Niccolò Palmeri
Somma della storia di Sicilia

SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA]

CAPITOLO XI. I. Stato di Siracusa dopo la morte d’Agatocle. I Campani occupano Messena e si dicono Mamertini. Fondazione di Finziade. — II. Pirro viene in Sicilia: sue imprese; ne parte. — III. Gerone II: sua condotta. — IV. Campal battaglia co’ Mamertini: è dichiarato re. I Mamertini chiamano i Romani.

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CAPITOLO XI.

I. Stato di Siracusa dopo la morte d’Agatocle. I Campani occupano Messena e si dicono Mamertini. Fondazione di Finziade. — II. Pirro viene in Sicilia: sue imprese; ne parte. — III. Gerone II: sua condotta. — IV. Campal battaglia coMamertini: è dichiarato re. I Mamertini chiamano i Romani.

I. — Morto re Agatocle, il popolo ne abbattè le statue, ne vendè alla tromba i beni, e fece di tornare alla democrazia. Ma i tempi nol consentivano. Molti agognavano alla tirannide; Menone era innanzi ad ogni altro. Rifuggito presso Arcagato, lo uccise; e indusse i soldati a seguirlo. S’avvicinava a Siracusa; ma non avendo dipendenze tali da indurre la città a riconoscerlo di queto, forze da sottometterla, chiamò in soccorso i Cartaginesi. Iceta gli venne contro cosoldati ch’erano in città. Menone, per non essere ancora giunto l’esercito cartaginese, schivò la battaglia. I Siracusani conchiusero allora ad ogni patto la pace con Cartagine. Si obbligarono a ricevere tutti gli esuli ed amichevolmente trattarli; e per sicurezza dell’adempimento diedero statichi. Menone, mancatogli l’appoggio, si ritirò, più si parlò di lui.

Stanziavano in quel tempo in Siracusa gran numero di Campani, che nelle passate guerre aveano militato; gente prode ed audace. S’ebbero costoro a male, che nella scelta del nuovo magistrato della repubblica nessuno de’ loro ebbe parte. Si levarono a tumulto. Era per accadere una fiera guerra civile. Messisi per lo mezzo i cittadini più assennati, persuasero quegli stranieri ad andar via co’ loro beni. Essi vennero a Messena. Vi furono da’ cittadini benignamente accolti; ma sull’esempio degli altri Campani, che aveano a tradimento occupato Entella, assalirono all’impensata i Messenesi, parte ne uccisero, parte ne fugarono, e si fecero padroni delle città e delle donne loro nell’anno 1o dell’Olimpiade 123 (288 a. C.). Indi in poi costoro presero il nome di Mamertini, da Mamerto, che in loro lingua suonava Marte, da cui dicevano trarre l’origine. E, prodi come erano, vennero sottomettendo le vicine città ed estendendosi nel paese all’intorno.

Le principali città di Sicilia tornarono allora al tirannico governo. Iceta resse nove anni Siracusa, Tindarione Tauromenio, Finzia Agrigento. Avea sognato che in una caccia un cignale lo sbranava: però tutte le monete, che di lui restano sono allusive a tal sogno, avendo tutte improntato ora un cane, ora un cignale coll’epigrafe ΒΑΣΙΛΕΩΣ ΦΙΝΤΙΑ. Volle fabbricare una nuova città, che disse Finziade, sulla sponda meridionale dell’Imera, presso alla sua foce (55). Ne edificò con magnificenza le case, le mura, il foro, i tempî. Per popolarla distrusse Gela e ne menò ivi gli abitanti. Ebbe guerra con Iceta nell’anno 4o dell’Olimpiade 124 (281 a. C.) Venuti a battaglia presso Ibla i due principi, l’Agrigentino ebbe la peggio; ed il Siracusano fu poi sconfitto dai Cartaginesi presso il fiume Teria (56). Mentre costui per tali imprese era lontano da Siracusa, un Tenione si fece da una fazione del popolo scegliere supremo comandante, ed un’altra scelse Sostrato. Quello si afforzò in Ortigia, questo nelle altre parti della città, entro alla quale i due competitori venivano a battaglia. Parve quello un momento opportuno ai Cartaginesi di avere Siracusa, e vennero a stringerla di terra e di mare. Il presente pericolo spense le discordie. I due emoli, conosciuto che le loro forze unite non bastavano a respingere i Cartaginesi, d’accordo chiamarono Pirro re d’Epiro in loro soccorso. A costoro s’unirono Tindarione, tiranno di Tauromenio, Eraclide di Leonzio, Agrigento ed altre città non soggette a Cartagine.

