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SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA] CAPITOLO XV. I. Nuove calamità della Sicilia. — II. Cicerone. — III. Verre: sue iniquità e concussioni. — IV. Furti d’oggetti di belle arti. — V. Sua accusa e condanna. — VI. Colonie romane stabilite in Sicilia. — VII. Religione cristiana. — VIII. Vandali e Goti. — IX. Imperatori bizantini. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I. — Non ebbero fine colle guerre servili le calamità della Sicilia. Dopo tante perturbazioni, mossa la guerra sociale, si vollero da’ Siciliani straordinarie prestazioni. Quindi, oltre il frumento, trasse Roma danaro, cuoja, vestiti ed armi pe’ suoi numerosi eserciti. Nelle sanguinose contese tra Mario e Silla, giunto questi al supremo potere, vennero a riparare in Sicilia i seguaci del primo, nè furono certo ospiti mansueti. Un esercito comandato da Pompeo fu mandato dal dittatore per isgombrarneli. Giovane, com’era allora Pompeo, si condusse con senile prudenza. Per fare che i soldati suoi non maltrattassero i cittadini, fermò loro le spade, suggellandone il fodero e ’l tenere; e severamente puniva coloro, nelle cui spade trovava rotto il suggello. Basta ciò a mostrare qual’era l’ordinaria condotta de’ soldati romani in Sicilia.
Venuto a Messena, que’ cittadini si negavano a riconoscere la sua autorità, mettendo avanti i privilegi concessi loro dal senato romano: Non cesserete voi, disse loro Pompeo, d’allegar privilegi a noi che cingiamo spade? E ben si apponeva; chè i Romani, massime in que’ dì, null’altra legge conoscevano che la spada, e ’l saperla usare tenea luogo d’ogni altra virtù.
Quindi venne a Terme-imerese, per punire i Termitani, che apertamente avevano seguite le parti di Mario. Stenio gli venne incontro tutto solo. Non è giusto, gli disse, o Pompeo, che soffrano gl’innocenti, per la colpa altrui: solo chi indusse questo popolo a pigliar le parti di Mario sia segno all’ira tua. Io, io fui il solo, che per l’amicizia ed ospitalità avuta con Mario, feci ogni possa, perchè i Termitani gli dessero ricovero e soccorso. Punisci pur me, non molestare gl’innocenti miei concittadini. Tanta generosità colpì l’animo non meno generoso di Pompeo, il quale, non che punisse lui o altri, divenne indi in poi il suo congiunto amico.
II. — Non meno lodevole di quella di Pompeo, fu la condotta di M. Tullio Cicerone, venuto questore della provincia Lilibetana, l’anno 1o dell’Olimpiade 176 (76 a. C.). Roma era allora travagliata da carestia. Dovea il questore trovar frumento in Sicilia. Da prima coloro, che ne avevano, temendo le solite violenze, a malo stento ne davano. Sgannati poi dalla giustizia di lui, n’ebbe da tutti in tale quantità, che Roma ne abbondò. Compita la questoria, visitò le principali città di Sicilia. Venuto a Siracusa, vi scoprì presso alle mura, sepolto fra roghi, il sepolcro del grande Archimede, di cui i Siracusani ignoravano il sito. Era esso contraddistinto da una sfera ed un cilindro soprappostivi, e da alcuni versi iscrittivi. Tanto la Sicilia era decaduta in due secoli, che in quella città, già sede d’ogni sapere, pur non si curavano le reliquie di un tanto uomo, e i dintorni stessi di Siracusa erano venuti rovai. Ma il più grande beneficio, che trasse la Sicilia da Cicerone, fu lo avere egli accettato e con istraordinario impegno sostenuto l’incarico datogli da’ Siciliani di accusare C. Verre, che non guari dopo fu pretore in Sicilia.
III. — Era stato costui questore in Asia, legato in Cilicia, pretore urbano in Roma; e da per tutto nell’esercizio di tali cariche avea dato moltiplici prove di sfrontata rapacità e di perverso costume. Lungi di riportarne alcuna punizione, ottenne la pretura di Sicilia. Per maggiore disavventura della provincia, il suo governo bastò tre anni; ed in quel tempo, colla insolenza propria del delitto impunito, spogliò tutte le città de’ diritti loro, e diresse tutte le sue operazioni a depauperare i Siciliani.
Giunto appena in Sicilia, seppe che anni prima era pervenuta una pingue eredità ad un Dione da Alesa, al quale il testatore aveva dato l’obbligo di erigere alcune statue nel foro, pena la caducità in favore di Venere Ericina. Era allora pretore C. Sacerdote, uomo incorrotto. Dione avea posto le statue; nessuno lo avea molestato. Verre, ciò malgrado, volle pigliar cognizione di ciò. Fece richiedere Dione, per comparire innanzi il suo tribunale; ma i giudici che egli designava, erano il suo medico, l’accenso, l’auruspice ed altri della sua iniqua corte. Non fece istanza il questore, cui toccava, ma si fece comparire accusatore un Nevio Turpio, uomo veramente turpe. Fu forza a Dione per non perdere tutta l’eredità, dare al pretore un milione e centomila sesterzî, un’armento di bellissime cavalle e tutto l’argento e le tapezzerie preziose che in casa aveva.
Un’altra eredità era pervenuta, erano già ventidue anni, a’ due fratelli Sosippo ed Epicrate da Agira dal comun padre, il quale avea imposto loro non si sa quale obbligo, pena la caducità in favore di Venere. In tutto quel tempo nessuno gli aveva accusati, nissun pretore gli avea molestati. Verre non lasciò scapparsi la congiuntura. Chiamò in giudizio i due fratelli; estorse da essi quattrocentomila sesterzî; e li ridusse all’indigenza.
Le Leggi di Rupilio, la legge geronica, i senatusconsulti, il dritto pubblico insomma de’ Siciliani furono da lui o espressamente cancellati, o tenuti in non cale. Non altri che lui ebbe facoltà di giudicare; ed egli vendeva pubblicamente i giudizî. Un Eraclio di Gerone da Siracusa aveva avuta da un suo congiunto un’eredità di tre milioni di sesterzî, nella quale era una gran quantità di vasellame d’argento cesellato, tappezzerie di gran valore servi di gran pregio. Il testatore, avea imposto all’erede di erigere alcune statue nella palestra, pena la caducità in favore de’ gladiatori. Le statue erano state erette.
Verre pose gli occhi sopra quel boccone, nè ebbe a stentare a trovare un’appicco per istendere l’artiglio a quell’eredità. Accusatori, falsi testimonî, giudici iniqui, ministri delle sue turpitudini di ogni maniera, ne aveva a josa. Fece comparire contro Eraclio l’accusa, che le statue erano state da lui per altra cagione poste; la condizione però voluta dal testatore non era stata adempita, onde si chiedeva tutto il lascio, in nome de’ gladiatori, e per essi del popolo siracusano. Stupì Eraclio; stupirono tutti i Siracusani della strana domanda. Invano quello infelice gridava, che in un piato tra ’l comune e ’l cittadino, si traessero, giusta la legge rupilia, i giudici da una vicina città; invano s’allontanò, sperando che contro la legge non si sarebbe condannato un’assente. Ma e’ fu condannato a perdere, non che l’eredità, ma tutti i beni paterni, che sommavano ad altrettanto.
