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SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA] CAPITOLO XVII. I. Origine de’ Normanni — II. Prima loro venuta in Puglia. — III. Tancredi conte di Altavilla: i suoi figliuoli vengono in Puglia. — IV. Spedizione di Maniace in Sicilia. — V. Battaglia di Troina. — VI. Stato dell’Italia nell’XI secolo. — VII. Vittorie de’ Normanni in Puglia. — VIII. Guerra con papa Leone IX. — IX. Concessione della Puglia e della Calabria. — X. Prime imprese di Roberto Guiscardo. — XI. Arrivo di Rugiero: sue azioni in Calabria. — XII. Resa di Reggio e di Squillaci. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I. — Verso la metà del IX secolo un’orda di audaci corsali, mossi da’ lidi della Scandinavia, vennero ad invadere quella parte di Francia, che al di sopra della Brettagna, sta di fronte all’Inghilterra, e Neustria allora si chiamava. A costoro fu dato il nome di Normanni, che nelle lingue teutoniche suona uomini del settentrione; e Normandia indi in poi fu per essi chiamata la provincia invasa. Dopo lunga ed inutile resistenza, Carlo il dappoco, che allora regnava in Francia, concesse nel 912 a Rollone, capo della masnada, la provincia in feudo, la figlia Gisele in moglie, a patto che, una co’ suoi compagni, adottasse la religione cristiana e si dichiarasse, per se e suoi successori, vassallo della corona di Francia.
Accettato il partito, adempite le condizioni, Rollone, che nel ricevere il battesimo ebbe nome Roberto, primo duca di Normandia, tenne per se parte delle terre della provincia, e, come portavano i tempi, parte ne concesse alle chiese e parte a’ suoi commilitoni, divenuti suoi vassalli. Il clima più temperato, la religione più caritatevole, i costumi più socievoli de’ Francesi, con cui i Normanni cominciarono a stringer legami d’ogni maniera, e da cui presero la religione, la lingua e le civili consuetudini, senza snervare il coraggio natìo o fiaccare l’estrema forza de’ corpi loro, molcirono la primitiva loro ferocia.
II. — Entrava l’undecimo secolo, quando quaranta cavalieri di quella nazione, reduci, come taluno dice, da un pellegrinaggio in Gerusalemme, vennero in Puglia a visitare il santuario sul monte Gargano. Era ivi un Melo, gentiluomo nato in Bari da lombarda famiglia, il quale aveva levata una sommossa contro il governo bizantino; tradito dai suoi, era fuggito ed andava per la Puglia, accattando genti e soccorsi per una nuova sollevazione. Il franco portamento di quei venturieri oltramontani fece a lui sperare d’averli a compagni; nè la sua speranza andò fallita. Coloro, che andavano in cerca di santuarî e dì preda, accettarono il partito proposto loro dal Melo; promisero di ritornare l’anno appresso con più numerosa compagnia; e tennero la promessa. Venuti in maggior numero, per non dar sospetto, a piedi, inermi, in abito di pellegrini, furono da Melo provvisti d’armi e di cavalli; ed uniti alla gente levata nel paese, invasero la provincia soggetta al greco impero. L’imbelle catapano, che comandava in quelle parti, fu in più incontri sconfitto; in poco d’ora Melo venne signore di quasi tutta la Puglia. Non guari andò che un Bojano, nuovo catapano, raccolta altra gente, venne incontro all’usurpatore. Nello stesso campo di Canne, famoso per la strage de’ Romani, toccò ai Normanni non meno funesta rotta. Di dugentocinquanta, che erano, solo dieci camparono la morte. Melo, perduta la battaglia, fuggì in Germania per chiedere soccorsi all’imperatore Arrigo II; ma la morte pose fine alle sue imprese nel 1020.