II. — Pirro, più presto che re, era un di quei tali, che, ne’ secoli a noi più vicini, in Italia si dicevano condottieri. Avea dalla natura sortito gran coraggio e straordinaria gagliardia. Fatto suo mestiere la guerra, con una presa di gente iva militando ove gli si offriva migliore ventura. Era stato oltre a due anni a guerreggiare coi Romani nella bassa Italia, per difendere la spirante libertà di que’ popoli, non ancora assorti dal torrente delle armi di Roma. Tanto più volentieri accettò l’invito de’ Siciliani, in quanto, per aver menato in moglie la Lanassa, figliuola d’Agatocle, dalla quale avea un figlio, vantava un qualche diritto al retaggio di quel re. Ed altronde la Sicilia offriva alla stemprata sua ambizione un passo per portar le armi contro la stessa Cartagine.

I Mamertini ed i Cartaginesi vollero opporsi al suo passaggio, egli li schivò. Mosso da Taranto, venne a Locri; e quindi giunse a Tauromenio, Tindarione colle sue forze a lui s’unì. Fu amichevolmente accolto a Catana. S’avvicinò a Siracusa; e al suo avvicinarsi i Cartaginesi s’allontanarono. Sostrato e Tenione gli consegnarono la città, nella quale trovò gran quantità d’armi, di macchine e di galee, oltre i soldati. Qui vennero a trovarlo i messi d’Eraclide, che reggea Leonzio, i quali in suo nome gli offerirono la signoria della terra, una con quattromila fanti e cinquecento cavalli. Accettò la città; disse non aver mestieri di soldati. Salutato allora re di Sicilia, si diresse ad Agrigento. Sulla via vennero ad incontrarlo messi degli Agrigentini, per dargli avviso d’aver eglino cacciato il presidio della città e levato il comando a Finzia. Colà giunto, Sosistrato, primajo fra’ cittadini, gli consegnò la città con quattromila fanti ed ottocento cavalli, gente brava, non meno dei suoi Epiroti.

Tutte quelle forze riunite formavano un esercito di trentamila fanti e duemila cinquecento cavalli con alcuni elefanti, che per la prima volta furono veduti in Sicilia; ed un’armata di dugento galee. Con tale apparato si volse a sottomettere il dominio cartaginese. Eraclea, Selinunte, Alicia, Egesta si arresero. Erice fece grande resistenza. Visto che l’urto delle macchine non giungeva a spaventare i nemici, invocò Ercole; promise in voto giuochi e sacrifizî, se vi facea prova degna di lui. Fatto allontanare i difensori con una tempesta di dardi, avvicinò le scale. Egli il primo vi salì. Prodigi di valore vi fece; a migliaja cadevano intorno a lui i nemici. I suoi soldati con pari impeto lo seguirono. La città fu espugnata. il voto fu adempito, con sacrificare molte vittime e celebrare solenni giuochi ad Ercole.

Quindi venne a Jato (57) che, malgrado la fortezza del sito, prima di essere assalita si rese. Resisterono i Panormitani; ma ogni resistenza fu superata. La città fu presa, e fu preso il forte che era sul prossimo monte Ercta (58). Restava ai Cartaginesi solo Lilibeo (59), città da essi fabbricata sopra un vastissimo porto, poco di lungi da Mozia, dopochè il vecchio Dionigi avea distrutta questa città; e l’avevano quanto si può munita. Alle antiche bastite avevano era, pel timore di Pirro, aggiunto dalla parte di terra molte torri, ed un largo fosso; ed un esercito vi mandarono con ogni apparato di macchine e d’armi.

Munita così la città, mandarono i Cartaginesi ambasciatori a Pirro chiedendo pace ed offerendogli anche danaro. Re Pirro, esaminata la proposizione co’ suoi capitani e gli ambasciatori delle città siciliane, rispose, che avrebbe da lui pace Cartagine solo a patto di sgombrar del tutto la Sicilia e rinunziare all’impero del mare. Data questa risposta, s’avvicinò a Lilibeo. Vi trovò tal numero di difensori e di macchine che le mura non li capivano; e quindi faceano un continuo scagliare di ciottoli e dardi d’ogni misura, per cui gli assalitori o ne perivano, o ne restavano storpiati; intantochè l’esercito di giorno in giorno diminuiva senza avanzare d’un passo. Invano si scavava sotto le muraglie per farle cadere; i difensori mettevan sempre fuori nuove difese. Però dopo due mesi d’assedio, perduta ogni speranza di espugnare la città, re Pirro levò il campo e fece ritorno in Siracusa.