Il popolo siracusano, in cui nome appariva fatto quel furto, non n’ebbe altro che il peso di erigere nel foro due statue di rame dorato a Verre ed al figlio, per memoria del beneficio. Del resto, quanto v’era d’argento e d’oro, vasi corintî, supellettili, servi, vennero in potere di Verre, e ’l denaro si fece apparire pagato a questo ed a quello, d’ordine di lui.
Anche più iniquamente rubò ad Epicrate da Bidi, non che un’eredità pervenutagli di cinquecentomila sesterzî, ma un milione e mezzo di beni paterni.
Mentre era pretore in Sicilia C. Sacerdote, un Sopatre da Alicia era stato accusato di un delitto capitale, ed era stato per sentenza del pretore dichiarato innocente. Venuto Verre, nulla curando il primo giudizio, fece riproporre l’accusa; e poi per un Timarchide, capo de’ furfanti, che intorno avea, pattuì all’accusato di pagarglisi ottantamila sesterzî per assolverlo. Sopatre, fatto senno di tutti gli altri giudizî, li pagò. Credeva essere fuor d’impaccio. Il giorno della decisione, Verre menava in lungo gli altri affari, senza venire alla causa di Sopatre. Intanto Timarchide a lui venne dicendo, che gli accusatori avevano dato al pretore più degli ottantamila sesterzî, per condannarlo; bisognava essere più largo di quelli per essere assoluto. Arrovellato Sopatre per quel tradimento, si negò. Ad onta del denaro pagato, fu condannato a morte.
Vivea allora in Terme-imerese l’illustre Stenio, la cui casa era innanzi ad ogni altra ornata; perocchè costui nella sua gioventù era stato a viaggiare in Asia ed in Grecia, ove, dovizioso com’era, aveva fatto acquisto di vasi di rame d’egregio lavoro, di pitture, d’argenterie e di altre nobili masserizie. Ospiti in casa sua erano stati C. Mario, Cn. Pompeo, C. Marcello, L. Marcello, L. Sisenna, M. Tullio Cicerone e quanti personaggi distinti erano venuti in Terme. Vi venne lo stesso Verre, il quale, come vide quei preziosi arredi, questo chiedeva, quello voleva, quell’altro pigliava. Arrovellavasi Stenio al vedere far netto in casa sua; pure lo lasciava fare. Quando poi Verre volle stendere l’ artiglio alle cose del pubblico e lo richiese dell’opera sua, per portar via le famose statue imeresi, restituite da Scipione a’ Termitani, coraggiosamente gli disse ciò non potersi fare. Pure Verre fece proporre la cosa nel senato. Stenio, eloquente com’era, con forte orazione mostrò la turpitudine della proposizione e conchiuse: essere più onesto ai Termitani abbandonar la città, che tollerare d’esserne tolti i monumenti de’ maggiori. Nissuno vi fu che non gridò: volere più presto morire. E però questa sola città, dice Cicerone, trovò Verre quasi in tutta la terra, nella quale, comechè fossero state assai cose e pregevoli, pure nulla potè egli avere dal pubblico, nè colla forza, nè di soppiatto, nè col comando, nè colle preghiere, nè offrendone il prezzo.
Allora Verre tutto l’animo suo pose a trar vendetta di Stenio. Abbandonò la casa di lui, e venne in quella di un Doroteo, nobile cittadino che avea in moglie la Callidama, figliuola di Agatino. Erano costoro nemici di Stenio. Con essi si diede a mulinare alcuna clamorosa vendetta. S’era in Terme per pubblico decreto eretta nel foro una tavola di bronzo, nella quale erano descritti tutti i servizi, resi da Stenio alla repubblica termitana ed a tutta Sicilia. Verre fece torla giù. Ciò non appagava ancora la sua vendetta. Si diede ad istigare i nuovi ospiti a proporre alcuna accusa contro Stenio. Dicevano coloro non avere nulla da potere apporre e provare contro di lui. Finalmente, incuorati dalla promessa del pretore di ricevere qualunque accusa, senza che eglino si dessero pensiere di provarlo, dichiararono d’avere Stenio, mentre era pretore C. Sacerdote, falsificata una scrittura pubblica. I Romani avevano lasciati alla repubblica termitana le sue città, il suo territorio, le sue leggi, ed in forza di queste leggi e di quelle bandite da Rupilio, in un piato tra cittadini, i giudici doveano essere tratti dal luogo stesso. Stenio lo chiese invano. Vetro dichiarò: non altri che lui dovere decidere. Era a tutti noto che cercava costui quel pretesto, per infliggere a Stenio, a dritto o a torto, l’ignominiosa pena dello scudiscio; per lo che Stenio fuggì a Roma. Arrovellato per quella fuga, sulla nuda accusa, lo dichiarò reo; lo condannò alla multa di cinquanta milioni di sesterzî; ordinò la vendita de’ beni, per trarne il denaro; e si sarebbero venduti, se il danaro non fosse stato di presente pagato (95).
Nè contento a tale iniquità, dal seggio stesso dichiarò, che avrebbe ricevuta qualunque accusa dì delitto capitale contro Stenio, comechè assente. Gli stessi Agatino e Doroteo se ne fecero coscienza. Aizzati da Verre a mettere avanti tale accusa, dissero: essere eglino nemici di Stenio, ma non al segno di voler la sua morte. Finalmente trovò un Pacilio, uomo da nulla, che si mostrò per far l’accusa che si volea; e Verre assegnò il giorno primo di dicembre, per comparire innanzi al suo tribunale in Siracusa.
Stenio in questo era già in Roma. Le grandi amicizie, che vi aveva, resero clamoroso il suo caso. Venne in senato; aringò la sua difesa; i consoli Cn. Lentulo, L. Gellio proposero un decreto, per levare a Stenio la molestia. Tutto il senato era a lui favorevole. Gravi affari insorti, impedirono che per quel giorno il decreto fosse vinto. Il padre di Verre, che avea cercato di difendere il figlio, visto il pericolo, in cui questo era di trarsi addosso l’indegnazione di tutto il senato, cominciò a pregare d’uno in uno gli amici e gli ospiti di Stenio, lui stesso, a non istanzare più oltre; promettendo egli di spedire messi al figlio, per avvertirlo a cessare da ogni persecuzione contro Stenio, rendendosi mallevadore della riuscita. Stenio e gli amici suoi si lasciarono piegare. Il vecchio Verre scrisse efficacemente al figlio; le sue lettere giunsero prima delle calende di dicembre. Ma Verre, non facendo alcun caso delle preghiere e degli avvertimenti del padre, come venne il giorno designato, fa citar l’accusato. Non v’era. Fa citare l’accusatore. Non comparisce. Senza l’accusato, senza l’accusatore, senza prove, Stenio fu condannato a morte.
