Niccolò Palmeri
Somma della storia di Sicilia

SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA]

CAPITOLO XIV. I. Governo stabilito da’ Romani. — II. Condizione dette città siciliane. — III. Ordine giudiziario. — IV. Tributi. — V. Pubblica economia. — VI. Stato dell’agricoltura. — VII. Prima guerra servile. — VIII. Seconda guerra servile.

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CAPITOLO XIV.

I. Governo stabilito da’ Romani. — II. Condizione dette città siciliane. — III. Ordine giudiziario. — IV. Tributi. — V. Pubblica economia. — VI. Stato dell’agricoltura. — VII. Prima guerra servile. — VIII. Seconda guerra servile.

I. — Sin da che i Romani conquistarono quella parte dell’isola, che per Cartagine tenea, ne formarono una provincia, che Lilibetana chiamarono. Una nuova ne fecero del regno di Siracusa, che fu detta Siracusana. Ad ambe fu destinato un pretore per governarle, amministrarvi giustizia in pace, comandarvi le armi in guerra. Erano i pretori accompagnati da legati pretori per assisterli, e portavan seco un gran codazzo di prefetti, secretarî, medici, accensi, auruspici, preconi e littori. Avevano le insegne e le onorificenze stesse de’ pretori di Roma. Se accadeva lasciarli nel governo, dopo spirato il termine della carica, prendevano il titolo di propretori. Quando per istraordinaria cagione, alcuno de’ consoli veniva nella provincia, ad essi cedevano i pretori il comando, e se vi restavano dopo il consolato si chiamavano proconsoli.

Pretori, propretori, consoli, proconsoli non avevano ferma stanza. Dimoravano in Lilibeo, Panormo, Messena, Siracusa. La città, in cui erano si diceva foro. Ivi rendevano ragione a tutti i cittadini del distretto, che si chiamava diocesi, convento, giurisdizione. Nell’estate poi solevano discorrere le provincie; acciò gli agricoltori che piativano, non molto si dilungassero dal campo loro, nella stagione delle messi.

L’amministrazione della rendita pubblica era affidata a’ questori. Due ve n’erano in Sicilia: uno nella Siracusana, l’altro nella Lilibetana provincia. Riscuotevano essi per mezzo de’ tribuni dell’erario le imposte, e pagavano le spese tutte del governo, Avevano anche costoro sotto di se scrivani, ragionieri e littori. Ma i tributi non si riscuotevano al modo stesso in tutte le città, attesa la diversa condizione di esse.

II. — Messena e Tauromenio, che furono le prime a chiamare i Romani in Sicilia, erano state dichiarate città confederate di Roma. Immuni erano Centuripe, Alesa, Segesta, Alicia, Panormo. Le altre erano tutte vettigali, tranne quelle, che, ribellatesi da Roma durante la guerra siracusana, erano state riprese di forza; le quali, oltre all’essere vettigali, erano dette vassalle. Qual che fosse poi stata la rispettiva condizione, conservarono tutte una forma repubblicana per l’interno reggimento. In tutte erano un senato ed un corpo di decurioni, scelti fra’ più nobili e ricchi cittadini, dai quali si traevano, a suffraggio del popolo, i magistrati che presedevano al senato ed avevano la suprema potestà. Erano questi ove due, ove cinque, ove dieci, e però si dicevano duumviri, quinquemprimi, decemprimi, e, non che i nomi, ebbero vestito romano e romane onorificenze: usavano la toga ed eran preceduti da littori. Le memorie dei tempi fanno pure menzione di questori, di edili, di censori. E finalmente aveva ogni città un patrono, il quale dimorava per lo più in Roma. Era egli destinato a rappresentarla e difenderla. Talvolta veniva il patrocinio affidato ad alcuni de’ più illustri senatori romani. Una tale carica era ereditaria.

III. — Ma la competenza di. tali magistrati era ben ristretta. La cognizione delle cause, che i Romani dicevano di ragion pubblica, ossia criminali, per cui poteva essere inflitta pena capitale, era riservata al solo pretore romano, tranne i casi in cui la legge permetteva di delegarle altrui. Le cause private poi furono da prima commesse o ai questori, o a que’ cavalieri romani che in gran numero erano venuti a cercar ventura in Sicilia. Ma dopo la prima guerra servile, il console Rupilio, per troncare l’abuso, che que’ romani avventurieri facevano di tal facoltà, stanziò che, quando due Siciliani della città stessa piativano tra essi, i giudici siciliani, giusta le patrie leggi, rendessero ragione. Se i contendenti erano siciliani, ma di diversa città; il pretore traesse a sorte i giudici. Se contendevasi tra un cittadino ed una città, la decisione appartenesse al senato di un’altra indifferente città. Se un Romano chiamava in giudizio un Siciliano, un giudice siciliano dovesse decidere; ed un Romano nel caso contrario.

