Niccolò Palmeri
Somma della storia di Sicilia

SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA]

CAPITOLO XVI. I. Saracini. — II. Grande spedizione loro in Sicilia. — III. Presa di Mineo e Girgenti; di Messina e di Palermo; di Castrogiovanni e di Siracusa. — IV. Sommossa dei Saracini siciliani. — V. Rivoluzione del governo d’Affrica. — VI. Nuove sommosse in Sicilia. — VII. Guerra co’ Girgentini. — VIII. La Sicilia data a un emir: circoncisione de’ fanciulli musulmani di Sicilia. — IX. Presa di Taormina. — X. Battaglia di Rametta. — XI. Sollevazione contro l’emir: divisione dell’isola in più signorie. — XII. Stato di Sicilia sotto il dominio de’ Saracini.

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CAPITOLO XVI.

I. Saracini. — II. Grande spedizione loro in Sicilia. — III. Presa di Mineo e Girgenti; di Messina e di Palermo; di Castrogiovanni e di Siracusa. — IV. Sommossa dei Saracini siciliani. — V. Rivoluzione del governo d’Affrica. — VI. Nuove sommosse in Sicilia. — VII. Guerra coGirgentini. — VIII. La Sicilia data a un emir: circoncisione de’ fanciulli musulmani di Sicilia. — IX. Presa di Taormina. — X. Battaglia di Rametta. — XI. Sollevazione contro l’emir: divisione dell’isola in più signorie. — XII. Stato di Sicilia sotto il dominio de’ Saracini.

I. — Maometto venne a capo di convertire una ladronaia in gran popolo. Persuaso gli Arabi di essere egli mandato da Dio sulla terra, per far conoscere e diffondere la vera legge; convintoli che il far la guerra agli scredenti era un precetto dell’Onnipotente, che prometteva il regno de’ cieli a coloro che morivan combattendo, il natural coraggio di quella nazione divenne furore; e nessun popolo potè tener l’impeto di guerrieri, che avevano nella scimitarra un sicuro pegno di vittoria o di eterna salvezza. era scorso un secolo dalla morte di Maometto, e la Persia, la Siria, l’Egitto, l’Affrica e la Spagna erano state già sottomesse dagli Arabi, che nel venir fuori dal paese natio (non è ben noto il perchè) furono chiamati Saracini.

Ma quel termine, che le costoro conquiste non ebbero dal valore degli altri popoli, lo ebbero dalle interne loro scissure. Morto Maometto, i suoi capitani scelsero un califfo, o sia vicario di lui, che riuniva in se i due caratteri d’imperatore e capo supremo della religione. I primi califfi, che fermarono stanza in Bagdad, destinarono a governare i regni lontani gli emir, che sotto la dipendenza loro vi regnavano con titolo ereditario; e questi affidavano ai Salì, da essi eletti o rimessi a bel diletto, il governo delle provincie. Col volger dei secoli i più potenti degli emir, mettendo avanti o una discendenza più diretta da Maometto, o pratiche religiose più pure, si dichiararono califfi; molti de’ Salì vollero ritenere nelle loro famiglie il governo delle provincie, e divennero emir; molti potenti usurparono alcuna provincia o distretto. Così tutto l’impero saracino fu diviso in più regni, più famiglie e più sette, discordi e spesso nemiche.

Le immense ricchezze, che i primi conquistatori avevano tratte dallo spoglio dei paesi sottomessi, vennero bel bello molcendo la primitiva ferocia della nazione. Bagdad, Damasco, Cairvan, Fez, Cordova e le altre capitali dei regni e delle provincie, divennero la sede del lusso e della magnificenza. I sudditi non più per entusiasmo religioso, ma per amore di larghi stipendî, corsero alle armi. I principi non più di conquista, ma di piaceri furono vaghi; e fra’ piaceri tennero il proteggere e diffondere le scienze.

Con tale spinta le lettere cominciarono a fiorire tra’ Saracini, e vennero d’ora in ora acquistando nuovo incremento per la generosità e la nobile emulazione dei principi; Abu Giafar al Mansur, secondo califfo della famiglia degli Abbassidi, fu il primo a darne l’esempio. Al Mamoun suo nipote lo superò. In Costantinopoli, in Armenia, in Siria, in Egitto e fino nell’India, spediva gente a raccattare le opere di tutti gli antichi scrittori che fece tradurre in lingua araba. Ne incoraggiava la lettura; e il successore di Maometto si compiaceva di assistere alle discussioni de’ dotti, cui quelle letture davan luogo. I suoi successori ne seguirono le tracce. i califfi fatimidi d’Affrica e gli ommiadi di Spagna furono da meno. Lo stesso impegno mostrarono tutti gli emir delle provincie. Lo zelo per la diffusione delle utili cognizioni divenne tanto generale, che un vizir spese dugentomila dinar (100), per erigere un collegio di studi in Bagdad, al quale assegnò una rendita di quindicimila dinar l’anno, per mercede dei professori e mantenimento dagli scolari poveri. Immense biblioteche avevano, non che i principi, anche i primi cittadini. Un medico ricusò l’invito del sultano di Bocara di recarsi a legger medicina in quella città, perchè per lo straporto dei suoi libri erano necessarî quattrocento cameli. Centomila volumi erano nella biblioteca de’ califfi fatimidi al Cairo; e fra questi si contavano seimila e cinquecento opere di medicina e d’astronomia; due globi terraquei v’erano, uno di bronzo, l’altro d’argento. La biblioteca, non solo era sempre aperta a tutti, ma anche si davano in presto i libri agli studiosi. Celebri erano le biblioteche e le accademie di Fez e di Marocco. Ma innanzi a tutti andavano i Saracini di Spagna. I califfi ommiadi avevano riunito nella loro biblioteca di Cordova secentomila volumi, ventiquattro de’ quali ne contenevano l’indice. Oltre a trecento illustri scrittori ebbero i natali nelle quattro città Cordova, Almeira, Malaga e Murcia. Più di settanta altre biblioteche erano nelle altre città del regno d’Andalusia. Tale era il sapere de’ medici Arabo-ispani, che i re cristiani di Leone ad essi affidavano la vita loro.

Mentre l’occidente era immerso nella caligine dell’ignoranza, i matematici saracini studiavano l’algebra sulle opere di Diofante Alessandrino con tal successo, che poi furono tenuti inventori di tal maniera di calcolo; i loro astronomi misuravano esattamente il grado del circolo terrestre, e formavano le tavole astronomiche di Bagdad, di Spagna e di Samarcanda, che nella storia della scienza sono l’anello intermedio tra le osservazioni dei Caldei e degli Egiziani e quelle de’ moderni; la medicina faceva tra loro tali progressi, che i nomi di Mosua, Geber, Raziz ed Avicenna vanno del pari con quello d’Ippocrate; fondavano la scuola di medicina di Salerno, che diede la prima pinta al risorgimento delle lettere in Italia; e gettavano le fondamenta della chimica coll’invenzione del limbicco, coll’analisi delle sostanze dei tre regni della natura, col diffinire a forza d’esperimenti l’affinità degli alcali e degli acidi, e col convertire in farmaci i veleni.

A tanta civiltà s’erano già da assai tempo incamminati i Saracini, quando vennero al conquisto di Sicilia. Sin da che s’erano essi fatti padroni dell’Affrica, ne aveano affettato il possedimento; e più volte eran venuti a farvi delle correrie. Un caso impensato porse loro finalmente la gretola di mettervi stabilmente il piede. Comandava le armi in Sicilia un Euffemio, greco di patria, nobile di nazione, rotto di costumi. Invaghito costui d’una nobile donzella monaca, fatto a suoi sgherri scalare il monastero, quindi la rapì ed a casa ne la menò. I fratelli di lei ebbero ricorso all’imperatore Michele il Balbo, il quale ordinò che Euffemio fosse preso e, mozzo le nari, condotto per le vie di Siracusa a pubblico esempio. Avutone lingua a tempo, Euffemio, avventato com’era, ribellò parte dell’esercito, venne alle mani col patrizio Fotino, che governava in Sicilia, lo ruppe, e nell’826 si fece acclamare imperatore. S’era a lui unito un Plata, venturiere italiano, al quale diede il governo di una parte dell’isola. Venuti non guari dopo nemici, ricorsero alle armi. Euffemio ebbe la peggio, e non avendo forze da ripigliare da se solo il perduto, corse a chiedere soccorso ai Saracini d’Affrica (101).

Regnava in quella provincia l’emir Ziadath Allah degli Aglabidi, ed avea sede in Cairvan. A lui si diresse Euffemio. Gli disse: esser lieve per lui l’acquisto di Sicilia; promise ajutarlo delle sue forze e delle sue dipendenze nell’isola; dimandava solo il dominio d’una parte di essa. L’emir chiamò i maggiorenti a consiglio.

