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SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA] CAPITOLO XIII. I. Condotta di Geronimo. — II. Guerra da lui dichiarata ai Romani: Geronimo è messo a morte. — III. Perturbazione di Siracusa: assalto dato dai Romani. — IV. Macchine d’Archimede. — V. Strage d’Enna. — VI. I Romani espugnano l’Esapile: Tica e Neapoli si rendono: Ortigia ed Acradina prese a tradimento: morte di Archimede. — VII. Strage degli Agrigentini. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I. — Morto appena Gerone, la corte di Siracusa cambiò d’aspetto. Temevano i tutori che il popolo avesse disapprovata la disposizione del morto re; però convocata l’assemblea, vi fecero intervenire molti loro partigiani, i quali, letto il testamento di Gerone, applaudirono ad alta voce. Gli altri non osarono opporsi. Il testamento fu confermato. Superato quel passo, i due zii del nuovo monarca, e particolarmente Andronodoro, per essere soli a governare il regno e ’l re, si diedero a secondare i capricci dell’inesperto Geronimo e corruppero affatto il suo cuore, già di per se inchinevole al vizio. Per disfarsi degli altri tutori cominciarono ad insinuargli essere egli savio abbastanza per reggere se e lo stato; e però rinunziarono la tutela. Gli altri, buono o malgrado, ebbero a fare lo stesso. Allora Geronimo si fece conoscere affatto degenere dall’avo. La reggia tornò sentina d’ogni vizio, come a’ tempi del secondo Dionigi; lo stesso fasto; le stesse turpitudini; gli stessi satelliti; le uccisioni stesse. Degli altri tutori, altri andarono volontariamente in bando, ed altri furono uccisi. Restarono soli a godere la confidenza del principe i due zii ed un Trasone.
Erano costoro discordi in un punto essenziale. I due fratelli, sedotti dalle splendide vittorie di Annibale in Italia, per cui pareva che la fortuna romana avesse dato volta, volevano che Geronimo, staccatosi dall’amicizia di Roma, si unisse a Cartagine; a scanso che i Cartaginesi, disfatti del tutto i Romani, non rivolgessero le forze loro contro il regno siracusano. Trasone all’incontro faceva ogni possa perchè Geronimo non si dipartisse dall’avvertimento datogli dal morto re. Un di quei giorni un giovane, Celone di nome, familiare del re, venne a svelare una congiura che si ordiva in Siracusa contro di lui, nella quale era stato invitato ad entrare da un Teodoro. Preso costui, fu dato ad Andronodoro l’incarico di mettere in chiaro la cosa. Teodoro non negò il delitto; ma, o per farsi scudo del nome di uno degli amici del principe, o per suggestione d’Andronodoro, disse Trasone essere il capo della congiura. Trasone fu dannato a morte, nè altra ricerca fu fatta.
Reso arbitro Andronodoro del governo, di leggieri indusse Geronimo a stringersi in lega coi Cartaginesi contro Roma. Messi furono spediti ad Annibale, messi a Cartagine. Annibale, lieto di quel destro che la sorte gli offriva, mandò a Siracusa i due fratelli Ippocrate ed Epicide, per confermare il re siracusano nel suo pensiere. Erano costoro nati in Cartagine, ma di nazione siracusana, perocchè il loro avo da Siracusa a Cartagine si era rifuggito, per essergli stata apposta la morte d’Agatarco figliuolo d’Agatocle.
Appio Claudio, pretore romano in Sicilia, cui tali mene non erano ignote, spedì ambasciatori a Siracusa per chiedere la rinnovazione della alleanza. Geronimo, che già in mente sua scalpitava Roma, accolse con disprezzo que’ messi. Celiando chiese loro notizie della battaglia di Canne; e per ischerno maggiore mostrava commiserare Roma. Con romano cipiglio, que’ messi risposero, ch’eglino sarebbero ritornati quando avrebbe egli imparato il modo di ricevere colla dovuta dignità gli ambasciatori; ma badasse bene prima di romperla con Roma; e partirono.
I messi spediti a Cartagine aveano avuto incarico di conchiudere l’alleanza a patto che, cacciati i Romani da Sicilia, la metà dell’isola fosse di Geronimo, sì che i fiumi Imera fossero limiti tra ’l cartaginese e ’l siracusano dominio. Ippocrate ed Epicide per meglio entrare in grazia di Geronimo, gli dicevano, che per essere egli nato da una figliuola di Pirro, che stato era riconosciuto re di tutta Sicilia, a lui solo toccava, non la metà, ma tutto il regno. Quel bergolo entrò subito in tale ambizione, e mandò altri messi a Cartagine per mettere avanti questa nuova pretensione. I Cartaginesi, che aveano soto in mira il divertire le forze romane, movendo una guerra in Sicilia, mentre Annibale minacciava già Roma, aderirono anche a ciò. E preparavano grandi forze per mandarle in Sicilia.
II. — Il pretore (tanto caleva a Roma in quel momento dell’amicizia del re siracusano) a lui spedì nuovi messi, per avvertirlo e pregarlo a non istaccarsi dall’amicizia di Roma. Non celiò, come la prima volta, Gerone al ricevere quel secondo messaggio. Chiamò i suoi consiglieri per discutere l’affare. Mentre tutti taceano, per tema dell’indignazione del principe, Aristomaco da Corinto, Damippo da Sparta ed Autono da Tessaglia francamente dissero, non essere da dipartirsi dall’alleanza dei Romani. Andronodoro ed Ippocrate li contradissero. Al costoro avviso Geronimo disgraziatamente s’appigliò. Rispose ai messi romani sè essere pronto a continuare nell’amicizia di Roma, semprechè la repubblica gli pagasse tutto il frumento, il danaro e quant’altro avea donato il suo avo; e gli si cedesse tutta quella parte di Sicilia che giace dal lato orientale degli Imera. A tanta burbanza gli ambasciatori risposero con un amaro sogghigno. La guerra fu dichiarata. Epicide ed Ippocrate, che avevano militato sotto Annibale, ebbero il comando dell’esercito siracusano. Con duemila soldati vennero tentando le città, nelle quali era presidio romano. Lo stesso Geronimo con quindicimila tra fanti e cavalli venne a fermarsi in Leonzio.