IV. — Tranne le città collegate e le immuni, tutte le altre andavano soggette ai tributi. Erano questi di più maniere. Fu conservata la decima, come si trovava stabilita da Gerone, e restò in pieno vigore la legge geronica sul modo d’esigerla. Nel consolato di L. Ottavio e C. Cotta il senato avea stabilito, che, derogando a quella legge, le decime del vino, dell’olio e degli altri piccoli prodotti si vendessero in Roma. Si trovava ivi l’illustre Stenio termitano, il quale, tanto disse in senato per mostrare il grave danno che sarebbe venuto alla Sicilia da tale novità che i consoli, riesaminato l’affare col consiglio dei più distinti fra’ cittadini, rivocarono il decreto.

Oltre alla decima del frumento, che si dava per tributo, si traeva dalla Sicilia il frumento, che si diceva comprato. Si obbligavano gli agricoltori a dare una seconda decima, ed ottocentomila moggia se ne facevano contribuire a tutte le città, secondo una ripartizione che faceva il pretore. Questo si pagava ad un prezzo invariabile fissato dalla legge: cioè la seconda decima tre sesterzî il moggio, l’altro quattro (85). E ciò mentre, dalle memorie che sono a noi pervenute abbiamo notizia d’essere stato il prezzo del frumento talvolta quindici sesterzî il moggio. Pure quel misero prezzo non tutto si pagava. Se ne toglieva una parte per la buona moneta; un’altra per ragione di un così detto cerario, e due cinquantesime per diritto del cancelliere.

Traevano oltracciò i pretori dagli agricoltori un’altra quantità di frumento, che da loro si stabiliva, e si pagava a quattro sesterzi il moggio; dovevano eglino trasportarlo a loro spese nel luogo, che il pretore designava. E, perchè era in facoltà degli agricoltori di dare in vece del frumento, il soprappiù del prezzo di esso, secondo che si vendeva nella città ove dovevano consegnarlo, tale frumento si diceva estimato.

Si pagava inoltre un dazio per capi di bestiame il quale, dallo scriversi ne’ pubblici registri gli animali che ogni agricoltore manteneva, si diceva scripturae.

A questi pesi si aggiungeva la dogana (portorium); che importava il cinque per cento su tutte le derrate, ch’entravano o si traevano dall’isola. Lo stesso pretore non n’era esente. Nelle città immuni andava la gabella a profitto del comune.

Oltre a tutto ciò la Sicilia dovea mantenere l’armata necessaria per la custodia del suo mare. Il pretore fissava il numero delle navi. Ognuna delle più cospicue città ne dava una; la costruiva, la provvedeva, l’armava, la pagava a tutte sue spese, e da essa la nave avea nome. Però v’era la galea Apolloniese, la Tindaritana, la Tauromenitana, la Messenese; chè le stesse città immuni non andavano esenti da tal peso. Quelle di minor nome vi contribuivano all’avvenante delle proprie forze. Era ognuna di queste navi comandata da un Siciliano; per lo più dalla città che la dava; ma il supremo comando ne era affidato al pretore, che saliva la nave pretoria, poteva cedere il comando se non al questore, o ad alcuno dei legati; ad un Siciliano non mai. Tale armata, comechè destinata per la custodia del mare siciliano, poteva dal senato essere spedita fino all’oceano, ma sempre a spese della Sicilia.