Tutte le città reclamarono in Roma per tale iniquità. Cn. Lentulo, patrono di Sicilia, ne fece alte querele in senato. I tribuni della plebe decretarono: non dover valere contro Stenio la legge, che vietava il restar liberi in Roma coloro, ch’erano stati dannati a morte nelle provincie. Tanti clamori fecero entrar Verre in pensiere. Cercò sottrarre la prova d’aver condannato un assente, con un nuovo delitto. Cancellò nel processo tutti que’ passi, dai quali appariva d’essere stato Stenio assente, e vi scrisse sopra d’essere stato presente, contro la testimonianza di tutta Sicilia e di tutta Roma. Ma Stenio depauperato, bandito nella testa in Sicilia, restò in Roma onorato da tutti.
Tali furono tutti i giudizî di quel tristo. Ma non fu questa la sola via che tenne per estorquere danaro. Poste in non calo tutte le leggi, le città siciliane non ebbero più la scelta dei loro magistrati. Qualunque carica, alla quale era addetto o lucro od onore od autorità, fu ad arbitrio del pretore conferita e da lui venduta a contanti, senza tenere alcun conto del censo, dell’età, del modo d’elezione, che le leggi avevano determinato. Giovani imberbi furono senatori in Alesa; nuovi avveniticci furono i più dei senatori di Agrigento e d’Eraclea. In Siracusa si doveva eleggere il sommo sacerdote di Giove. L’antichissima forma d’elezione era, che tre se ne proponevano a suffragio pubblico, e frai tre si sceglieva a sorte. Verre, che si faceva beffe e delle leggi e della religione, ed avea venduta la carica ad un Teomnasto, ordinò che in tutte e tre le polizze fosse scritto quel solo nome, e così ebbe Teomnasto il sacerdozio, ad onta de’ clamori e della pubblica indegnazione.
In Cefaledio era anche da eleggere il sommo sacerdote. Un’Atenione, soprannominato Climachia, agognava al posto; e per averlo, aveva pattuito con Verre il dono di due preziosi bassirilievi d’argento, che a costui facevano gola, quanto il sacerdozio all’altro. Ma v’era una difficoltà, che pareva insuperabile. Se ne’ comizî fosse stato presente un’Erodoto, che in Roma era, ed aspirava anch’esso a quel posto, per lui sarebbero stati tutti i suffragi, perchè maggiormente degno, nè lo stesso competitore lo negava. Il tempo di celebrarsi i comizî era dalla legge inalterabilmente fissato. Verre trovò il modo di farli celebrare nel mese voluto dalla legge senza che Erodoto avesse potuto esser presente. Regolavano allora i Siciliani e tutti i Greci, i giorni ed i mesi col corso del sole e della luna; in modo che, per fare che i mesi calzassero a capello colla lunazione, alle volte toglievano ed alle volte aggiungevano al mese uno o due giorni, che si dicevano εξαιρησιμους. Verre tolse, o per meglio dire, sospese quell’uso. Pubblicò un nuovo calendario, per cui levò via un mese e mezzo dell’anno; e perciò quel giorno che prima era gl’idi di gennajo, divenne calende di marzo. I Cefaledini gridavano e pregavano invano. Il giorno che, giusta il nuovo computo, era legittimo, i comizî furono celebrati; Atenione ebbe il sacerdozio; Verre i bassirilievi. Erodoto giunse, e credeva essere giunto quindici giorni prima dei comizî: ma trovò che già da un mese tutto era finito. I Cefaledini poi furono nella necessità d’aggiungere all’anno 45 giorni intercalari per rimetterlo nel corso ordinario.
Di gran momento era in tutte le città siciliane l’autorità de’ censori. Due ven’erano in ognuna; scelti a pubblico suffragio. Era costoro incarico fare il censo de’ cittadini, giusta il quale si pagavano i tributi, e a tale oggetto avevano ampia facoltà d’estimare i beni di tutti. Molti in ogni città aspiravano a quel posto; e sommo studio mettevano i cittadini per iscegliere i migliori. Verre di sua sola autorità spogliò le città di quel diritto, di cui erano tanto gelose, e bandì che indi in poi da lui sarebbero scelti i censori. Un pubblico mercato s’aprì allora in Siracusa, in cui concorrevano tutti coloro, che volevano essere censori; i più larghi donatori ottennero il posto. Oltre al denaro, ch’ebbero a pagare per aver la carica, altro ne volle il pretore da ognun di loro, per erigersi a lui statue; e per la causa stessa centoventimila sesterzî fece pagare alle città. Per tal modo tutta Sicilia e tutta Roma furono gremite di statue di Verre, che si volevano far credere erette spontaneamente, quale da tal città, quale dagli agricoltori, quale da tutto il popolo siciliano. Accadde allora ciò che sempre è accaduto, i censori che avevan comprata la carica, ebbero a vendere la giustizia. Si lasciarono corrompere dai ricchi, per far apparir minore la rendita loro, e, per non venir meno i tributi, si fece apparir maggiore la rendita de’ poveri. Sommi furono i disordini che ne nacquero. Il censo si rinnovava ogni cinque anni. Era stato fatto prima di Verre dal pretore Sesto Peduceo. L. Metello, che a Verre successe, appena giunse in Sicilia, conosciuto l’ingiustizia del censo, ordinò di non tenersene conto; e, fino alla elezione dei nuovi censori, i tributi si esigessero giusta il censo di Peduceo.
In somma la rapacità di costui si può conoscere da un fatto. Da’ pochi registri della dogana di Siracusa, che venne fatto a Cicerone di aver per le mani, si conobbe d’avere egli asportate da quel porto, in pochi mesi, tanto d’oro, d’argento, di avolio, di scarlatti, di vesti maltesi, di tapezzerie, di masserizie di Delo, di vasi corintî, di frumento e fin di mele, che il valore ne sommava ad un milione, e dugentomila sesterzî, di cui la dogana (ch’egli non pagò) importava quarantamila sesterzî. È facile indi argomentare quanto ebbe a trarne in tre anni, da tutti gli altri porti di Sicilia, e particolarmente da Messena, ch’era come il fondaco de’ suoi furti, ove si costrusse a spese pubbliche una nave di straordinaria capacità, per lo più facile trasporto delle sue prede.