Nello stesso anno od in quel torno, un Goffredo Diengot, che alcuni chiamavano Osmondo, gentiluomo normanno, profugo per avere ucciso in duello un cavaliere caro al duca Riccardo II, venne con quattro de’ suoi fratelli ed altri compagni a cercar ventura nella bassa Italia. Papa Benedetto V istigava quel drappello a rivolgersi contro i Greci, i quali dopo la vittoria di Canne si erano inoltrati nel principato di Capua e minacciosi si accostavano allo stato romano; perocchè gl’imperatori bizantini, che si tenevano i soli imperatori romani, chiamavano usurpazioni l’impero d’occidente, tutti gli stati indipendenti che si erano eretti nelle provincie divelte dal romano impero e soprattutto lo stato e l’autorità temporale de’ papi, malgrado le donazioni che questi vantavano. Ma il Diengot ed i suoi compagni, che miravano solo ad arricchirsi a spese degl’Italiani, si misero al servizio d’alcuno de’ piccoli principi che regnavano in quelle parti; passando or da questo or da quel lato, per tener sempre vive quelle dissidie, dalle quali traevan civanza (147). Così nel 1026 combatterono per Pandolfo I principe di Capua contro Sergio III duca di Napoli, che fu cacciato dal soglio; nel 1029 passarono al servizio di questo contro di quello, e loro venne fatto cacciare i Capuani da Napoli; per lo che il duca Sergio concesse loro di fabbricare sulle rovine dell’antica Atella una nuova città, che per essi fu detta Aversa-normanna e Rainulfo loro capo (forse Osmondo era morto) ne fu il primo conte. Presto la città crebbe; perocchè da tutte le parti d’Italia e d’oltramonti cominciarono a corrervi venturieri e profughi, i quali si conformavano alla maniera di vivere de’ Normanni; ne adottarono la lingua; e Normanni erano chiamati (148).
III. — Si distingueva allora fra’ barone di Normandia Tancreti conte di Altavilla, piccolo castello ne’ dintorni di Cutances. Era costui di tal cuore e di tal possa, che un giorno, trovandosi a cacciare col duca Riccardo II, un enorme cignale a lui s’avventò; ed egli diresse alla fronte della fiera una stoccata sì franca, che la spada, rotto l’osso frontale, tutta dall’elsa in fuori l’entrò in corpo (149). Vedovo mentre era ancor giovane, era passato alle seconde nozze; e dalle due mogli aveva avuto dodici figliuoli: Guglielmo, Drogone, Unfredo, Goffredo, Serlone, Roberto, Malagerio, un’altro Guglielmo, Alveredo, Umberto, Trancredi e Ruggiero. La rendita della piccola terra di Altavilla, antico retaggio de’ suoi maggiori, mal corrispondeva alla numerosa famiglia del conte. E, perchè in quella età ed in quella gente il cuore e la spada aprivano una strada sicura alla fortuna, all’armi educò i figli suoi, e tutti ben risposero all’esempio ed all’educazione del padre; tanto che i primi tre, Guglielmo, Drogone ed Unfredo, visto che non era da sperar fortuna nel paese natale, per esser Guglielmo dalla lunga spada, duca di Normandia, allora in pace co’ suoi vicini, saputo d’aver trovato onorevole stanza nella bassa Italia gli altri loro concittadini, raccolta una mano di venturieri, vennero in Puglia.
Erano allora in guerra Pandolfo V principe di Capua e Guaimaro IV principe di Salerno; i figliuoli del conte d’Altavilla si diedero a servire il primo, il quale col loro ajuto era giunto a sottomettere quasi tutto lo stato del salernitano, quando i Normanni, seguendo la scaltra politica de’ primi, passarono al servizio di Guaimaro, che con quella giunta di forze riprese il perduto, ed obbligò il capuano a chieder pace (150). Pur, comechè il principe di Salerno, grato del servizio a lui reso da que’ cavalieri, li avesse beneficati, forse perchè eglino tenevano la ricompensa inferiore al servizio; ed abusando della loro prevalenza, altre concessioni chiedevano; in breve divennero infesti a quel principe, il quale cominciò a pensare al modo di disfarsene. Nè guari andò, che a lui venne ad offrirsene un bel destro.
IV. — Michele Paflagone, che sedeva allora sul trono di Costantinopoli, incuorato dalle scissure de’ Saracini siciliani e forse invitato da alcuno di essi, concepì speranza di riacquistare la Sicilia. E però diede ordine a Giorgio Maniace, che per lui comandava in Puglia ed in Calabria, di riunire quel maggiore armamento che poteva, per invadere l’isola. Maniace assoldò Greci e Lombardi in gran numero; e, perchè conosceva per fama il valore dei cavalieri Normanni, ch’erano al servizio del principe di Salerno, a lui, che alleato era dell’imperatore, chiese il soccorso di quella schiera. Il principe con lieto animo il consentì; con maggior piacere vi assentirono i Normanni, perchè conoscevano di essere già invisi al principe, e perchè più larga via lor si apriva alla fortuna, la quale loro veniva confermata dalle generose promesse di guiderdone, che loro faceva il Greco.