L’impresa parve ardua a tutti. Alcuni proponevano di fare una delle solite incursioni in Sicilia, senza pensare a fermarvisi. Un Sahium ben Kaden dimandò quanto la Sicilia distasse dalla terra de’ Greci. Gli fu risposto che in un giorno potea andarvisi e venirne due ed anche tre volte. E quanto dall’Affrica? Gli si disse un giorno ed una notte di tragitto: Dunque, conchiuse quel vecchio, se io mi fossi uccello, vorrei volare sopra quell’isola. Quel detto confermò tutti nell’avviso di spedire un’esercito in Sicilia per iscorazzare il paese aperto, e tornare carico di preda e di prigioni. Però l’emir disse ad Euffemio di andare ad aspettare a Susa l’armata sua.

II. — Fatto ogni appresto, si riunirono nel porto di Susa cento navi saracine, sulle quali erano diecimila fanti e settecento cavalli. Fu dato il supremo comando ad un Asad ben al Ferat. Addì 15 di giugno dell’827 l’armata saracina, colegni d’Euffemio, sciolse le vele, e dopo pochi giorni giunse a Mazzara. Dimoratovi per tre giorni, Asad, visto che nessuno si faceva avanti per contrastargli il passo, si avanzò contro di Plata. Lasciato da parte Euffemio colla sua gente, di cui mal si fidava, cosoli Saracini attaccò la battaglia e riportò la vittoria. Plata fuggì a Castrogiovanni, ed ivi stesso non tenendosi sicuro, passò in Calabria, ove fu ucciso.

Qui vennero a trovare il generale saracino alcuni degli ottimati siracusani, in apparenza per pattuire sulla resa della loro città, nel fatto per tenerlo in pastura, finchè fossero compiti i preparamenti in difesa, che si facevano in Siracusa ed altrove. Il traditore Euffemio sotto mano gl’istigava a difendersi con gran cuore. Il Saracino, rammentandosi che sul cadere del settimo secolo, alcuni de’ suoi, avvantaggiandosi de’ torbidi nati in Sicilia dopo la morte dell’imperatore Costante, vi eran venuti, eran entrati in Siracusa e ne avevano tratto immenso bottino, volle far lo stesso, vedendo che non meno scomposto d’allora era il governo dell’isola. Però, senza lasciarsi trarre in inganno, ratto venne a Siracusa e la strinse dal mare e dalla terra. Spaventati i Siracusani offerirono da vero di rendere la città, salva la vita e i beni loro. Asad inchinava ad accettare il partito; ma i suoi soldati, per non perdere il sacco, di cui si tenevano certi, nol consentirono.

Le speranze loro andaron fallite. Asad, soprappreso da grave infermità, venne a morire tra l’ottobre e ’l novembre dell’828. I soldati scelsero in di lui vece a comandante un Mohammed ben abì al Giauari. In questo, grandi forze di terra e di mare spedite da Costantinopoli giunsero a Siracusa. Alla vista dell’esercito greco, volevano i Saracini rimettersi in mare e tornare in Affrica. Ma l’armata nemica lor teneva l’uscita. Con ardito consiglio incesero le navi loro, levarono l’assedio e vennero entro terra a cercare alcun luogo forte, ove potessero difendersi. Così quell’esercito, spedito dall’Affrica per fare una incursione, fu da quel momento nella necessità di fare una guerra d’invasione; il momento poteva essere più opportuno.

L’impero bizantino era scisso da civili e religiose discordie. Michele II, pel difetto della lingua soprannominato Balbo, sedea sul trono. Nato costui in Frigia, soldato di fortuna, dalla prigione, in cui lo aveva chiuso Leone l’armeno suo predecessore, per punirlo di morte, era balzato al trono. Fra lo splendore della porpora conservava l’anima plebea. Con stupida indifferenza vedeva le provincie dell’impero invase dagli stranieri. L’esercito da lui mandato in Sicilia, dopo un sinistro difficilmente poteva aver rinforzi. Fugato Plata, Euffemio con un racimolo di sediziosi mal poteva far fronte al valore de’ Saracini. E ’l popolo siciliano, che odiava del pari il governo greco e la religione musulmana, non era disposto a prender parte nel conflitto, se pure non trovava alcuna speranza di bene nel cambiar di signoria. E però i Saracini trovarono resistenza solo nelle città, in cui era presidio greco.

III. — Allontanatosi da Siracusa, l’esercito saracino venne a Mineo e l’ebbe. Una presa di soldati si diressero a Girgenti, che anche di queto aprì le porte. Ambe le città indi innanzi furono da’ Saracini abitate. In questo, Euffemio si accostò a Castrogiovanni. Que’ cittadini fecero le viste di volersi a lui unire ed a’ Saracini, contro i Greci. Più d’uno venne fuori come per pattuire. Mentre alcuni s’inchinavano, fingendo volergli baciare la mano come imperatore, uno d’essi lo agguantò pei capelli e lo uccise (102).

Mohammed s’era afforzato in Mineo. Il patrizio Teodoto coll’esercito bizantino venne prima a Castrogiovanni e poi si diresse anch’egli a Mineo, per combattere i Saracini; questi schivarono la battaglia. L’esercito bizantino ebbe la peggio; molti ne restaron sul campo; ottanta patrizî furono presi. Poco sopravvisse a tal vittoria Mohammed, morto sul principio dell’829. L’esercito diede il comando ad un Zagar ben Bargut, il quale continuò con varia fortuna la guerra, finchè fu obbligato nell’830 a chiudersi in Mineo, ove Teodoto, riavutosi della disfatta, venne a stringerlo in modo, che mancato ogni altro alimento, i soldati giunsero a mangiare i loro animali d’ogni specie. In tale stretta si avvicinarono alle spiagge di Sicilia Asbag ben Uakil al Huari e Soleiman ben Afia al Tartusi, saracini spagnuoli, che con molte navi ivano corseggiando. A costoro chiesero ajuto gli assediati. E quelli non solo mandarono loro viveri, ma eglino stessi, con tutte le forze che avevano, accorsero per soccorrerli; per che Teodoto levò l’assedio e si ritrasse a Castrogiovanni.

Liberati dall’assedio i Saracini, vennero ad assalire Messina nell’831. Nel conflitto restò morto il patrizio Teodoto. La città in quell’anno stesso si arrese (103). L’emir Ziadath Allah in questo, concepita certa speranza di conquistar la Sicilia, mandò per governarla un Mohammen ben Abd Allah ben al Aglab, il quale diresse tutte le sue forze contro Palermo, ove incontrò gagliardissima resistenza. La città tenne dall’831 all’835. E finalmente s’arrese, avuta la sicurezza delle persone, de’ beni e della religione (104). Resa Palermo, caddero nell’839 Geraci, Platani, Kalat Karub (105), Mirto ed altri luoghi forti (106). Nell’845 fu presa Modica; nell’847 Lentini; nell’848 Ragusa (107). Queste città furono sottomesse, senza che il supremo comandante Mohammed fosse venuto fuori di Palermo, ove i Saracini stabilirono la sede del governo. Venuto poi a morte Mohammed nell’850, l’esercito scelse a comandante un Al Abbas ben Fadhl, e la scelta fu confermata dall’emir Mohammed ben al Aglab, succeduto a Ziadath Allah, morto nell’840.

Il nuovo comandante Al Abbas, espugnata nell’854 Butera (108), rivolse le armi contro Castrogiovanni, ove s’erano ritratti i più nobili dei Greci e de’ Siracusani, portando seco tutte le loro dovizie; perchè si tenevano quivi più sicuri che non in Siracusa che poteva essere assalita dalla terra e dal mare. Mentre i Saracini colà diretti, venivano scorrazzando il paese, loro venne preso un da quella città. Al Abbas diede ordine di ucciderlo. Quello, per cansar la morte, promise d’introdurlo colla sua gente in Castrogiovanni. Al Abbas, scelti mille cavalli e settecento fanti, s’accinse con essi all’impresa, scortato da quel traditore. Giunto ad un sito, una giornata lontano della città, soffermò. Spedì poi avanti suo Zio Rabbach con iscelta schiera. Nel cuor della notte furono costoro alle radici del monte, sul quale la città è posta. Ivi il prigione additò loro un sito ove potevano appoggiar le scale ed andar su. Saliti, si trovarono al far dell’alba sotto le mura. Entrati per un meato d’acqua, vennero ad assalire i custodi d’una delle porte, i quali mal desti com’erano non opposero resistenza. Aperta la porta, per essa entrò Al Abbas, che, studiando il passo, colà nell’ora stessa era giunto. Così la città fu presa, addì 24 di gennajo dell’859 (109), senza che i cittadini avessero avuto sospetto dell’avvicinarsi del nemico. Le figlie dei patrizî, i più nobili garzoni furono tratti in ischiavitù. Ricchissimo fu il bottino (110).

Morì Al Abbas nell’861. I Saracini siciliani proposero ad occuparne il posto prima un Ahmed ben Jakub, e poi un Abd Allah ben Al Abbas, e ne scrissero all’emir d’Affrica. Abd Allah dopo cinque mesi morì, e nell’862 fu mandato dall’emir a comandare in Sicilia un Cafagiah ben Sofian, il quale prese Noto nell’864 (111). Nell’868 fu da un soldato a tradimento ucciso. L’esercito diede il comando a Mohammed figliuolo di lui, il quale soggiacque allo stesso destino del padre; i suoi eunuchi lo misero a morte nell’870. Venne allora a governare un Rabbach ben Jakub, mandato dallo emir. Costui dopo pochi mesi morì. Gli successe un Abu Al Abbas, che visse solo un mese; e pigliò il comando il fratello di lui. In questo, l’emir diede il governo ad un Hosein ben Rabbach; ma, rimossolo non guari dopo, gli sostituì nell’872, prima un Abd Allah ben Mohammed, e poi nell’anno stesso un Abu al Malec Ahmed, soprannominato Habesei (112).