Ma le più gravi calamità, che costui recò alla Sicilia, vennero dall’iniqua esazione delle decime. Appena posto piede in Sicilia, con suo editto cancellò la legge geronica, e stabilì un nuovo e più spedito modo di riscuotere il tributo. Tanto pagasse l’agricoltore, quanto stabiliva il decumano. Per dare un colore alla cosa, minacciava la pena dell’ottuplo al decumano, che avesse esatto più del giusto; ma minacciava egualmente la pena del quadruplo all’agricoltore, che volesse pagar di meno. E dichiarò, che il giudice di tali contese fosse egli stesso. Era noto che egli riscuoteva per suo conto il tributo, facendo comprare le decime ad alcuno de’ suoi familiari e particolarmente ad un Apronio iniquissimo fra tutti. Per lo che l’agricoltore, che avesse fatta querela delle estorsioni del decumano, null’altro avrebbe ottenuto, che lo esser dannato a pagare il quadruplo. Senza entrare nella lunga e fastidiosa narrazione degli atrocissimi fatti, esposti da Cicerone, basta il dire che fortunati furono quegli agricoltori, i quali, in vece d’una, pagarono tre decime. Ma questi furono ben pochi. Assai ve ne furono, dai quali fu estorta tutta la produzione del campo. Nè mancarono di quelli che, spogliati del prodotto, del bestiame, de’ rustici arredi, furono cacciati dal podere. E, perchè il frumento estorto era tutto preda del pretore, i decumani, sicuri del favore di lui, introdussero per parte loro altra gravezza, tre cinquantesime del frumento, che l’agricoltore dovea pagare; ed una contribuzione in danaro, che spesso superava il valore del frumento. Nell’isola di Lipara la decima fu un anno stabilita in secento medimni di frumento; e trentamila sesterzî ebbero quegli agricoltori a pagare, per ragion di lucro, al pubblicano. Furono visti in Sicilia cittadini anche romani appesi agli alberi e lasciativi a spensolare, finchè non aderirono al pagamento. Ne furono visti pubblicamente scudisciati. Ne furono visti anche più crudelmente tormentati.
Di tutto il frumento così iniquamente raccolto, ne mandava in Roma una parte, come prodotto dall’ordinario tributo della decima e come comprato. Un’altra, forse la maggiore, unitamente ai nove milioni di sesterzî, che da Roma si mandavano, andava in suo profitto. Tante vessazioni fecero venir meno l’agricoltura a segno che dai pubblici registri d’ogni città fu provato, che in Leonzio il primo anno della pretura di costui, gli agricoltori erano ottantatre, il terzo trentadue; in Mutica di centoventotto si ridussero a centouno; in Erbita di dugentocinquantasette a centoventi; in Agira di dugentocinquanta ad ottanta, e colla stessa proporzione in tutte le altre città; perchè da per tutto restarono a coltivar le terre, ma con poco capitale e pochissimo bestiame, solo coloro che avevano fondi proprî e temevano, che fuggendo, non fossero preda di Verre. Ma coloro ch’erano soliti vivere della loro industria e de’ loro capitali, abbandonarono, non che i campi, il paese natale. L’isola si ridusse tanto deserta che, secondo Cicerone, nelle parti più fertili di Sicilia cercavi invano la Sicilia.
IV. — Verre, non solo depauperò la Sicilia, la spogliò di tutti quegli ornamenti, che mostravano l’opulenza e la civiltà sua ne’ tempi andati. Nessun vaso fu in Sicilia d’argento, nessuno di quei di Delo o di Corinto; nessuna gemma od altra pietra preziosa; nessun simulacro di bronzo, di marmo e di altra materia; nessun che d’oro o di avorio; nessun quadro dipinto o ricamato, che da costui non fosse stato minutamente ricercato, esaminato e, quando gli dava nel genio, appropriato. Ciò egli chiamava industria, i suoi amici insania e malattia, i Siciliani latrocinio, Cicerone non sapea qual nome convenirgli.
La stessa Messena, città sua prediletta, che chiamava sua seconda patria, che sola in Sicilia pigliò costantamente le parti di lui, e mandò a Roma suoi legati per encomiarne la condotta, non andò esente da tali sue rapine Un C. Ejo, capo di quella legazione, confessava in Roma avere Verre portato via dalla sua casa una statua di Cupido, di marmo, opera di Prassitele; una d’Ercole di bronzo, di Mirone; due anfore di Policleto ed una tapezzeria tessuta d’oro.
Aveva egli seco menato due fratelli nati in Babuz di Frigia, e quindi profughi, de’ quali uno era cerajuolo e l’altro pittore. Costoro ivano investigando, per tutte le città, per tutte le case, che che vi fosse di pregevole. Trovatone, buono o malgrado si doveva dare. Per tal modo furono tolti i fornimenti da cavallo a Filarco da Centuripe, ad Aristo da Panormo, a Cretippo da Tindari. Quelli del primo avevano lo special pregio d’essere stati del re Gerone. Tolti furono al modo stesso tutto il vasellame della mensa a Diocle Popillo da Lilibeo; molti vasi d’argento a M. Celio cavaliere romano; tutta la ricca supellettile a C. Cacurio; una grandissima e bella mensa di legno di cedro a Q. Lutazio Diodoro; tutto l’argento lavorato ad Apollonio da Drepano, uomo iniquo che Verre avea levato dalla forca, in merito di avere seco diviso i beni di alcuni pupilli; una statua d’Apollo a Lisone lilibetano; alcune tazze da bere con bellissimi ornati, oltre una gran somma di danaro, al pupillo Ejo da Lilibeo; alcuni piccoli cavalli d’argento bellissimi a Cn. Calidio.
Erano allora quasi in ogni famiglia tenute con gran religione coppe d’argento, nelle quali erano improntate le immagini de’ domestici penati, per le libazioni: e profumiere per le sacre cerimonie. Ned è credibile e quanto belle ve ne fossero state. Pur una non ne restò. Era pericoloso l’ invitare ad albergo od a cena il pretore. Che che trovava di pregevole per la casa o sulle mense, non iscappava da’ suoi artigli; e mal ne incoglieva a chi si fosse negato.
Dimorava in Lilibeo un Diodoro da Melita. Verre ebbe lingua aver costui ottime opere di bassorilievo fra le quali erano pregevolissime due coppe da bere, che allora si dicevano eraclee, lavorate da Mentore, esimio artefice. Detto fatto, ebbe a se Diodoro; e chiese quelle coppe. Colui che non voleva perderle, rispose non averle in Sicilia, averle lasciate in Melita ad un suo congiunto. Verre manda tosto ordine di ricercare di quella persona, trarne le tazze e mandargliele. Ma Diodoro lo prevenne; scrisse a quel congiunto di rispondere, aver mandate le tazze a lui in Lilibeo. Egli intanto si assentò di Sicilia e venne a Roma. Come seppe Verre essergli fuggiti dalle mani Diodoro e le tazze, fu per venire pazzo. Volle far proporre contro quel misero un’accusa capitale, per condannarlo, tutto assente che era. Diodoro reclamava in Roma. Il padre, gli amici del pretore a lui ne scrissero, avvertendolo del pericolo di quel passo. Era il primo anno della pretura; non aveva ancora raccolte tanto da comprare l’impunità; il timore lo tenne. Ma Diodoro ebbe a star lontano di Sicilia, finchè Verre vi dimorò.
Il solo mezzo di conservare qualche cosa era quello di ricattarla, con unger le mani dei due Babuzzesi; chè, dice con somma grazia Cicerone, in tutti que’ furti, Verre adoprava solo le mani; gli occhi erano di costoro. Così avvenne a Pamfilo da Lilibeo, dal quale, dopo avergli tolto una grande urna d’argento, lavorata da Boezio, si volevano due bellissime tazze dello stesso metallo. Le salvò con dare cento sesterzî ai due fratelli.