Le sognate grandezze tornarono allora in lutto per l’inesperto re. Venuto in odio per gl’insolenti modi suoi, e per quella guerra mal gradita al più de’ Siracusani, che rispettavano la memoria e la politica del gran Gerone, la congiura svelata da Celone, per cui l’innocente Trasone aveva avuto morte, s’era estesa anche fra i soldati. Mentre dal suo palazzo si recava per un’angusta via alla piazza; un Dinomene, che fra le guardie era e dietro lui veniva, chinatosi, come per islacciarsi un calzare, fece così stare in dietro le altre guardie. I congiurati, assalito il tiranno, che solo si avanzava, lo misero a morte.
Soside e Teodoro, capi della congiura, corsero a Siracusa, per frastornare le mire d’Andronodoro. La fama gli avea precorsi. Andronodoro s’era già afforzato in Ortigia. Giunti sul far della notte all’Esapile, mostrando da per tutto l’insaguinata clamide e ’l diadema del tiranno, incitavano il popolo a libertà. Molti dei cittadini, com’essi entrarono in Tica, si facevano agli usci, e molti traevano dietro a loro. Chi aveva armi, le prese e venne fuori, chi non ne aveva corse al tempio di Giove olimpico, ove Gerone aveva riposto le armi de’ Galli e degli Illirici, che i Romani aveano mandato in dono all’amico re. Il popolo le staccò dalle sacre pareti, pregando il re de’ numi a benedire quelle armi, destinate a sostenere la libertà. Andronodoro, per difendere i granai pubblici, che tagliati erano nella viva rocca, e muniti sì che non di leggieri potevano essere espugnati, vi mandò una scelta schiera di giovani soldati. Costoro, come l’ebbero in consegna, fecero sapere al popolo che i granai erano a disposizione del senato.
Il domane al far del giorno il popolo si riunì nella piazza d’Acradina; come Teodoro e Soside aveano la notte gridato. Ivi un Polineo, accostatosi all’ara della Concordia, disse che prima di venire alla prova dell’armi contro Andronodoro, erano da tentare le vie di pace: e propose di mandare a lui un messaggio, per fargli sapere, che il senato e ’l popolo siracusano volevano ch’egli aprisse le porte dell’isola e consegnasse il presidio; che se egli avea in animo di usurpare la tirannide, sapesse, che tutti i cittadini armati gli minacciavano la fine stessa di Geronimo. Tutti applaudirono. Il messaggio fu spedito. Il senato, che dalla morte di Gerone non si era più riunito, riprese le ordinarie sue funzioni.
Avuto quel messaggio, Andronodoro tempellava tra la paura e la brama di giungere alla tirannide, cui lo istigava la moglie, figlia degenere del buon Gerone. Vincendo finalmente la paura, rispose, essere pronto a rinunziare al comando e sottomettersi all’autorità del senato e del popolo. Il domane aprì le porte e venne nella piazza di Acradina. Ivi nel luogo stesso, in cui il giorno avanti avea orato Polineo, si scusò dell’indugio, mettendo avanti il timore che il popolo non avesse voluto mettere a morte tutti i congiunti e ministri di Geronimo. Saputo, che i cittadini null’altro desideravano dalla libertà in fuori, veniva a concorrere cogli altri al pubblico bene. Commendò l’azione di Teodoro e Soside, e raccomandò loro a compir la opera con mantenere la concordia fra’ cittadini. E in questo dire consegnò le chiavi delle porte e del tesoro.
Il giorno appresso furono convocati i comizî per la scelta de’ pretori, ai quali era affidato il supremo reggimento della repubblica. Andronodoro ne fu uno. Gli altri furono scelti fra’ congiurati; e fra costoro furono Dinomene e Sopatro, ch’erano al campo in Leonzio, i quali vennero tosto a Siracusa, portando con seco tutto il denaro che colà era per conto dello stato, e lo consegnarono ai questori allora scelti, in cui potere venne anche il danaro ch’era in Acradina ed Ortigia. Per togliere poi ogni difesa a chi volesse usurpare la tirannide, furono demolite le mura, che separavano Ortigia dall’altre parti della città.
III. — Ogni cosa pareva allora tranquilla.. Ma restavano due male zeppe; Ippocrate ed Epicide, i quali cercavano di non far sapere ai soldati, che con essi erano, l’uccisione del tiranno. A tal fine uccisero colui che ne recava l’avviso. La precauzione fu inutile. I soldati, saputo altronde il caso, li abbandonarono. Eglino vennero a Siracusa; si presentarono ai pretori ed al senato, dissero essere eglino stati mandati da Annibale a Geronimo per ajutarlo; morto lui, essere terminato il loro incarico; volere perciò tornare in Italia al campo cartaginese; non potere andarvi per terra, chè doveano traversare il paese nemico; chiedere una scorta ed un’imbarco per recarsi a Locri. Fu loro promesso quanto chiedevano. Sventuratamente s’indugiò a farli partire. Costoro che altrove aveano posto l’animo, si giovarono dell’indugio per aizzare la plebe contro il nuovo governo, dicendo che i pretori, col pretesto di schivar la guerra, volevano dar la città ai Romani. Questi maligni semi allignarono. Il mal talento d’ora in ora cresceva. Andronodoro, istigato dalla Demarata sua donna, volle approfittarsene, per usurpare la tirannide. Una congiura cominciò a tessere per mettere a morte tutti gli altri pretori. I Cartaginesi ausiliarî e gl’Iberi furono sedotti, promettendo loro il sacco delle case e de’ beni di coloro, che doveano morire. Un Temistio, che anche era pretore, ed avea in moglie l’Armonia sorella di Geronimo, era un de’ primi nella cospirazione. Volle farne partecipe un’Aristone, strione tragico, il quale n’ebbe orrore e corse a palesare tutto agli altri pretori. Costoro prevennero il colpo, con mettere alla porta della curia i loro satelliti, i quali, come entrarono Andronodoro e Temistio, li uccisero.