Mentre le cose dei Saracini di Sicilia erano sconvolte dal rapido cambiamento de’ governanti, l’imperatore Basilio il Macedone aveva mandato fuori una grande armata sotto il comando di un Hasar, ch’era giunto in Sicilia nell’867; ma null’altro avea fatto che predare nei mari di Siracusa alcune navi cariche di ricche derrate, fra le quali era olio in tanta copia, che poi si vendeva un obolo la libra (113).

Habasei ringagliardì la guerra. Rivolse tutta la sua forza ad assediare Siracusa, ed al tempo stesso un’armata venuta dall’Affrica venne a stringere la città dal mare. Il patrizio, che ivi comandava, al primo giungere dei nemici chiese premurosamente soccorso all’imperatore Basilio. Tanto anneghittito era allora quell’impero, che pur si diceva romano, che, mentre le navi saracine correvano vittoriose il mediterraneo, i marinai dell’armata imperiale erano impiegati a fabbricare una chiesa. Eppure Basilio il Macedone s’era spesso mostrato degno del nome d’imperatore romano. Alla vista del pericolo di Siracusa, si sospese la fabbrica della chiesa; l’armata fu apprestata; il patrizio Adriano ne ebbe il comando. Ma costui venne a rannicchiarsi nel porto di Geraci nel Peloponneso, osò più venirne fuori.

Intanto gl’infelici Siracusani, sulla speranza di quel soccorso, si difendevano con coraggio degno dei tempi più gloriosi di quella città. Se non vi ha esagerazione nella lettera del monaco Teodosio, vennero essi a tale di mangiare, non che le cuoja e le ossa trite, ma gli asini e’ cavalli, e fin si nutrivano di carni umane; i padri ebbero orrore ad addentar le carni dei figli (114). A nutrimento così malvagio tennero dietro malattie atroci, per cui i cittadini perivano a migliaja; ed a migliaja anche perivano ne’ giornalieri conflitti; chè gli assalitori non davan rispitto. Pure una voce si levò mai a proporre la resa; che anzi il lacrimevole spettacolo di tutti coloro, che correvano alla difesa delle bastite mezzo dirute e vi restavano o uccisi o mal conci, addoppiava nei pochi che sorvivevano l’alacrità di correre ove maggiore era il rischio. Finalmente, dopo dieci mesi di sforzi, venne fatto agli assalitori di mandar giù la torre principale e ’l muro da essa difeso; e quindi entrarono nel maggio dell’878. Grande fu la strage; anche più grande lo spoglio, I vasi sacri d’oro e d’argento della cattedrale pesarono cinquemila libre; e tutto il bottino fu calcolato un milione della moneta d’allora (115).

Il vile Adriano, come seppe la caduta di Siracusa (116), levate le ancore, venne a Costantinopoli, e, temendo lo sdegno dell’imperatore, andò a chiudersi nel gran tempio. Tanto rallentata era la militar disciplina, che per rispetto del sacro asilo, non riportò altra punizione che l’esilio.

Ciò non però di manco non desisterono gli imperatori bizantini dal fare a quando a quando uno sforzo, per lo riacquisto della Sicilia, già quasi tutta caduta in mano de’ Saracini. Una armata bizantina riportò una segnalata vittoria sulla saracina nell’880 in un luogo detto Aladah. Molte delle navi saracine furono prese. Ma nell’889 i Greci pagaron lo sconto. Ne’ mari di Milazzo perderono le navi e cinquemila de’ loro. E il leggere nella Cronica di Cambridge che nell’879 fu ucciso un Crisafio, e nell’881 un Perseo fu fugato in Taormina, fa argomentare, che anche in terra si combatteva.

IV. — Ma gli aridi cenni della stessa cronica ed anche più gli avvenimenti posteriori, fanno conoscere un fatto di maggior momento; quello cioè, che i Saracini venuti in Sicilia, già sicuri del possedimento dell’isola, cominciarono a divenire impazienti del dominio affricano; onde spesse e fiere contese nacquero tra i Saracini di Sicilia e quei d’Affrica e di Barberia. Seguì nell’887 la prima battaglia. Nell’890 i Saracini siciliani assalirono gli affricani ed uccisero un Al Tawali. Nell’898 i Barbareschi, venuti alle mani coSiciliani, presero e consegnarono agli Affricani un Al Hosein co’ suoi figliuoli. Ed un combattimento ebbe luogo in Franco Forth, che forse è quella terra che oggi si chiama Francofonte (117).

Era allora emir d’Affrica Abu Ishak Ibrahim, che Al Kattib, biografo de’ principi Aglabidi e Fatimidi d’Affrica dipinge come mostro crudelissimo (118). Costui per sottomettere i sollevati mandò con grosso esercitò in Sicilia il figliuolo Al Abbas, il quale prese terra a Mazzara addì 24 di luglio del 900 (119). Nel settembre del 901 prese Palermo, che forse era la sede della rivolta e vi fece grande strage. Ma, perchè ciò per avventura non appagava la feroce rabbia del padre, richiamato il figlio in Affrica, venne egli stesso in Sicilia. Prode com’era, sottomise del tutto le città sollevate ed estese il suo dominio nell’isola. Venuto in Palermo, vi morì di diarrea nello stesso anno 901. Il suo cadavere portato in Affrica, fu tumulato a Cirene (120). Morto l’emir, ebbe il governo di Sicilia un Mohammed ben al Sarkufi, e nel 902 fu a costui sostituito un Alì ben Mohammed ben al Fuarez. Ma tosto come fu emir d’Affrica Ziadath Allah, mandò in Sicilia un Ahmed ben Abi al Hosein.

V. — In questo, una grande rivoluzione accadeva in Affrica. L’emir Ziadath Allah era divenuto odiosissimo ai sudditi. Aveva egli fatto carcerare e poi uccidere l’emir Abulabas suo padre; perchè la severa virtù di questo era di freno a’ brutali costumi suoi. E l’aver egli, come giunse al trono, punito di morte i suoi stessi mandatarî del parricidio, anzi che scemarla, avea accresciuta la pubblica indignazione. Un abu Abd Allah, che parteggiava per la religione e la famiglia de’ discendenti d’Alì e di Fatima sua consorte, figliuola di Maometto, levò lo stendardo della rivolta. L’imprudente Ziadath Allah aveva egli stesso affrettata la sua catastrofe, con mettere morte o bandire tutti gli uomini distinti per virtù e per valore, che avrebbero potuto difenderlo. I popoli da per tutto correvano ad ingrossare la truppa di Abd Allah. Un esercito, che l’emir gli mandò contro, fu disfatto. Egli stesso, mentre fuggiva verso Gerusalemme, si morì; ed in lui venne meno il governo degli Aglabidi. Un Abu Mohammed Obeidallah, che ebbe il soprannome di Al Mohadi, fu il primo della famiglia dei Fatimidi che regnò in Affrica e si dichiarò califfo. Fabbricò costui a grandi spese una città sulla costa d’Affrica, che per lui fu della Mahadia; cacciò gli Edrisidi, che regnavano nell’Affrica occidentale; i suoi successori s’insignorirono dell’Egitto. Però l’impero e la religione di Maometto furono indi in poi divisi in tre famiglie, e tre califfi v’ebbero. Gli abbassidi di Bagdad; gli ommiadi di Spagna; i fatimidi d’Egitto. Ma i primi chiamavano gli altri due Shiaiti, che noi diremmo scismatici.

VI. — La rivolta d’Affrica ridestò quella di Sicilia. Nel 909 i Saracini di Palermo si levarono in capo contro Ahmed; ne saccheggiarono i beni; lo misero in carcere. Scelsero a comandante un Alì ebn al Fuarez e spedirono in Affrica un Ben Abi al Hosein, per dar conto dell’accaduto ad Abd Allah, che, cacciato già l’aglabida, era sul punto di mettere sul trono l’emir fatimida. Costui, che nulla meglio cercava che ribellar le provincie dagli Aglabidi, approvò la condotta de’ Siciliani e confermò l’autorità d’Alì. Ma, come giunse al trono al Mahadì, lo Alì ch’ebbe chiesto il permesso di recarsi in presenza di lui, arrivato nella città di Rakkada, vi fu carcerato nel 910; e un nuovo comandante venne in Sicilia, mandato dal califfo. Il popolo cominciò sulle prime a querelarsi dei costui ministri. Un giorno ebb’egli invitati a pranzo molti degli ottimati, a’ quali, come furono dentro al suo palazzo, parve di vedere alcuni de’ servi trarre le spade. Presi da timore, fattisi alle finestre, si diedero a gridare accorruomo. Il popolo trasse in folla; sfondò le porte, e quindi fuggirono i convitati. Protestava egli di non aver nulla tentato contro di quelli; ma il popolo, non gli prestava fede, e furioso ne andava in traccia; per che egli saltò da una finestra, per fuggire in una casa contigua; rottosi nel cadere una gamba, vi restò preso e fu carcerato.