La mala riuscita dell’impresa cominciò a farlo cadere dall’opinione de’ popoli. In tal momento volle imitare l’esempio del suocero con portare le armi in Affrica. Avea gran numero di navi, ma non galeotti. Ne volle a forza delle città. Ciò produsse un generale disgusto, che ad ora ad ora s’accresceva per gli avventati e sgradevoli modi suoi; e si convertì in odio generale, quando fece morire Tenione, da cui era stato chiamato ed avea avuta consegnata la città, apponendogli tradimenti. Lo stesso ne sarebbe accaduto a Sostrato, se, più avveduto di quello, non si fosse prima allontanato. I Siciliani, che sotto lui militavano, lo abbandonarono. Le città già sottomesse tornarono volontariamente sotto il dominio cartaginese. Molte chiamarono in ajuto i Mamertini. Restato colle sole piccole forze, colle quali era venuto, in mezzo a tanti nemici, fu per costui gran ventura l’esser chiamato in loro soccorso da’ Tarantini. Lasciò la Sicilia colla stessa rapidità con cui l’avea avuta. Avea destinato questo regno ad Eleno suo figliuolo, avuto dalla Lanassa, ed il regno di Italia all’altro figliuolo Alessandro.

Mentre la Sicilia, impoverita dalle concussioni d’Agatocle, sconvolta da tante guerre, lasciata senza governo dal fuggitivo Pirro, avea a guardarsi dai Cartaginesi, sempre minaccevoli, ed a difendersi dalle continue corriere dei Mamertini, un uomo si vide sorgere, destinato da’ cieli a segnalare l’ultimo glorioso periodo dell’antica storia. Stavano i Siracusani a consultare sulla scelta delle persone, cui affidare la somma delle cose, senza venire ad alcun partito. L’esercito, precipitando gl’indugi, scelse a comandante Gerone di Gerocle.

III. — Univa costui a nobilissima nazione (chè traeva l’origine del re Gelone) somma avvenenza, singolare destrezza in ogni virile esercizio, dottrina, eloquenza, virtù. E, comechè il senato di Siracusa s’avesse avuto a grave dell’usurpazione dei soldati, ed una gran fazione avesse voluto torgli il comando illegalmente conferitogli, pure l’opera de’ numerosi amici suoi, la pubblica voce, e la sua generosa condotta verso coloro stessi, che avversavano la sua scelta, gli attirarono i voti di tutti. Per unanime consenso fu salutato strategoto dell’esercito.

Menò allora in moglie la figliuola di un Leptine ricco e nobile cittadino, il quale avea di grandi dipendenze in Siracusa. Per tal modo, uniti a’ suoi tutti gli amici del suocero, si assicurò del favore della maggiore e miglior parte del popolo. Ned ebbe mestieri di altri provvedimenti per impedire le interne perturbazioni. Volse poi l’animo a disfarsi dei soldati mercenarî per lo più stranieri, usi per lunga consuetudine alla licenza. Lo stesso avergli dato il comando in onta all’autorità civile, lungi di farneli benemeriti, confermò il buon Gerone nel suo proponimento. Il congedarli sarebbe stato lo stesso che empir la città di una torma di disperati. In quella vece nella primavera dell’anno 1o dell’Olimpiade 127 (272 a. C.) mosse coll’esercito verso Centuripe, ove i Mamertini s’erano afforzati. Giuntovi, divise in due schiere l’esercito; fece l’una di tutti que’ mercenarî, che spinse la prima contro il nemico; ritenne l’altra di Siracusani sotto di se, come per soccorrere i primi. Coloro, prodi com’erano, sostennero senza voltar faccia la puntaglia. Gerone, che tutt’altro avea in animo che la vittoria, ritrattosi, lasciò che quei soldati vi restassero alla fine uccisi, prigioni o dispersi.

