Niccolò Palmeri
Somma della storia di Sicilia

SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA]

CAPITOLO XII. I. Prime imprese de’ Romani. Pace con re Gerone II. — II. Assedio d’Agrigento — III. I Romani apprestano un’armata. Battaglia in mare. Progressi de’ Romani in terra. — IV. Altra battaglia in mare. L’armata romana distrutta dalla tempesta. Caduta di Panormo. — V. Battaglia di Panormo. — VI. Assedio di Lilibeo. Fine della prima guerra punica. — VII. Condotta di Re Gerone. Economia pubblica. — VIII. Agricoltura. — IX. Commercio: popolazione. — X. Scienze, lettere ed arti del regno siracusano. — XI. Morte di re Gerone.

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CAPITOLO XII.

I. Prime imprese de’ Romani. Pace con re Gerone II. — II. Assedio d’Agrigento — III. I Romani apprestano un’armata. Battaglia in mare. Progressi de’ Romani in terra. — IV. Altra battaglia in mare. L’armata romana distrutta dalla tempesta. Caduta di Panormo. — V. Battaglia di Panormo. — VI. Assedio di Lilibeo. Fine della prima guerra punica. — VII. Condotta di Re Gerone. Economia pubblica. — VIII. Agricoltura. — IX. Commercio: popolazione. — X. Scienze, lettere ed arti del regno siracusano. — XI. Morte di re Gerone.

I. — Roma, nata per la guerra, e grande solo per la guerra, avea già l’un dopo l’altro sottomessi i popoli della bassa Italia. L’invito dei Mamertini le offrì un bel destro di metter piede con gran vantaggio in Sicilia. Venne fatto al console Appio Claudio d’ingannare il comandante dell’armata cartaginese, che guardava lo stretto, e ridursi in Messena, che stretta era, da un lato dall’esercito cartaginese, dall’altro dal siracusano. Tratto fuori le sue schiere, venne prima incontro a’ Siracusani, e dopo lungo e sanguinoso conflitto, questi ebbero a cedere e ritirarsi nel campo loro. Re Gerone fece senno dalla disfatta. Conobbe che, venuti in mezzo i Romani, non si trattava più del sottomettere i Mamertini, ma dell’indipendenza di tutta la Sicilia. La notte stessa decampò, e venne a Siracusa per provvedere alla difesa del suo reame.

Il console, saputo la ritirata del Siracusano, venne ad assalire i Cartaginesi, e n’ebbe compiuta vittoria, obbligandoli a ritrarsi nelle vicine castella, Liberata Messena, l’esercito romano, dopo di avere scorrazzato il paese vicino si diresse a Siracusa. Era l’anno 2o dell’Olimpiade 129 (263 a. C.); i nuovi consoli M. Ottacilio e M. Valerio, vennero in Sicilia con quattro nuove legioni di soldati romani, ognuna delle quali era di quattromila fanti, e trecento cavalli. Adrano e Centuripe furono espugnate. Alesa e sessantasette altre città, prima di esserne state richieste, si sottomisero. Gerone stesso cercò pace, e fu conchiusa a tali patti: pagasse il re alla repubblica cento talenti d’argento; restituisse senza ricatto i prigionieri romani; e provvedesse l’esercito romano dei viveri bisognevoli. Dall’altro lato il re fu dichiarato amico e collegato della repubblica, e fu stabilito essere a lui soggette, oltre Siracusa, Acre, Leonzio, Eloro, Megàra, Neto e Tauromenio, città già da lui conquistate.

I Cartaginesi ignari del seguito accordo, aveano spedito una numerosa armata in soccorso di Siracusa. Preso porto a Sifonia (62), ebbero a voltar le prore e prepararsi a sostenere soli la lotta. I Romani provveduti per la seguita pace di viveri, di che fin’allora aveano scarseggiato, con lieta fortuna progredivano. Egesta, Aliena, Ilaro, Tiritto ed Ascelo (63) vennero in poter loro. I Cartaginesi occuparono Agrigento. Contro quella città si diressero i nuovi consoli, Postumio Megillo e Q. Mamillo Vitulo, venuti nell’anno 3o dell’Olimpiade 129 (262 a. C.) con altre legioni.

II. — Centomila Romani accerchiarono quella grande città. Annibale la difendea con cinquantamila Cartaginesi e venticinquemila cittadini. Malgrado le grandi forze loro, sentivano i Romani essere loro impossibile prendere d’assalto la città, però la cinsero di fosso ed altre difese, onde non potesse trarre viveri da fuori. Essi provvedevansi di vettovaglie da Erbesso (64), ove ne aveano il fondaco. I consoli aveano diviso l’esercito; metà si era accampato presso il tempio di Vulcano, tra la città e ’l mare di verso oriente; l’altra dal lato opposto. Dall’un campo e l’altro fecero tali ripari da impedire qualunque irruzione a’ nemici.