Quel caso di cui s’ignorava la cagione, destò la meraviglia e lo sdegno di tutti. I pretori, per giustificarsi convocarono il senato, v’introdussero Aristone, il quale espose fil filo la congiura, e ne mostrò le prove. Il senato dichiarò giusta la morte data a que’ due. Per sedare il mal’umore del popolo fu convocata l’assemblea de’ cittadini. Il pretore Sopatro, fattosi alla bigoncia, narrò il fatto, e ne die’ colpa alle donne della stirpe di Gerone, e tanto disse contro di esse; che il popolo ne venne in furia. In quel momento i pretori bandirono un decreto di morte contro di esse. Il decreto tumultuosamente emanato, fu tumultuosamente eseguito. Demarata figliuola di Gerone, vedova d’Andronodoro; Armonia sorella di Geronimo, vedova di Temistio; Eraclea altra figliuola di Gerone, moglie di Zoilo, con due sue figlie, furono l’una dopo l’altra uccise da una torma di manigoldi.
Lagrimevolissima fra tutte fu la morte d’Eraclea e delle figliuole. Zoilo, marito di lei, sin dai primi giorni del governo di Geronimo, era ito in Egitto ambasciatore a Tolomeo. Conosciuta la irregolare condotta del nipote, v’era restato in volontario esilio, per non tramettersi ne’ pubblici affari. La moglie non avea avuta alcuna parte in quelle perturbazioni. Assalita dalla plebe furiosa, si era colle due figlie ritratta in una domestica edicola.. Nè la santità dell’asilo, nè l’innocenza loro, nè le preghiere di quella matrona, nè le pudiche lacrime delle vergini valsero a molcire la ferocia di quella masnada. La madre tratta dal sacro luogo fu scannata. Le figlie fecero uno sforzo per correre a chiedere mercè a tutto il popolo; ma tante ferite ne riportarono, che caddero esanimi; e più non viveano, quando giunse un intempestivo decreto di grazia per esse.
Coloro stessi, che aveano eseguita quella strage, n’ebbero orrore; il popolo, sdegnato contro i pretori che l’aveano decretata, chiese ad alta voce i comizî, per iscegliersi i due nuovi pretori in mancanza d’Andronodoro e Temistio. Fu forza contentarlo. Mentre si deliberava, uno della plebe propose Ippocrate ed Epicide. A quella voce applaudirono i mascalzoni, i soldati, i disertori e tutta la bordaglia. Ogni contrario voto fu vano. Quei due furono gridati pretori l’anno 3o dell’Olimpiade 141 (214 a C.).
I più de’ Siracusani inclinavano alla pace; però fu spedito messaggio al console Marcello, venuto allora in Sicilia, per rannodare l’amicizia. Questi promise di mandare persone a Siracusa per conchiudere il trattato. Ippocrate ed Epicide non osarono da prima opporsi al comun volere. Ma, come seppero che una numerosa amata cartaginese, giusta la convenzione fatta con Geronimo, era già a Pachino, si diedero palesamente a predicare il tradimento di volere consegnare la città ai Romani. E tanto aizzarono la plebe, sempre credula ed avventata sempre, che avvicinandosi l’armata romana, che amichevolmente veniva, molti corsero armati al lido, per impedire che alcun romano non mettesse piede a terra. In quel tumulto i pretori chiamarono il popolo a parlamento, per determinare se pace o guerra conveniva. Dopo lungo dibattito, posto il partito, la pace fu vinta; e messi furono spediti al console, per rinnovare gli antichi trattati.
In questo i Leontini chiesero ajuto ai Siracusani contro i vicini che infestavano il loro tenere. Parve allora agli altri pretori avere un bel destro d’allontanare Ippocrate; e colà lo mandarono con quattromila tra soldati stranieri e disertori romani. Costui, che ad ogni patto volea commetter male tra Siracusa e Roma, giunto in Leonzio, si diede a scorrazzare il vicino paese romano. Accorsovi uno stuolo di Romani, l’assalì alla sprovveduta e ne fece strage. Il console ne fece alte querele a Siracusa, e chiese che, per sicurezza della pace, fossero cacciati que’ due fratelli, dichiarati nemici del nome romano. Epicide, non tenendosi allora più sicuro in Siracusa, venne ad unirsi al fratello; ed ambi si diedero a ribellare Leonzio da Siracusa. Il senato siracusano chiese conto ai Leontini della ingiusta aggressione. Questi, messi su da’ due fratelli, burbanzosi risposero, avere anch’essi riacquistata la libertà colla morte di Geronimo; non essere eglino tenuti a stare alle convenzioni fatte dai Siracusani, ed a render loro ragione di ciò che facevano.