Riunito l’esercito in Reggio, valicato il faro, si accostò Maniace a Messina. I Saracini, usi già da lung’ora a vedere i Greci venire in Sicilia solo per chieder pace o recare tributi, maravigliarono dell’insolito ardimento; e per farneli pentire, vennero fuori della città quanti ve n’erano, e li assalirono. I Greci non tennero l’urto; e già cominciavano a volgersi in fuga, quando la schiera dei Normanni, visto il pericolo, si mosse con tal gagliardia che i Saracini conobbero di avere a fare con altre braccia che quelle de’ Greci non erano. Ne furono sgominati e si diedero a fuggire in rotta verso la città. Ma i Normanni l’incalzavano in modo, che confusi con essi entrarono in Messina. I Saracini, inabili a resistere ai Normanni, che già eran dentro, ed ai Greci che, ripreso cuore, correano all’assalto, resero la città.
Manhicc, conosciuto per prova il valore dei Normanni, cominciò ad onorarli più di prima, e fidato nel loro ajuto, venne fuori di Messina ed a Siracusa si diresse. Cammin facendo sottomise quelle città, che non opposero resistenza. Lo scopo del generale greco, per quanto appare, era quello di incontrare i Saracini in campal battaglia, prima di sprecare il tempo e le forze nell’assedio delle fortezze. Il comandante di Siracusa, che i Saracini dicevano Al Kaid (151), era un bastracone di tal cuore, che nessuno, che gli veniva contro, solea andarne illeso. Come vide costui avvicinarsi l’esercito greco, venne fuori della città con tutta la sua gente e l’attaccò. Non era fra’ Greci alcuno, che poteva stare a fronte del saracino; e però le prime schiere furono di leggieri disperse. Il prode Guglielmo d’Altavilla, che per la sua valentia era soprannominato Braccio di ferro, visto il franco menar di colpi del saracino, arrestata la lancia, a lui si fe’ contro. Con impeto pari i due guerrieri si mossero, ma il colpo del saracino non fece dar crollo al normanno dall’arcione, ovechè la lancia di questo entrò al petto e riuscì alla schiena di quello. Allibirono i Saracini a quel colpo e più che di pressa rientrarono in città.
V. — Maniace sì diresse allora a Troina, ove i Saracini avevano raccolto un esercito, se è da credere al Malaterra, di sessantamila combattenti. Cinquecento Normanni, ch’erano assai avanti degli altri, come videro i nemici, da loro soli li assalirono; ne uccisero in gran numero; fugarono gli altri; ed inseguendo lungo tratto compirono la rotta. Splendida vittoria, ma è da credere, come dice Gibbon (152), che la penna dello storico v’abbia avuto ugual parte che la lancia de’ Normanni. Più sobrio l’anonimo (153) dice essere stati i Saracini quindicimila.
Sopraggiunti i Greci sul campo di battaglia, mentre i Normanni inseguivano i Saracini, si diedero a saccheggiare le tende e le bagaglie abbandonate da quelli, ed a predare tutto il bestiame, che in que’ dintorni era. Divisero fra loro lo spoglio, senza metterne in serbo alcuna parte pe’ Normanni, che soli avevano riportata la vittoria. Mal patirono lo affronto e l’ingiustizia que’ prodi. Era fra essi un Arduino, cavaliere lombardo (chè assai di que’ Lombardi, che allora vagavano per l’Italia in busca di ventura, a’ Normanni s’erano uniti) e, perchè costui sapeva la lingua greca, serviva a’ Normanni d’interprete e fu da essi spedito al supremo comandante Maniace per querelarsi dell’oltraggio. Forse a Maniace tenne altero il linguaggio, conveniente a guerrieri vincitori e mal sodisfatti; e forse ancora il greco, che era entrato in timore che i Normanni non volessero combattere per essi più che per altri, voleva attaccar querela con loro, tenendo facile, disfatto l’esercito saracino, torre in mezzo quel pugno di guerrieri e metterli a morte o in catena. Fatto fu che di suo ordine Arduino fu scudisciato per lo campo e per maggior contumelia gli pelò la barba.