Bastava da cinque mesi l’assedio; e gli assediati pativano assai dalla fame. Il senato di Cartagine, conosciuta la situazione de’ suoi, mandò Annone con cinquantamila fanti, seimila cavalli e sessanta elefanti. Sbarcato il nuovo esercito a Lilibeo, tirò ad Eraclea, e quindi soprapprese Erbesso, essendone state aperte le porte da alcuni dei cittadini. Così l’esercito romano fu ridotto a mal partito; e, non avendo onde trar viveri, sarebbe perito, se Gerone non avesse fatto modo di mandarne loro come e quanto poteva. Ma questi erano a gran pezza inferiori al bisogno. A tale calamità vennero ad aggiungersi gravi malattie, che si manifestarono frai soldati, per le quali assai ne perivano; intantochè dopo due mesi che i Romani erano stretti da due eserciti, i consoli già pensavano a levare l’assedio; quando l’intolleranza di Annone venne a torli d’imbarazzo.

Erano gli Agrigentini, ridotti tanto stremi di vettovaglie, che Annibale e con messi e con faci accese faceva d’informare Annone delle loro angustie. Quegli, o che fosse ignaro dello stato calamitoso, in cui erano i Romani, o che credesse, che indeboliti dalle malattie e dalla fame, non avrebbero potuto fare resistenza, sceso dal colle Tauro, overa accampato, venne ad offrir loro la battaglia, che i consoli con lieto animo accettarono. Venutosi alle mani, venne fatto ai Romani di volgere in fuga l’antiguardo de’ nemici. Gli elefanti che appresso venivano, aombrati da quelle prime schiere, che fuggivano, e dalle grida de’ Romani, che le inseguivano, si volsero correndo indietro. L’urto di quelle tragrandi bestie sgominò il corpo di battaglia. Venne facile ai Romani, che impetuosamente lo assalirono, ed ordinatamente combatteano, di romperlo del tutto, e farne tale strage, che pochi se ne salvarono in Eraclea, lasciato ai Romani tutto il campo e gli elefanti, dei quali alcuni erano stati uccisi nella mischia.

Nel cuore della seguente notte, Annibale approfittandosi della poca vigilanza, con cui i Romani stanchi dal combattimento, facevan le stolte venne fuori dalla città. Il domani vi entrarono i Romani, dopo un assedio di sette mesi, in cui aveano perduto meglio di trentamila soldati. Più di venticinquemila di quei cittadini furono ridotti in servitù. Alla caduta d’Agrigento tenne dietro quella d’altre città e luoghi di minor nome; perocchè i nuovi consoli L. Valerio e L. Ottacilio venuti nell’anno 4o dell’Olimpiade 129 (261 a. C.) tosto dopo la resa d’Agrigento, avevano menato seco altre legioni.

Ciò non però di manco difficile sarebbe stato ai Romani espugnare le altre città marittime, anzi tenere a lungo le acquistate, finchè i Cartaginesi erano padroni del mare. Però mise la repubblica ogni studio a provvedere una grande armata, comecchè non avesse avuto fin allora alcun legno da guerra, ed ignorantissimi fossero stati i Romani nelle marinarie. Pure tali erano l’attività e ’l genio guerriero di quel popolo, che in meno di un’anno furono in pronto cento quinqueremi e venti triremi.

Sventurato ne fu il primo cimento. Comandava l’armata romana Cn. Cornelio, uno dei consoli, il quale nell’anno 1o della 130 Olimpiade (260 a. C.) con diciassette galee a Messena, per aspettarvi le altre. Colà giunto, volle senz’altro ajuto correre sopra Lipara. Annibale, che con tutta l’armata cartaginese era in Panormo, mandò a quella via venti delle sue galee, capitanate in sua vece da un Boote, il quale nel cuor della notte soprapprese i legni romani nelle spiagge dell’Isola. I soldati e i galeotti ne furono presi da tale spavento, che saltarono in terra, lasciato solo il console, il quale, una colle galee, fu preso e menato da Boote in Panormo. Ma poco mancò che pari sciagura non fosse accaduta allo stesso Annibale, il quale avuto lingua che il resto dell’armata romana movea verso Sicilia, con più coraggio, che ordine o senno le venne incontro con sole cinquanta galee. Procedevano i legni romani con bella ordinanza, e per essere a gran pezza più numerosi, accerchiarono l’incauto Annibale, che a malo stento potè camparne colla perdita di alcune galee, e ridursi a Mile.

Malgrado i sommi sforzi de’ Romani per giungere a competerla anche in mare coi Cartaginesi, conoscevano che per essere i legni loro più gravi, ed essi meno pratichi nel governarli, doveano sempre venire con gran disavvantaggio al cimento. Però inventarono uno strumento detto, forse dalla figura, corvo, col quale abbrancavano i legni nemici, e li legavano a forza alla propria nave. Per tal modo perdevano i Cartaginesi il vantaggio di avere legni più spediti, e d’essere più esperti nel dirigerne i movimenti, Ed all’incontro si avvantaggiavano i Romani della miglior disciplina e della più grave armatura. E ben sene vide l’effetto.