Avuta quella risposta, i Siracusani dissero al console di punire a posta sua i Leontini; a patto che la città tornasse sotto il dominio di Siracusa. Marcello si accinse all’impresa. Erano nell’esercito romano que’ soldati, che nella battaglia di Canne aveano presa la fuga. Il senato per punirli li avea mandati in Sicilia. Marcello, sperando che costoro ricattassero il perduto onore con istraordinarie prove, cesse alle loro suppliche, e scrisse al senato per consentire che costoro fossero riammessi nelle legioni. Rispose il senato: Roma non aver mestieri di codardi; potere ciò non pertanto il console valersi a grado suo di que’ soldati; con questo che, per quanto facessero, non potessero mai essere meritati di corona od altra militare ricompensa. Maggiormente messi al punto da tale dura risposta coloro, con tale impeto assalirono Leonzio, che al primo assalto la città fu presa. Ippocrate ed Epicide rifuggirono in Erbesso (81), spargendo da per tutto la voce che i Romani aveano messi a fil di spada tutti i Leontini e dato sacco alla città. Tale voce produsse, com’e’ volevano, nel popolo di Siracusa una querela generale contro i Romani. I Siracusani volevano bensì punita la insolenza de’ Leontini, ma non volevano mistrattata a segno tale una città di loro dominio. E tale fu lo sdegno loro, che un corpo d’ottomila soldati, capitanati da Soside e Dinomene, che andavano per dar mano ai Romani, come furono al fiume Mila (82), saputo quel caso che si diceva, si negarono andar più oltre, e fu forza ai capitani ristarsi in Megara.
Ivi giunti seppero i due comandanti essere falsa quella voce, sparsa ad arte da que’ due furfanti. Però si avvicinarono ad assediare Erbesso, per cacciare da Sicilia quella mala peste. Era lo antiguardo di quel piccolo esercito una schiera di Cretesi, i quali erano stati ausiliari de’ Romani. Presi nella battaglia del Trasimeno, erano stati mandati in Sicilia al soldo di Geronimo, ed avevano militato sotto Ippocrate ed Epicide. Mentre i Siracusani ad Erbesso si appressavano, a quei due fratelli, tenuti fuori con rami d’ulivo in mano, supplichevoli in atto si presentarono a que’ Cretesi, pregandoli a difenderli dai Siracusani, che volevano darli in mano ai Romani, dai quali sarebbero stati cruciati e messi a morte. I Cretesi impietositi si fermarono, e palesamente pigliarono la difesa di costoro. Le sopravvegnenti schiere a mano a mano si arrestavano; il contagio della seduzione dall’una all’altra passava; a segno che i due comandanti ebbero a ritrarsi con quella gente, che loro era rimasta fedele, a Megara. Ma quelle schiere stesse furono sedotte con una lettera, che si finse diretta da’ pretori di Siracusa al console, nella quale approvavano la strage de’ Leontini, e lo animavano a far lo stesso di tutti i soldati stranieri. L’abbottinamento divenne allora generale; i due comandanti, la cui vita era colà mal sicura, fuggirono a Siracusa, e ne fecero chiudere le porte.
Ippocrate ed Epicide, fatti condottieri di quella sediziosa masnada, s’accostarono anch’essi a quella parte di Siracusa, che Esapile dicevasi, per avere sei porte, come la voce stessa suona; e, parte colla seduzione, parte colla forza, vi entrarono; levarono a sommossa la plebe; quindi entrarono in Tica, e poi in Acradina, ove i pretori s’erano ritirati; e messi a morte costoro e quanti erano loro nemici; dato libertà agli schiavi ed ai prigioni, vennero dalla sediziosa marmaglia eletti soli pretori e comandanti della città, ed alla guerra s’accinsero.
Il console Marcello, che forse in suo cuore gioiva d’essere provocato ad un passo, che Roma anche senza provocazione o presto o tardi avrebbe dato, s’accostò con tutte le sue forze a Siracusa. Già il pretore Appio Claudio, saputa la strage degli amici di Roma, avea spedito ambasciatori a Siracusa sopra una quinquereme, che era preceduta da un’altra galea; e questa all’avvicinarsi al lido era stata assalita e presa; onde gli ambasciatori ebbero a fuggire. Lo stesso console, fermatosi coll’esercito presso al tempio di Giove Olimpico, prima di venire alla prova dell’armi, spedì messi a Siracusa. I due fratelli che vi comandavano, per non farli entrare in città, loro vennero incontro con grande accompagnamento d’armati. I messi romani, senza spaurirsi di tale apparato guerriero, dissero: non essere venuti i Romani a portar guerra a Siracusa, volere anzi liberare i Siracusani dall’oppressione in cui erano; volere vendicare la morte infame data agli amici di Roma; volere che sicuramente tornassero in patria coloro che erano rifuggiti al campo romano; volere consegnati gli autori di tante perturbazioni e di tanta strage. A tal partito Siracusa sarebbe libera; negandosi, i Romani avrebbero usate le armi contro coloro, che osavano opporsi all’amicizia di Roma.
I due pretori risposero: che, per non essere quel messaggio a loro diretto, non potevano eglino rispondere; tornassero quando il governo di Siracusa fosse in altre mani; e sapessero che, se Marcello co’ Romani suoi avesse osato ricorrere alle armi, avrebbe conosciuto per prova, Siracusa non essere Leonzio. Nulla ritenne allora più Marcello dal venire alle armi. Sperava egli espugnare al primo impeto una città scissa dall’interne fazioni, e così vasta, che fra le tante parti, delle quali era composta, facile teneva trovarne alcuna meno difesa, per cui farsi strada. E forse ciò gli sarebbe venuto fatto, se in Siracusa non fosse stato Archimede, che solo valse un’esercito.