Non erano i Normanni gente da tollerare in pace l’affronto. Volevano correr diviati alle armi. Ma il sagace Arduino consigliò loro di dissimulare l’oltraggio, per trarne poi più tarda, ma più clamorosa vendetta. Continuò a mostrarsi amico di Maniace e de’ Greci, come se nulla non fosse accaduto; e questi continuavano a promettere larghe ricompense, mentre ridevano loro in bocca. Ma non guari andò che pagarono il fio della loro perfidia. Arduino, come non paresse suo fatto, chiese il congedo di recarsi per alcun tempo in Italia; avutolo egli ed i Normanni nottetempo scantonarono. Privi di un tale ajuto, i Greci assaliti dai Saracini, che nuova gente chiamarono dall’Affrica, furono cacciati dall’isola colla stessa rapidità, con cui s’erano inoltrati (154). Al tempo stesso i Normanni, rivalicato il faro, invasero le provincie del continente; e tale era lo stato di quel paese che vi trovarono più presto ajuto che resistenza.
VI. — I Lombardi, ossia Longobardi, che nel sesto secolo invasero l’Italia, avevano estesa la loro dominazione dalle Alpi al lido di Reggio. Ma il paese conquistato non restò unito, nè direttamente soggetto a’ re Lombardi. Una gran provincia era restata all’impero d’oriente, la quale, per essere governata da un’esarca, che risiedeva in Ravenna, fu chiamata esarcato di Ravenna. A quello impero aderivano la nascente repubblica di Venezia, la provincia romana, e le repubbliche di Napoli e di Amalfi. Tutto il paese poi dai Lombardi sottomesso, oltre a ciò che propriamente chiamavasi regno di Lombardia, di cui Pavia era la capitale, era diviso in tante piccole signorie, secondo le concessioni di distretti o provincie, fatte dai primi re ai più potenti dei loro commilitoni. Indi erano venuti i duchi di Brescia o Bergamo, di Turino o di Pavia; e più potenti fra tutti, i duchi poi principi di Benevento, il cui dominio si estendeva da Capua a Taranto.
Carlo Magno aveva conquistato nell’VIII secolo tutto il continente italiano fino a Roma. Forzati i passi delle alpi, stretta d’assedio, Pavia, Desiderio, ultimo de’ re Lombardi, dopo due anni di resistenza, avea dato al conquistatore la città, sè e ’l suo regno. D’allora in poi i Lombardi, che sotto la straniera dominazione conservarono le leggi e le consuetudini loro, date alle civili abitudini, eran venuti crescendo in ricchezza. Le città dell’alta Italia avean saputo avvantaggiarsi della debolezza dei successori di Carlo Magno, avevano esteso i privilegi municipali concessi da quegli imperatori, e dopo tante perturbazioni eran surte le repubbliche italiane del medio evo.
Lo stesso conquistatore e Pipino suo padre aveano fatto dono alla chiesa romana dell’esarcato di Ravenna, in merito d’aver papa Zaccaria, a richiesta dello stesso Pipino, condannato l’infelice Childerigo, ultimo re di Francia de’ Merovingi, a finire i giorni suoi in un chiostro, ed esaltato al trono Pipino e Carlo suo figliuolo stipite dei Carolingi. Il mondo vide allora per la prima volta il vescovo di Roma divenir signore di provincie; e per la prima volta il caso di Francia fece nascere l’idea, che per secoli prevalse e di tanti scandali fu cagione d’avere Roma riacquistato sotto altra forma il funesto potere, esercitato già da’ Camilli e dagli Scipioni. di disporre a senno suo degl’imperi.
Arrequi duca di Benevento avea opposto gagliarda resistenza alle armi di Carlo, pure si sottomise alla fine, ma si sottomise da principe; conservò il suo stato, con dare un lieve tributo al conquistatore e riconoscerlo in suo supremo signore. I successori di lui s’erano col volger degli anni sottratti dalla straniera dipendenza, e quello stato si era diviso ne’ principati di Capua, di Benevento e di Taranto. E, perchè le famiglie, che li tenevano, erano sole restate degli antichi principi Lombardi, tutta la bassa Italia avea per essi nome di Lombardia.
Napoli era repubblica, governata da duchi, scelti dal popolo. E repubblica era Amalfi che per l’invenzione della bussola s’era resa celebre ed avea largamente esteso il suo commercio. Nell’880 era venuto fatto a Basilio il Macedone, imperatore di oriente coll’ajuto di Luigi III pronipote di Carlo Magno, cacciare i Saracini da Bari, ove s’erano afforzati, e riacquistare la bassa Puglia e la Calabria, che indi in poi furono rette da un catapano.