Le navi romane dopo la battaglia si erano ridotte e Messena. Saputo ivi la mala avventura del console Cn. Cornelio, era stato chiamato di presso l’altro console C. Duio, che allora comandava l’esercito, per venire al comando dell’armata. Come costui giunse, provvedute le sue navi di corvi, uscì dal porto, per cacciare da Mile l’armata nemica. I Cartaginesi tanto poco conto facevano dell’armata romana, che le vennero incontro senza ordine. Trenta galee furono le prime ad entrare in azione e tutte furono aggrappate, vinte, prese. Era fra queste la capitana a sette ordini di remi, sulle quali era lo stesso Annibale, che a gran pena si salvò sul paliscalmo. Gli altri legni vollero fare miglior prova, attaccando le navi romane di fianco, o alla poppa: ma non facevano frutto; talmentechè tutta l’armata cartaginese, sopraffatta dalla novità di quelle arme, ebbe a fuggire, perduto in tutto ottanta galee e quattordicimila uomini. Ottenuta quella grande vittoria, il console, sceso a terra, ripigliò il comando dell’esercito; e, distolti i Cartaginesi dall’assedio di Egesta, espugnata Macella (65), fece ritorno in Roma. Dopo la sua partenza nacque un contrasto tra le schiere romane e quelle degli ausiliarî siciliani, i quali separatisi dall’esercito, vennero ad accamparsi tra Parapo (66) e Terme-imerese. Avutone avviso Amilcare, che comandava Panormo, loro corse sopra, e quattromila ne uccise. Tentarono ben due volte i Romani nell’anno 2o dell’Olimpiade 130 (259 a. C.) l’assedio di Mitistrato (67): ma dopo sette mesi d’inutili sforzi ebbero a levarlo. L’anno appresso i consoli Aulo Attilio e Cajo Sulpizio, dopo tentato invano di trarre a battaglia lo esercito cartaginese che era in Panormo, espugnarono Ippana (68) e poi tornarono all’impresa di Mitistrato, e finalmente vennero a capo di averla. Con barbara ferocia la spianarono e ne venderono alla tromba i cittadini. Camarina, Enna, Camico (69), Silana (70) furono del pari espugnate.

IV. — Mentrechè tali cose accadevano in Sicilia, i Romani preparavano di grandi forze per portare la guerra in Affrica, e con pari studio si apparecchiavano i Cartaginesi a respingerli. Vennero finalmente fuori nell’anno 1o dell’Olimpiade 131 (256 a. C.) le due potentissime armate. La romana era forte di trecentotrenta quinqueremi, e due a sei ordini, sulle quali erano i due consoli M. Attilio Regolo e L. Manlio. Portava ogni quinquereme trecento rematori e centoventi fanti. I cavalli erano sopra altre navi tirate dalle quinqueremi. Annone ed Amilcare comandavano trecento quaranta galee cartaginesi. Il fiore della milizia di Roma e di Cartagine era sopra quelle navi. Ambe le armate soffermatesi in Sicilia, l’una inseguendo l’altra, si diressero a Cartagine. Non guari lontano dal lido di Eraclea fu combattuta la battaglia, di cui non v’ha forse la più famosa pel numero, per la disposizione, per l’indomito coraggio, per gli accidenti, pel sangue. I Cartaginesi ebbero la peggio: trenta dei legni loro perirono, sessantaquattro ne furono presi. I Romani, che ebbero solo ventiquattro galee affondate, dopo la vittoria corsero ad afferrare il lido affricano. Ma in terra toccò loro a pagare lo sconto, comechè da prima avessero espugnate alcune città; affrontati dallo esercito cartaginese, comandato dallo spartano Santippo, vi perderono trentamila soldati e l’illustre Attilio Regolo vi restò prigione.

Ma, Roma cagliò per la disfatta dell’esercito, Cartagine s’avvilì per la mala ventura dell’armata. Pareva anzi che le due trapossenti repubbliche traessero nuova lena dai disastri. I consoli M. Emilio e Servio Fulvio, nell’anno 2o dell’Olimpiade 131 (255 a. C.) vennero fuori con un’armata numerosa. Con pari forza loro vennero incontro ne’ mari di Sardegna i Cartaginesi, che perderono nel conflitto gran numero de’ legni loro. Ma non guari dopo l’armata romana, saprappresa da fiera tempesta presso Camarina, ruppe in quella costiera. Di oltre a secento legni da guerra e da carico, solo ottanta galee camparono in Siracusa. Tutto il lido da Camarina a Pachino videsi lunga pezza sparso di uno scompigliume di cadaveri, d’uomini e d’animali, di sdrucite navi e di arredi, vomitati dal mare. Con tanta crudele equità la sorte compartiva i suoi colpi!

I Cartaginesi assicurata l’Affrica per la disfatta del romano esercito, padroni del mare per lo naufragio dell’armata, addoppiarono le forze in Sicilia. Ripresero Agrigento, che distrussero in parte, ed in parte incesero. Un misero avanzo di quei cittadini si ritirarono nel castello d’Olimpio. Ma i Romani non furono lenti a farsi vedere con forze maggiori. Un’armata di dugentoventi galee, comandata dai consoli Aulo Attilio e Cn. Cornelio giunse a Messena nell’anno 3o dell’Olimpiade 131 (252 a. C.) ed unitasi alle ottanta campate dal naufragio di Camarina, venne a Panormo, che stretta d’assedio s’arrese a patto d’esserne i cittadini tratti in servitù, tranne quelli, che si ricattavano per lo prezzo di due mine d’argento. Diecimila poterono pagare la taglia; tredicimila furono servi. Spaventate da tanta severità Jato, Solunto, Petra (71), Smacara (72) e Tindari si diedero a Roma.

