in quelle parti uno esercito, di cui diede il comando ad Eraclide e Sosistrato. In tale spedizione fra gli altri capitani fu, per decreto del popolo, scelto Agatocle. Comechè molto si fosse egli distinto in quella guerra, pure Sosistrato, o perchè invido del valore di lui, o per non elevare un uomo diffamato pecostumi suoi, nelle relazioni mandate al popolo non ne fece parola. Per vendicarsene, ritornato in Siracusa, accusò Sosistrato, che nobile era, e tutti gli ottimati, di aspirare ala . Sosistrato, non che si discolpò, ma ottenne il bando dell’accusatore e di tutti coloro che erano dalla sua. Esule, visse di ladroneccio e di pirateria. Tentò d’insignorirsi di Crotone, e gli venne fallito il colpo. Rifuggito a Taranto, vi fu da prima bene accolto ma poi, venuti i Tarantini in sospetto delle sue intenzioni, ne fu bandito.

In questo, i Siracusani essendo in guerra coi Reggini, mandarono un esercito capitanato da Sosistrato ed Eraclide ad assediare Reggio. Agatocle; che in quelle parti era, raccolta una mano di altri esuli Siracusani venne in aiuto dell’assediata città. Colla giunta di tale soccorso i Reggini si difesero, in modo che i Siracusani ebbero a levare l’assedio. Tanto gridarono in Siracusa i plebei per quel disastro, di cui davano colpa ai generali ed a tutti i patrizî, che Sosistrato con secento degli ottimati fu bandito, ed Agatocle co’ suoi richiamato nell’anno 4o dell’Olimpiade 115 (317 a. C.). Sosistrato e tutti gli altri banditi, che in gran numero erano, non tollerarono in pace il bando. In armi s’accostarono in Siracusa, ed ebbero aiuto dai Cartaginesi. Una guerra civile s’accese, nella quale Agatocle diede molte prove di coraggio e di sagacità. Si mostrava al tempo stesso ardentissimo repubblicano, zelantissimo difensore della plebe, acerrimo nemico de’ nobili e dei ricchi, contro i quali di continuo inveiva colla solita accusa di opprimere il popolo e di agognare alla tirannide. Con tali mezzi venne caro a’ soldati e alla plebe

Era in que’ in Siracusa Acestoride da Corinto, il quale, giusta il decreto fatto a tempi di Timoleonte, avea il supremo comando delle armi. Costui, che la vedea da lontano, conobbe ove tendevano le mire di Agatocle. Non avendo altro argomento di smaltirlo, datogli un finto ordine di recarsi in un sito fuori la città, commise ad alcuni soldati, di assalirlo sulla via, e metterlo a morte. Non vi cadde l’astuto. Insospettito della trama, mandò per quella via uno schiavo della sua statura, cui diede il suo cavallo e le armi sue, e quel misero cadde sotto i colpi degli assassini.

Egli poi scantonò e rifuggì a Morganzio. Vi fu accolto da que’ cittadini, nemici de’ Siracusani. Fu fatto prima pretore, poi comandante dell’esercito, alla testa del quale s’insignorì di Leonzio, e poi venne ad assediare Siracusa.

Intimoriti i Siracusani, richiamarono gli ottimati, e cercarono l’ajuto de’ Cartaginesi. Amilcare, che li comandava, cui Agatocle avea pregato di interporsi per la pace, venne a capo d’indurre i cittadini a riceverlo, dopo d’aver solennemente giurato nel tempio di Cerere di nulla intraprendere contro il governo popolare. Intanto si mostrò religioso osservatore del giuramento e caldo sostenitore della libertà, che quell’incauto popolo, ivi a non molto, gli conferì il supremo comando dell’esercito, col titolo di custode e conservatore della pace, finchè fossero composte le interne dissensioni.

II. — Era allora l’autorità civile riposta in un consiglio di secento senatori, scelti fra’ cittadini più distinti per virtù, per natali, per dovizie. Ma l’autorità civile è stata sempre dico ben lieve per difendere la pubblica libertà, quando la forza è stata nelle mani d’uomini della tempra di Agatocle. Gli Erbitani, che soggetti erano a Siracusa, in quei si ribellarono. Fu dato ad Agatocle l’incarico di mettere in pronto l’esercito per andare a domarli. Col pretesto di tale guerra assoldò in prima que’ Morgantini, che lo aveano tanto bene servito. A costoro unì tutti i mascalzoni, i poveri e gli uomini di scarriera, che in tutto erano tremila. Con un pretesto ebbe a se Pisarco e Decle, capi del senato, i quali vi vennero con quaranta altri cittadini. Come costoro entrarono in casa sua, li fece arrestare; e tutto ansante e pauroso corse a’ suoi soldati, dicendo che coloro, per commissione del senato, volevano insidiargli la vita. Quell’indomita congrega entrò in furore; decise di punire tutti i senatori e loro amici; ed immantinente diede addosso agli inermi cittadini. Ogni casa, ogni età ed ogni sesso fu preda alla rapina al ferro, alle sozze voglie di quegli scherani. Vergini pudiche, gentili garzoni, nobili matrone fuggivano da per tutto, e da per tutto incontravano la villania o la morte. Si ardevano gli usci, o si sfondavano i tetti di quelle case, ove molti cercavano scampo. Serrate le porte della città, a nessuno era dato fuggire. Gran numero, non avendo altro argomento come campare tanto eccidio, saltò dalle mura; la maggior parte ne restarono pesti od estinti; da seimila si salvarono in Agrigento. Finalmente dopo due giorni, ricco di tante prede, sazio di private vendette, Agatocle pose fine a quegli orrori; e si contentò di bandire coloro, che meno odiava.