Furono allora da quel famoso matematico poste in opera quelle macchine, che da lui, o inventate, o meglio costrutte nel regno di Gerone, si tenevano in serbo negli arsenali. Il console, dato ad Appio il comando delle schiere terrestri, sì accostò alle mura d’Acradina con sessanta quinqueremi, sulle quali erano quante macchine gl’ingegnieri romani aveano saputo inventare per l’oppugnazione della città. Famosa sopra tutte era quella, che sambuca chiamavano, per la sua forma simile a tale strumento. Era questa una scala larga quattro piedi (83), e lunga sì, che giungeva all’altezza di qualunque muro. Avea d’ambi i lati una balaustrata, coperta di cuojo, nella estremità era un pianerottolo, difeso da graticce, sul quale stavano pochi soldati; si teneva coricata sopra otto barche l’una all’altra legata. Come queste erano presso le mura, con funi passate per le carrucole ch’erano in cima agli alberi, e con uomini che la spingevano, la macchina era elevata all’altezza, che si volea, ed appoggiata alle mura. Coloro che erano sul palco cominciavano l’attacco, e l’altre schiere che rapidamente salivano, venivano ad ajutarli a cacciar dalle mura i difensori.
IV. — Già le galee s’appressavano, già la sambuca cominciava a torreggiare, quando si vide volare dall’alto delle mura un macigno del peso di dieci talenti; poi un’altro; e poi un’altro, i quali con ispaventevole rombo vennero a percuotere la sambuca e le galee che n’erano base, e ne furono sgominate queste, fatta in pezzi quella. Al tempo stesso una tempesta di ciottoloni e travi con punte di ferro fu scagliata contro le navi romane, per cui altre ne erano affondate, altre rovesciate, e in tutte grande era la strage degli uomini. Pure tutto ciò fu un nonnulla a rispetto di un’altra invenzione, che sarebbe affatto incredibile, se Plutarco, Tito Livio e Polibio non fossero concordi nel narrarla. Sulle mura furono elevate smisurate antenne, poste in bilico, sì che potevano alzarsi od abbassarsi colla celerità che si voleva. Avevano in punta lunghe catene, che terminavano con pesanti mani ed uncini di ferro. Alzata prima l’antenna, e poi velocemente abbassata, quelle mani venivano a percuotere le barche con violenza proporzionata al peso ed alla velocità loro; onde la percossa bastava a frangerle o sommergerle. Ma facevano di più: le afferravano, e poi, alzata l’antenna con grandi contrappesi, le levavano di tutto peso. Uomini, macchine, armi che sopra v’erano, rabbatuffolati andavano giù; e la barca stessa, dopo avere dondolato in aria, lasciandola cadere, o sommergevasi o si rompeva negli scogli. Nè manca fra gli antichi scrittori chi assicuri d’avere allora Archimede incese le navi romane cogli specchi ustorii (84).
Ritrattosi da tanto eccidio il console, sperò di fare miglior prova, assalendo la città dalla terra. Pensava egli che le macchine, per essere poste in alto, offendevano solo in distanza; per lo che, se veniva fatto ai suoi soldati di giungere sotto esso le mura, potevano essere esposti solo alle ordinarie offese, e queste si confidava di superare. Ma le mura di Siracusa erano nel basso piene di spesse balestriere, fatte in modo che esternamente non apparivano. Nel cuor della notte s’avanzarono i Romani, e s’inerpicarono sopra le rupi, sulle quali sorgevano le mura. Appena giuntivi, sboccò dalle feritoje una tempesta di dardi ed altre piccole armi. Dall’alto si mandavano giù e sassi e pesanti travi, che gran danno facevano nel cadere, anche più nel precipitare e nel rimbalzare. Al tempo stesso briccole, fionde, catapulte, baliste ne scagliavano via via, sino a gran distanza; intantochè i Romani si trovarono istantaneamente come involti in una tempesta. Di sotto, di sopra, da presso, da lungi erano trafitti, pesti o stramazzati, senza potere opporre difese o recare il menomo danno ai nemici; anzi senza pure vederli. In guisa che pareva loro combattere, non cogli uomini, cogli Dei sdegnati.
Marcello, che a gran ventura ne andò illeso, motteggiava i suoi ingegnieri, chiedendo loro cosa sapessero opporre alle macchine di quel geometra Briareo, che faceva avverare la favola de’ giganti dalle cento braccia. I soldati poi ne restarono presi da tale spavento, che al solo apparire d’una fune o d’un’asse sopra le mura, a qual distanza che fossero stati, si davano a gambe, temendo non qualche nuova macchina fosse messa in opera. Per la qual cosa il console non mai più venne allo assalto, ma fece d’affamare la città, stringendola dalla terra e dal mare. E, lasciatovi il pretore Appio con parte dell’esercito, egli col resto si diede a discorrere per la Sicilia, per sottomettere quelle città (e molte erano) che, incuorate dall’arrivo di un esercito cartaginese comandato da Imilcone e dalla disfatta de’ Romani nell’assalto di Siracusa, parteggiavano apertamente per Cartagine.