Disfattosi di quella gente, con somma industria si diede a levare altri soldati, che sottopose alla più severa disciplina. Con tanta attività si condusse, che l’anno appresso venne fuori coll’esercito contro i Mamertini. Credeano costoro essere sua intenzione correr dritto a Messena; però s’afforzarono in Tauromenio per contrastargliene il passo. Gerone traversando a stanca le giogaje dell’Etna, lasciatosi indietro il nemico, repente apparve a Mile, che assediò. Forte era la città; millecinquecento de’ Mamertini, vi erano di presidio. la fortezza di quella, il valore di questi poterono resistere all’assalto; la città fu presa, quei soldati restarono prigioni. Di venne sottomettendo altro paese sino ad Amesalo, città posta tra Centuripe ed Agira (60). L’espugnò, la distrusse; ricevè nel suo esercito i soldati che v’erano di presidio, e ne divise il territorio alle due contermini città. Con pari celerità cacciò i Mamertini da Alesa, Abacena e Tindari. Ciò fatto venne a fermarsi al fiume Longano (61), ove gli fu incontro l’esercito Mamertino.

IV. — Avea sotto di se Gerone diecimila fanti e millecinquecento cavalli. Nell’esercito mamertino erano ottomila fanti, e, se non v’ha errore nel testo di Diodoro, soli quaranta cavalli. Li comandava Cione, uomo di segnalato coraggio. Prima di venire alle mani, staccò Gerone dugento esuli messenesi, tutti gente provata, ed a questi unì quattrocento de’ migliori soldati suoi. Dispose che tal drappello, nel bollore della mischia, venisse ad assalire alle spalle i nemici. S’attaccò la battaglia, che fu combattuta con indicibile valore dell’una e dell’altra parte. I Mamertini, comechè inferiori di numero, tennero lunga pezza in forse la vittoria. Ma quando, stanchi già dal lungo combattere, furono assaliti da quella schiera fresca, che con grande impeto entrò in azione, si volsero a fuggire in rotta; e i Siracusani inseguendoli ne facevano macello.

Il prode Cione fu l’ultimo a cedere. Non voltò faccia; cadde semivivo pel sangue che versava dalle tante ferite. Gerone, che onorava il valore anche col nemico, lo fece condurre al campo, e ne raccomandò la cura ai suo’ chirurgi, i quali, medicate e fasciatene le ferite, cominciavano a sperar bene della sua vita, quando sopraggiunsero nel campo alcuni corridori, che dopo la battaglia erano restati a spazzar la campagna. Portavano costoro i cavalli spersi, fra’ quali conobbe Cione quello del figlio, onde argomentò d’essere stato ucciso: mosso da disperazione, slacciatosi le fasciature; si lasciò morire.

Sopraffatti i Mamertini da tanta disfatta, aveano già preso consiglio di rendere Messena al vincitore; ma venne il cartaginese Annibale a distorli da tale proponimento. Era costui in Lipara. Come seppe la battaglia, venne a trovare Gerone. Con amichevoli espressioni mostrò gioire della vittoria da lui riportata; e si offrì di andare a Messena per indurre i Mamertini a lasciare di queto la città. Gerone con lieto animo accettò l’offerta. Quel perfido, venuto a Messena, si diede a far cuore a’ Mamertini, e promise di venire con grandi forze in loro ajuto. Il partito fu accettato. Un esercito cartaginese venne a Messena. Gerone, conosciuto il tradimento, inabile a potere espugnare Messena, dopo la giunta de’ Cartaginesi, fece ritorno a Siracusa, ove il popolo ebbro delle vittorie da lui riportate, lo acclamò re.

Credeva Annibale avere con quel tradimento assicurato un gran vantaggio a Cartagine. La repubblica conservava così un bellicoso alleato contro il re siracusano, che già si mostrava non meno formidabile del suo progenitore Gelone. Non prevedeva Annibale quanto cara sarebbe costata ivi a non guari a Cartagine la sua perfidia. I Mamertini presto si disgustarono de’ Cartaginesi. Levatisi in capo, li cacciarono dalla città. Questi, per trarne vendetta, chiamarono l’ajuto di re Gerone che v’accorse. I Mamertini, inabili a resistere alle prepotenti forze, da cui erano minacciati, chiamarono in loro ajuto i romani, mettendo avanti la nazione comune da Marte.





55 Oggi Alicata.



56 Tra Lentini e Catania, detto volgarmente San Leonardo o Reina.



57 In un erto monte al di di Morreale, detto San Cusimano.



58 Oggi Pellegrino.



59 Marsala.



60 Secondo Cluverio presso Regalbuto.



61 Detto oggi di Castroreale, che mette foce presso Milazzo.



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