Chiamato di poi a parlamento il popolo (se popolo potea dirsi un misero avanzo di poveri e tremanti cittadini), si fece a declamare contro il governo de’ secento; disse essere stato astretto a quel passo dalla necessità di purgare la repubblica da coloro, che opprimevano il popolo. Ottenuto ciò, null’altro desiderava che deporre l’autorità e tornare in privata condizione. Così dicendo, si spogliò della tunica militare e del manto, I satelliti suoi cominciarono a gridare essere necessario che la somma potestà fosse a lui affidata. Veramente le cose erano ridotte a tale, che non vi era via di mezzo: o continuare negli orrori dell’anarchia, o dare il supremo potere al solo, che la potea reprimere. A quest’ultimo partito il popolo s’appigliò. Agatocle mostrò tempellare, poi dichiarò essere pronto ad accettare l’autorità che gli si dava, a patto d’essere solo nel comando, per non rispondere nelle colpe altrui.

Giunto a quel posto, cui da lung’ora agognava, si mostrò tutto diverso di prima. Non volle diadema, non volle guardie della sua persona; tutti liberamente a lui, andavano, e con tutti familiarmente usava. Dava terre, compartiva favori, studiava in modo di alleviare le pubbliche imposte; però vennne presto accetto al popolo. Al tempo stesso ricomponeva lo stato; aumentava l’esercito e l’armata. Quando a lui parve d’essere forte abbastanza, si diede nell’anno 1o dell’Olimpiade 116 (316 a. C.) ad estendere il dominio siracusano con sottomettere le vicine città. L’anno appresso assalì Messena, e gli venne fatto d’insignorirsi di uno dei suoi castelli. Si venne a patti. Consentirono i Messenesi di pagare trenta talenti per la restituzione della fortezza. Avuto il danaro, si negò il tiranno a restituirla; anzi nel cuor della notte tentò di dar la scalata alla città stessa. Accorsi i cittadini, fecero tal prova, che l’obbligarono a lasciare l’impresa. Quindi levatosi, venne a Mile e se ne impadronì. Tornò l’anno appresso all’impresa di Messena, e non vi fece miglior frutto; chè gli esuli Siracusani venuti in ajuto dei Messenesi, resero vano ogni suo sforzo. Tramessisi i Cartaginesi, fu conchiusa la pace. Agatocle restituì il castello occupato da prima, e fece ritorno a Siracusa. Venne prima ad Abacena e volle messi a morte alcuni de’ cittadini, che sapea essere suoi nemici.

III. — In questo, Sosistrato e tutti gli esuli siracusani, che in Agrigento si erano ritirati venivano tutto aizzando contro Agatocle gli Agrigentini, i quali, perchè intatte serbavano ancora le libere forme stabilite da Timoleonte, odiavano la tirannide e temevano il grand’animo e la smisurata ambizione del tiranno. E però nell’anno 3o della 116 Olimpiade (314 a. C.) fu conchiusa un’alleanza tra Agrigentini, Messenesi e Geloi contro di lui. Gelosi com’erano gli Agrigentini della libertà, per non affidare ad alcun cittadino il comando delle armi, spedirono alcuni de’ loro a Sparta per chiedere un comandante. Come giunsero, Acrotato, figliuolo del re Cleomene giovane di perduti costumi, saputo l’arrivo di costoro e l’oggetto della missione, loro s’offrì, ed essi disavvedutamente, senza fare altra parola al re od agli Efori, l’accettarono e con seco ne lo menarono. Cammin facendo posero a Taranto. I Tarantini, sedotti dal nome di Sparta e del re Cleomene, vollero essere a parte dell’impresa e diedero venti galee.

Non sì tosto fu Acrotato in Agrigento, che si diede a conoscere qual’era. Vile, insolente lussurioso, rapace, dalla crudeltà in fuori, nulla avea di Spartano. Venuto questo in odio al popolo, l’odio mal represso divenne furore, quando, invitato a cena l’illustre Sosistrato, lo fece a tradimento uccidere. Il popolo, levatosi a sommossa era per lapidarlo. Venne fatto a quel vile campare colla fuga il gastigo. Partito costui, i Tarantini richiamarono il loro naviglio; e morto Sosistrato era mancata l’anima della impresa. Gli alleati cominciarono a nicchiare. Messisi allora per lo mezzo i Cartaginesi, fecero conchiudere un generale accordo, nel quale Cartagine ebbe il suo prò, essendosi pattuito che Eraclea, Selinunte e Terme-imerese restassero sotto il dominio cartaginese. Le altre dipendessero da Siracusa, ma conservassero le proprie leggi.

Deposte le armi, Agatocle Gela ed Agrigento si diede ad accrescere il suo dominio, sottomettendo le città ed i castelli contermini. resistenza potea trovare, per avere sotto di se, oltre i soldati siracusani e quelli delle città alleate, diecimila fanti mercenarî ed oltre a tremila cavalli. Ed assai più poteva assoldarne, avendo in serbo armi a josa. Riunite le maggiori forze che potè, si accostò minaccioso a Messena, ove s’erano ritratti gli esuli siracusani, i quali dopo la pace non si tenevano più sicuri in Agrigento. Intimò quei cittadini o a cacciare quegli esuli, o a prepararsi alla guerra. I Messenesi per la bella paura, si acchinarono al primo partito. Fu come amico ricevuto in città; quel popolo ebbe allora a dolersi di lui ma, tornato a Siracusa, vi chiamò da Messena e da Tauromenio que’ cittadini, che sapea di essere a lui avversi, e li fece morire. Se non v’ha esagerazione, furono secento.

IV. — Ciò fatto, corse sopra Agrigento; ma avuto notizia che i Cartaginesi, intimoriti delle sue nuove imprese, ed adizzati dagli esuli, erano venuti con grandi forze in Sicilia, tornò di volo a Siracusa. Un Dinocrate da Siracusa in que’ , raccolti gli esuli di Siracusa e di altre città, ne mandò una mano sotto Ninfodoro a cacciare da Centuripe la gente del tiranno. Era venuto fatto a costui d’indettarsi con alcuni di que’ cittadini ed introdursi con pochi compagni in città.