V. — Le verrine di Cicerone danno lumi sufficienti per farci conoscere lo stato della pubblica economia in Sicilia sotto la dominazione romana. Il senato mandava ogni anno ai pretori nove milioni di sesterzî per la compra delle seconde decime (86). È dunque manifesto che tutta l’ordinaria produzione di frumento era allora trenta milioni di moggia, o sia un milione e seicento cinquantotto delle nostre salme. Le due decime, il frumento comprato e l’estimato, sommavano quasi al quarto della produzione, e forse le decime di tutti gli altri prodotti, il dazio delle scritture, la dogana ed il peso del mantenimento dell’armata più che altrettanto importavano. Tali pesi, oltre all’essere eccedenti, eran poi dannosissimi, perchè direttamente tendevano a scuorare l’industria dell’agricoltore, al quale si strappavano gran parte dei prodotti della terra da lui coltivata; ed eran poi accresciuti a più doppî dalle concussioni di coloro, che si mandavano al reggimento di questa e di tutte le altre provincie, i quali vi correvano come a sicura preda; paghi di soddisfare la loro cupidigia, dovevano rubare quanto era necessario per comprare in Roma il voto di quei magistrati, che dovevano esaminare la loro condotta, la venalità dei quali era tanto palese che Cicerone assicura che molte provincie avevano mandato legati in Roma, per chiedere, che non si desse più luogo ad accuse di concussione contro i proconsoli e i pretori; perchè l’accusa, dalla quale dovevano difendersi, li metteva nella necessità di rubare di più; ed i popoli potevano sovvenire alla rapacità loro, ma non alla perniciosissima loro vittoria (87). E per la ragione stessa dovevan costoro, oltre alle proprie, dar mano alle rapine ed alle violenze dei Romani avveniticci, i quali erano i testimoni, e talvolta ancora i giudici della loro condotta. E bene avea d’onde il romano oratore d’esclamare: Piangono tutte le provincie; si dolgono tutti i popoli liberi; e finalmente tutti i regni reclamano contro le nostre cupidigie ed ingiurie. Non è luogo fra’ termini dell’oceano tonto remoto, nascosto, dove a questi tempi non sia trascorsa la libidine e la iniquità dei nostri uomini. Oggimai il popolo romano non può più sostenere, non la violenza, non le armi, non la guerra; ma il pianto, le lacrime, i lamenti di tutte le nazioni (88).

In Sicilia la legge geronica, gli stabilimenti di Levino, di Rupilio e di tanti altri, furono voto nome. I tributi si riscuotevano smodatamente ed a capriccio; i furti erano immensi ed. impuniti; il tribunale del pretore, con poche eccezioni, era pubblico mercato d’iniquità; le città, qual che fosse stata la loro condizione, furono tutte smunte ed oppresse del pari; nessuno ebbe più sicurezza, non che di beni, pur della persona; i prodotti della terra non ebbero più libero spaccio; chè, tranne ciò che serviva all’interna consumazione, tutto il resto andava in Roma e di forza; l’agricoltura venne meno.

VI. — Più d’uno a’ nostri nostri ha messo avanti l’opinione, che la produzione di Sicilia nelle antiche età era la stessa di quella d’oggidì; pigliando argomento dal detto di Cicerone, che ne’ campi leontini si seminava un medimno di frumento per ogni jugero di terra, e se ne avea otto e talvolta anche dieci (89). Costoro si ingannano primieramente nel pigliare la rendita de’ campi Leontini per misura della produzione totale dell’isola; ovechè i campi leontini per essere straordinariamente feraci e di facile coltivazione meno delle altre parti di Sicilia dovean sentire gli effetti della mancanza de’ capitali, cagione primaria della decadenza dell’agricoltura; senzachè erano quei campi allora posti ne’ dintorni della capitale, ove l’industria è sempre più animata che altrove. La produzione totale dell’isola, che allora calcolavasi poco più d’un milione di salme, era a gran pezza inferiore alla presente, che suol essere di un milione e mezzo, può dirsi che ne’ tre milioni di moggia di frumento comprato non era compreso quello delle città libere e delle immuni. Cicerone parla del frumento imperato di Alesa, e rimprovera a Verre d’avere esentato dalla contribuzione Messena.

Più grave è poi l’errore di considerare la produzione di quell’età come misura di quella delle precedenti, e supporre che per la dominazione romana l’agricoltura non patì cangiamento. Abbiam ragione di credere, che il solo regno siracusano nell’epoca antecedente produceva di frumento poco meno che non ne produceva l’isola tutta nell’epoca d’appresso. Il regno siracusano era appena un sesto di tutta l’isola; ora se la produzione totale di questa fosse stata anche allora di un milione di salme, quel regno ne avrebbe prodotto meno di centosettantamila: e re Gerone, che null’altro esigeva oltre la decima, non ne avrebbe avuto più di 17000. Avrebbe mai con tale rendita potuto fare tanti frequenti doni, talvolta di diecimila salme; sovvenire a tutte le spese del governo; tenerne sempre in serbo gran copia; o mostrarsi tanto magnifico nelle opere sue, da gareggiare cogli Antigoni, coDemetrî, coTolomei e con quanti erano fastosissimi principi in quella età? Sappiamo che Levino per richiamare ai campi gli agricoltori, bandì severi castighi a coloro, che non ripigliavano le agrarie faccende. Ciò mostra che sin dai primi tempi della romana dominazione l’agricoltura era cominciata a decadere. E quel provvedimento da per se solo era atto ad accrescere il male. Vorrem poi dire che l’eccesso dei tributi, l’oppressione, l’ingiustizia, il manco di sicurezza, insomma il governare i Verri, o i Geroni a nulla monta per la ricchezza de’ popoli e la floridezza dell’agricoltura?