VII. — Tale era lo stato d’Italia nell’anno 1040, quando i Normanni vi portarono le armi. I piccoli principi di Capua, di Taranto e di Benevento, sempre in guerra fra essi, accrescevano la loro debolezza e l’indignazione dei popoli colle continue reciproche devastazioni. E gli abitanti della Puglia e della Calabria, oppressi dai Greci, depauperati dalle continue incursioni de’ Saracini accolsero come liberatori quegli stranieri, che nemici sì mostravano e di questi e di quelli (155).
Come i Normanni valicarono il faro, vennero saccheggiando tutto il Paese soggetto a’ Greci e si ridussero in Puglia; ed avendo ragione di dolersi del principe di Salerno, il quale, per allontanarli, aveva fatto loro sperare grandi ricompense, se s’univano a’ Greci, a lui non tornarono, anzi presero consiglio d’insignorirsi pria di ogni altro di quello stato. Per avere un luogo di ricovero, edificarono il castello di Melfi ed ivi s’afforzarono; ned erano allora oltre a cinquecento. Colui che pel greco impero comandava in quelle parti, raccolta quella maggior gente che potè, s’avvicinò a Melfi, e mandò uno dei suoi ad intimare a’ Normanni o a sgombrare il paese, nel qual caso avrebbero avuto libero il passo, o prepararsi alla battaglia il domane. Un Ugone Tudeixfem, che de’ Normanni era, per far vedere a quel messo di non essere egli ed i suoi gente da schifar la battaglia, senza far motto, accostatosi al cavallo che bellissimo era, dell’araldo, gli diede tal pugno sulla testa che ne cadde morto, e con esso semivivo per la paura il cavaliere. Altri corsero a levar da terra il messo; un migliore cavallo gli regalarono; e, tratto il morto pe’ piedi, lo buttarono giù da un precipizio. Non fu mestieri di altra risposta. Il messo tornò al campo greco, riferì il fatto ai capitani, onde argomentassero l’estrema forza e ’l non comune ardire de’ Normanni; e quelli gli raccomandarono di non palesarlo ad alcuno, per non venir meno il coraggio de’ soldati. Ma fu vano il silenzio di colui. Il domani i Normanni capitanati da Guglielmo Braccio di ferro e da Drogone suo fratello, fatto appena giorno, assalirono i Greci, i quali non tennero l’impeto di quell’attacco. Molti ne perirono colti dalle spade normanne, ed anche più ne furono assorti dall’acque del vicino Oliveto, che nel fuggire cercavano di guadare (156).
Alto suonò per quella vittoria il nome dei Normanni. Gran parte delle città di Puglia loro si resero. Guglielmo fu riconosciuto da’ suoi commilitoni conte di Puglia. Molti dei baroni lombardi e particolarmente quelli, che presso Melfi stanziavano, si dichiararono vassalli del nuovo conte, a lui resero le città e le castella che comandavano, per lui indi in poi militarono e, perchè costoro la cedevano ai Normanni solo nella destrezza del maneggiar le armi, acquistatala sotto la disciplina loro, divennero ottimi guerrieri e molto contribuirono a’ progressi loro.
Mandò in questo l’imperator bizantino un nuovo e più numeroso esercito, di cui aveva il comando un Duceano, il quale, posto piede a terra, tirò verso Melfi, che era il centro delle forze dei Normanni. Era allora il conte Guglielmo travagliato dalla febbre quartana; ciò non di manco, come seppe che il nemico s’avvicinava, gli venne contro con tutti i suoi. Ma nel momento d’attaccar la mischia fu assalito dalla febbre, per che cesse il comando al fratello Drogone, restando egli sur un’altura ad osservar la battaglia, la quale sanguinosa ed indecisa bastò lunga pezza; perchè in tanto prevaleva il numero de’ Greci, in quanto i Normanni li vincevano in valore. Lo sdegno guerriero attutò la febbre del conte. Rimesso in sella, corse nel più folto della mischia. La sua presenza, la sua voce, il suo braccio valsero ai Normanni una giunta di forze. Duceano cadde per mano di lui, l’esercito greco fu da per tutto rotto e fugato. Quasi tutta la Puglia venne in potere del conte.
Giunta in Normandia la fama delle gloriose azioni e delle conquiste de’ primi figliuoli del conte d’Altavilla, i fratelli minori, tranne i due ultimi, che ancora non erano in età dì trattar le armi, con numeroso seguito di parenti, d’amici e venturieri, a’ primi vennero ad unirsi e tutti ebbero dal Conte castelli, feudi e signorie (157).