Accorso il generale d’Agatocle, li tagliò a pezzi. Sopraggiunto lo stesso tiranno, punì di morte coloro che aveano favorito l’impresa. Dinocrate intanto era entrato di forza in Galaria. Venuti Pasifilo e Demofilo, per parte del tiranno, con altra gente, ne seguì sanguinosa fazione, nella quale Dinocrate e’ suoi furono rotti; Galaria ripresa.

In questo i Cartaginesi s’erano afforzati sul colle di dall’Imera detto Ecnomo, che in greco suona scellerato, per essere fama che ivi era stato il famoso toro di Falaride. Vi venne Agatocle; li provocò a battaglia; ma quelli ricusarono il cimento. Avanzata essendo la stagione, tornò a svernare in Siracusa. Nuovo intanto e più potente soccorso fu spedito da Cartagine. Erano ottanta galee ed assai navi da carico, sulle quali erano duemila cittadini Cartaginesi, diecimila Affricani, mille Etruschi, mille frombolieri, dugento carri da guerra, ed ingente quantità d’armi, di danaro, di viveri e di quant’altro era del caso. Ma come tutto quel naviglio venne fuori del porto, si levò una violentissima tempesta, per cui sessanta delle galee e dugento navi perirono, e con esse assai de’ Cartaginesi. Per la qual cosa furono coperte di neri panni le mura di Cartagine, come era solito nei grandi disastri. Ciò non di manco Amilcare di Giscone, cui il supremo comando era dato, giunto in Sicilia, assoldò nuova gente, ne trasse dalle città amiche, e ricomposto l’esercito, venne ad accamparsi anch’egli sul colle Ecnomo ove si trovò ad avere in tutto quarantamila fanti e cinquemila cavalli.

Si preparava Agatocle ad una battaglia. Ma, oltrechè il suo esercito era inferiore, e la sua armata avea non guari prima perduto venti galee in un conflitto coCartaginesi, non volea correre diviato al nemico, lasciandosi alle spalle città a lui malaffette, che potevano nuocergli. Temeva particolarmente di Gela, città grande, potente e vicina al campo nemico. Adunque cominciò a fare entrare a spizzico e, come altrove diretti, soldati suoi in Gela. Quando a sufficienza ne ebbe introdotti, vi venne egli stesso ed accusò i più distinti cittadini di tradimento. Accusatore, testimone, giudice ed esecutore mise a morte, dicesi, quattromila cittadini dei più facoltosi, de’ quali appropriò i beni; e, pena la vita, volle dagli altri tutto il danaro e quanto aveano di prezioso.

Spossata Gela, spaventate con quel crudele esempio le altre città, che poteano tentar cose nuove, ricco di tanta preda, venne Agatocle a porsi ad oste sul colle Talario, che stava a fronte all’Ecnomo. L’Imera scorrea nel miluogo. Era un’antica tradizione di avere un oracolo predetto che in quel sito accader dovea una grande battaglia nella quale assai gente dovea perire. Spaventati dal pronostico i due eserciti, temendo ognuno di farlo avverare con suo danno, non osavano venire a battaglia campale; e stavano a molestarsi con ispesse correrie. Un giorno i corridori siracusani aveano fatta una grossa preda ai nemici, i quali mandarono una forte schiera de’ loro a combatterli per ritoglierla. Agatocle avea messo in guato una mano de’ suoi più prodi, i quali, come videro che i nemici, valicato il fiume, assalivano i corridori, loro corsero sopra; gran numero ne uccisero; gli altri fuggirono in rotta verso il loro campo. Agatocle non lasciò scappare quel destro di assalire il nemico ne’ suoi stessi ripari. Con tutta la gente sua fu sopra a’ fuggitivi, e con essi giunse sull’Ecnomo tanto improvvisamente, che i Cartaginesi non ebbero tempo di venir fuori ed ordinarsi in battaglia. Si combattè lunghesso il fosso che cingeva il campo cartaginese, e con tanta ostinazione, che quel fosso venne presto colmo di cadaveri. Il vallo fu superato: i Siracusani erano già nel campo nemico. Amilcare, visto rinculare i suoi, mandò avanti una schiera di valenti frombolieri delle isole baleari. Più atroce divenne allora la battaglia. I soldati d’Agatocle, colti dai ciottoli, cadevano a migliaja, o pesti od uccisi. Toccò allora ad essi ad arrestarsi. Ma Agatocle li riunì, li rianimò, e tornarono con tale impeto all’attacco, che in breve i suoi furono già dentro il campo, e già i Cartaginesi da per tutto piegavano. La totale disfatta loro parea inevitabile. In tal fortunoso momento una nuova mano di soldati, spediti da Cartagine, sopraggiunse ed attaccò di fianco i Siracusani, i quali, soperchiati dal subito ed inaspettato assalto, precipitosamente fuggirono, parte verso gli accampamenti; e parte lungo il fiume. La cavalleria nemica l’inseguì per cinque miglia, e nell’inseguirli ne faceva strage. Quelle pianure restarono gremite di cadaveri. Coloro, che camparono dal ferro nemico, perirono poi miseramente nel fiume. Era nel cuor dell’estate; di fitto meriggio; que’ miseri, alidi ed anelanti per lo combattere e per la corsa, si gittarono nel fiume, e tanto bevvero di quell’acqua salsa, che ne morirono. Perderono in quella battaglia i Cartaginesi mille dei loro, i Siracusani settemila.