L’impudenza di costui giunse a tanto, che talvolta, senza darsi la pena di frugare per le case, ordinava che tutta l’argenteria e ’l vasellame di una città fosse a lui recato, per iscegliere ciò che gli fosse a grado. Così fece in Catana, in Centuripe, in Alonzio, in Agira. Usavasi allora incastonare ne’ vasi, nelle profumiere e tutt’altre cose d’argento od oro, piccole immagini ed altri lavori di musaico, di cesello, di bassorilievo, che gli antichi chiamavano emblemi, i quali erano assai più pregevoli del metallo, di che il vaso era fatto. Verre da tutte le cose solea svellere gli emblemi, e restituiva l’argento monco e deforme. E tal copia ne raccolse, che tutti gli orafi di Siracusa, e molti altri altronde chiamati, stettero otto mesi nel suo palazzo a lavorare vasellame d’oro, in cui incastonavano quegli emblemi con tal maestria che parevano nati fatti per ciò.
Nè le più piccole cose scappavano alla cupidigia di costui. Gli cadde una volta sott’occhio una lettera scritta da un L. Titto, cavaliere romano, che in Agrigento dimorava; gli piacque il suggello; scrisse in Agrigento, e colui ebbe tolto l’anello dal dito.
Antigono re di Siria; reduce da Roma, venne in Siracusa. Verre previde d’avere alcuna preda da fare; però mostrossi verso lui assai cortese; gli regalò oglio, vino, frumento; lo invitò a cena, e nella cena fece pompa del suo vasellame di argento (quello d’oro non era ancora fatto). Anche il re invitò a cena il pretore, e con regia magnificenza fece trovare sulla mensa grandissima copia di vasi d’oro d’ogni grandezza e di ottimo lavoro. Era fra le altre cose ammirevole una gran tazza da vino, fatta d’una sola gemma incavata, col manubrio d’oro. Verre tutto ammirava, tutto lodava, e ’l re ne gongolava. Il domani mandò pregando il re volere prestati tutti que’ vasi, e quella tazza, per farli vedere a suoi orafi. Il re li mandò; Verre non li restituì; nè quello entrò allora in timore di perderli.
Aveva inoltre quel re un gran candelabro, fatto a bella posta, e da lui portato in Roma, per consacrarlo a Giove nel tempio del Campidoglio. Per la copia delle gemme, per la delicatezza del lavoro, per la grandezza, era dono veramente degno di esser posto da un gran re sull’altare del re dei numi. Trovato ancora imperfetto il tempio, senza mostrare ad alcuno il candelabro, lo riportava in Siria, con animo di rimandarlo con espressa ambasceria. Verre, non si sa come, seppe di ciò. Colle più calde espressioni cominciò a pregare il re a lasciargli vedere il candelabro, promettendo di non permettere che altri lo vedesse. Il re, che ragazzo era, nè conosceva l’uomo, il consentì. Il candelabro, involto com’era, fu celatamente portato al pretorio. In vederlo, Verre trasecolò. Non si stancava di lodarne la ricchezza, la bellezza; e quando i servi del re s’accingevano a riportarlo, disse loro, non essere ancora sazio d’ammirarlo; e con modi cortesi li pregò a lasciarlo, che il domane l’avrebbe egli stesso rimandato. Passano uno, due, tre giorni, nè il candelabro tornava. Il re mandava per esso, Verre, or con un pretesto, or con un altro, lo menava per parole. Finalmente il re stesso, venuto in diffidenza, avuto a se il pretore, gli disse volere senza ritardo restituito il candelabro. Quello cominciò a pregarlo a fargliene un dono. Maravigliato il re della sfrontata pretensione, rispose: non potere donare ad altri cosa da lui già consacrata al sommo Giove. Dalle preghiere passò alle minacce, e tornate vane anche queste, ordinò al re di sgombrare prima di notte, dicendo: aver saputo che pirati del suo regno erano per venire in Sicilia.
Quel misero re, solo, in terra straniera, divenuta quando meno sel pensava nemica, esposto a qualunque violenza di quel tristo, ebbe a partire. Ma prima di partire venne nel foro, mentre era folto di gente. Ivi, piangendo a calde lacrime, chiamò ad alta voce in testimonî il popolo siracusano, quanti cittadini romani ivi erano, e gli Dei, del furto e del tradimento fattogli; dichiarò sè non curare del vasellame d’oro e delle altre cose sue; ma non potere in conto alcuno tacere del furto del candelabro, da lui già dedicato a Giove.
Pareva che Verre avesse dichiarata guerra, non che agli uomini, ma agli Dei (96). Era in Segesta una statua di Diana di bronzo, celebre per la sua bellezza, portata via dai Cartaginesi, e poi restituita da Scipione. Era di grandezza più che naturale; le pendeva la faretra dagli omeri; l’arco aveva nella destra; una face nella sinistra. Nella base era scritto il nome di P. Scipione. Verre, come la vide, ordinò ai magistrati d’atterrarla e dargliela. Si negarono. Tanto bastò perchè la città fosse esposta alle più crudeli vessazioni. Era tassata più di quello che le sue forze comportavano, nella contribuzione del frumento comandato, della galea, dei marinai; ed apertamente era minacciata della ultima sua distruzione. Eppure era quella una delle città privilegiate. Vinti al fine que’ cittadini, consentirono a dare la statua; e tale era la loro religione, che non si trovò alcuno nè libero, nè servo, nè cittadino, nè straniero, che avesse voluto dar mano al sacrilegio. S’ebbero a far venire da Lilibeo barbari, che colà erano, per atterrarla.
Più atroce fu il caso di Tindari. Era ivi una statua bellissima di Mercurio, anch’essa tolta dai Cartaginesi e restituita da Scipione. Verre ordinò d’atterrarsi e darglisi. Nol vollero fare i Tindaritani. Chiamò a se il proagoro Sopatro, e con piglio severo gl’impose di fargli avere la statua, se non voleva morire sotto lo scudiscio. E ciò non fra se e lui, ma in pubblico, mentre sedea nel suo tribunale. Sopatro venne in senato, espose la dimanda e le minacce del pretore. Il senato concordemente rispose: esservi decreto di morte per chi osava proporre di levare quella statua. Il proagoro gramo e sconfortato, venne a dar la risposta. Verre lo fece a suoi littori denudare e trar fuori dal portico ov’e’ sedea. Erano nel foro due statue equestri de’ Marcelli, di bronzo; ad una di esse lo fece legare, disteso. Era di fitto verno, un giorno oltre all’ordinario freddissimo per la tempesta e la pioggia dirotta. Quel misero ne sarebbe morto di ghiado, se il popolo mosso a pietà del crudele spettacolo, non fosse corso al teatro gridando doversi perdere più presto la statua, che permettere la morte d’un illustre cittadino, del primo magistrato della città. Il senato si piegò. La statua fu concessa a Verre.