La perdita di centocinquanta galee sommerse dalla tempesta ne’ lidi d’Italia nell’anno 4o della Olimpiade 131 (253 a. C.) fece desistere i Romani dalla guerra marittima. Ed in terra stettero alcun tempo inoperosi gli eserciti; perchè i soldati erano presi da grande paura degli elefanti, ai quali s’attribuiva la sconfitta dell’esercito d’Affrica. Fu allora che Terme-imerese fu per cadere in mano de’ Romani per un tradimento. Colui che reggea la terra, uscitone per suoi affari, fu preso. Per riacquistare la libertà, promise al console di lasciare aperta una delle porte, per entrarvi nottetempo i suoi soldati ed insignorirsi della città. Mille soldati furono destinati all’impresa. Accostatisi tacitamente trovarono, secondo il convenuto, aperta la porta. I primi che entrarono la fecero richiudere, per essere soli al bottino. Ma i Termitani, accortisi a tempo del tradimento, dato di piglio all’armi, assalirono quei soldati, i quali per essere pochi non poterono fare resistenza, e furono tutti tagliati a pezzi.

V. — Un’impresa più ardita tentò Asdrubale l’anno 2o Olimpiade 132 (251 a. C.) Mosse da Lilibeo con esercito numeroso ed oltre a cento elefanti, e si diresse verso Panormo. Sapeva egli che Fulvio, uno dei consoli, era ritornato con parte dell’esercito in Roma; però tenea facile rompere le schiere rimaste sotto l’altro con sole Metello, che erano in Panormo, e riprendere la città. Il Cartaginese veniva sperperando i campi panormitani: ma non per questo Metello si movea. Quello, ascrivendo a paura il suo non venir fuori, con maggiore celerità si avanzava. Come ebbe valicato l’Oreto, qualche presa di soldati appariva, che appena attaccata, tornava indietro fuggendo, per trarre i Cartaginesi quanto più vicini si poteva al fosso ed al vallo, che cingevano la città. Ivi Metello avea poste alcune schiere di arcieri, alle quali avea dato ordine di saettare a furia gli elefanti, come si avvicinavano. Egli poi col resto dello esercito si teneva pronto presso alla porta della città, ch’era rimpetto all’ala sinistra dei nemici. Coloro che guidavano gli elefanti e prima de gli altri erano, sicuri che i Romani non avrebbero sostenuta pure la vista di quelle bestie, le spingevano avanti. Come ne furono presso, assaliti istantaneamente si videro da una tempesta di dardi. Pure incalzavano, per superare il vallo. Ma tante ferite riportarono quegli animali, che inferociti si volsero correndo sopra le schiere che seguivano, e, per lo numero, per la mole, per l’impeto, le scommisero. Più non si tenne Metello. uscito dalla città assalì in quella confusione i nemici, e quasi senza combattere n’ebbe compita vittoria. Ventimila uomini perderono i Cartaginesi, e tutti gli elefanti vennero in mano de’ Romani.

Splendidissimo fu il trionfo di Metello in Roma. Tredici capitani cartaginesi, oltre il gran numero di gregarî, e più di cento elefanti, che il popolo romano per la prima volta vedeva, seguirono il suo carro. Esaltati i Romani fecero per mare e per terra i massimi sforzi. Entrava già il decimoquarto anno di quella guerra, ed il 3o dell’Olimpiade 132 (250 a. C.), quando i nuovi consoli vennero in Sicilia con dugento navi cariche di soldati. Presero terra presso Lilibeo. Colà tosto chiamarono tutte le forze ch’erano in Sicilia e si accinsero all’assedio.

VI. — I Cartaginesi aveano fatto di quella città la capitale de’ loro dominî in Sicilia. Un contado fertilissimo, un porto vastissimo, il commercio di quella ricca nazione, l’aveano resa opulentissima e popolosa. Alle grandi fortificazioni prima erettevi, di nuove se n’erano aggiunte a tempi di Pirro. In quel lembo di Sicilia vennero all’estremo cimento le forze delle due più potenti nazioni della terra. Dieci anni bastò l’assedio. Vi fu posto in opera tutto ciò che l’arte funestissima della guerra ha mai inventato per l’oppugnazione e la difesa delle città. Roma non ebbe maggiori sforzi da fare, Cartagine maggiore resistenza da opporre. le armate distrutte dal nemico o dalla tempesta; gli eserciti disfatti; le macchine incese; la fame stessa, poterono stancare la romana longanimità. Cartagine finalmente s’acchinò a chieder pace. Dure ne furono le condizioni dettate dal console Lutazio, rese anche più dure dall’orgoglioso senato romano: cedesse Cartagine Lilibeo e sgombrasse la Sicilia e tutte le isole prossime ad essa e all’Italia; non facesse mai guerra od altro danno a Gerone, ai Siracusani o ad altro amico di Roma; restituisse senza taglia i prigioni; pagasse a contanti mille talenti euboici (73), e duemila dugento in dieci anni. Tale ebbe fine, dopo ventiquattro anni, la prima guerra punica, nella quale Cartagine perdè cinquecento legni da guerra, e Roma settecento, oltre le barche da trasporto, le macchine, gli arredi e lo sterminato numero d’uomini. Indi in poi tutta Sicilia, tranne il regno siracusano, venne in potere di Roma.