Agatocle coll’avanzo della sua gente si ridusse a Gela, e fece correr voce d’esser fuggito a Siracusa. Trecento cavalieri cartaginesi, ingannati da ciò entrarono in Gela, credendo trovare un popolo amico, e vi restarono trucidati dai Siracusani. Voleva Agatocle attirare i Cartaginesi ad assediare Gela, per aver tempo di munire e provveder di viveri Siracusa. Amilcare in quella vece si diede a discorrere l’isola per suscitare nemici al tiranno, e venirlo ad assalire in Siracusa con forze prepotenti. Non solo gli aprirono volontariamente le porte le città e le castella di minor nome; ma Camarina, Leonzio, Catana, Tauromenio, Messena, Abacena ed altre molte a lui si unirono. Agatocle intanto era corso a grandi giornate a Siracusa, ne avea fatto restaurare le fortificazioni; biade avea raccolte in gran quantità dai vicini campi, ed ogni appresto avea fatto per sostener l’assedio. Amilcare in questo con numeroso e fioritissimo esercito veniva avvicinandosi.

V. — Tutti tennero allora Agatocle perduto. Non era città in Sicilia che sua nemica non si fosse dichiarata; in Siracusa non pochi forvoglia lo difendevano; un esercito era per venirgli addosso; chiuso era il mare da un’armata vittoriosa. Pure allora fu che quest’uomo straordinario concepì e recò a fine l’arditissimo pensiere, imitato in appresso dai Romani, di portare la guerra in Affrica. Ardua era l’impresa. Straordinarî sforzi erano necessarî. Mezzi straordinarî e violentissimi usò, per fare gli appresti, ch’erano del caso, e purgare la città da tutti coloro ch’erano a lui malaffetti. Chiamati a parlamento i cittadini, disse che venissero sicuri, per avere egli già divisato il modo di fare che i Cartaginesi quindi fra pochi giorni partissero; purchè avessero eglino pazienza di tollerare quei pochi giorni d’assedio. Che se alcuni fossero in città, ai quali ciò incresceva, poteano costoro liberamente andare ovunque fosse loro piaciuto. Millesecento de’ Siracusani vollero giovarsi di tale permesso, e tolte le cose loro più pregevoli, andarono via. Il tiranno fece loro tener dietro da’ suoi mercenarî, i quali tolta loro la roba, li uccisero. Appropriò i beni dei pupilli, volle a forza danaro in presto da’ mercatanti; e senza rispettare la religione e la bellezza, tolse ai tempî e alle donne i più preziosi arredi. Diede la libertà a tutti gli schiavi atti a portare le armi, e ne accrebbe l’esercito. Per avere poi un pegno della fedeltà dei Siracusani, divise ogni famiglia; parte ne lasciò in Siracusa, e parte ne menò seco.

Sessanta galee erano preste; altro s’aspettava che il momento opportuno per ischivare l’armata nemica e partire. Nessuno ebbe lingua del suo progetto. Molti molte cose dicevano; ma tutti erano d’accordo nel compiangere il destino di coloro che partivano; perlochè disanimati erano i soldati. Avvistosene Agatocle, come l’esercito fu sopra le navi, dichiarò che ognuno che non volea partire era in libertà di tornare in terra. Coloro, che s’approfittarono di quel congedo, come codardi e traditori furono condannati a morte.

Mentre si aspettava una favorevole congiuntura per partire, s’avvicinarono al porto di Siracusa alcune navi cariche di viveri; l’armata cartaginese venne fuori per predarle. Agatocle non lasciò scapparsi la bella occasione, e partì l’anno 3o dell’Olimpiade 117 (310 a. C.). Avvistisine i Cartaginesi, non curando più di quelle navi, gli corsero appresso; onde quelle, entrate liberamente in Siracusa, vi portarono l’abbondanza. Stretto Agatocle da’ nemici, voltate le prore, si dispose in ordine di battaglia, comechè con forze inferiori. Si attaccò la mischia; ma la notte pose fine al combattere, e diede campo alle galee siracusane di scantonare. Al far del sesto giorno erano presso il lido affricano. L’armata nemica tanto le incalzava, che, mentre le prime prendevano terra, alcuni dei legni cartaginesi più celeri degli altri attaccarono le sezzaje; ma coloro ch’erano già in terra a furia di dardi e di sassi li respinsero.

Come fu in terra l’esercito, Agatocle palesò ai soldati il suo disegno. Disse loro che il sicuro mezzo di liberare la patria dalla straniera invasione era quello di venire ad attaccare la sede stessa del dominio cartaginese. L’Affrica doviziosissima e piena di città mal munite, offriva loro assai preda e poco rischio; senzachè dovea necessariamente accadere, o che il nemico richiamava l’esercito di Sicilia, o ch’eglino si ricattavano in Affrica dal danno. I soldati risposero con vivi applausi.

All’audacissimo pensiere di venire a guerreggiare in Affrica tenne dietro un passo anche più temerario. Visto i soldati applaudire all’impresa, comparve fra essi in mezzo a’ suoi capitani, portando tutti sul capo corone di fiori. Disse aver egli prima di partire fatto voto a Cerere e Proserpina di bruciare le navi, tostochè avesse messo piede in terra affricana: essere mestieri adempire il voto, se non volevano provocare lo sdegno delle Dee tutelari di Sicilia.

In questo dire, dato di piglio ad una face, mise foco alla galea capitana. I soldati imitarono il suo esempio con somma ilarità. In poco d’ora tutto il naviglio andò in fiamme. Ottenne così che quelle navi non fossero cadute in mano del nemico, come sarebbe certamente avvenuto, se le lasciava in quel lido o le mandava in Sicilia; e i soldati erano ridotti alla necessità di vincere o di morire.