VIII. — Morto il conte Guglielmo Braccio di ferro, Drogone suo fratello fu salutato conte di Puglia. Una congiura in questo si ordiva dai Lombardi per mettere a morte tutti i Normanni a tradimento. Dimorava il conte Drogone nel castello di Montolio, e solea tutti i giorni sul far dell’alba recarsi in chiesa. Un Riso, che suo familiare e compare era, nascostosi con alcuni compagni in quella chiesa, come il conte vi entrò, lo uccise a piè dell’altare. Altri in altre parti furono morti; ma coloro, che restarono, ne trassero aspra vendetta. Fallito quel colpo, i lombardi chiamarono in loro ajuto papa Leone IX. E, perchè la potenza de’ Normanni cominciava a dar ombra ai romani pontefici, papa Leone s’accinse a cacciar dall’Italia quei guerrieri che avevano già esteso dominio contermine al suo; mettendo avanti la pretensione, che a lui si apparteneva il paese conquistato dai Normanni. Raccattò soldati italiani ai quali unì una schiera d’Alemanni datagli dall’imperatore Arrigo II; e con tali forze entrò in Puglia nel 1052. Seguì la battaglia presso Civitella, nella provincia di Capitanata. Gl’italiani spulezzarono al primo scontro; ma gli Alemanni stettero saldi, sì che tutti lasciarono la vita sul campo. Papa Leone, visto la totale disfatta del suo esercito, corse a chiudersi in Civitella, ove i Normanni vennero ad assediarlo, minacciando i cittadini dell’ultimo estermio, se non consegnavano il papa; e quelli ne vennero così spauriti, che lo diedero in mano degli assalitori. E non manca chi asserisca, che lo collarono giù dalle mura (158).
IX. — I Normanni accolsero il pontefice con somma riverenza; gli baciarono i piedi; chiesero la sua benedizione e ’l perdono; e, quasi servendolo lo menarono agli accampamenti. La pace presto fu conchiusa, nella quale, se è da credere agli storici di quell’età, papa Leone ebbe quel maggior prò che poteva sperare. Il conte Unfredo ebbe dal pontefice la concessione di tutto il paese da’ confini dello stato romano sino al faro; e così vennero a riconoscere quel supremo dominio universale, che i papi pretendevano avere sui regni della terra. Ma in quell’età, in cui i pubblicisti non avevano ancora annoverato la conquista tra’ titoli legittimi di possedere, i conquistatori volevano riconoscere da Dio quel dritto, che loro negavano gli uomi. E però il Malaterra dice, senza addurne veruna prova, che papa Leone concesse al conte Unfredo e suoi successori, non solo quanto possedeva in Puglia, ma quanto poteva in appresso acquistare in Calabria ed in Sicilia, che erano parte del feudo ereditario di S. Pietro (159). Il buon monaco credeva così fare apparire incontrastabile il titolo de’ Normanni; ma è smentito dalla stessa romana corte, la quale non ha messo mai avanti tale concessione della Sicilia, e dallo storico anonimo (160), il quale dice che la concessione fu da’ confini dello stato romano sino al faro.
X. — Ritornato vittorioso in Melfi il conte Unfredo, creò conti i due suoi fratelli Malagerio e Guglielmo; quello di Capitanata, questo del principato. Morto Malagerio, lasciò la sua contea al fratello Guglielmo, alla cui morte successe l’altro fratello Goffredo. Roberto, primo dei figliuoli avuti dal conte d’Altavilla nel secondo maritaggio, soprannominato Guiscardo, o sia furbo, aveva avuto dal fratello un castello in Val di Crati, per essere più vicino a Cosenza ed alla bassa Calabria non ancora sottomessa. In quell’età, in cui la forza era il solo dritto, e ’l coraggio teneva luogo d’ogni virtù, le idee degli uomini erano così pervertite, che le più ree azioni di costui sono riferite con lode dagli storici. Alla testa di una masnada di predoni calabresi, che avea sotto di se, vestito anche egli da montanaro, andava talvolta attorno per valli e per monti in busca di bestiame, onde traeva il vitto per la sua famiglia e lo stipendio de’ suoi cavalieri. Innoltratosi in Calabria era venuto a fabbricare il castello di Sammarco poco di lungi da Bisignano. Era in questa terra un Pietro di Murra, il quale, per le grandi