VII. — Mentre le due repubbliche tenevano dietro a dilaniarsi reciprocamente, re Gerone, trattosi opportunamente fuori della lotta, poneva ogni suo studio a render florido il suo regno, con quei provvedimenti di pubblica economia, che rendevano lieve il peso dei tributi, e mettevano il cittadino al coperto di quelle angherie, che spesso sono più pesanti delle imposte.

La rendita dello stato traevasi allora principalmente dalla decima di tutti i prodotti della terra (74). Tale imposizione, comune a tutti gli antichi popoli, comechè fosse sempre proporzionale agli averi del cittadino, nel fatto luogo ad infiniti soprusi; perocchè l’esattore della gabella può fraudare al tempo stesso il tributario e lo stato, con estorquere a quello di più, e dare a questo di meno. Gerone seppe trovar modo di mettere al coperto di ogni violenza lo agricoltore, d’ogni frode il suo erario. Un magistrato era in ogni comune, che registrava il numero degli agricoltori, ognuno dei quali era tenuto, sotto pena severissima, a dichiarare la quantità di frumento od altro che seminava. Tali dichiarazioni, che poi i Romani chiamarono professiones sationum, si scrivevano anche ne’ registri, cui Cicerone il nome di literae publicae, che si mandavano ogni anno a Siracusa. Per tal modo il re avea sempre presenti i dati principali della statistica agraria, e conosceva le annuali vicende dell’agricoltura.

Finite le sementi, si vendevano all’incanto in Siracusa le decime d’ogni territorio. E con somma equità ciò si faceva in una stagione, in cui, per essere incerta la produzione, l’oblatore non poteva offerire un prezzo eccedente, di cui poi doveva rifarsi a spese dell’agricoltore. Vendute così le decime, il governo aveva assicurata la sua rendita, alla quale il solo compratore dovea rispondere. A costui si davano allora i registri di quel comune, di cui avea comprate le decime, e recatosi egli nel luogo, pattuiva di uno in uno cogli agricoltori della quantità di frumento, che ognuno di loro dovea contribuire. Se non potevano essere di accordo, il magistrato ch’era sopra ciò, tenendo presente la quantità di frumento od altro che ogni agricoltore avea seminata, fissava la quota del tributo. E però la contribuzione aveva un che di volontario, e in ogni caso l’agricoltore era sicuro di non pagare più del debito.

Tale era la legge detta geronica dal nome del re che la stanziò (75). Non diremo noi che il regolamento era ottimo. Il buono delle civili istituzioni è sempre relativo ai tempi, ai luoghi. La prosperità dei popoli è effetto della somma di più cagioni, delle quali molte sono ignote, molte mal calcolate e molte di per se sole produrrebbero forse un effetto tutto contrario. Ma è certo, che opulentissimo era il regno siracusano, e fiorentissima ne era l’agricoltura.

VIII. — Noi non possiamo conoscere in che l’agricoltura d’allora era superiore alla presente; ma fatti incontrastabili dimostrano quanto lo sia stata. E ciò sono le straordinarie opere e i larghi doni di quel principe, che dalle produzioni della terra traeva quasi in tutto la sua rendita.

Ne’ lunghi assedî d’Agrigento e Lilibeo da Gerone ebbero le armate e gli eserciti romani ogni maniera di vitto. Venuta Roma in guerra coi Galli cisalpini, lo stesso re somministrò alla repubblica tutto il frumento necessario per l’esercito, contentandosi d’averne pagato il prezzo alla fine della guerra. Gran copia di frumento donò egli al popolo romano nella celebrazione de’giuochi secolari, l’anno 517 dalla fondazione della città, 4o dell’Olimpiade 135 (237 a. C.). Dopo la famosa rotta de’ Romani al Trasimeno, spedì re Gerone ambasciatori a Roma, per condolersi della disgrazia, i quali presentarono il senato di una vittoria di oro del peso di trecentoventi libbre (76); di trecentoventimila moggia di frumento e dugentomila di orzo (77); e di alcune schiere di arcieri e frombolieri. Suscitata la guerra tra Roma e Filippo di Macedonia, il senato, per sovvenire alle spese, mandò pregando Gerone a contentarsi che tutto il denaro, ch’era già mandato in Sicilia, per pagarsi a lui in prezzo di frumento venduto petempi, fosse rimandato a Taranto per le spese di quella guerra. Gerone, non che il consentì, ma diede a Roma altri dugentomila moggi di frumento e centomila d’orzo. Insomma quando Roma avea mestieri di frumento trovava aperti sempre e sempre pieni i magazzini di Siracusa.

solo a Roma fu quel re tanto largo. Cartagine venuta strema di viveri e di denaro, per le perturbazioni mosse dai soldati mercenarî ritratti dalla Sicilia, n’ebbe da lui quanto le ne occorreva. Scossa Rodi da un terremoto, che fece cadere i più nobili edifizî, fra’ quali andò giù il famoso colosso, tutti i principi di quel tempo fecero a gara per dar soccorsi alla desolata città. Re Gerone non fu da sezzo. Vi mandò settantacinque talenti d’argento, per rifabbricare i ginnasi; vaggelli d’argento colle loro basi; vasi di gran pregio; cinquanta catapulte di tre cubiti; due statue vi fece erigere che simboleggiavano Rodi in atto di coronar Siracusa; e, quel che più monta, volle che tutte le barche dei Rodioti che venivano a trarre frumento dal suo regno, fossero esenti di qualunque gravezza.