VI. — E perchè non si raffreddasse l’ardore della sua gente, si diresse diviato contro la gran città. Amenissimi campi traversò l’esercito. Sparso era il paese di ville magnifiche, di ridenti giardini, irrigati da larghe sorgenti, di prati coperti di ricche produzioni e di campagne sterminate, nelle quali erravano mandre ed armenti numerosissimi. Tutto mostrava la somma opulenza dei Cartaginesi, e tutto concorreva ad animare le speranze del soldato di acquistarvi grandi ricchezze. Ne tali speranze andarono fallite. La gran città e poi Tunisi furono prese e saccheggiate. Saputo in Cartagine lo sbarco e i progressi de’ Siciliani, somma fu la costernazione. Si tenea certo essere stati del tutto distrutti l’esercito e l’armata di Sicilia: senza di che non si credea possibile che Agatocle avesse potuto venir fuori. Un avviso giunse opportunamente d’essere in buono stato le cose in Sicilia.

Incuorata la repubblica da tale notizia, si diede a raccorre gente. I cittadini si armarono; la sacra coorte, composta da duemilacinquecento dei più nobili fra essi, fece parte dell’esercito, che sommò a quarantamila fanti, mille cavalli e duemila carri. Ne fu dato il comando ad Annone e Bomilcare. Erano costoro nemici. Si pensò che la loro nemicizia rendea impossibile un tradimento. L’esercito cartaginese, più che doppio del siracusano, venne ad occupare una collina poco discosta. Schieratosi in battaglia, Annone tenne il corno destro overa la sacra coorte, Bomilcare il sinistro. E perchè il terreno non permetteva a costui di disporre la sua gente in lunga fila, ne formò una profonda falange. Nel fronte erano i cavalli, ed avanti a questi i carri. Era intenzione dei generali cartaginesi di spigner prima i carri, per isgominare i Siracusani, la cavalleria dovea romperli, tutto l’esercito poi compir la disfatta.

Agatocle, vista la disposizione del nemico, divise in quattro colonne la gente sua. Arcagato suo figliuolo con una schiera di duemila fanti, tenea la destra; un’altra di oltre a tremila Siracusani la sinistra; erano fra esse tremila mercenarî greci ed altrettanti Sanniti, Tirreni e Celti; egli, con mille fanti di grave armatura si pose nel centro, a fronte della coorte sacra. Mille arcieri e frombolieri furono spersi ne’ due lati. Restava una marmaglia inerme. A costoro fece Agatocle imbracciare le coperte degli scudi, tenute stese da verghe postevi entro, per far credere al nemico, più numeroso il suo esercito. Per incuorare poi i soldati, fece scappare alcune civette, di nascosto procacciatesi. La vista di quell’uccello sacro a Minerva, che fra le schiere volava, richiamò alla memoria de’ soldati lo stesso augurio, che avea pronosticato la vittoria di Salamina.

I carri si spinsero con violenza. Molti furono lasciati passare fra le colonne; molti furono rovesciati dai frombolieri; e molti aombratisine i cavalli per le ferite che riportavano in faccia, si volsero furiosamente indietro, e corsero sopra alla cavalleria, che disordinata si fece di fianco. Sgombrato così lo spazio frapposto, Agatocle si spinse avanti, sicuro che la disciplina e ’l valore de’ suoi la vincerebbe sul numero dei nemici. Annone combattè lunga pezza da prode, finalmente, ferito in più parti, cadde e spirò. La sua morte scuorò in modo tutta quella ala, che, tranne la sacra coorte, tutte le schiere disordinatamente fuggirono. Bomilcare, che intera serbava la sua falange, avrebbe potuto rimettere la battaglia; ma nol volle. Mirava costui alla tirannide; pensava che la guerra e ’l timore d’Agatocle poteano spianargliene la via; però, fatto osservare a’ suoi la morte d’Annone e la fuga delle prime schiere, l’indusse a ritirarsi in Cartagine. Ma tanto gl’incalzavano i Siracusani, che la loro ritirata divenne fuga. La coorte sacra, che sola tenne la puntaglia, pur finalmente, esposta alla furia di tutto l’esercito siracusano, cesse anch’essa. Agatocle inseguì lungo tratto i fuggiaschi, poi, tornato indietro, saccheggiò il campo nemico. Vi si trovarono ventimila manette preparate peSiracusani.

Cartagine spaventata ricorse alla superstizione. Immensi tesori furono mandati in dono al tempio d’Ercole in Tiro, dugento fanciulli delle più nobili famiglie furono immolati a Nettuno. Al tempo stesso si fecero premure ad Amilcare per rimandare parte dell’esercito di Sicilia. Agatocle intanto padrone della campagna seguiva il corso delle sue vittorie, e veniva sottomettendo le città marittime. Lasciate alcune schiere accampate presso Tunisi, corse ad espugnare la città nuova, e l’ebbe; e poi cinse d’assedio Adrumeto. I Cartaginesi, raccolta nuova gente, vennero ad assediare il campo di Tunisi; dispersero i soldati siracusani, ed assediavano la città (51). Come lo seppe Agatocle, lasciato la maggior parte della gente, che seco avea, a continuare l’assedio; egli con pochi venne di notte sopra una montagna, che stava nel miluogo tra Tunisi ed Adrumeto, e fece accendere quantità di fuochi. I Cartaginesi, che assediavano Tunisi, credettero essere quello tutto l’esercito siciliano, che, levato l’assedio di Adrumeto, veniva ad attaccarli. Credettero gli Adrumetini essere quelle le schiere rimaste a Tunisi, che venivano a rinforzare gli assalitori. Intimoriti del pari, quelli precipitosamente fuggirono, questi si resero. Espugnato poi Tapso e dugento altre città prossime a Cartagine, si rivolse alle provincie interne. I Cartaginesi, rinforzati da cinquemila soldati venuti dall’esercito di Sicilia, credendo Agatocle lontano, tornarono ad assediare Tunisi. Saputolo, tornò indietro di volo. Si fermò venticinque miglia discosto da’ nemici. La notte proibì a’ suoi soldati di accendere fuochi per non essere scorti. Camminando tutta notte, al far del giorno fu a Tunisi. Trovò gli assalitori, che tutt’altro s’aspettavano, sparsi per le campagne. Li assalì inaspettatamente, e ne ottenne segnalata vittoria. Rivoltosi poi contro Elima re di Libia, che a lui s’era da prima collegato e poi l’avea tradito, con pari fortuna lo vinse.