Un Kalil, signore d’Alcamo, prese il comando della città, e fece noti quegli avvenimenti al califfo al Mahadi, il quale rimise ogni colpa ai sediziosi e mandò nel 911 governadore in Sicilia un Alì ben Omar al Taluni. Costui, vecchio e debole, mal poteva reprimere un popolo indocile. Però tornarono i Saracini palermitani a pigliar le armi, capitanati da un Ahmed ben Korab, il quale ribellò il popolo dal califfo fatimida d’Affrica e gli fece riconoscere l’abbasida di Bagdad, Moktader Billah, da cui Korab ebbe le insegne del governo. Ma poi i Siciliani tornarono volontariamente all’obbedienza del fatimida, e guidati da un Abu al Giafar, vollero indurre Korab a partire di queto. Negatosi egli, si venne alle mani e vi restò ucciso (121).

Il califfo Al Mohadi, che fin’allora s’era mostrato condiscendente verso i Saracini siciliani, visto tornar vana e più presto nocevole la dolcezza, mandò in Sicilia con un’esercito un Abu Said al Daif, che Al Novairo chiama Musi ben Admed. Giunto costui nel 916, strinse Palermo d’assedio. Dopo sei mesi i Palermitani, avuta la solita sicurtà, si arresero, addì 12 di marzo del 917 (122). Molti fra i Saracini di Girgenti vennero in questo ad ossequiare il comandante affricano, dal quale furono orrevolmente accolti e regalati. Pare che il califfo Al Mahadi abbia avuto la massima, forse giusta, di punir sempre i capi delle popolari sommosse, anche quando queste erano a lui favorevoli. Aveva fatto carcerare in Rakkada Alì abu al Fuarez, ed ora fu carcerato in Palermo Abu Giafar, che aveva fallo cacciare Ben Korab. Ma Ahmed, fratello di lui, venne a Girgenti e levò a sommossa i Saracini di quelle parti. Varie battaglie seguirono; finalmente i Girgentini tornarono all’obbedienza. Composte così le cose dell’isola, il comandante Abu Said tornò in Affrica, ed in quell’anno stesso venne a governare in Sicilia un Salem ben Asad al Kennai (123).

Nel costui governo ebbero i Siciliani a soffrire straordinarie oppressioni. Due ministri del Califfo vennero in Sicilia nel 927, ed una con Salem imposero una grave taglia al popolo. Altri due ne vennero e fecero lo stesso nel 932. Ma pare che ciò avessero fatto contro la volontà del Califfo; perocchè questi forte si sdegnò contro i due, che vennero la seconda volta (124).

Ciò non però di manco i Siciliani tollerarono in pace i soprusi, finchè visse il califfo Al Mahadi. Ma lui morto nel 934, e succedutogli il figliuolo Abu al Kasem, che al Kajem chiamavano, più non si tennero. E forse ad inasprire gli animi loro concorsero alcuni naturali disastri. Nel 935 vennero giù piogge così copiose, che assai uomini annegarono, assai case ne furono atterrate (125). Nel 936 all’incontro spirò un sirocco tanto caloroso, che ne seccarono le uve e tutte le frutta; onde quell’anno non si vendemmiò. Ed è ben da credere che sterile sia stato l’anno antecedente; dacchè le straordinarie piogge nocevolissime sono al suolo siciliano.

VII. — I Girgentini furono i primi a levarsi in armi; e sul loro esempio in altri luoghi i popoli ribellarono. Un Ben Amran fu cacciato da Caltabellotta, ove comandava; la truppa del governo fu spogliata. Mosse colla sua gente Salem da Palermo e venne ad assediare Asaro; i Girgentini v’accorsero addì 24 di giugno del 937; volsero in fuga gli assalitori, l’inseguirono sino a Palermo e tentarono d’entrare in città. Venuta fuori la guarnigione, si venne a giornata in un sito, che si diceva Mesid Balis; i Girgentini furono rotti ed inseguiti sino ai mulini di Marnuh. Non per questo s’acquetarono le cose. L’anno appresso que’ di Palermo, capitanati da un Ben al Sabayah ed un Abu Tar presero le armai contro di Salem, e nel conflitto restò ucciso un Abu Nattar, soprannominato Al Aswad, o sia l’etiope. Coloro che caddero nelle mani di Salem, furono il domani impalati. Ma gli altri, raccolte forze da per tutto, tornarono in campo; furono sconfitti; vennero a chiudersi nel castello della città e vi restarono assediati (126).

Giunse in questo con grosso esercito un Kalil ben Ishak, per reprimere la sedizione. I Saracini siciliani scrissero al califfo: essere eglino sempre disposti a tenersi a lui obbedienti, non avere preso le armi contro di lui; ma non potere più oltre tollerare il duro governo di Salem. Il califfo li contentò; tolse a Salem ogni autorità e la diede allo stesso Kalil. Composte parvero allora le cose. Kalil entrò di queto in Palermo addì 23 d’ottobre del 938 (127). Ma entratovi, forse per togliere ai Palermitani la speranza d’un ricovero nel caso d’una nuova sommossa, cominciò a demolire le mura della città e torne le porte. Qui si riaccese la guerra. I Girgentini, chiesto ed avuto soccorso dall’imperatore bizantino Romano Lecapeno, tornarono più animosi in campagna. Kalil venne loro contro col suo esercito e mal gliene incolse. Vi perirono fra gli altri un Ben Abi Harir ed un Alì ben Abi al Hosein; genero di Salem.

Venuto Kalil in Palermo dopo la disfatta, impose una taglia al popolo e tornò in Affrica, per raccorre nuovo esercito. Di ritorno in Sicilia nel 939, espugnò Caltavuturo, Asaro, Sclafani e poi Calbara. Venne a Caltabellotta e vi fece grande strage. I Girgentini, soprappresero l’esercito affricano, che assediava Balatiah; ne ottennero compita vittoria; tutto il campo nemico venne in loro potere; gli Affricani furono cacciati da Caltabellotta. Kalil tornò con più vigore contro di loro, che finalmente ebbero a chiudersi entro Girgenti, ove restarono assediati. Dopo otto mesi d’assedio, molti trovarono modo di fuggire, gli altri, fatti cauti della vita, s’arresero.. Le fortezze di Sicilia furono allora demolite e sfrattati furono gli abitanti dei villaggi vicini (128). I capi della sedizione furono presi; posti su d’una barca si fece correr voce dovere esser condotti in Affrica. Ma in alto mare, forata la nave, si fecero tutti, contro la data fede, perire (129).

VIII. — Nel 945 Kalil lasciò la Sicilia, di cui ebbe il governo un Mohammed ben al Ashaat, che vi restò sino al 947. Era morto nello stesso anno 945 il califfo Al Kajem, cui era succeduto il figliuolo, soprannominato Al Mansur. A lui espose Mohammed lo stato deplorabile, in cui era ridotta la Sicilia, per gli abusi che dopo tante perturbazioni s’erano introdotti. Il furto e l’ingiustizia erano giunti a tale, che il potente devorava il più debole (130). Non altro rimedio seppe trovare il califfo che dar la Sicilia ad un emir, invece di mandarvi, come sin’allora si era fatto, un governante temporario. La traduzione che ci resta del frammento storico di Sheahoddin, dice che il califfo diede la Sicilia in feudum. Forse il traduttore usò una frase, propria de’ tempi, in cui scrisse, affatto straniera al governo de’ Saracini. Pure gli emir non eran guari dissimili da quei principi, che per secoli tennero molte provincie d’Europa, con dipendenza feudale da alcun re od imperatore. Possedevan le provincie con dritto di successione nella stessa famiglia; il figliuolo o prossimo parente del morto emir doveva esse riconosciuto dal supremo signore; allo emir dovevano obbedienza i sudditi; al califfo lo emir; insomma, tranne il nome di feudo e le forme feudali, gli emir avevano gli stessi diritti e i doveri stessi de’ principi feudali. S’improntava il nome loro nelle monete; pubbliche preci si facevano per essi; e ministravano a posta loro le cose della provincia, salvo la dipendenza politica e religiosa dal califfo e gli ajuti, che quand’eran del caso, scambievolmente si davano.

Un Al Hasan, che in grande stato era presso il califfo, fu il primo emir di Sicilia. Tra perchè era costui uomo forte e vigilante, e forse ancora perchè il desiderio de’ Saracini siciliani di sottrarsi alla straniera dominazione venne così in parte appagato, le cose di Sicilia si acquetarono. Ben sulle prime alcuni spiriti turbolenti, che sempre restano dopo le grandi perturbazioni, ordirono una congiura, di cui era capo un Koreish. L’emir scoprì la trama; ne prese i capi, e, tagliati loro prima i piedi e le mani, li fece impiccare. Indi in poi ogni cosa fu tranquillo, e potè l’emir sottomettere altro paese in Sicilia e portar talvolta sul vicino continente le armi sue vittoriose (131). Morto poi nel 952 il califfo Al Mansur, il figliuolo Al Moezz, che, a lui successe, richiamò in Affrica l’emir Al Hasan, e diede il diploma e le insegne d’emir di Sicilia ad Hamed di lui figlio.