Riavuto di queto Eloro ed Erbesso, e di viva forza Megara, si accostò ad Agrigento. Trovò che Imilcone, ripresa al primo sbarco Eraclea, v’era giunto prima di lui, e vi s’era fermato con tutto l’esercito. Nè volendo il console assai dilungarsi dall’assedio di Siracusa, per imprendere quello di Agrigento, tornò indietro, marciando sempre in buon ordine, per non esser colto alla sprovveduta da’ Cartaginesi. I Siracusani erano entrati in tanta fidanza delle proprie forze, che spedirono diecimila fanti, e cinquecento cavalli sotto il comando d’Ippocrate ad unirsi all’esercito cartaginese. Erano costoro giunti in Acrilla, castello non guari discosto da Siracusa. Fermativisi, vi stavano piantando gli alloggiamenti, quando sopraggiunse lo esercito romano, il quale tutt’altro, che quell’incontro si aspettava. Assaliti e tolti in mezzo i Siracusani, sbrancati e senz’armi com’erano, meglio d’ottomila ne restarono uccisi. Ippocrate con un racimolo della sua gente rifuggì in Acre, e quindi andò a congiungersi ad Imilcone, e tramendue vennero a fermarsi nel lato orientale di Siracusa presso l’Anapo. Nel tempo stesso l’armata cartaginese, forte di cinquantacinque galee, comandata da Bomilcare, entrò nel gran porto.
V. — In questo, trenta galee romane approdarono in Panormo, portando sopra la prima legione. Imilcone, credendo che quella truppa si dirigeva a Siracusa per la via di terra, si mise in guato per intraprenderla, ma i Romani lo schivarono, venendo per mare. Bomilcare, le cui forze divennero inferiori a quelle de’ Romani, per la giunta delle trenta galee, levate le ancore, tornò a Cartagine. Imilcone ed Ippocrate si diressero contro Murganzio, ove erano i fondachi de’ Romani. I Murgantini loro aprirono le porte; il presidio romano fu messo a fil di spada. Molte città seguirono un tal’esempio. Volevano fare lo stesso gli Ennesi; ma loro ne incolse gran male. Vi comandava un Pinario, il quale con estrema vigilanza custodiva la città. I cittadini, non potendo in altra guisa venire a capo de’ loro disegni, chiedevano che a loro fossero affidate la custodia delle mura e le chiavi delle porte. Pinario si negò da prima; ma vistoli ostinati nella richiesta e numerosi, disse che per essere stato a lui dal console ordinato di custodire la città e le chiavi, sarebbe reo di morte, se le cedesse di queto. Solo un decreto dell’adunanza generale del popolo poteva giustificarlo. Per contentarli la convocò pel dimane. Intanto indettossi co’ suoi soldati. Come il popolo fu adunato, ad un segno posto, i soldati furiosamente assalirono gl’inermi cittadini, che non sospettavano il tradimento. Gran numero ne furono uccisi; anche più ne perirono pesti e soffogati nel fuggire in folla.
Marcello approvò il fatto, ed in premio permise a quei soldati il sacco della città. Sperava egli che tal rigore tenesse a freno le altre. Tutto contrario ne sortì l’effetto. L’eccidio della terra natale di Proserpina rese odioso il nome romano; e molte città ribellarono. Imilcone ed Ippocrate, che ad Enna s’erano accostati, colla speranza d’entrarvi, fallito il colpo, si ritrassero, questo a Murganzio, quello ad Agrigento. Marcello venne a Leonzio; vi provvide viveri per l’esercito; vi lasciò un presidio; e poi fermò il campo cinque miglia discosto da Siracusa.
Era già l’anno 1o dell’Olimpiade 142 (112 a.C.), nè Siracusa dava speranza di vicina resa. Il console stava in fra due. Lo stringevano da un lato i progressi d’Ippocrate ed Imilcone; grave disdoro parevagli dall’altro levare l’assedio. Tentò di avere la città a tradimento per opera degli esuli siracusani, ch’erano nel suo campo. Scoperta la mena, coloro che vi aveano parte furono puniti di morte in Siracusa. Ma, mentre disperava quasi dell’impresa, il caso gli offrì il destro di recarla a fine. Si trattava il riscatto di un Damasippo spartano, che per Siracusa militava, ed era caduto in mano dei Romani. Si tennero per ciò varî abboccamenti presso al porto Trogile; ove era la torre detta Galeagra, la quale, per quanto appare, facea parte di quella fortezza, che Esapile si chiamava. Un romano, ponendo mente a quel muro, conobbe essere meno alto di quanto da lontano appariva, e contandone le pietre, vide essere facile scalarlo. Ne avverti il console. Questi tempellava, pensando che per essere quel muro più basso, essere dovea meglio difeso. In questo, un disertore siracusano venne a fargli sapere, che in Siracusa erano per celebrarsi le feste di Diana, le quali solevano solenneggiarsi con istraordinarî stravizzi. Ma perchè scarsi erano i viveri, per lo assedio, aveva il pretore distribuito al popolo ed ai soldati gran quantità di vino, acciò colle beverie supplissero alle festive gozzoviglie.
VI. — Seppe Marcello giovarsi dell’avviso. Nella notte in cui previde che i Siracusani avvinazzati mal potevano vegliare, fatti avanzare mille soldati colle scale, li fece nel più alto silenzio salire sulle mura di quella torre. Trovate le scolte immerse nel sonno o barcolanti, senza strepito le uccisero. Entrati quindi nell’Esapile, ne sconficcarono una delle porte, e per essa entrò il resto de’ Romani. Spuntava già l’alba. Dato fiato alle trombe, misero i Romani un alto grido di vittoria, e corsero ad assalire l’Epipoli. I soldati che lo difendevano, sopraffatti dall’ebbrezza e dalla sorpresa, o precipitarono per quegli scosci o furono uccisi o caddero in mano de’ vincitori. Espugnato l’Epipoli, Marcello fece d’avere anche l’Eurialo. Era questa una fortezza posta sull’ultima altura dietro l’Epipoli; però guardava tutte le campagne da quel lato. Vi comandava Filodemo da Argo, il quale non si lasciò nè sedurre, nè intimorire. Il sito era tanto forte, e tanto i Romani erano scottati dal primo assalto dato alla città, che il console non s’attentò venire a tal prova. Fattosi indietro, venne a porsi ad oste tra Tica e Neapoli. Nè guari andò che quelle due parti (forse meno difese delle altre) mandarono al console oratori per arrendersi. I cittadini ebbero salva la vita e la libertà: ma quanto si avevano per le case fu preda del soldato romano. Filodemo allora, perduto ogni speranza di essere soccorso, rese l’Eurialo.