VII. — Trionfo di maggior rilievo concesse al tempo stesso la fortuna ad Agatocle sotto le mura di Siracusa. Era l’anno 4o dell’Olimpiade 117 (309 a. C.) quando Amilcare giunse a Siracusa. Vennero colà a trovarlo i messi di Cartagine per ordinargli di rimandare parte dell’esercito in Affrica, overa imminente il pericolo. Portarono costoro gli sproni delle galee, che Agatocle aveva incese. Amilcare da una mano mandò cinquemila soldati a Cartagine, dall’altra tentò un colpo per rifarsi delle perdite, che la repubblica aveva sofferto in Affrica. Mandò messi a Siracusa, per dire che l’esercito di Agatocle era stato disfatto, la sua armata incesa (ed in prova se ne mostravano gli avanzi); però proponeva ai Siracusani di rendere la città di queto. Agatocle aveva lasciato il fratello Antandro a governare per lui. Nulla in Siracusa si sapeva ancora dell’esito della spedizione del tiranno. Fu dato credito alla notizia. Grandi clamori si destavano in città. Antandro sospettò la frode. Rispose non volere rendersi; mandò via della città i messi cartaginesi, e con essi ottomila cittadini, che per la loro attenenza con quelli che erano iti in Affrica, poteano essere cagione di tumulti in città, i quali vennero tutti a ricoverarsi nel campo cartaginese.

Fallito quel tranello, pensò Amilcare d’assalire la città nel cuor della notte. Il suo esercito, malgrado il soccorso mandato a Cartagine, oltrepassava i centoventimila combattenti; tanto s’era accresciuto peSiciliani che a lui s’erano uniti. Mentre quei soldati si difilavano per angusti e difficili sentieri sotto l’Eurialo, i primi, non si sa perchè, cominciarono a contendere tra loro; da ciò nacque un più gran tafferuglio. I capitani accorsero per acquetarli. Il trambusto avvertì i Siracusani, ch’erano di presidio all’Eurialo; i quali corsi all’armi diedero addosso a quelli che loro si pararono avanti, e li volsero in fuga. Le schiere che seguivano, tenendoli nemici, li respingevano. I primi, non conoscendo gli amici, gli uccidevano e n’erano uccisi. I Cartaginesi si tenevano traditi da’ Siciliani; questi da quelli; ed i Siracusani facevano macello e di quelli e di questi. L’oscurità della notte; le vie precipitevoli, anguste e mal note; la diversità delle lingue; il numero stesso accrescevano la confusione e i disastri. Tutti combattevano, senza sapere con chi; molti fuggivano, senza sapere per qual via; molti erano presi, senza saper da chi; l’esercito fu distrutto, senza saper come. Amilcare, dopo d’aver tutta notte combattuto, abbandonato da’ suoi, fu preso dai Siracusani. Menato in città, dopo di essere stato barbaramente cruciato, fu messo a morte, e ’l capo fu mandato in Affrica ad Agatocle.

La disfatta fu seguita dalla discordia nel campo nemico. Riunito in sommo stento l’avanzo dell’esercito, conosciuta la morte d’Amilcare, i collegati siciliani ed un corpo d’ausiliarî greci volevano che comandasse uno de’ loro. Un cartaginese volevano gli Affricani. I primi scelsero Dinocrate; gli altri colui che dopo Amilcare seguiva nel rango.

Fu allora che gli Agrigentini concepirono il nobilissimo pensiero di ridurre a libertà tutte le città siciliane, e, cacciati stranieri e tiranni, stringerle in lega generale, di cui Agrigento fosse il capo. Il momento ne pareva opportuno. I Cartaginesi e le bande raunaticcie di Dinocrate, rotte e disunite, non erano da temersi; e i Siracusani, che avrebbero potuto contendere ad Agrigento il primato, erano ridotti a tale, che volendo, non avrebbero potuto opporsi, e, potendo, forse non l’avrebbero voluto. L’esercito agrigentino, comandato da un Senodico, si diresse da prima a Gela. Gli venne fatto d’entrarvi; n’ebbe danaro e gente. Enna s’accostò a quella banda. I Cartaginesi ch’erano di presidio in Erbesso volevano resistere; i cittadini si levarono in armi, molti ne uccisero, cinquecento ne fecero prigioni, e si ridussero anch’essi a libertà. I Siracusani aveano presa Echetla, posta tra Leonzio e Camarina (52), e quindi devastavano i campi de’ Leontini e de’ Camarinesi. Chiamati da questi gli Agrigentini, espugnarono Echetla, ne cacciarono i Siracusani, e restituirono la libertà ai cittadini. Percorrendo poi il paese soggetto a Cartagine, venne Senodico ribellando molte città.

VIII. — Mentre in Sicilia tali cose accadevano, giunse in Affrica col teschio d’Amilcare la notizia della vittoria riportata da’ Siracusani. Agatocle preso in mano quel teschio, salito a cavallo, s’accostò al campo nemico sì che potea esserne udito; narrò la segnalata sconfitta; mostrò il capo del generale. Sommo fu il dolore de’ Cartaginesi, si tennero perduti affatto, e forse lo sarebbero stati, se un caso impensato non avesse ridotto Agatocle ad un pelo di perder tutto. Licisco, uno de’ capitani suoi, una sera dopo cena, caldo del vino, si diede a motteggiarlo. Agatocle che assai lo stimava, conoscendolo ubbriaco non ne facea caso. Ritiratosi il tiranno, colui continuò a pungere Arcagato, e fino lo accagionò d’incesto colla matrigna. Più non si tenne il giovane: agguagnata una lancia, ne passò fuor fuori quel tracotato, che portato nella sua tenda dai soldati, spirò.