dovizie, pel senno, pel valore e per l’alta sua statura e la gran forza, molto fra’ suoi terrieri prevalea. Spesso il Murra e ’l Guiscardo col respettivo seguito d’armati venivano a parlamento nel miluogo tra Sammarco e Bisignano. Un giorno Roberto mandò dicendo a quello di volergli parlare in gran confidenza; però proponeva di lasciare indietro i compagni ed unirsi soli al solito luogo; e così si fecero. Dopo lungo ragionare, come il Murra si alzò per accomiatarsi, il Guiscardo, nulla curando la gigantesca taglia di lui, lo agguantò, e levatolo di tutto peso, se lo recò indosso e si diede a correre verso i suoi, nè quello per lo dibattersi potè liberarsi. Accorsero i Bisignanesi in sua difesa. I soldati di Roberto li respinsero, e ’l Murra fu tratto nel castello di Sammarco e chiuso in quella prigione. Sperava il Guiscardo ottenere, in prezzo della libertà di lui, la terra di Bisignano; ma gli venne fallito il colpo; che i Bisignanesi ostinatamente si negarono; ma n’ebbe in quella vece una grossa taglia, che Murra ebbe a pagare pel suo ricatto. Con tal danaro assoldò nuove genti in Calabria, e venne dilatando il suo dominio in quella provincia. Morto in questo il fratello Unfredo, fu dai maggiorenti fra’ Normanni promosso Roberto a conte di Puglia. Con tale giunta di forze dato sesto al governo di Puglia, il nuovo conte ritornò in Calabria. S’accostò a Reggio con animo d’espugnarla; ma i Reggini non si lasciarono intimorire; però dimorato tre giorni in quelle parti, fece ritorno in Puglia.
XI. — Fu allora che venne ad unirsi agli altri Normanni in Puglia Rugiero, ultimo dei figliuoli del conte d’Altavilla. Era costui sul primo fior degli anni, bello del volto e della persona, facondo, sagace, prudente, piacevole, gagliardo e nell’armi valentissimo. Il Guiscardo, per fare esperimento del valore di lui, lo mandò con soli sessanta militi in Calabria, ove aveva a combattere i nemici a migliaja. Rugiero venne a porsi ad oste sopresso la vetta de’ monti di Bivona; per che il suo campo si scopriva a gran pezza lontano nel paese intorno. Spaventati alla sola vista di quel drappello, i Calabresi di quelle parti si sottomisero, resero le castella, diedero stadichi e tributi. Ricco e vittorioso senza combattere, Rugiero venne a trovare il maggior fratello in Puglia. Ambi tornarono coll’esercito in Calabria, per imprendere l’assedio di Reggio. Trovata sperperata tutta la contrada, Rugiero andò in cerca di preda e ne trovò a josa per provvedere di vitto l’esercito. Ciò non di manco gli assalitori per la forte resistenza dei Reggini ebbero a ritrarsi.
Comechè grande fosse stato l’ajuto che il conte Roberto avea dal fratello Rugiero, pure sia che, ingelosito delle grandi qualità di lui e dell’amore che per lui mostravano tutti i soldati, per torgli i mezzi d’insolentire, volea che stesse penurioso; sia che, naturalmente infido ed avaro, mal ricompensava i servizi altrui, Rugiero nulla potè mai da lui ottenere. L’avarizia di lui era in tanto più grave al minor fratello, in quanto, generoso come era, volea largamente donare ai suoi militi. Però allontanatosi dal fratello Roberto, venne ad unirsi all’altro fratello Guglielmo, il quale forse non meno di lui avea da dolersi di quello. N’ebbe in dono il castello di Scalea, e quindi veniva depredando il paese soggetto a Roberto. Venne questi ad assalire Scalea, e non fe’ frutto. Interpostisi amici, i due fratelli si rappacificarono. Rugiero con quaranta militi suoi ritornò al servizio di Roberto. Non però questi divenne più generoso verso di lui; intantochè fu ridotto a vivere dei ladronecci de’ suoi militi. «Ciò non diciamo» dice Malaterra «per suo disdoro; ma di ordine suo siam per iscrivere cose anche più vili e vituperevoli, acciò sia palese con quanto stento e fatica, dalla più obbietta miseria si elevò al colmo delle dovizie e degli onori (161).» Gran prova è questa della grandezza d’animo del conquistatore, nel volere che il suo storiografo registrasse tai fatti; e della veridicità ed esattezza di questo.