Composto finalmente lo stato e riconosciuta dai Saracini siciliani la suprema potestà del califfo fatimida, si piegarono essi ad adottare anche i riti religiosi di quella setta. L’emir nel 958 si recò in Affrica, accompagnato da trenta dei più nobili, i quali da lui prima istruiti nel rito fatimidico prestarono giuramento al califfo, che largamente li donò. Poco di poi Al Moezz mandò in Sicilia un notajo, per registrare tutti i fanciulli musulmani e farli circoncidere nel giorno stesso, in cui era per circoncidersi suo figlio. Quindicimila fanciulli vennero registrati e circoncisi, e prima degli altri il figliuolo e’ fratelli dell’emir, il quale distribuì a’ nuovi circoncisi ricche vesti: oltrachè il califfo mandò centomila direm e cinquanta some di abiti, per darsi a tutti que’ ragazzi d’ogni condizione (132).

IX. — Pur, comechè la religione e ’l dominio dei Saracini solidamente già stabiliti allora fossero in Sicilia, restava ancora in mano de’ Greci la fortissima piazza di Taormina. I Saracini siciliani, che erano iti a prestare omaggio ai califfo Al Moezz, lo avevano istigato a cacciar da Sicilia quel racimolo degli antichi signori; e quello, di gran cuore com’era, fatto il necessario appresto, mandò ordine all’emir d’imprendere l’assedio di quella città. Nel giugno del 962 Taormina fu cinta di un esercito di Siciliani ed Affricani, comandato dall’emir. Qui sopravvenne dall’Affrica il vecchio emir Al Hasan, mandato dal califfo con altre schiere, per accelerare lo assedio. Ma tale era Taormina, che, combattuta da quelle prepotenti forze, tenne sette mesi e mezzo; s’arrese prima del 25 di dicembre. Tanto orgoglioso ne fu il califfo, che volle che, non più Taormina, Almoezzia quindi innanzi la città fosse detta.

Malgrado quel trionfo, non guari andò che le armi e ’l valore de’ Saracini furono posti all’estremo cimento. Sin da che gli Affricani si erano fermati in Sicilia si erano dati a fare spesse incursioni nel vicino continente, ove avevano espugnate molte città, devastato molto paese. L’imperatore Basilio il macedone, che per la codardia di Adriano non aveva potuto impedire la caduta di Siracusa, per ricattarsi, aveva mandato in Italia un esercito comandato da Niceforo Foca, il quale, disfatti in molti incontri i Saracini, li aveva finalmente cacciati del tutto dalle provincie italiane. Venuto al trono Costantino porfirogenito, i Saracini, avvantaggiati dall’incapacità di lui, erano tornati più formidabili in Calabria ed in Puglia, e l’imbelle imperatore aveva comprata la pace col pattuire un tributo. Nel regno di Romano Lecapeno, alcune barche calabresi avevano intrapresa una nave affricana, sulla quale erano i messi che il califfo mandava al re de’ Bulgari per istringer lega contro l’impero bizantino. Portati quei messi in Costantinopoli, Romano, per isviare la tempesta, li aveva rimandati, non che liberi, carichi di presenti per loro e pel califfo, il quale vinto dalla cortesia, ebbe deposto ogni pensiere ostile; anzi rilasciò un metà del tributo, che fu per alcun tempo regolarmente pagato. Ma mentre il califfo Al Mahadi (133) era inteso alla conquista di Barbaria, il pagamento era stato interrotto. Anzi alcuni disertori dell’esercito saracino erano rifuggiti sul tenere dell’impero, e ’l califfo, che voleva conservar la pacifica corrispondenza colle provincie italiane, dalle quali traeva in quella guerra gran quantità di viveri, non ne avea fatto alcun risentimento. Ma, come ebbe cacciati gli Edrisidi, bravando avea chiesto e ’l tributo non pagato ed i profughi. Costantino VII, per sostener l’onor dello impero, aveva mandato un esercito in Italia. Questa masnada di barbari, avanti che a combattere i nemici, s’era data a depredare il paese amico. Il califfo Al Kajem ne avea fatto macello; i comandanti stessi erano stati presi. S’era in seguito di ciò conchiusa una sosta, spirata la quale, s’eran riprese le armi. Gli emir di Sicilia avevano fatto frequenti incursioni in terra ferma; l’ammiraglio Basilio nel 956 era venuto a demolire la moschea di Reggio, passato in Sicilia, avea preso Termini; venuto poi in Mazzara, in un incontro con l’emir Hasan aveva riportato alcun vantaggio (134); , dopo ciò, la storia fa più motto di lui.

In tale stato eran le cose quando usurpò lo impero Niceforo Foca, nipote del generale dello stesso nome, che aveva cacciati i Saracini dall’Italia. Cupido d’emulare le gesta dell’avo, affettava il nuovo imperatore il vanto di segnalare il suo regno con qualche gran fatto. E, se da semplice generale avea potuto riacquistare l’isola di Creta, con più ragione da imperatore sperava riprendere la Sicilia. stette molto ad aspettare il destro di accingersi con vantaggio all’impresa. Que’ di Rometta negarono obbedienza all’emir e chiesero soccorso dal bizantino; ed egli mandò tosto in Sicilia un fioritissimo esercito di Persiani, Russi ed Armeni, altro così numeroso erane mai venuto. Lo comandava il patrizio Emmanuele. In questo, l’Emir Hasan avea cinto d’assedio Rometta; e, perchè per la gagliarda resistenza de’ Romettesi l’assedio andava in lungo, aveva fabbricato presso un castello, per ripararvi egli e la sua gente.

X. — Addì 13 d’ottobre del 964 sbarcò presso Messina l’esercito bizantino, e tosto si mise in via per venire a combattere gli assalitori di Rometta. Hasan fu lento ad andargli incontro. Lasciata una delle sue schiere, per tenere a freno i Romettesi, colle altre venne ad occupare le due gole de’ monti di Peloro, per le quali necessariamente dovea farsi strada l’esercito nemico. Posto vantaggiosissimo; dacchè l’asprezza del suolo e la strettezza del passo rendevano inutile affatto il maggior numero dei nemici. Emmanuele, che aveva il temerario ardire di soldato, senza la capacità di generale, malgrado lo svantaggio del sito, s’accinse a forzare il passo. Spintosi egli il primo fra le schiere nemiche, vi facea mirabili prove. La fortezza della sua armatura vani rendevano tutti i colpi contro di lui diretti. I suoi soldati, animati dalla voce e dall’esempio di lui, non eran da meno. Al tempo stesso i Romettesi, respinta la schiera, che li guardava, assalirono i Saracini dall’altro lato con tal’impeto, che questi, sopraffatti dal doppio attacco, cominciarono a vacillare. In tal punto Hasan gridò: Dio, se gli uomini m’abbandonano, tu mi salva. E in questo dire con una scelta schiera si mosse. Nulla potè resistere a quell’urto. Tutto l’esercito saracino riprese cuore. Ucciso il cavallo ad Emmanuele, vi restò morto anch’egli. In quel fortunoso momento mosse una violentissima tempesta propria della stagione. Pioggia e grandini venivano giù a ribocco accompagnate da frequenti lampi e da fulmini. L’esercito cristiano, scuorato dalla morte del generale, confuso dalla tempesta, incalzato da’ Saracini, indietreggiava verso una pianura overa una fossa ampia e profondissima. Ivi precipitavano a mano a mano i soldati. In poco d’ora quel baratro venne tanto colmo, che i cavalli saracini vi correvan sopra. Bastò la battaglia dall’alba fin dopo il merigio. Il resto del giorno e la seguente notte stettero i Saracini ad inseguire, prendere ed ammazzare coloro che scarmigliati fuggivano. Diecimila de’ Bizantini restarono sul campo, oltre il gran numero de’ prigionieri, fra’ quali furono l’altro generale Gorgia e il patrizio Niceta, eunuco, drungario dell’impero. Coloro, che restarono, ebbero dicatti rimbarcarsi e tornare a Costantinopoli. Tutto il campo e le bagaglie dell’esercito greco vennero in mano dei Saracini. Ivi fu trovata una delle spade di Maometto, forse presa altrove dai Greci. In essa era scritto: Questa spada indiana, del peso di settanta methkal, molto sangue sparse nelle mani dell’apostolo di Dio (135).

Dopo la vittoria, l’emir Hasan, mandato al califfo quella spada e que’ prigioni, tornò all’assedio di Rometta, che tenne ancora più mesi. Da mille uomini, che tentarono la fuga, furono presi; poco di poi la città s’arrese. Mentre così si combatteva in terra, in mare non posavano le armi. Nello stretto di Messina più sanguinose fazioni seguirono fra l’armata saracina e la greca. Hasan poco sopravvisse a tali fatti. Venuto in Palermo, vi morì sulla fine dell’anno, senza potere godere della pace, che le sue vittorie fecero conchiudere tra l’imperatore Niceforo e il califfo Al Moezz nel 966.