Certo fiorentissima doveva essere l’agricoltura nel regno siracusano, se Gerone col decimo dei prodotti potea fare in Siracusa opere magnifiche, e profonder tanta copia di frumento ed orzo al di fuori. E se ciò è chiaro dagli effetti, ove se ne indaghino le cagioni, anche più chiaro apparisce. Disse ed ottimamente disse il Montesquieu, che ogni parola emessa dal trono va a rimbombare nella capanna dell’agricoltore. Nella capanna dell’agricoltore siracusano suonavano solo voci di conforto e d’incoraggiamento. Non altro peso egli portava che il dieci per cento de’ suoi prodotti, ed anche in ciò la legge lo guarentiva di qualunque sopruso, ed espressamente vietava che andasse a piatire lungi dalla stanza, per non essere divertito dalle sue faccende. Le ottime leggi e la severa giustizia del re lo mettevano al coverto d’ogni privata violenza. Nulla vincolava la sua industria, nulla il libero esercizio de’ dritti suoi. Vero è che la frugalità di re Gerone, l’esatta amministrazione, la lunga pace e ’l non avere esercito stanziale, concorrevano alla straordinaria opulenza di lui. Ma queste stesse cagioni tornavano in vantaggio dell’agricoltura, con fare accumulare immensi capitali, che diffusi per mille vie, erano il massimo degl’incoraggiamenti all’industria. Ed a tutto ciò s’aggiungeva il presente ammaestramento dello stesso re, che nelle cose agrarie molto avanti sentiva e con somma lode ne scriveva.

IX. — Straordinaria spinta ebbe poi in quell’età l’agricoltura dal commercio. Tante grosse città, e particolarmente la popolosissima Siracusa assai per l’ordinario consumavano dei prodotti di quel regno. A ciò venne ad unirsi la circostanza straordinaria che i Romani ed i Cartaginesi, finchè visse Gerone, tennero dietro a combattere in tutte le altre parti di Sicilia ed a desolarle. Però poco prospera vi poteva essere l’agricoltura; e tutto il mantenimento di que’ grandissimi eserciti e delle numerose armate si traeva da Siracusa. Così, mentre Roma e Cartagine sangue versavano a gorghi per tutto altrove, versavano oro a piene mani nel regno siracusano. Bello è poi il considerare che la generosità stessa di re Gerone tornava a profitto dei sudditi. Se quell’immensa copia di frumento ed orzi, ch’egli donava e vendeva pei tempi, si fosse accumulata ne’ granai di Siracusa, avrebbe stagnato il commercio, invilito i prezzi, scuorato l’industria. E l’esenzione data ai Rodioti era un guadagno che faceva l’agricoltore siciliano.

È facile argomentare quanto in tempiprosperi ebbe a crescere la popolazione di Siracusa, altronde assai numerosa. Siracusa, fabbricata da prima nell’isola d’Ortigia, aveva sin dal suo nascere avuto tale incremento, che ne erano venute fuori colonie a popolare Acri, Camarina, Casmena; molti Siracusani s’erano uniti a’ primi coloni d’Imera; e ciò non di manco la città cresceva a segno che, non capendo più nell’isola, fu entro terra edificata Acradina, città così vasta, che poterono una volta starvi sessantamila Cartaginesi, oltre i cittadini. Pure la popolazione riboccò, e fu edificata Tica e poi Neapoli. Oltre a queste le Epipoli, l’Eurialo, il Libdalo, forti non guari discosti fra essi e contigui a Tica e Neapoli, formavano come una quinta città. E finalmente borghi e villaggi erano in gran numero ne’ dintorni. Se il rapido incremento e la grande estensione della città dànno gran ragione di credere numerosissimo il popolo siracusano, un fatto narrato da Diodoro e di sopra accennato, anche più chiaro lo mostra. Dionigi I per costruire colla massima celerità il gran muro, a difesa dell’Epipoli, chiamò tutti i campagnuoli siracusani, giovani ed atti al lavoro, e fra questi scelse sessantamila operai, ai quali affidò l’esecuzione dell’opera. Da ciò è manifesto, che i contadini giovani a ciò destinati non furono tutti, la massima parte. Però si può supporre che, se non altrettanti, un quarantamila ebbero a restare. Se centomila erano i giovani atti alla fatica, non meno d’altrettanto potevano essere i vecchi, i fanciulli, gl’invalidi. E perchè in tutte le classi il numero delle donne supera di poco quello degli uomini, le contadine siracusane non potevano esser meno di dugentomila; onde tutti i campagnuoli d’ambi i sessi erano quattrocentomila. Più che altrettanto può calcolarsi il resto della popolazione in quella città, in cui grande era il numero de’ marinai, artigiani, soldati, servi, stranieri, oltre le famiglie de’ maggiorenti, numerose a segno, che se ne traeva un senato di seicento persone.