Vero è che fra coloro, che vennero al governo di Sicilia, alcuni ve n’ebbe che con integrità si condussero. Fra questi è da rammentare il nome di Scipione Emiliano, il quale, espugnata Cartagine, fedelmente restituì alle città siciliane tutte quelle cose, che nelle antiche guerre dai Cartaginesi erano state tolte. Allora tornarono molte statue ad Agrigento, fra le quali il famoso toro di Falaride; tornò la statua di Diana a Segesta, la statua di Mercurio a Tindari; altre statue a Gela; ed a Terme-imerese le famose statue che figuravano Stesicoro, Imera ed una capra. Ma tali esempî furono assai rari. Il bene che potevano fare gli uomini onesti era di non aggravare con privati soprusi il male, che nasceva dalla condizione di provincia, cui la Sicilia era ridotta, e dalle disposizioni del governo. Del testo la nazione digradò in tutto. Le grandi imprese, i grandi uomini, le grandi azioni, le virtù ed i vizî grandi più non si videro; lo spirito pubblico venne affatto meno. I Siciliani, che da loro soli avevano trionfato delle forze d’Atene e di Cartagine, divenuta la Sicilia provincia romana, più non trattaron le armi. Venuto qui Scipione, per fare gli appresti della spedizione di Cartagine, scelse trecento giovani dei più nobili ai quali ordinò di presentarsi armati a cavallo. Vi vennero; ma di male gambe. Avvistosene Scipione, disse loro che ognuno di essi poteva esentarsi dal servizio, lasciando il cavallo e l’armatura, Tutti si appigliarono a tal partito (90).

I cavalieri Romani che in Sicilia vennero a stabilirsi, restarono quasi soli a coltivare i campi siciliani, come coloro che meno de’ Siciliani esposti erano a vessazioni. E, perchè gli agricoltori siciliani d’ora in ora mancavano, veniva accrescendosi il numero degli schiavi, che in quell’età si destinavano alle rustiche faccende. E tanto si accrebbe il numero di costoro, e con tal crudeltà erano trattati, che finalmente, spinti dalla disperazione, recarono alla Sicilia lunghi ed aspri travagli.

VII. — Questi sventurati, rinchiusi la notte in orride cave, scudisciati di giorno, erano marcati come bruti con un ferro rovente, e peggio che da bruti trattati nel vitto, nel vestito, nelle fatiche e nei gastighi, spesso ingiusti e sempre crudelissimi. Un Antigono da Enna avea tra gli altri schiavi un Euno, nato in Apamea di Siria, il quale dato all’arte magica, divinava il futuro. Alcuni suoi vaticinî, per caso avverati, gli avevano dato gran nome nel volgo. Forata una noce, la empiva di zolfo e di stoppa, ed accesala, in bocca la teneva nel parlare in pubblico, la plebe, vistolo eruttar fiamme dalla bocca, lo teneva veramente afflato dallo spirito d’Apollo, e dava piena fede allo sue ciancie. Si dava costui vanto d’avergli la dea Cibele presagito dovere egli un giorno essere re. Antigono si prendeva gioco di tali giullerie del suo servo. Spesso lo chiamava, mentre a mensa sedeva, lo interteneva del futuro suo regno, e facendone le risa, lo regalava di qualche boccone (Anno 2o Olimpiade 172: 91 a. C.)

Era nella città stessa un Damofilo, ricco cittadino, ma innanzi ad ogni altro superbo e crudele verso gli schiavi; se non che la Megallide sua donna, non lo vinceva già, che ciò non si poteva, lo pareggiava. Disperati finalmente i costui servi, corsero ad Euno, chiedendolo se giunta fosse l’ora del suo regno; e, risposto da lui del sì, armatisi alla meglio, guidati dall’ignivomo re, quattrocento di loro entrarono in città, e colti sprovvedutamente gli Ennesi, ne fecero strage. risparmiarono pure i bambini lattanti, ai quali, battendoli fortemente in terra, facevano schizzare le cervella.