Non più distolto da pensieri di guerra il califfo, pose l’animo a ristorare la Sicilia dei sofferti danni. Ordinò all’emir Ahmed di rifabbricare al più presto le mura di Palermo. Nuove città volle che fossero edificate, si chiamassero ad abitarvi coloro ch’erano spersi per le campagne. L’emir diede opera a ciò. Egli stesso ebbe cura di rifare le bastite di Palermo; ed uomini autorevoli destinò, per istar sopra alla fabbrica delle nuove città (136).

Pure, non si sa perchè, quel califfo nel 968 ordinò allo stesso emir di demolire del tutto Taormina e Rometta. I Saracini siciliani, molti dei quali in Taormina avevano fermata loro stanza, l’ebbero a grave. L’emir forvoglia eseguì l’ordine; intantochè, non soffrendogli il cuore di dar mano egli stesso alla rea opera, ne diede l’incarico al fratello Abu al Kasem ed allo zio Giafar (137). E forse all’essere costoro andati a rilento nel demolire Taormina, si deve la conservazione dello antico teatro di quella città. Nell’anno stesso il califfo chiamò in Affrica l’emir Ahmed, per dargli il comando d’una armata che voleva mandare in Egitto. Il fratello Abu al Kasem restò a far le veci di lui. Come giunse in Tripoli, Ahmed si morì ed Al Kasem ebbe dal califfo il diploma di emir.

Morto nel 975 il califfo Al Moezz, Al Aziz Dillah suo figlio e successore ordinò al nuovo emir di ristorare Rometta. Governò Al Kasem sino al 982, quando morì combattendo in Calabria; per che fu chiamato martire da’ suoi. Giaber suo figliuolo prese il governo (138). Il califfo Al Aziz non volle riconoscerlo, ed in quella vece diede il dominio di Sicilia ad un Giafar dello stesso casato. Morto costui nel 983, gli successe Abd Allah suo fratello; ed alla costui morte nel 988 fu emir il figliuolo Abu al Fatah Jusuf (139).

Con somma lode governò Jusuf: ma nel 998 colpito di paralisi, ebbe a cedere il governo a Giafar suo figliuolo, cui il califfo Al Hakem (Al Aziz suo padre era morto nel 996) non solo diede la facoltà di governare invece del padre, ma gli conferì gli onorevoli titoli di Thag Addulat (corona dell’impero), e Sif al Millath (spada della religione). Tranquillamente processero le cose sino al principio del 1014, quando nacque una fiera briga tra Giafar ed Alì suo fratello, il quale levò contro l’altro un esercito di servi e d’Affricani. Dopo varie battaglie, Alì abbandonato dai suoi, fu preso e condotto a Giafar, il quale, dimenticando i vincoli del sangue, dopo otto giorni lo mise a morte; di che grave increbbe al buon Jusuf, padre d’entrambi. contento a questo, fece morire tutti i servi, e bandì dall’isola gli Affricani; però restarono le armi solo in mano dei Saracini siciliani: lo che ivi a poco gli tornò in capo.

XI. — Aveva Giafar a segretario un Hasan, di cui faceva gran conto, uomo oltre ad ogni dire iniquo e rapace. Lo avea costui indotto ad imporre lo straordinario dazio della decima sul frumento e su tutti gli altri prodotti della terra. I Saracini siciliani, usi a non pagare altro che una gabella per ogni pajo di buoi, mal tollerarono quel tributo, che veniva per soprassoma a tante altre vessazioni e nequizie. Ed oltracciò a malincuore soffrivano i modi alteri di Giafar, che con gran disprezzo trattava anche i personaggi più distinti. Però, levatosi in capo tutto il popolo di Palermo, venne ad assalire il suo castello, addì 14 di marzo del 1019, e stette tutta la notte a cercare alcuna parte meno difesa, onde penetrarvi. Erano già i sollevati per farsi entro, quando il vecchio Jusuf, che i Siciliani amavano e rispettavano, tutto paralitico che era, fattosi mettere in lettica, venne innanzi a loro. L’aspetto del buon vecchio attutì l’ira del popolo. Pregava Jusuf la gente a rimanere dall’impresa, prometteva di torre il governo a Giafar e darlo a qualunque altro eglino volessero. Fu accettato il partito, e fu proposto l’altro fratello Ahmed al Achal, che cominciò tosto a governare.

Prima cura di costui fu il prendere l’odiato secretario Hasan e darlo in mano ai sollevati, che ne fecero crudele strazio; poi, tagliatogli la testa, la menarono in trionfo per la città, e finalmente ne bruciarono il cadavere. Il vecchio emir in questo, temendo per la vita dei figlio Giafar, lo rimandò in Egitto, ed egli stesso poco dopo andò via e portò seco secentosettantamila dinar, quattordicimila giumente, oltre i muli e l’altro bestiame che aveva (140).

Come Al Achal prese a reggere lo stato, fece da prima ogni opera per rendere tranquillo e contento il popolo; e ne fu meritato dal califfo Al Akem col titolo di Taid Addulath (sostegno dello impero), ma poi egli stesso appiccò il fuoco della discordia. Chiamati i maggiorenti fra’ Saracini siciliani, propose loro di espellere tutti gli Affricani, ch’erano nell’isola. Quelli si negarono, dicendo che pei frequenti reciproci maritaggi erano ormai divenuti un solo popolo. Avuta tale ripulsa, chiamò gli Affricani e fece loro la stessa proposta contro i Siciliani. Assentitovi questi, per fare che i Saracini siciliani sgombrassero, fece gli Affricani esenti da ogni tributo e ne sopraccaricò i Siciliani. Forse costui con iscaltra politica voleva mettere zeppe fra due popoli, onde rendere più salda la sua autorità. Tutto contrario ne seguì l’effetto; ciò precipitò la sua caduta. I Saracini siciliani, spinti all’estremo, nel 1035 ebbero ricorso ad Al Moezz ben Badis, che regnava in Affrica. Gli offrirono il dominio di Sicilia, se li ajutava a cacciare l’emir, altrimenti, dichiararono, che si sarebbero dati al greco imperatore. L’Affricano accettò il partito e mandò in Sicilia Abd Allah suo figliuolo con tremila fanti ed altrettanti cavalli, per combattere l’emir. Dopo vari incontri Al Achal fu assediato nella fortezza al Kalsah di Palermo. Qui cominciarono le discordie fra’ Saracini siciliani, molti dei quali si diedero a favorire Al Achal. Ciò non di manco, in quelle perturbazioni egli perdè la vita. Ma la presenza degli stranieri, sempre odiosa, venne ingrossando la fazione che lo favoriva. Ne guari andò che i Saracini di Sicilia si levarono in armi contro gli Affricani. In una battaglia molti di questi furono uccisi. Abd Allah coll’avanzo della sua gente si rimbarcò e tornò in Affrica.

Ebbe allora il governo il fratello dell’ucciso emir, Al Hasan soprannominato Samsamoddaulah (spada dell’impero). Ma inferocendo le fazioni, costui fu cacciato. In Palermo presero allora a comandare gli ottimati: e i più potenti usurparono il dominio di altre città. Abd Allah ben Mankut ebbe Trapani, Marsala, Mazzara e Sciacca; Alì ben Naamb Castrogiovanni, Girgenti e Castronovo; Ebn Al Theman Siracusa e poi Catania ed altri luoghi. Snervati per tali scissure i Saracini, non poterono opporre gagliarda resistenza al valore de’ cavalieri normanni, che vennero a cacciarli dall’isola.

XII. — Ma, prima d’entrare nelle narrazioni di tali avvenimenti, che alla moderna e non più alla antica storia di Sicilia appartengono, pregio dell’opera è soffermarci ad ispigolare dalle scarse memorie dei tempi alcuna notizia, onde conghietturare quale ebbe ad essere la condizione della Sicilia sotto la dominazione dei Saracini

Sempre che un paese cambia di signoria, gli ultimi dominatori si danno a denigrare il nome dei primi, per far credere al popolo sottomesso, d’aver fatto un guadagno. I romani tanto dissero, e scrissero tanto contro i tiranni delle antiche città di Sicilia, che vennero a capo di cambiare affatto il senso della parola tiranno, la quale in greco null’altro suona che il capo d’uno stato, e, divenuta latina, acquistò un significato odiosissimo. Al modo stesso gli scrittori dell’età dei Normanni dipingono i Saracini come gente affatto barbara; in ciò altro fanno che adottare i pregiudizî degli storici bizantini. L’errore non poteva dileguarsi allora, per la nimistà delle due religioni. Impazienti d’ogni altro culto erano per principio i cristiani; persecutori per precetto erano i Saracini. E l’odio reciproco era tale, che gli uni e gli altri si facevano coscienza di conoscere la lingua, le consuetudini, la storia e fin le azioni del popolo nemico. ciò poco contribuisce a rendere oscura la storia di quest’età. I Bizantini nei pochi cenni che fanno delle cose di Sicilia, affatto ignari si mostrano dell’interno reggimento dell’isola, ti danno contraffatti i nomi, e travisati i fatti da mille fole da dirsi a vegghia. Gli Arabi, a ritroso, espongono con ordine cronologico il sunto dei fatti loro, senza accennare l’esistenza di ciò che non è musulmano.