Restavano ancora sulle difese Acradina ed Ortigia. Tale era Siracusa che quelle sole parti di essa, tanto diedero che fare ai Romani, che si ridussero ad un pelo di perdere tutto il frutto della vittoria. Tosto che le altre parti della città sì erano rese, Bomilcare; approfittandosi d’un maroso che vietava all’armata romana d’opporsi, era corso in Cartagine con trentacinque navi, per avvertire la repubblica del pericolo di Siracusa, e n’era già di ritorno con cento galee. Ippocrate ed Imilcone erano occorsi con tutte le forze loro, e s’erano accampati presso l’Anapo. Marcello avea lasciato parte del suo esercito fuori la città, dall’altro lato, e ne avea il comando T. Quinzio Crispino, perchè il pretore era ito in Roma a concorrere al consolato; col rimanente stringeva da tre lati Acradina. Sicuro, dopo la presa d’Eurialo, di non potere la città aver viveri per la via di terra, mentre l’armata guardava il mare, sperava il console che finalmente la fame avrebbe astretti i Siracusani alla resa.
Tale era lo stato dell’assedio, quando i Romani si videro inaspettatamente assaliti in tutti i punti. Ippocrate ed Imilcone attaccarono Crispino; Epicide venuto fuori da Ortigia, corse sopra Marcello; l’armata cartaginese prese terra fra l’uno e l’altro esercito, per non potersi vicendevolmente soccorrere. Pur, comechè sprovveduto fosse stato lo attacco, i Romani lo respinsero: ma non senza perdita. Perdita più grave ebbero ivi a non molto a soffrire e Cartaginesi e Romani per le malattie cagionate, all’avvicinarsi dell’autunno, caldo oltre il solito, dall’aria malsana che movea dalle paludi presso l’Anapo: sciaura, cui andarono sempre in quell’età soggetti gli eserciti, che fermavano il campo in quelle parti. Le malattie di giorno in giorno infierivano; divenute contaggiose, dagli ammalati s’avventavano ai sani; e presto si venne a tale che languivano le genti senza conforto, e perivano senza sepoltura. I Siciliani, ch’erano nel campo cartaginese, si ritirarono nelle vicine città, e quindi venivano ingrossandosi per dar soccorso d’uomini e di viveri agli assediati. Fra i Romani, per essere più lontani dalla sorgente del male, e per essersi ritirati in quelle parti della città che erano in poter loro, ove ebbero alcun conforto, la morìa fu minore. Ma fra i Cartaginesi che stavano lunghesso il fiume, in campo aperto, il male fece strage, e ne perirono fra gli altri i due capitani Imilcone ed Ippocrate.
In questo Bomilcare, corse con tutta l’armata in Cartagine, per chiedere nuovi soccorsi per gli assediati, e ne ripartì con centotrenta galee e settanta navi da trasporto, cariche di vettovaglie. La speranza del vicino soccorso ringagliardì il coraggio de’ Siciliani. Più ostinati nella difesa si mostravano gli assediati; in maggior numero e più minacciosi accorrevano gli altri al di fuori. Ma alla speranza successe il timore, pel ritardo del desiderato soccorso. Epicide, lasciato il comando ai capitani de’ mercenarî, salito in nave, corse incontro a Bomilcare. Lo trovò di là dal capo Pachino, sul punto di rivolgere le prore verso l’Affrica; perchè il vento ostinatamente contrario non gli permetteva di superare quel capo, e temeva di venire a battaglia co’ Romani col disvantaggio del vento. Epicide lo indusse a soprastare.
Pericolosissima era allora la situazione de’ Romani. L’esercito loro, era per le malattie diminuito d’assai; e d’ora in ora si accresceva il numero dei nemici al di fuori. Se veniva fatto a Bomilcare di giungere in Siracusa con quella armata, a gran pezza superiore alla romana, sarebbero restati affatto chiusi, con poca speranza di soccorso e molto timore d’essere da per tutto assaliti da’ Siciliani. In tale stretta, Marcello si appigliò al disperato partito d’andare a combattere l’armata nemica, prima di giungere a Siracusa, sperando supplire col coraggio al minor numero delle sue navi. I venti erano già cambiati; l’armata cartaginese avea già superato il capo Pachino, quando ebbe a fronte la romana. Si preparavano il console, e i suoi a perire combattendo in mare, anzi che abbandonare l’assedio, o restare presi in terra. Ma, perchè era scritto negli eterni decreti che Siracusa dovea cadere, Bomilcare, invece di correr sopra i Romani, senza alcun apparente ragione fuggì a Taranto. Epicide disperando allora della salvezza di Siracusa navigò ad Agrigento. I Romani, vincitori senza combattere, tornarono all’assedio.