Una mano di essi corse alla casa di campagna del feroce Damofilo; trattonelo colla sua donna, li menarono in città e li condussero al teatro, ove i sediziosi erano adunati. Damofilo tentò impietosirli, ma un Ermea, suo particolar nemico, gli ruppe le parole passandolo fuor fuori colla spada; e Zeusi gli troncò il capo colla scure. La Megallide fu consegnata alle serve, dalle quali fu prima straziata e poi fatta morire, precipitandola da quelle bricche. Una costoro figliuola, che sempre pietosa s’era mostrata verso gli schiavi, ed avea cercato d’ammollire la ferocia de’ suoi genitori, non che risparmiata, fu condotta a’ suoi parenti in Catana.

Euno, chiarito re, fece chiamarsi Antioco, nome riverito da’ Sirî. Ordinò che fossero messi a morte tutti gli Ennesi, che restavano in città, tranne gli armajuoli, ai quali gran copia d’armi d’ogni maniera fece lavorare. Scelse i suoi consiglieri e ministri, fra’ quali un Acheo di Acaja, uomo ingegnoso e destro, al quale pare essere stata affidata la condotta della guerra (91).

Il nuovo re, alla testa di seimila schiavi, si diede a saccheggiare le città, i borghi e le castella de’ dintorni di Enna, e metterne le campagne a guasto ed a ruba. A lui venne ad unirsi un’altro stuolo di schiavi altrove ribellatisi, capitanati da un Cleone di Cilicia. Per tal modo, scorsi appena trenta giorni dalla prima sollevazione, Euno ebbe sotto di se ventimila schiavi; ed il loro numero veniva di giorno in giorno accrescendosi, Manilio, Cornelio Lentulo, C. Calpurnio Pisone, che con iscelte schiere romane, loro vennero incontro, n’ebbero la peggio, e talvolta ebbero a lasciarvi il campo e le bagaglie. Un corpo di cavalleria, comandata da C. Tizio, accerchiata, cesse le armi. L. Ipseo, mandato espressamente da Roma, fu del tutto sconfitto. Già l’esercito de’ sollevati s’era ingrossato sino a dugentomila combattenti. Con tali forze affrontatisi coll’esercito romano, comandato da L. Planico Speseo, n’ebbero segnalata vittoria; e quindi si fecero padroni di Tauromenio.

Avute le due munitissime città di Enna e Tauromenio, delle quali fecero piazza d’armi, venivano portando il guasto e lo spavento in tutte le parti dell’isola. Finalmente la gloria di recare a fine la guerra tanto disastrosa per la Sicilia e vergognosa per le armi romane, fu riserbata al console Rupilio, il quale, venuto in Sicilia con numeroso esercito, corse a cinger di assedio Tauromenio, che i sollevati già da due anni tenevano, e chiuse per modo qualunque adito alla città, che gli assediati presto mancarono affatto di viveri. Non però quella gente disperata e ferocissima si piegò. Scannati i figli e le mogli (fa raccapriccio il dirlo) si nutrivano delle loro carni; e mancato quel fero pasto, l’un l’altro s’uccidevano, perchè i cadaveri degli estinti servissero a nutrire i sopravviventi. Ridotti finalmente in pochissimo numero, un Serapione, Siro di nazione, tradì i suoi compagni e la città fu presa. Comano fratello di Cleone, fu preso mentre cercava di fuggire. Portato in presenza del console, fu da lui richiesto del numero dei suoi compagni e de’ loro disegni. Volle tempo a rispondere. Assisosi coccoloni, strette le ginocchia al petto, si coprì la testa col manto, e, tanto compresse il fiato che crepò per non palesare il secreto. Gli altri che furono presi, dopo i più crudeli tormenti, furono precipitati da quelle ertissime balze.

Caduta Tauromenio, venne Rupilio ad assediare Eima, ove erano Euno e Cleone. Questi, perduta ogni speranza di salute, volle finire da prode i giorni suoi. Venuto fuori, affrontò i nemici e morì combattendo. Non guari dopo la città fu presa a tradimento. Euno, cui venne fatto fuggire con seicento de’ suoi, si ritirò in luoghi alpestri, ove fu accerchiato da’ Romani. I suoi compagni, anzi che arrendersi, vicendevolmente si uccisero; egli col cuoco, il fornajo, colui, che lo stropicciava nel bagno, ed il buffone, ritrattosi in una lustra, vi fu preso. Tratto nelle carceri di Murganzio, vi morì di morbo pediculare.