Per tal modo la pubblica opinione già mal disposta contro i Saracini, dai Normanni in poi forviò del tutto. Ma quando lo studio delle lingue orientali si diffuse in Europa, ed uomini sommi si diedero a rovistare le grandi biblioteche e mettere in luce gli scritti degli Arabi, che in esse si conservano (e pur sono i bricioli dell’araba letteratura), si conobbe d’essere stati i Saracini, particolarmente dal IX al XII secolo, la nazione più colta del mondo, e che per essi le scienze rinacquero in Europa.

i Saracini siciliani furono da meno degli altri. Che, se in Sicilia non restano le copiose e magnifiche opere, che si ammirano in Cordova ed in altre città di Spagna, ciò fu, perchè ivi avevano i Saracini più estesa dominazione, ed era ivi la sede d’un califfo indipendente. Pure i Normanni trovarono mirabili molti edifizî dei Saracini. La immensa solidità di quella parte del real palazzo di Palermo, ch’era degli emir e Kassar si chiamava; il palazzo che resta integro presso Palermo, e Palazzo della Zisa si dice; e il pallio di seta con iscrizione cufica in ricamo d’oro, lavorato nel 1133 dai Saracini di Sicilia, che fu portato via cogli altri tesori della reggia di Palermo dallo imperatore Arrigo VI e in Norimberga oggi si conserva, bastano a provare quanto valevano nelle arti i Saracini di Sicilia. E gli scritti d’alcuni fra essi, di cui notizia è a noi giunta, provano del pari che non meno valenti furono nelle lettere e nelle scienze (141).

Dileguato il primo errore, si corre oggi nell’estremo opposto. Pensano taluni che dominio dei Saracini assai prosperò la Sicilia. È in primo luogo intorno a ciò da considerare che sotto un governo, in cui non è altra legge, che la volontà di chi regna, la pubblica prosperità sarebbe un fenomeno straordinario, per non dire prodigioso. gli avvenimenti di quell’età danno miglior fondamento alla presunzione. La storia di questo breve periodo null’altro mostra che sedizioni, stragi, guerre intestine, straniere invasioni, città spianate, castelli distrutti, villaggi scoscesi, campagne devastate, taglie straordinarie e fino spaventevoli fenomeni della natura. E se verso il 945, dietro le grandi perturbazioni, il furto e l’ingiustizia erano comuni, ragion vuole, che si creda che col continuare della cagione le conseguenze non sian venute meno.

Aggiungasi a ciò che i tristi effetti di quel governo e di quegli avvenimenti dovevano pesare a più doppî suglindigeni siciliani, che furono in quei , non che la maggiore, la massima parte del popolo siciliano. Si è voluto da taluni asserire e cercar di provare che sotto la dominazione dei Saracini tutta la nazione divenne musulmana. Ma non avrebbero potuto i Saracini venire a capo di estirpare affatto l’antica religione, senza disertare del tutto il paese. Anzi avrebbero disertato del tutto il paese, senza venirne a capo; come sempre è avvenuto, quando i governi si sono accinti all’insana impresa di usar la forza per obbligare i popoli a cambiar di religione. Dunque il supporre che i Saracini non avessero tollerato che cristiano fosse in Sicilia; e il credere al tempo stesso, che prospero fu in quell’età il paese, è un cadere in contraddizione.

Che gl’indigeni siciliani in tutto il periodo della saracina dominazione abbiano goduto il libero esercizio della loro religione, con pagare un tributo che si diceva gesia, si presume dal precetto del Corano (142) e dalla costante pratica dei Saracini negli altri paesi da essi conquistati. Ed assai fatti confermano una tale presunzione. Lo storico Malaterra parla de’ cristiani, che abitavano il Valdemone, di quelli delle provincie di Girgenti che venivano incontro ai Normanni, come loro liberatori. Gli annali ecclesiastici fanno cenno dei vescovi di Sicilia in quell’età. I Normanni trovarono in Palermo l’arcivescovo, al quale i Saracini, convertito il duomo in moschea, avevano assegnato la piccola chiesa di Santa Ciriaca fuori la città, come naturalmente doveva accadere, trattandosi di una religione, che quel governo forvoglia tollerava. Il monaco Teodosio, tratto prigione in Palermo, dopo la caduta di Siracusa, vi trovò cristiani in gran numero. E finalmente assai diplomi dei principi normanni accennano antichi monasteri.

Una gran prova poi d’essere stati i Saracini in poco numero a rispetto di tutto il popolo siciliano, si ha dal fatto della circoncisione dei ragazzi. L’ordine espresso del califfo, il notajo da lui mandato per registrare tutti i ragazzi in età da ciò; l’essersi la circoncisione ordinata dopo che gli ottimati fra’ Saracini di Sicilia si recarono in Egitto a prestar giuramento al califfo Fatimida; la solennità con cui ciò si fece; i doni fatti ai nuovi circoncisi, fanno credere d’essere stata quella una funzione straordinaria, propria del rito fatimidico, e che il califfo ciò volle, come una prova d’essersi già i Saracini di Sicilia piegati al suo scisma. E però non erano allora altri fanciulli prima circoncisi. I ragazzi con tanta esattezza numerati furono quindicimila. Il numero delle famiglie, cui essi appartenevano, poteva essere meno, non più d’altrettanto. Calcolano gli statistici quattro persone per ogni famiglia, contando da rio in buono, lo scapolo e ’l padre di molti figli: ma, dovendo considerare solo le famiglie con figliuoli, di gente, alla quale era permesso avere più mogli e schiave, il numero medio delle persone deve essere maggiore. Pure, ove anche vogliano darsi dieci persone ad ognuna di quelle famiglie, si avranno centocinquantamila persone. E posto ancora che solo una metà dei Saracini siciliani avessero avuto figliuoli (ciò che il clima di Sicilia e la poligamia rendono improbabile), il numero totale di essi non si può portare al di di trecentomila.

Dall’altro lato forti argomenti mostrano che la somma degli abitanti dell’isola era forse maggiore dell’attuale. Grandissimo è il numero dei castelli e villaggi e delle borgate, che allora erano, e si designavano conomi di Calat (luogo eminente) Menzel (villaggio) Ragal (borgata), aggiuntavi alcuna caratteristica del luogo o della persona che li possedeva (143), che il diligentissimo Gregorio trasse dalle concessioni feudali fattene nell’epoca posteriore. Ed è da credere che molte di tali carte scapparono alle ricerche del laboriosissimo uomo, ed assai altre perirono pei guasti sofferti dai pubblici archivî di Sicilia. Di tali luoghi, tranne Caltanissetta, Caltavuturo, Calascibetta, Calatafimi, Caltabellotta, Calatabiano, Misilmeri, Ragalbuto, Ragalmuto e forse alcun’altro, tutti gli altri sono ora campi deserti. La geografia nubiense accenna molti luoghi abitati di Sicilia, dei quali oggi s’è perduta la traccia. I fatti di sopra narrati ci portano a credere che Siracusa, Taormina, Castrogiovanni, Girgenti erano allora più popolose. Palermo, sede del governo, centro di tutte le operazioni di esso, per quanto ne dice il monaco Teodosio (144), era foltissima di popolo, a segno che altre città s’era dovuto fabbricare intorno all’antico ricinto. Lentini, secondo il geografo nubiense, aveva tutti i vantaggi delle città marittime. Le barche cariche salivano pel fiume che scorre dal lago, il quale era loro di porto (145). E per essere allora navigabile quel fiume, non poteva produrre l’aria malsana d’oggidì, onde quell’illustre città non doveva essere nell’attuale decadimento. alcun argomento abbiamo per credere le altre città di Sicilia men popolate di oggi. Altre terre sono surte, è vero, da quell’epoca in poi; ma sono poche a paragone di quelle che perirono. In ogni modo è da credere che la somma della popolazione d’allora era più presto maggiore che più scarsa della presente. I Saracini erano dunque la sesta parte di essa. E che così fosse stata la cosa, lo mostra il fatto, che col solo cambiar di governo, la nazione si trovò cristiana. Cinque sesti adunque del popolo siciliano affatto esclusi da qualunque partecipazione al governo, oppressi, spregiati, poco men che servi, esser dovevano nella stessa misera condizione, in cui oggi sono i cristiani che vivono nell’impero ottomano, in alcune provincie del quale essi sono i più.