Aveva una volta gran mestieri di cavalli; non aveva da comprarne; ne vide di belli in una casa di Melfi; nottetempo li rubò. Le sue angustie di ora in ora crescevano; nè potendo vincere l’ostinata avarizia del fratello Roberto, dal quale, in due mesi che fu al suo servizio, null’altro che un ronzino aveva avuto, staccatosene, venne a Scalea, e si diede a devastare il paese soggetto al conte. Un di que’ dì ebbe avviso da un Berver, che alcuni mercatanti erano per passare pressa Scalea, nell’andare da Amalfi a Melfi. Con otto compagni corse sulla strada, assalì que’ meschini, li spogliò di quanto avevano, li menò prigioni. Oltre la roba ed i cavalli loro, trasse da ciò molto danaro, ch’essi ebbero a pagare per ricattarsi. Con quel danaro ebbe altri mento militi; e con essi maggiori e più spesse incursioni cominciò a fare in tutta la Puglia nell’anno, che allora correva 1058; intantochè il conte Roberto, lasciato ogni pensiero della conquista di Calabria, riunì tutte le sue forze in Puglia contro di lui.
Era in quell’anno stesso la Calabria lacerata da tre flagelli dell’ira divina; cioè, la spada dei Normanni che non perdonava ad alcuno; la straordinaria carestia; le malattie mortali, che ivi infierivano ne’ mesi principalmente di marzo, aprile e maggio. I Calabresi, ridotti alla disperazione, incuorati dalla guerra che i due fratelli acremente si facevano, si levarono in armi. Coloro stessi, che s’erano dichiarati vassalli dei Normanni, rinnegarono la fede giurata, nè vollero pagare più oltre il tributo, o prestare il servizio. Nel castello di Leocastro furono trucidati sessanta dei Normanni, che v’erano di presidio. Il conte Roberto, vistosi allora ad un pelo di perder tutto, mandò a proporre la pace al fratello Rugiero, promettendogli la metà del paese fin’allora conquistato in Calabria e da conquistarsi ivi; oltre al castello di Mileto concessogli per se e’ suoi. L’accordo tosto seguì. Rugiero, venuto con grandi forze a Mileto, represse da per tutto la ribellione de’ Calabresi. E mal ne incolse al vescovo abate di Montecasino ed al proposto di Geraci, i quali, nulla ostante il sacro loro carattere, con grosso nervo di gente vennero ad assediare il castello di Sammartino nella valle delle Saline. Rugiero, loro corse sopra; li accerchiò; pur uno non ne campò vivo od illeso. D’allora in poi tutta Calabria fu, se non doma, tranquilla.
XII. — La ribellione s’era anche comunicata alla Capitanata. Il conte Guglielmo, chiese il soccorso di Roberto, che v’andò colla sua gente e sottomise i ribelli. Fornita tale impresa, si diede col fratello Rugiero a fare i preparamenti per espugnare Reggio. Nell’estate del 1060, tutto essendo in ordine, i due fratelli colle forze loro vennero in Calabria e cinsero Reggio. I Reggini fecero da prima gagliarda resistenza. Era fra essi un tale di gigantesca statura, il quale, più audace degli altri, venne fuori schernendo i Normanni. Rugiero gli venne contro, e così bene drizzò la lancia, che al primo scontro lo passò fuor fuori. Spaventati da quel colpo e dalle macchine, che già cominciavano ad esser poste in opera, vennero a patti di resa. I due primarî fra essi, col loro seguito, ebbero libertà di andarne altrove; gli altri resero sè e la città.
Il Guiscardo, la cui potenza tanto s’era accresciuta per la presa di Reggio, che ne era divenuto assai da più degli altri fratelli, fu allora dai suoi commilitoni salutato duca di Puglia. Rimastosi egli in quella città, diede al fratello il comando di tutto l’esercito, per sottomettere quell’ultimo lembo di Calabria; e questo, espugnate le città e le castella di que’ dintorni, venne a cingere di assedio la forte piazza di Squillaci, ove si erano ritratti coloro ch’erano venuti fuori di Reggio. E, perchè conosceva che in lungo tirar doveva quell’assedio, ed i suoi soldati, stanchi già della campagna, mal ne avrebbero durata la fatica, edificato un castello di fronte alla porta della città, congedò tutti i militi, tranne quelli che mise di presidio in quel castello, che provvide del bisognevole, per impedire che alcuno entrasse o venisse fuori dalla città. Coloro che da Reggio ivi eran venuti, visti quei preparamenti, disperati d’avere altronde soccorso, imbarcatisi nottetempo, andaron via in Costantinopoli. Squillaci aprì le porte nel 1060. Ogni cosa allora in Calabria fu soggetto ai Normanni, e il giovanetto Rugiero ebbe indi in poi il titolo di conte (162).