Grave era ad Agatocle punire, come meritava, il figliuolo; anche più grave era a’ soldati lo andare impunita la morte del loro capitano. Levatisi a tumulto, accerchiarono lo stesso Agatocle entro Tunisi, minacciando di darlo vivo in mano dei Cartaginesi, se non faceva giustizia e non pagava loro gli stipendî, di che erano creditori. Al tempo stesso tenevano secreta pratica intorno a ciò coi Cartaginesi, i quali s’avvicinavano come a certa vittoria. In tale stretta, Agatocle, anzichè per mano dei manigoldi di Cartagine, volle finire da generoso i giorni suoi. Deposto il manto del comando e tutto sciamannato, venne in mezzo ai soldati, i quali, sopraffatti da quell’atto e da quello aspetto, restarono. Eloquente com’era, cominciò a rammentare tutte sue azioni; confessò il delitto del figlio, e dichiarò esser venuto per contentarli, non che della morte di lui, ma della sua; chè il timore della morte non avea mai allignato nel suo cuore. In questo dire, trasse la spada per ferirsene. A tal atto impietositi i soldati, a lui s’avventarono per impedirlo; e, come ogni torma suole, passando istantaneamente dal furore alla pietà, condonarono il trascorso del figliuolo, e dichiararono volerlo indi innanzi con maggior impegno servire. Non li lasciò Agatocle raffreddare; li menò tosto al combattimento. I Cartaginesi mentre tutt’altro che ciò s’aspettavano, furono assaliti con tanta furia, che in poco d’ora furono rotti e fugati.

Fu allora che Agatocle, saputo da alcuni soldati cirenei che i generali d’Alessandro aveano assunto il titolo di re, non tenendosi da meno di loro, volle anch’esso avere quel titolo. E forse allora furono coniate le monete, nelle quali è improntato il fulmine alato, allusivo alle guerriere sue imprese, col motto ΑΓΑΘΟΚΛΕΟΣ ΒΑΣΙΛΕΟΣ. E nel rovescio la testa di Diana coll’epigrafe ΣΟΤΕΙΡΑ. Non volle però cingere diadema; forse credea quell’insegna odiosa al popolo; portò sempre una corona di mirto.

IX. — Vinte altre battaglie, espugnata, malgrado la forte resistenza, Utica, re Agatocle nell’anno 2o della 118 Olimpiade (307 a. C.) fece ritorno in Sicilia, lasciando il figliuolo Arcagato al comando dell’esercito e del paese conquistato. Preso terra a Selinunte, trovò che i suoi generali Leptine e Deinofilo aveano in campal battaglia sconfitto gli Agrigentini. Egli stesso sottomise Eraclea, e poi passando dall’altro lato dell’Isola, cacciò il presidio cartaginese da Terme-imerese, e s’insignorì di Cefaledio. Tentò far lo stesso di Centuripe, e non gli venne fatto; ben vi riuscì in Apollonia, ove fece grande strage.

Restava ancora Dinocrate, che alla testa dei fuorusciti Siracusani tenea la campagna. Il suo esercito veniva d’ora in ora accrescendosi di tutti coloro (ed assai erano) che l’amore della libertà spigneva a disperati consigli. il re potea stargli a fronte per esser le sue forze a gran pezza inferiori; e perchè distolto dai disastri sopravvenuti all’esercito d’Affrica dopo la sua partenza.

Cartagine avea fatto finalmente uno straordinario sforzo. Mise in campo tre eserciti, per attaccare in tre diverse direzioni il paese conquistato da’ Siracusani. Fu forza ad Arcagato tripartire il suo poco numeroso esercito, il quale divenuto così debole da per tutto, fu da per tutto sconfitto; a segno che in una fazione, di ottomila fanti ed ottocento cavalli, comandati da Eumaco, solo trenta pedoni e quaranta cavalieri sopravvissero. Arcagato coll’avanzo delle sue forze si era ritirato in Tunisi, ove Imilcare ed Aderbale co’ loro eserciti da due parti lo stringevano.

Re Agatocle, avuto tali notizie, volea correre in soccorso del figliuolo; ma nol potea, per essere il porto di Siracusa guardato dall’armata cartaginese. Una notte diciotto galee etrusche, alleate dei siracusani, per la poca vigilanza dei cartaginesi entrarono in porto. Il re s’accordò col comandante di quelle navi d’attaccare colle loro forze unite il nemico. Venne egli fuori con diciassette galee. I Cartaginesi si diedero ad inseguirlo; gli Etruschi inseguivano i Cartaginesi. Il re allora, voltate le prore, attaccò la battaglia. Le navi affricane, tolte così in mezzo, furono di leggieri fugate. Cinque vennero in mano del re, e l’ammiraglio nemico, temendo non la sua galea fosse presa, si diede la morte; ma poi la sua galea si salvò.

Sgombro così il mare, il commercio si riaprì, l’abbondanza tornò in Siracusa. Sospese allora re Agatocle per alcun giorno la mossa. Mandò Leptine contro Senodico in Agrigento. Gli Agrigentini ebbero la peggio. Senodico cui si apponea la disfatta fu chiamato da’ suoi cittadini in giudizio, ed egli rifuggì a Gela. Dopo la vittoria il re fatti sagrifizî agli Dei, e messi a morte coloro che gli erano sospetti, navigò in Affrica; ma non fe’ frutto. Perduta in varî incontri assai gente, disperando di rimettere colà la sua fortuna, pensò di ritornare in Sicilia. Non potendo portar seco tutto lo esercito, palesò il suo disegno solo ad Araclide altro suo figliuolo ed a pochi altri, a’ quali disse di tenersi pronti. Avutone lingua l’altro figliuolo Arcagato, rese pubblico nell’esercito il pensiero del padre. I soldati levatisi in armi, misero in ceppi il re, gridando che doveano tutti perire o salvarsi tutti; ma la notte, sparsasi voce nel campo d’avvicinarsi i nemici, i soldati stessi lo misero in libertà. Sciolto, non istette Agatocle a baloccare. Tutto solo si fuggì in Sicilia.