E se, per conoscere se prospera e ricca sia stata allora la Sicilia, ci facciamo ad indagare in quale stato era l’agricoltura, ch’è stata e sarà sempre la fonte principale della ricchezza di quest’isola, non troveremo alcun argomento che ci porti a supporla assai estesa e prospera. Senza calcolare i tristi effetti delle spesse imposizioni straordinarie, bastava l’ordinario dazio sopra ogni pajo di buoi da lavoro per soffogare l’industria dell’agricoltore. Dura era l’imposta della decima che in tempi più remoti si pagava in Sicilia; perchè duro esser doveva a tutti il vedersi togliere direttamente una parte del suo prodotto. Ma pure l’imposta era proporzionata alla ricchezza dell’agricoltore, il quale allora tanto più pagava quanto più produceva: ovechè sotto i Saracini tanto più pagava quanto più coltivava. E però era nella necessità di coltivare quanto meno poteva. E che tal funesto effetto seguiva difatti, possiamo argomentarlo dal numerosissimo armento dell’emir Jusuf. Se quattordicimila erano le sole giumente, quale che fosse stata la proporzione, con cui quell’emir regolava la sua pastorizia, sterminato esser doveva il numero di tutto il suo bestiame. Dunque o erano allora vastissimi tratti di terreno incolto, nei quali costui faceva pascere tanti animali, o egli solo imprendeva a coltivare la decima parte del suolo coltivabile in Sicilia. E in ogni caso ciò mostra che scarso era il numero degli agricoltori; e però poco profittevole l’agricoltura.

Questa considerazioni naturalmente ci menano a conchiudere che i Saracini, comechè molto avanti sentissero nelle scienze fisiche, digiuni erano delle politiche e morali discipline. E se per avventura erano loro venute lette le opere degli storici e filosofi greci, vôte di senso esser dovevano per essi. Gente, che si governava colla scimitarra, qual costrutto poteva trarre dalla lettura di Platone e di Plutarco? In ogni caso poi le cose finora dette provano che perniciosa è stata sempre alla Sicilia la dominazione degli stranieri, per colti che fossero stati (146).





100 I Saracini non avevano altre monete che il dinar d’oro, il dihrem d’argento. Il peso del dinar, secondo Gregorio (Rer. Arab. ad Sic. pertin. ampl. coll. pag. 22, not. b) era pari a 72 acini d’oro, che risponde ad 80 cocci; onde il suo valore è di 24 tarì. Ma siccome le monete che ci restano non è difficile che siano un logore, è probabile che il valore del dinar sia stato alquanto maggiore. Il dihrem valeva tredici volte meno del dinar.



101 Affrica chiamavano allora i Saracini solo la Mauritania orientale.



102 Al Novairo, presso Gregorio, ivi, pag. 6. Gli storici bizantini sono uniformi nella narrazione del fatto, ma dicono che avvenne in Siracusa.



103 Cronica di Cambridge, presso Gregorio, ivi, pag. 41.



104 Al Novairo. Ivi, pag. 7. Vedi la nota (c) del Gregorio, ivi. La Cronica di Cambridge porta la resa di Palermo nell’832. Ma gli altri storici dicono che l’assedio cominciato nell’831, bastò sino al quinto anno.



105 Platani era sulla sponda del fiume dello stesso nome; ne restano appena le vestigia. Kalat Karub, secondo la geografia Nubiense, era tra Tusa e Caronia (*).

(*) Questi fatti vengono ancora confermati da Ebn Khaldoun, Histoire de lAfrique sous la dynastie des Aghlabites et de la Sicile sous la domination musulmane, p. 111, Paris 1841 (N. dellEd.)



106 Al Novairo. Ivi pag. 7-8.



107 Cron. di Cambr. Ivi pag. 42.



108 Cron. di Cambr. Ivi.



109 Al Novairo. Ivi pag. 9. La Cronica di Cambridge riferisce la presa di Castrogiovanni nello stesso anno. Abulfeda dice d’essere stata presa verso l’aprile dell’852.



110 ... opes, quae excogitari haud possunt, invenere Moslemi. Al Novairo. Ivi, pag. 9.



111 Cron. di Cambr. Ivi, pag. 42.



112 Al Novairo, Ivi, pag. 10-11.



113 Cedreno, presso Caruso. Bibl. Hist. tom. I, p. 61.



114 ...quin et ad liberorum etiam comestiones (rem nefariam et silentio praetereundam) processimus, cum antea nec ab humanae carnis esu (heu quam horrendum spectaculum!) abhorruimus. Theodos. mon. epist., presso Caruso, ivi pag. 25.



115 Gibbon (Hist. of the decl. and fall of the R. E. Cap. LII) fa sommare, non si sa su quali dati, lo spoglio di Siracusa a 400,000 lire sterline. Cita la lettera di Teodosio monaco a Costantino porfirogenito in Vit. Basil. c. 697, pag. 190-192. Teodosio dice: Mille milliers nummum. Non ho avuta per le mani l’opera di Costantino. Più sobrio, Al Novairo (Hist. Afric.) dice: Ibi tantum praedae fuit, quantum vix in alia infidelium urbe.



116 Vedi la nota X in fine del volume.



117 Cron. di Cambr. Ivi, pag. 43.



118 «Abu Ishak Ibraim ben Ahmed... sanguinis et caedis avidissimus... eo insolentiae et crudelitatis processit, ut, non solum amicos familiares, et aulae principes necaverit, sed etiam filias, octoque fratres, quos habebat, sua ipsamet manu trucidaverit (Al Kattib. presso Gregorio, ivi, pagina 95).» Pure Abulfeda (Ivi pag. 75 dice: «Celebratur ejus prudentia et munificentia pariter; omnes enim suas facultates in pios usus erogavitVeramente lo scannare le figlie ed otto fratelli non pare atto di prudenza e munificenza.



119 Cron. di Cambr. Ivi pag. 43.



120 Abulfeda, ivi, pag. 75. Vedi la nota XI in fine del volume.



121 Al Novairo (Ivi pag. 12-13) dice che Korab restò ucciso nello stesso anno 911, dopo 11 mesi di governo. Ma la Cronica di Cambridge (Ivi pag. 44-45) dice ch’egli ebbe il governo nel 913, nel luglio del 914 venne fuori coll’armata e bruciò le navi affricane; nel 915 la sua armata perì in un luogo detto Alayanh; nel luglio del 916 fu deposto e relegato in Affrica, ove morì egli ed il figlio.



122 Cronic. di Cambr., ivi.



123 Al Novairo, ivi pag. 13.



124 Cron. di Cambr. ivi, pag. 46.



125 La cronica di Cambridge (Ivi, pag. 47) ed Al Novairo (Ivi, pag. 14) sono d’accordo nel narrare l’alluvione: Ma la prima lo dice avvenuto nel 935, l’altro nel 929. La prima dice che ciò accadde in Palermo; l’altro, in Sicilia. Intorno al tempo ho seguito la cronica, che, notando gli avvenimenti d’anno in anno, è da tenersi più esatta nella cronologia. Ma l’essere stato quel fatto tale da essere registrato dagli storici, mi porta a crederlo generale anzi che locale.



126 Cron. di Cambr. ivi, pag. 48.



127 Al Novairo, ivi, pag. 15.



128 Cron. di Cambr., ivi, pag. 49.



129 Abulfeda, ivi pag. 80. Sheaboddin, pag. 59. Abulfeda dice che l’assedio di Girgenti bastò presso a cinque anni. La guerra, non l’assedio durò tanto.



130 Cron. di Cambr., ivi.



131 Cron. di Cambr. ivi, pag. 49-50.



132 Sheaboddin, ivi, pag. 60. Abulfeda, ivi, pagina 82.



133 Cedreno lo chiama Phatlumus, forse alterato da Fatimida.



134 Cron. di Cambr., ivi, pag. 50.



135 Al Novairo, ivi pag. 16, e seg.



136 Al Novairo, ivi pag. 19.



137 Lo stesso, ivi.



138 Al Novairo (Ivi, pag. 20), dice che Giaber ebbe il diploma d’emir. Ma Sheaboddin (ivi, pag. 61) dice: sine mandato et praecepto Chalifae Al Moezzi dominium Siciliae suscepit. L’essere stato mandato un altro emir in vece di lui, mostra che così sia ita la cosa. Ma lo storico erra nel nome del califfo. Al Moezz era gia morto da settanni.



139 Sheaboddin, ivi, pag. 61.



140 Sheaboddin, ivi, pag. 61. Al Novairo (Ivi pagina 22) dice che furono 1300 cavalli, oltre i muli ec. La differenza del numero poco monta, ma trattandosi d’armenti è chiaro che furono giumente.



141 Vedi in Gregorio (Opera citata) l’ultima dissertazione: De viris literatis apud Arabos siculos, pag. 233.



142 Pugnate contra eos, qui non credunt in Deum, neque in diem novissimum, et non probihent id quod proibent Deus et legatus ejus... donec persolvant tributum. Sur. IX, ver. 30.



143 Vedi in Gregorio (Op. cit.) la dissertazione Siciliae Geographia sub Arabibus.



144 Jam vero in urbem secedentes, tum demum comperimus convenarum ac civium multitudinem juxta famam illius, nihilque imparem opinioni nostrae fuisse: illuc enim universum saracenorum genus confluxisse putares a solis ortu et occasu, ab aquilone et mari... Unde in tanta incolentium colluvie homines coangustati in circuitu aedes struere et habitare incoeperunt, adeo ut permultas adjacentes urbes posuerint primariae. Epist. mon. Theod. apud Caruso, op. cit., T. I, pag. 29.



145 Presso Gregorio (Op. cit.) pag. 116.



146 Vedi la nota X in fine del volume.



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