Questa gran popolazione mancò nelle ree vicende del regno del secondo Dionigi; ma centomila nuovi coloni vi furono chiamati da Timoleonte. Non è improbabile che, per le guerre e le crudeltà di Agatocle, la popolazione fosse di nuovo minorata; ma è impossibile, che in mezzo secolo di pace e di straordinaria ricchezza sotto Gerone II non fosse ritornata allo stato, in cui era ai tempi del vecchio Dionigi, e forse anche aumentata.

X. — E, perchè la stessa è la cagione, che promove i progressi dell’industria, della popolazione e dell’ingegno, all’aumento della ricchezza andavano del pari le scienze e le lettere, che aveano loro stanza nella reggia di Gerone. Fu allora che visse e venne in fama Archimede, il cui nome basta a segnalare un secolo ed una nazione. Archimedi ne nascono sempre e per tutto, e forse più che altrove in Sicilia; ma si mostrano solo quando seggono sul trono i Geroni. E in quella corte stessa furono accolti e careggiati Teocrito, Mosco, Bione ed assai altri.

Per conoscere poi quanto siano state in fiore nel regno di Gerone le arti, compagne inseparabili della civiltà e della ricchezza, senza enumerare i tempî, i ginnasî ed altre opere da lui fatte, basta a farcelo conoscere la nave da lui fatta costruire, per farne dono a Tolomeo re d’Egitto, alla perfezione della quale tutte le arti ebbero a contribuire. Tutto il legname, che sarebbe stato bastevole alla costruzione di sessanta galee, fu tratto dall’Etna; menochè il grand’albero, che trovato a caso sui monti della Brettagna, fu trasportato al lido dall’ingegniere Fileo da Tauromenio. Tutto l’altro materiale fu fatto venire dall’Italia, dalla Spagna, dalla Gallia. Vi faticarono trecento maestri, oltre il gran numero d’operai, sopra i quali stava l’architetto Archia da Corinto. Allestita a mezzo, di tanta mole era, che non si poteva varare. Archimede lo fece per mezzo dell’elica (forse l’argano) inventata allora allora da lui. Era la nave a venti ordini di remi; vi si entrava per tre porte, delle quali la più bassa menava per molte scale alla zavorra. Per l’altra si entrava nelle stanze familiari. L’ultima rispondeva ai quartieri dei soldati. Da ambi i lati dell’ingresso di mezzo, erano trenta camere, in ciascuna delle quali erano quattro letti. Nel luogo destinato ai marinai ve n’erano quindici, fornita ognuna di tre letti, e tre talami per gli ammogliati. La cucina era verso la poppa. Il pavimento di tutto ciò era di musaico, e rappresentava la guerra di Troja. Nel piano superiore erano luoghi di esercizî, passeggi e giardini, proporzionati alla grandezza della nave, i quali erano irrigati per mezzo di doccioni di creta o di piombo. V’erano teatri coperti d’edera e di vite, che crescevano in vasi pieni di terra. Anche pei piaceri di Venere era un lupanare con tre letti; il pavimento ne era d’agata ed altre pietre di Sicilia; le pareti e la soffitta erano di cedro atlantico; le porte d’avorio; ed ornato era oltre ogni credere di pitture, di statue e di vasi. Vicina a questa era una stanza con tre letti, le cui pareti e le porte erano di bosso; in essa era la biblioteca e nel sommo un’orologio, simile a quello solare ch’era in Acradina. Una sala da bagno v’era con tre caldaje di rame e tre letti; il bagno era di marmo vario di Tauromenio, della capacità di cinque metrete (78).

Oltre alle stanze pei passeggieri, erano dieci stalle, fienili e luoghi da riporre le bagaglie dei servi e de’ cavalieri. Nella prora era una cisterna fatta d’assi ben commesse, ristoppate ed impeciate, della capacità di duemila metrete (79). Prossimo a questa era un vivajo d’acqua marina, in cui si nutrivano di molti pesci. Sporgevano intorno la nave, sopra mensole, i riposti, per le legna, le cucine, le macine, i forni. L’ultimo palco poi era sostenuto da statue colossali, che rappresentavano Atlante, e ricorrevano intorno la nave, la quale oltracciò era per tutto ornata di bellissime pitture. Nell’ultimo piano si elevavano otto torri, ad ognuna delle quali erano legate due antenne, e nell’alto di esse erano de’ fori per lanciare sassi. In ogni torre potevano stare quattro armati e due arcieri; e l’interno era pieno di ciottoli e di saette. Nel centro era una balista inventata da Archimede, che scagliava alla distanza d’uno stadio un sasso del peso di tre talenti, ed una saetta di dodici braccia. In ognuno de’ tre alberi erano due antenne, dalle quali potevano tirarsi contro i nemici e sassi ed uncini di ferro e palle di piombo.