I Siracusani abbandonati dal capitano e dagli alleati, senza viveri e senza speranza d’averne, proposero al console patti dì resa. Si offerirono pronti a cedere tutto il paese, prima posseduto dai re loro, a patto di restare a’ cittadini i beni loro, e, primi fra tutti, la libertà e ’l dritto di governarsi colle proprie leggi. Vi acconsentiva Marcello; ma con romana ferocia, e forse ancora per debilitare maggiormente i Siracusani, volle, che prima di fermare la pace fossero messi a morte i tre comandanti delle truppe straniere, Polideto, Filistione ed Epicide-Sidone. Fu fatto. Nuovi pretori furono scelti dal popolo, ed alcuni di questi vennero al campo romano, per sottoscrivere il trattato. Ma il destino serbava più gravi calamità all’infelice Siracusa. I disertori romani e i soldati stranieri, temendo non quello accordo ritornasse sopra il loro capo, levatisi a tumulto misero a morte i pretori rimasti in città e quanti cittadini erano in voce di favorire l’accordo. Scelti comandanti del loro numero, s’accinsero a respingere gli assalitori. Marcello corrotto con larghe promesse un Merico spagnuolo, che uno de’ comandanti, era, nel cuor della notte mise entro Acradina una presa de’ suoi, per una porta, che quello, come indettato si era, avea lasciata aperta. Quei Romani fecero man bassa sopra i rivoltuosi; al tafferuglio corsero colà coloro, che a guardia erano d’Ortigia, che, rimasta così indifesa, fu in poco d’ora espugnata; e quindi i Romani corsero ad Acradina, ove fugarono e misero a morte i difensori. I miseri Siracusani chiesero allora salva la vita, e questa sola fu loro concessa. Pure, nel dare il sacco alla città, fu morto il grande Archimede, mentre stavasi, non distolto dall’orrendo trambusto, a delineare figure geometriche. Se tal destino toccò ad Archimede, malgrado gli ordini, che si dicono dati dal console, di custodirlo e onorarlo, è facile il pensare che assai altri cittadini ebbero a cadere sotto la spada del vincitore. Così cadde finalmente Siracusa l’anno 1o dell’Olimpiade 142 (212 a. C.). Il bottino fu eguale, se non più ricco di quello, che non molto dopo, trassero i Romani dall’opulentissima Cartagine.
Caduta Siracusa, restava ancora un racimolo di guerra. Molte città s’erano ribellate da Roma. Epicide ed Annone nuovo generale cartaginese tenevano Agrigento. Ed a costoro era venuto ad unirsi un Mutine, soldato di ventura, che avea militato in Italia sotto Annibale, ed ora con una banda di Numidi iva scorazzando il paese romano. Tutta Sicilia era piena del suo nome. Tutti e tre vennero a fermarsi al fiume Imera. V’accorse Marcello col suo esercito, e s’accampò quattro miglia discosto. Mutine senza por tempo in mezzo lo assalì e volse in fuga le guardie avanzate. Il giorno appresso Marcello menò fuori il suo esercito in ordine di battaglia. Venutigli contro i Cartaginesi, l’obbligarono a rientrare ne’suoi trinceramenti. Mutine si preparava ad assalire il campo romano, quando una briga nata fra’ suoi soldati, per cui da trecento di essi si ritirarono in Eraclea, l’obbligò ad allontanarsi per pacificarli. Prima di partire, raccomandò agli altri due capitani a non attaccare i Romani prima del suo ritorno. Annone, geloso del nome di lui, volle anzi attaccar battaglia in sua assenza, per aver solo l’onor della vittoria. Venuti a fronte gli eserciti, alcuni dei cavalieri Numidi per vendicarsi del torto, che faceva Annone al loro capitano, vennero a promettere a Marcello di non combattere; e tennero la promessa. I Cartaginesi, non sostenuti da quella cavalleria, senza lungo combattere furono dispersi e fuggirono ad Agrigento. Otto elefanti vennero in mano del vincitore.
Era già l’anno 2o dell’Olimpiade 142 (211 a. C.) quando Marcello ritornò in Roma. Non gli fu concesso menar seco l’esercito; però non potè avere il trionfo; ebbe in quella vece l’ovazione; ma quell’ovazione fu più splendida di qualunque trionfo. Oltre alle armi ed agli strumenti bellici di ogni maniera, Roma vide allora per la prima volta statue e pitture egregie; vasellame d’oro e d’argento in gran copia; nobilissimi arredi; ricchissime masserizie; e tutto ciò che aveano potuto accumulare tanti secoli di ricchezze, e il gusto delicatissimo in tutte le parti del viver civile.
VII. — Marcello ebbe in merito il quarto consolato. I suoi emuli suscitarono molti Siracusani, che in Roma erano, ad accusarlo. Egli si difese; fu assoluto; ma l’avere il senato dato incarico all’altro console Levino di far modo, venuto in Sicilia, di fare risorgere Siracusa, mostra che le querele de’ Siracusani non erano del tutto calunnie. Levino venne in Sicilia l’anno 3o dell’Olimpiade 142 (210 a. C.). Annone teneva Agrigento, molte altre città a lui s’erano date, ed il pro Mutine con ispesse correrie travagliava i Romani. Annone, sempre invido della gloria di costui, gli tolse il comando della cavalleria Numida, e lo diede al proprio figliuolo. Mutine, per vendicarsene, s’indettò col console. Fece occupare ai suoi Numidi una delle porte della città, per cui entrarono i Romani. Annone ed Epicide fuggirono; trovata a caso nel lido una barca, vi salirono sopra, e lasciarono per sempre la Sicilia. Tutti i Cartaginesi ed i Siciliani che erano al soldo di Cartagine furono presi e messi a fil di spada. I maggiorenti fra gli Agrigentini furono imprigionati, e, dopo essere stati crudelmente scudisciati, ebbero mozza la testa. Il resto del popolo con quanto gli Agrigentini si aveano, fu venduto alla tromba. Le altre città che aveano parteggiato per Cartagine, quale di tutta forza, quale per tradimento, e quale in fine di queto, tornarono al giogo romano.