Fornita così l’impresa, Rupilio si diede a discorrere per l’isola per estirpare altre piccole ladronaje, che nel disordine generale erano surte. E molti provvedimenti diede per lo buono regolamento della provincia. In questo, i consoli frugando i libri Sibillini, vi trovarono che bisognava placare l’antichissima Cerere. Forse quell’oracolo aveva un senso più profondo, ma i Romani lo interpretarono letteralmente. Sacerdoti, scelti dal collegio dei Decemviri, vennero a fare pomposi sacrifizî nel tempio di Cerere in Enna. Ma le vere cagioni che movevano lo sdegno di quella Dea non furono rimosse. Le iniquità de’ pretori romani continuarono. Un C. Porzio Catone, ch’ebbe in que’ la pretura, fu accusato di concussione da’ Messenesi, e condannato all’ammenda di diciottomila sesterzî. La rea condotta de’ magistrati venne allora preparando i materiali per una seconda più terribile conflagrazione, che scoppiò dopo ventottanni, nell’anno 2o dell’Olimpiade 179 (63 a. C.).

VIII. — Solevano allora gli agricoltori, e particolarmente i Romani avveniticci, condurre per prezzo i mandriani, i bifolchi, gli armentarî, i castaldi ed altra gente buona all’agricoltura, dalle città e dai regni collegati di Roma. Costoro, che liberamente venivano, credendo dovere essere mercenai, appena giunti erano posti in catena, marchiati e ridotti alla più dura servitù. Il senato, volendo por fine a tanta iniquità, ordinò ai pretori e proconsoli di restituire a libertà tutti coloro, che senza dritto erano tenuti in catena.

Era allora pretore in Sicilia Licinio Nerva, il quale cominciato a rendere giustizia a que’ meschini, ottocento ne trasse dai ferri. Ma poi o intimorito dai padroni, che minacciavano disservirlo in Roma, o avuto da essi il boccone, negò giustizia a tutti gli altri. Molti di costoro, che in Siracusa erano, rifuggirono al bosco sacro agli dei Palici. Altri d’altre parti, messi a morte i padroni, a costoro s’unirono ed afforzarono quel sito. V’accorse il pretore per sottometterli colla forza; ma, trovatili ben difesi, ricorse al tradimento. Si indettò con un C. Titinio soprannominato Gadeo, uomo rigattato, il quale pe’ suoi delitti, già da due anni, era stato condannato alla morte; e per sottrarsi alla pena era ito fuggiasco, vivendo di ruba; ma nelle sue ruberie avea sempre risparmiato gli schiavi. Costui con altri compagni venne al bosco, come per accomonare le forze. Fu accolto con lieto animo; gli fu dato il comando. Di ciò si valse per introdurre ne’ ripari i soldati del pretore. Gli schiavi non ebbero scampo; molti ne furono uccisi; molti ne perirono nel fuggire, precipitando da que’ luoghi aspri e montuosi.

Nerva, creduto ogni timore cessato, licenziò la sua gente. Ma altri schiavi, levatisi altrove in armi, si vennero a fermare sul monte Capriano (92). Il pretore, nel riunire le sue truppe, dietempo a costoro di armarsi e crescer di numero. Finalmente contro loro movea. Valicato l’Albo (93), invece d’affrontarli, ne schivò l’incontro e tirò ad Eraclea. La sua codardia accrebbe il cuore, e ’l numero de’ sollevati. Nerva mandò contro di essi M. Titinio con iscelta banda, alla quale unì secento soldati tratti dal presidio d’Enna. Nello incontro riportarono costoro una fiera rotta; molti ne furono tagliati a pezzi, e gli altri, poste giù le armi, fuggirono. Avuto tal vantaggio, quella masnada resa più numerosa, meglio armata e più ardita, scelse a re un Salvio suonator di piffero. Costui divise la sua gente in tre schiere, ad ognuna delle quali prepose un capitano. Le spedì in diverse direzioni, per raccorre prede, armi e compagni con ordine di riunirsi in un sito da lui assegnato.

Gran quantità di bestiame e particolarmente di cavalli acquistarono; ed accorrendo d’ora in ora altri profughi, il nuovo re ebbe presto uno esercito di ventimila fanti e duemila cavalli ben provveduti ed armati. Con tali forze prese consiglio d’espugnare Murganzio. Fermò il campo alle radici del monte, sulla cui vetta la città era posta, e, lasciatovi pochi de’ suoi a guardia delle bagaglie e della preda, venne a stringere la città. Il pretore v’accorse, venne sopra gli alloggiamenti, e fattosene padrone, si avviò per attaccare gli assalitori alle spalle. Non sì tosto costoro s’avvidero dell’esercito romano, che ordinato saliva l’erta, lasciato la città, corsero ad assalirlo con tale impeto e con tal vantaggio di sito, che i Romani non tennero la puntaglia. Salvio avea dato ordine ai suoi di lasciar la vita a chi lasciava le armi. Ciò fece che, malgrado la totale disfatta, solo secento dei Romani furono uccisi; quattromila ne furono presi; degli altri s’ebbero le armi. Così ripigliò Salvio il tolto; ebbe per giunta tutte le armi e le bagaglie del nemico; gran nome acquistò, non che di prode, ma di mansueto guerriero; e senz’altro timore tornò all’assedio di Morganzio.