La nave tutta era circondata da una palizzata di ferro, per tenere lontani i nemici; ed allo incontro le navi nemiche potevano facilmente essere afferrate da mani di ferro, che pendevano tutto intorno, e facilmente potevano essere avventate. Sessanta giovani armati da capo a piedi stavano da ambi i lati, ed altrettanti intorno agli alberi. Le gabbie erano di bronzo. In quella dell’albero di mezzo stavano tre uomini; nell’altre due, ai quali da alcuni ragazzi con ceste, che si alzavano, e si mandavano giù colle carrucole, erano somministrati sassi e dardi. La nave aveva quattro ancore di legno ed otto di ferro. La sentina poi, benchè profondissima, era vôtata da un’uomo solo colla chiocciola inventata da Archimede. Questa nave fu da prima detta siracusana: e poi donata al re d’Egitto, si chiamò Alessandrina. Era accompagnata da altri legni minori, e particolarmente dal Cercuro, il quale era della portata di tremila talenti, moveasi a forza di remi, e come quella, portava secento uomini (80).

XI. — Pure Gerone, che tanto splendido si mostrava verso gli stranieri, si vivea modestissimo. Gl’infami baccani del secondo Dionigi; le porpore, gli aurati cocchi, e soprattutto la coorte di sgherri a guardia della sua persona, furono ignoti a quell’ottimo re, il quale abbastanza si teneva difeso dall’amore de’ sudditi, e dava loro col suo vestire positivo, colla parca sua cena, esempio di sobrietà, non di sfrenatezza. Ed alla sua temperanza si ascrive il lungo viver suo. Varcato già il novantesimo anno, voleva spogliarsi d’ogni autorità e ristabilire il governo popolare. Avea egli avuto tre figli; un maschio, che dal proavo ebbe nome Gelone, e due femine. Gelone era morto, lasciando un figlio per nome Geronimo, ancora adolescente. Andronodoro e Zoilo, mariti delle due figlie del vecchio re, sperando avere gran parte nel regno, se regnava il nipote, si valsero del mezzo delle mogli per distogliere il padre dal proponimento di rimettere la repubblica. Il buon vecchio non seppe resistere alle preghiere delle figliuole. Lasciò il regno al nipote, cui destinò quindici tutori, fra i quali furono i due generi. Pochi giorni prima di morire chiamò il nipote e i tutori, e raccomandò loro di conservare l’amicizia con Roma. Non guarì dopo finì di vivere nell’anno 1o dell’Olimpiade 140 (220 a. C.)





62 Cluverio suppone Sifonia, ove oggi è Agosta, ma s’inganna. Xiphonium era il promontorio di da Catania, ove è la torre di S. Anna; poco discosta era Xiphonia, sulle cui rovine surse il moderno Aci-Reale.



63 Aliena, Ilaro e Tiritto sono luoghi dei quali si ignora se città o Castelli fossero stati, ed in qual sito. Ascelo è il capo San Todaro tra Trapani e Castellammare, ove sono gli avanzi di un’antica fortezza.



64 Si crede Le Grotte, o presso.



65 Si crede sul Monte Busammara presso Mezzoiuso.



66 Città d’incerto sito.



67 Mistretta.



68 Presso Prizzi.



69 L’attuate Girgenti.



70 Si crede Polizzi.



71 Forse Petralia.



72 Tra Enna e Centuripe.



73 Il talento euboico (Tav. Barth.) valeva 6000 lire di Francia, ognuna delle quali è pari a tarì 2, 17, 4, 15; onde quel talento risponde a onze 578 circa.



74 Dall’avere Gerone, per favorire i Rodioti, fatte esenti da dazio le loro navi che asportavano frumento venghiamo in cognizione del pagarsi anche un tale tributo: ma, non avendo altri dati, non possiamo farne parola. Per la stessa ragione consideriamo la decima del solo frumento; perchè intorno a ciò le Verrine di Cicerone ci danno lumi sufficienti.



75 Che la legge fosse stata del II e non del I Gerone si argomenta dalle parole di Cicerone, che la dice; ejus regis, qui Siculis carissimus fuit. Il I Gerone non ebbe mai titolo di re, molto meno fu carissimo, comechè avesse alcuna volta protetto i dotti.



76 Dallo Specchio delle misure e pesi romani annesso alle opere di Catone sappiamo che la libbra romana era di 6240 grani di Francia, ognuno de’ quali è uguale al nostro coccio; onde se le libbre, che pesava la statua, erano romane, essa pesava 346 libbre ed otto once siciliane.



77 Secondo lo stesso Specchio, il modius capiva 449 1/3 pollici cubici di Francia. Ogni pollice lineare è 1, onc. 3, linee 1: onde il modius corrisponde a 2 quarti ed un quartiglio. Perciò il dono fu oltre 1000 salme di frumento, e quasi 6300 d’orzo.



78 La metreta (Specchio di Miss. e pes. rom.) era della capacità d’un’anfora e mezzo: l’anfora capiva poco più di 28 pinte di Francia: la pinta è un poco piu d’un quartuccio, onde la metreta aveva la capacità d’un 45 quartucci: perciò il bagno capiva poco più di cinque barili e mezzo.



79 Sessanta botti e un barile.



80 Vedi la nota VIII infine del volume.



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