Non osò tenere gli stessi modi in Agrigento, città più popolosa a gran pezza di Segesta e di Tindari: ma fece di notte a’ suoi sgherri sfondare le porte del tempio d’Esculapio e trarne la statua d’Apollo, nel cui basso lembo era scritto a piccoli caratteri d’argento il nome di Mirone che l’aveva fatta. Anch’essa era stata restituita da Scipione. Inorriditi gli Agrigentini del sacrilegio, posero gente a guardia degli altri tempî. Nè guari andò che nel cuor della notte una mano di scherani, sotto la scorta del ricantato Timarchide, venne ad assalire il tempio d’Ercole, per trarne la statua del semideo, opera dello stesso Mirone, di straordinaria bellezza; se non che un po’ logora era nel mento, pe’ tanti baci dei devoti. Fugati i custodi, le porte del tempio furono rotte e si diede mano ad atterrare la statua. Ma questo era tanto salda, che nè per isforzi di spingerla su con vette, nè per lo trarla di forza con funi, poterono darle uno scrollo, In questo, tutto il popolo, avvertito da’ custodi, accorse ed a furia di sassi volse in fuga l’empia masnada.
Lo stesso fecero gli Assorini, per impedire che fosse portato via il simulacro del fiume Crisa, che adoravano in un tempio posto sulla via per ad Enna. Gli venne solo fatto trarre dal tempio della gran madre in Engio le loriche, le celate, le grandi urne di rame intagliate all’uso di Corinto, che in gran copia erano state ivi riposte da Scipione. Fece introdurre di furto i suoi servi nel penetrale del tempio di Cerere in Catana, ove a nissun uomo era dato l’ingresso, e quindi rapì l’antico simulacro della Dea. Al modo stesso fece spogliare il tempio di Giunone in Melita, rispettato sempre fin da’ Pirati, e ne tolse una gran quantità di denti d’elefanti di straordinaria grandezza, e tutti gli ornamenti del tempio, fra’ quali molte vittorie d’avolio, antiche, di bellissimo lavoro.
Dal tempio di Cerere in Enna, ove da tutti i popoli della terra si mandavano ad offrir doni e sacrifizî, levò la statua di bronzo della Dea, di mezzana grandezza, di esimia bellezza. Nella pianura avanti il tempio erano due statue colossali, l’una dalla stessa Cerere, l’altra di Trittolomeo. Facevano esse gola al rapace pretore per la bellezza; la gran mole, per cui difficilissimo era lo atterrarle ed anche più il trasportarle, le salvò; ma ne svelse una vittoria, che Cerere sostenea colla destra. Gli ennesi furono tanto dolenti di tale spoglio, che i loro messi che vennero in Roma con quelli delle altre città, per accusar Verre, per mandato del popolo, prima di avanzare l’accusa, gli offrirono, non che di desistere dall’accusa, ma di fargli un’attestato di lode, se restituiva que’ simulacri.
Ma il più vasto campo alle prede di costui fu Siracusa, per essere la più vasta e la più bella delle città greche (97). Levò dal tempio di Minerva i bellissimi quadri, che rappresentavano le battaglie di re Agatocle; e ventisette ritratti di re e tiranni di Sicilia. Non v’era cosa più magnifica delle porte di quel tempio. Erano incrostate di bassirilievi d’avolio, fra’ quali era di maravigliosa bellezza una testa di Gorgone angui-crinita. I pezzi d’avolio erano commessi e fermati da grossi chiodi d’oro. Verre tutto svelse e lasciò nude e disadorne le imposte. E fin portò via alcune aste di frassino ch’erano colà riposte, le quali, dall’incredibile grandezza in fuori, nulla avevano di singolare. Trasse dal pritaneo la bellissima statua di Saffo, opera di Stilenione; la statua d’Apollo dal tempio di Esculapio; quella di Aristeo dal tempio di Bacco; e dal tempio di Giove imperatore la statua del nume, di cui solo due altre simili altrove si vedevano; una che Flaminio trasse dalla Macedonia e pose nel Campidoglio; l’altra era in Ponto, e fra tante guerre fu sempre rispettata. Oltracciò, mense delfiche di marmo, orci di bronzo bellissimi ed una gran quantità di vasi corintî, trasse dagli altri tempî.
A tanta rapacità di costui andavano del pari la sfrenatezza de’costumi e la crudeltà. Le città, che dovevano somministrare le galee per l’armata, erano tenute a provvedere la mercede e il vitto dei galeotti e de’ soldati, che sopra vi erano. Verre, che tutto volea tornasse in suo pro, ordinò che le città dessero a lui il danaro; avrebb’egli pensato a pagare e nutrire le genti. In ogni galea poi metteva pochissimi rematori e soldati, ai quali dava scarse mercedi ed anche più scarso mangiare. L’armata così mal provveduta ebbe una volta ad uscire dal porto di Siracusa, per far mostra di purgare il mare dai pirati che l’infestavano. Era d’estate, nel qual tempo il pretore si faceva drizzare sul lido un padiglione di tela fina. Ivi invisibile a tutti passava sbevazzando colle sue amasie la calda stagione. Per godersi con più libertà la Nice, bellissima donna siracusana, diede il supremo comando dell’armata a Cleomene siciliano, marito di lei; cosa affatto vietata.
Venne fuori il nuovo ammiraglio sulla quadrireme centuripina: venivano appresso le galee di Segesta, di Tindari, d’Erbita, d’Eraclea, d’Apollonia, d’Alonzio. Tanto mal provveduta di rematori quell’armata era, che giunse al capo Pachino dopo cinque giorni di navigazione. Preso terra, mentre Cleomene simboleggiando il pretore, gozzovigliava; la gente delle altre navi, non avendo altro pasto, si diede a mangiare cerfaglioni, che in copia crescevano in quella spiaggia. In questo, giunge l’avviso, che nel prossimo porto d’Odissea (98) erano giunte alcune barche di pirati. Cleomene, la cui nave era la più grande e la sola ben’armata e ben provveduta di gente, in vece di avvantaggiarsi di ciò per combattere, si giovò della maggior velocità di essa per fuggire, dato ordine alle altre di seguirlo. Gli altri capitani con pochi marinai, mal pagati e digiuni, ebbero a far lo stesso. E tanto scarso era in queste il numero dei rematori, che, non favorendole il vento, l’Alontina e l’Apolloniese, ch’erano in coda delle altre, furono prese. Filarco, che comandava la prima, fu posto in catene e poi ricattato dai Locresi; Antropino, capitano dell’altra, fu ucciso. Cleomene il primo e gli altri appresso appresso afferrarono il lido di Peloro e si salvarono in terra, abbandonate le navi, che furono incese da’ pirati, che sopraggiunsero.
Alti clamori si levarono per quel disastro in tutta Sicilia, e più che altrove in Siracusa, contro il pretore. La pubblica indignazione fu per divenire furore, quando si videro quattro piccole barche di que’ pirati entrare sicure nel porto di Siracusa. In quel porto, in cui le numerose e potenti armate di Atene, di Cartagine, e di Roma avevano incontrato l’ultimo sterminio, quei predoni, a mo’ di scherno, venivano gettando lungo le mura della città i cerfaglioni, di cui si nutrivano i marinai siciliani, che in grande abbondanza avevano trovato sulle navi.