Era in quella città gran numero di servi, ai quali promise libertà, se cogli sforzi loro avessero agevolata l’impresa. Libertà promettevano loro al tempo stesso i rispettivi padroni, se avessero cooperato alla difesa della città. Que’ meschini lo promisero e combatterono con tanto valore, che gli assalitori furono da per tutto respinti; ma quando chiesero il promesso premio, il pretore vietò ai loro padroni di tenere la promessa. Aizzati da ciò fuggirono e vennero ad accrescere lo esercito di Salvio.

In questo, di verso Segesta si levò in armi un altro stuolo di schiavi, capitanati da un’Atenione di Cilicia, tenuto fra’ suoi esperto astrologo ed indovino. Aveva costui sortito dalla natura estrema forza, gran cuore ed animo volgare, straniero alla giustizia. Venne in campo da prima con soli dugento compagni, che in cinque giorni giunsero a mille. Salutato da essi in re, vestì la porpora e le insegne regali. Fra tutti i profughi, che a lui in folla tutto accorrevano, dava le armi solo a coloro, che, per la robustezza e la perizia nel maneggiarle, eran da ciò; e ponea gli altri a quegli uffizî, sopra i quali prima erano. Per levare a’ suoi il mettere a guasto i campi, disse loro avere letto negli astri dovere un regnare su tutta Sicilia; e però tenessero suoi i campi, gli armenti, le case, e si guardassero dallo sperperarli.

Raccolto diecimila compagni, pose l’animo a farsi padrone di Lilibeo, forse indettato coservi che entro erano. Trovata malagevole l’impresa; per non iscuorare i soldati, disse loro, che gli astri minacciavano alcun grave disastro, se si ostinavano in quell’assedio. Mentre si ritirava, posero a quel lido molte navi romane, cariche di truppe ausiliarie. Gomone, che le comandava, visto quella masnada, che nel cuor della notte si dilungava, la inseguì, soprapprese appena i sezzai, e molti ne uccise. Tal contrattempo giovò ad Atenione, che indi in poi fu tenuto affatto infallibile indovino.

La Sicilia fu allora per divenire un vasto deserto. Le campagne erano saccheggiate da coloro stessi che solevano coltivarle. Per la miseria e per lo disordine generale, anche i liberi cittadini si attruppavano e vivevano di ruba. Le città si ridussero come assediate, nessuno osava venirne fuori. Salvio, saccheggiati i campi leontini, sacrificato agli Dei Palici, ai quali donò un manto di porpora in riconoscenza della vittoria di Murganzio, tenendo a vile il nome primiero, Trifone si fece chiamare.

Prese allora consiglio di espugnare Triocala (94) per istabilirvi sua sede. Con tale intendimento invitò Atenione ad accomunare le forze; e questo, che la causa di tutti, più che il suo ingrandimento avea in mira, a lui venne con tremila de’ suoi, per avere mandato gli altri in cerca di preda e di compagni. Triocala fu presa, ma il vile Trifone, temendo non Atenione volesse spogliarlo della regia autorità, lo fece mettere in catene. Fermata sua stanza in Triocala, la cinse di forte muro e di fosso, vi fabbricò un palazzo reale, ed un foro spazioso, per unirvisi il popolo a parlamento. Ivi rendeva giustizia in pubblico con tutto l’apparato della regia maestà.