Saputa la sua fuga, i soldati misero a morte ambi i suoi figliuoli e s’accordarono coCartaginesi. Ebbero trecento (53) talenti per la restituzione del paese da essi tenuto. Molti restarono agli stipendî di Cartagine. Altri, che nol vollero, furono trasportati a Solunto. Coloro, che tenevano le città e non vollero renderle di queto, prese di forza, furono posti in croce. Tal misero fine ebbe nell’anno 2o dell’Olimpiade 118 (307 a. C.) la guerra d’Affrica.

X. — Giunto in Sicilia, si diede re Agatocle a riacquistare il perduto. Venne ad Egesta, la sottomise, ne trattò crudelmente gli abitanti, e fin volle che, perduto il primo nome, Diceapoli, ossia città giusta, fosse chiamata (54). Ma sopravvenuti, non assai tempo dopo, i Romani in Sicilia, le tolsero anche quel nome e Segesta la dissero. Venuto poi l’avviso d’essere stati i suoi figliuoli Arcagato ed Araclide messi a morte dai soldati, ne trasse vendetta, facendo morire i costoro parenti.

Dinocrate intanto faceva progressi. A lui venne ad unirsi Pasifilo, generale del re, con la gente e le città da lui rette. Agatocle chiese pace, e fin propose di lasciare il regno e ristabilire da per tutto il governo popolare, contentandosi del dominio delle sole due città di Terme-imerese e Cefaledio. Forse non era egli sincero, ma Dinocrate non meno furbo ed ambizioso di lui, mentre si vantava campione della libertà, aspirava alla tirannide. L’accordo non seguì. Agatocle per mettere in diffedenza i collegati di Dinocrate, palesò loro le ambiziose mire di lui. Al tempo stesso conchiuse la pace con Cartagine nell’anno 3o dell’Olimpiade 118 (306 a. C.). Ebbe denaro e frumento in gran copia per la restituzione di tutte le città soggette alla repubblica.

Confortato da quel soccorso, si rivolse contro Dinocrate, e comechè il suo esercito fosse inferiore, lo affrontò. Nel principio dell’azione oltre a duemila de’ soldati di Dinocrate passarono dal suo lato. Pareggiate così le forze, Agatocle propose che senza spargere altro sangue ogni soldato fosse libero di rimpatriare. Molti dei soldati di Dinocrate accettarono il partito e si ritrassero. Un corpo di Siracusani venne ad afforzarsi su d’una collina, e pel desiderio di ritornare in patria, pattuirono col re, dal quale ebbero promessa libertà. Come lasciarono il forte, Agatocle li fece disarmare ed uccidere; Timeo dice essere stati costoro settemila. Dinocrate conchiuse un particolare accordo. Svelò al re tutti i suoi consorti; ed a tal patto infame divenne l’amico di lui e n’ebbe il comando dell’esercito. Per la costui opera riacquistò Agatocle nell’anno 1o dell’Olimpiade 119 (304 a. C.) le città alienate, e fra queste fu Tauromenio, onde cacciò Timeo, che nel governo di essa era succeduto al padre. Era costui coltissimo ingegno. Scrisse la storia de’ suoi tempi, nella quale, nemico com’era d’Agatocle, non potendo minorarne la gloria, ne accresce i delitti.

Fornite tali imprese; spogliati i tempî di Vulcano e d’Eolo in Lipari; dato il sacco nell’anno 1o della 120 Olimpiade (300 a. C.) ad Itaca e Corcira; liberata quest’ultima isola dalle armi di Cassandro re di Macedonia, di cui incese l’armata; presa e saccheggiata Crotone; disfatti in battaglia i Bruzî, si preparava Agatocle ad una nuova guerra con Cartagine, quando la morte pose fino al crudele e glorioso viver suo.

Arcagato figlio del suo figlio di tal nome, giovane di gran cuore, nulla meno ambizioso dell’avolo; comandava un corpo d’armati sotto Etna, quando il re già grave d’anni, convocata l’assemblea del popolo, dichiarò e fece riconoscere suo successore nel regno il figliuolo, che anche Agatocle avea nome, cui mandò poi al campo, ordinato al nipote di cedere a lui, come suo successore, il comando. Indispettito Arcagato, uccise a tradimento il giovine Agatocle e commise la morte del vecchio a Menone ragazzo egestano, ch’era zanzero e confidente di lui. Ghermì costui quel destro di vendicare la sua patria. Chiestogli dopo cena il re lo stuzzicadenti, glielo porse intinto nel veleno. Tosto crudelissimi dolori l’assalirono. In breve ora il mento si fece gangrena, e fu opera di pietà degli amici il buttarlo ancor vivo sul rogo, che presto lo consumò. Così finì di vivere nell’anno 4o della 122 Olimpiade (289 a. C.), che era il 72 dell’età sua, Agatocle, di cui, per quanto si voglian credere grandi i delitti, anche più grandi furono le imprese.





50 Vedi la nota VI in fine del volume.



51 Diodoro dice che Agatocle, presa la gran città e Tunisi, le fece spianare; alcuni dei moderni storici lo copiano: ma come poi si potea assediare una città spianata?



52 Si crede dal Fazzello e dal Cluverio, ove era Ocula detta volgarmente Ucchialà e poi Gran Michele.



53 Fazzello Dec. II, lib. IV, dice che n’ebbero diciannove: Undeviginti.



54 Vedi la nota VII in fine del volume.



«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2009. Content in this page is licensed under a Creative Commons License