Verre ben conosceva che in Roma non sì faceva caso de’ furti e delle iniquità, ma non si sarebbe perdonata la codardia e la perdita dell’armata. Per lo che volle toglier di mezzo quei testimoni, che in ogni caso avrebbero potuto far conoscere la vera cagione dell’avvenuto. Fece chiamare i capitani delle navi, i quali, consci della loro innocenza, vennero. Come furono in sua presenza, li fece mettere in catena, e poi ad uno dei manigoldi della sua coorte fece avanzare contro di essi l’accusa d’avere per tradimento presa la fuga e abbandonate le navi. Dalla coorte stessa trasse i testimonî e i giudici; quegl’infelici furono dannati a morte. Ma quel Cleomene, che sarebbe stato il solo reo, se Verre nol fosse stato più di lui, non compreso nell’accusa, stava, durante l’iniquo giudizio, colla solita dimestichezza seduto a canto al pretore.
Eppure quest’uomo reo di tanti delitti davasi vanto, che due sole annualità de’ lucri fatti sul frumento gli bastavano, per farsi beffe di qualunque clamore, che i Siciliani potessero levare in Roma. Una ne avrebbe diviso agli amici e patroni; coll’altra avrebbe comprati i giudici. Nè andava errato ne’ suoi conti. Era giunta al sommo in que’ dì la venalità e la corruzione dei patrizî romani. Tutti coloro, che da Roma erano mandati al governo delle provincie, erano soliti smungerle, per trarne i mezzi di sostenere lo smodato lusso della capitale e di comprare nuove cariche. E pel gran cambiamento introdotto da Silla di trasferire il dritto de’ giudizî dall’ordine equestre ai patrizî, costoro stessi sedendo in senato, dovevano ne’ casi particolari giudicare de’ delitti, ch’erano comuni a tutti. Oltracciò le più potenti famiglie, come quelle degli Scipioni e de’ Metelli, apertamente favorivano Verre; ed era suo speciale amico e difensore Ortensio, che allora era detto il re del foro ed era stato eletto console per l’anno appresso.
V. — I Siciliani chiesero il patrocinio di Cicerone; ed egli, il quale non nobile, nè nato era in Roma, onde nulla avea da sperare dai patrizî, tutto dal favore del popolo, volentieri accettò l’incarico d’accusare uno di quell’ordine e rinfacciare a tutti gli stessi o simili delitti. Verre ed i suoi, per levar di mezzo uno accusatore, della cui abilità assai temevano, misero in campo un Q. Cecilio, il quale era stato questore in Sicilia, mentre Verre v’era pretore, e perciò si diceva meglio informato dei costui delitti; per lo che pretendeva che a lui più presto che a M. Tullio toccasse accusarlo. In tale contesa ebbe luogo nell’anno 683 di Roma (71 a. C.), la prima delle Verrine, che Cicerone chiamò divinazione; perchè i giudici dovevano quasi indovinare, per conoscere d’essere il competitore un secreto amico di Verre, che diceva di volerlo accusare, acciò nel fatto non vi fosse accusa. Superato quel punto, chiese Cicerone centodieci giorni di tempo, per venire in Sicilia e raccogliere le prove e i testimoni.
Concepirono allora Verre ed i suoi amici il disegno di portare il giudizio in lungo, tanto che scorsi i pochi mesi che restavano di quello anno, entrassero in carica i consoli eletti Ortensio e Metello, e colla loro autorità mandassero a vôto gli sforzi dell’accusatore.
Cicerone, venuto in Sicilia, vi fu in tutte le città accolto con grandi dimostrazioni d’onore, e da per tutto trovò in copia le prove che cercava. Solo in Messena incontrò villanie, a segno di negarglisi il pubblico ospizio. Venuto in Siracusa, come sapeva che quella città aveva unitamente a Messena mandato un pubblico messaggio in Roma per lodare Verre, si diresse ai Romani, che ivi erano in gran numero, per avere que’ lumi e quelle prove che cercava, senza curarsi di chiederne al senato, o ad altri di quei cittadini, che teneva venduti a Verre, come quei di Messena. Un Eracleo, quando men lo pensava, venne a trovarlo per parte di tutti i senatori, pregandolo a recarsi in senato, per discorrere, intorno alle cose, per le quali era venuto. L’andò; vi fu con grande onoranza accolto. Tutti cominciarono a dolersi, ch’egli in uno affare di tanto momento non si fosse ad essi diretto. Cicerone disse: che non poteva egli chiedere prove de’ delitti di Verre ad un senato, che aveva mandato in Roma un decreto di lode per lui; nè avrebbe potuto sperare d’essere accolto in un luogo, in cui si vedeva la statua di lui. Tutti risposero essere stato quel decreto estorto dall’autorità del presente pretore; e quella statua opera di que’ pochi ch’erano stati a parte de’ furti di quel tristo, contro il volere de’ più. E di presente quel senato cancellò il decreto di lode, e prove autentiche diede a Cicerone dei furti e delle iniquità di Verre.
Dopo cinquanta giorni, in onta agli sforzi del pretore Metello e de’ questori, che fecero ogni loro possa, per frastornare le operazioni di lui, Cicerone fu di ritorno in Roma, carico di prove ed accompagnato da una gran tratta di testimoni e di legati delle città siciliane. Restava la più grave difficoltà a superare. Se avesse voluto tener dietro al modo ordinario di trattare le cause criminali, cioè di discutere ad uno ad uno i delitti, tolte le ferie, i giorni che restavano dell’anno non sarebbero stati sufficienti. In ciò erano fondate le speranze di Verre e di Ortensio. Ma Cicerone seppe deluderle. Nella prima sua orazione dichiarò che egli avrebbe proposta l’accusa di tutti i delitti in uno, presentate le prove, chiamati i testimoni, perchè Ortensio l’interrogasse e’ giudici potessero di presente decidere. Ortensio sopraffatto dalla novità del ripiego, e dalla moltiplicità delle prove e dei testimoni, abbandonò la difesa. Verre andò volontariamente in bando. Ma non però riportò del tutto il meritato gastigo. Non si parlò di restituzione delle cose involate; fu solo condannato a pagare ai Siciliani quaranta milioni di sesterzî, quanto Cicerone avea richiesto. Ma la legge dava la pena del quadruplo alla concussione: indi era che gli accusatori di tale delitto si dicevano quadruplatores.