Finalmente l’imbelle Nerva fu richiamato, e fu spedito in Sicilia Lucio Licinio Lucullo con un esercito di sedicimila uomini. Unito a questi la gente ch’era nell’isola s’avanzò verso Triocala. Trifone per la bella paura mise in libertà il prode Atenione. Voleva quello, fidandosi nella fortezza del sito, restare in città ed aspettarvi l’assalto. Atenione disse doversi più presto avvantaggiare del maggior numero della sua gente ed incontrare il nemico in campo aperto. Venne fuori lo esercito forte di quarantamila combattenti. Nei campi di Scirtea, poco di lungi da Triocala, fu combattuta la battaglia. Nel forte della mischia, Atenione, alla testa di dugento cavalieri, si gettò fra’ nemici, ove più fiero era il combattimento. Ferito in ambo le ginocchia, reggendosi a stento sul cavallo, pur combatteva. Per un terza ferita cadde. I suoi credendolo ucciso, fuggirono con Trifone in città, egli salvò la vita facendosi morto, e restando tutto il resto del giorno fra’ cadaveri. Fatto notte, si ridusse anch’egli in Triocala. Vi trovò i suoi tanto scuorati, per la perdita della battaglia, che già parlavano di tornare volontariamente alla catena. Se Lucullo avesse in quel momento stretta la città, avrebbe dato fine alla guerra; ma costui indugiò nove giorni. Gli assediati, cessata la prima sorpresa, incuorati da Atenione seppero usare il tempo, per prepararsi a valida resistenza; sì che Lucullo, tentato l’assalto, perdutovi alcun tempo invano, si ritrasse, e se ne levò dal pensiero. E, come se nulla avesse più da fare, posta a negghienza la guerra, si diede in quella vece ad opprimere i Siciliani con ogni maniera di concussioni; per cui fu dannato alla multa e al bando. Non meglio di lui si condusse C. Servilio, che a lui successe nel governo dell’isola. E però Atenione, che per la morte di Trifone era venuto re, sperperava a posta sua la Sicilia, spingendo talvolta le devastazioni sino a Messena.

Finalmente venne in Sicilia il console M. Aquilio con nuovo esercito. Avea costui nome di pro guerriero, in quell’occasione lo smentì. Non pose tempo in mezzo ad affrontare Atenione, questo schivò l’incontro. Mentre i due eserciti ostinatamente combattevano, i due comandanti vennero a corporal battaglia, nella quale ambi mostrarono quanto valevano. Finalmente Atenione vi restò ucciso, l’altro gravemente ferito; ma tutto ferito ch’era, non lasciò d’incalzare i nemici già messi in rotta. Diecimila, che ne sopravvissero, ritrattisi nelle loro fortificazioni, continuarono lunga pezza a difendersi, finchè ne rimasero soli mille capitanati da un Satiro, i quali furono presi e, condotti in Roma, furono dannati alle fiere. Quegli uomini ferocissimi diedero a’ non men feroci Romani il grato spettacolo d’uccidersi l’un l’altro. Satiro, che restava in fine, da se si trafisse.





85 Il sesterzio valeva 10 grani, 4 piccoli, 8.



86 Pretium autem constitutum decumano in modios singulos HS terni, imperato HS. IIII. Ita in frumentum imperatum HS. II et tricies in annos singulos Verri decernebatur; quod aratoribus solveret; in alteras decumas ferme ad nonagies Cic. Act. IV, lib. III, c. 70.



87 Avarissimi hominis cupiditati satisfacere posse, nocentissimae victoriae non posse. Cic. in Verr. Act. I.



88 Lugent omnes provinciae, querentur omnes liberi populi; regna denique jam omnia de nostris cupiditatibus et injuriis expostulant: locus intra oceanum jam nullus est, neque tam longinquus neque tam reconditus, quo non per haec tempora nostrorum hominum libido, iniquitasque pervaserit. Sustinere jam populus romanus omnium nationum, non vim, non arma, non bellum, sed luctum, lacrimas, querimonias, non potest. Cic. ibid. Act. IV, lib. III.



89 In jugero leontini agri medimnum fere tritici seritur, perpetua atque aequabili satione. Ager efficit cum octavo, bene ut agatur: verum ut omnes Dii adiuvent, cum decumo. Id. ibid. Lib. III, c. 47.



90 Il dabbene Di Blasi nel riferire un tal fatto dice che ciò fu con poco onore della virtù militare Siciliana. Il buon monaco non considera le ragioni, per cui i Siciliani dovevano a malincuore pigliare le armi contro Cartagine, in favore di Roma. Era da Cartagine ch’essi avevano principalmente tratta la loro ricchezza: avevano stretti legami d’amicizia, d’ospitalità, di sangue e d’interessi coCartaginesi. La sola forza li legava a Roma, da cui avevano avuto solo stragi, rapine e catene.



91 Ciò s’argomenta da una ghianda di piombo, trovata di recente ne’ campi di Castrogiovanni, nella quale è improntato il nome di Acheo, illustrata dal dottissimo canonico Giuseppe Alessi. Si sa che gli antichi usavano imprimere il nome de’ condottieri in tali ghiande, che si tiravano colle fionde e colle balestre.



92 Detto oggi Rifesi presso Bivona.



93 Oggi Macasolo.



94 Presso Caltabellotta, nel sito ov’è la chiesa di S. Maria di Monte vergine.



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