Ciò non però di manco la Sicilia deve sapere alcun grado alle depredazioni ed ai delitti di Verre, per aver dato occasione a M. Tullio di scrivere le sue orazioni, senza le quali questo calamitoso periodo della storia siciliana sarebbe affatto ignoto. Quelle ammirevoli orazioni ci fanno conoscere lo stato della Sicilia, non che in quell’età, ma nell’anteriore. L’immenza copia di oggetti di belle arti, di cui erano pieni i tempî, le piazze, i fori, le case, il lusso delle tapezzerie e fin de’ più piccoli domestici arredi, sono la più luminosa prova della ricchezza e della civiltà, alla quale la nazione era giunta nell’epoca precedente. Quelle stesse orazioni ci fanno poi chiaro lo spirito del governo romano nel reggimento delle provincie; e da esse si vede che Verre non fu un’eccezione.
VI. — Se fatale era stato fin’allora il governo romano alla Sicilia, assai più lo divenne indi in poi, a misura che la corruzione e i disordini si accrescevano nella capitale. Sorte le famose guerre civili, che segnalarono gli ultimi periodi della romana repubblica, in Sicilia cercò ricovero Sesto Pompeo, ultimo de’ figliuoli del magno, e qui riunì le sue forze, per sostenere la spirante libertà di Roma. Le terrestri e le marittime fazioni, che qui ebbero luogo, alla romana più presto che alla siciliana storia appartengono. Si combatteva in Sicilia, non per la Sicilia; nè questa vi ebbe altra parte, che l’essere sperperata affatto da que’ feroci guerrieri lordi di sangue cittadino; intantochè venuto Ottaviano Augusto solo signore del romano impero, vista la Sicilia quasi affatto diserta, rifece Catana, Centuripe ed Apollonia; e per ripopolare le principali città, colonie romane stabilì in Siracusa, Tauromenio, Catana, Eraclea, Terme-selinuntina, Termi-imerese, Panormo e Tindari. Ciò non però di manco la Sicilia, assorta indi in poi nel vasto pelago del romano impero, non ebbe più nome. La sua storia d’Augusto a Costantino sarebbe affatto silenziosa, se gli annali ecclesiastici non avessero registrato l’importantissimo avvenimento dell’introduzione della religione cristiana fra noi, e le persecuzioni, ch’ebbero a soffrire i primi proseliti, fino a che Costantino, rinunziato il politeismo, adorò la croce.
VII. — La santa nostra religione, comechè introdotta in Sicilia sin dall’età degli apostoli, perseguitata per secoli dalla pubblica autorità, si era propagata di furto; nè altri tempî ebbe da prima, che le cave, di cui in più luoghi di Sicilia si osservano ancora le vestigie. Pure quella persecuzione stessa serviva a mantenere la purità della fede e de’ costumi dei neofiti. Ma quando gl’imperatori apertamente furono cristiani, la sicurezza del trionfo pervertì gli spiriti e corruppe i cuori di molti in oriente alla fede implicita, venne sostituendosi uno spirito di cavillo, per cui si volle penetrare nel buio de’ misteri. Indi nacquero le tante sette, che scissero per secoli la chiesa e lo stato; perseguitate o persecutrici, secondo che coloro che sedevano in trono a questa o a quella parte tenevano. In occidente si conservò la purità della fede; ma si perdè la purità de’ costumi.
L’Imperatore Valentiniano I dichiarò con suo editto i preti ed i monaci incapaci di percepire alcun che per testamento; tanto era divenuto generale il reo costume di sedurre i ricchi devoti, per farsene dichiarare eredi, trascurando i dritti de’ più stretti congiunti. Non mi duole della legge, diceva S. Geronimo; mi duole bensì che bene ci stia (99). Nei secoli d’appresso anche maggiore fu la depravazione de’ costumi.
Lo zelo e la pietà del santo pontefice Gregorio magno, salito sulla cattedra di S. Pietro nel 590, nulla valsero a correggerli. I sacri asili delle vergini erano pubblicamente violati; i monasteri degli uomini erano divenuti ricettacolo di laidezze. I vescovi di Agrigento, di Catana, di Panormo furono accusati al santo pontefice per le loro colpe; quelli di Melita e di Lipara furono deposti.
Nè meno scomposto divenne lo stato civile. Trasferita da Costantino la sede dell’impero in Bizanzio, che Costantinopoli, per lui fu detto, venuto meno quel forte amor di patria, ch’era l’anima del soldato romano, rallentata la disciplina, che aveva resi invincibili quegli eserciti, sorgevano da per tutto imperatori, i quali or comandavano di accordo, or si dividevano le provincie, e più spesso ancora venivano fra loro alle mani. Le legioni, non più composte di soldati romani, ma di gente raunaticcia da tutti i paesi o barbari o soggetti, formavano un disordinato mescuglio d’uomini di nazione, consuetudine, lingua, religione diversa. E però l’impero, non avendo più forza pari alla sua vastità, cominciò a cadere in brani, preda delle barbare nazioni contermini, le quali vennero invadendo le più rimote provincie finchè giunsero prima a molestare e poi a sottomettere del tutto la Sicilia.
VIII. — Genserigo re de’ Vandali, fattosi padrone dell’Affrica, mosse nel 440 da Cartagine con numerosa armata e venne in Sicilia. S’insignorì di Lilibeo e del vicino paese, che tenne per alcun tempo. Venne a cinger d’assedio Panormo, ma non fece frutto. Teodorigo poi re de’ Goti, fondato il nuovo regno d’Italia, sul cadere dello stesso secolo, s’insignorì della Sicilia. Costui, tuttochè fosse stato analfabeta ed uso a trattar le armi, amò le lettere, le arti, la giustizia. Non degenere da lui si mostrò la figliuola Amalasunta, che tenne il regno nella minorità d’Atalarigo suo figlio. Per disgrazia della Sicilia poco oltre i quarant’anni bastò il regno de’ Goti; il pro Belisario generale dell’imperatore Giustiniano nel 535 ne li cacciò. Ma guari non andò che Totila nuovo re nel 549 preso terra a Messena, si diede a scorrazzare per tutta l’isola, e postola a sacco ed a ruba, carico di preda fece ritorno in Italia.
IX. — Trattamento forse più reo ebbero a soffrire i Siciliani dal governo bizantino. Enormi furono le estorsioni dell’imbecille Maurizio, accresciute a più doppî dell’insaziabile avarizia dei suoi ministri, che vendevano le cariche e il diritto di smungere le provincie. Immensi furono i disordini cagionati in Sicilia dalla rapacità del pretore Giustino. Il fratricida Costante, che venne a cercare ricovero in Sicilia, lungi di far lieti i Siciliani della sua presenza, accrebbe le pubbliche gravezze a segno che molti, abbandonata la patria; andarono ad abitare in Damasco. Quello odiato imperatore fu morto nel bagno, da uno de’ suoi cortigiani nel 669, dopo sei anni che dimorava in Siracusa. Ma la sua morte non migliorò la condizione de’ Siciliani. Leone Isaurico nel 731 accrebbe di una terza parte i tributi, che rese più pesanti, levandoli per testa d’uomo. E nuovi e più sottili modi di trar danaro da’ sudditi inventò lo imperator Niceforo, messo a morte nell’811. Tante dissidie nella chiesa tanta sfrenatezza nei costumi, tante oppressioni resero agevole ai Saracini il conquisto dell’isola.