IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA] CAPITOLO XVIII. I. Primo sbarco del conte Rugiero in Sicilia. — II. Discordie de’ Saracini. — III. Presa di Messina e di Rometta. — IV. Battaglia presso Castrogiovanni. Matrimonio del conte. — V. Guerra trai due fratelli. — VI. Sedizione di Troina. — VII. Battaglia di Cerami. — VIII. Primo assedio di Palermo. Battaglia di Misilmeri. — IX. Secondo assedio e resa di Palermo — X. Morte di Serlone. — XI. Resa di Trapani, di Castronovo, di Taormina, di Jato e Cinisi. — XII. Ultime imprese e morte di Roberto Guiscardo. — XIII. Battaglia navale presso Siracusa. Resa di Siracusa, di Girgenti, di Castrogiovanni, di Butera, di Noto. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I. — Fornita la conquista della Calabria, pose l’animo il conte Rugiero a metter piede in Sicilia. Per fare un primo esperimento, valicato il faro con soli sessanta militi, prese terra presso Messina. I Saracini, che ivi erano, sprezzando il poco numero degl’invasori, aprirono furiosamente le porte della città e loro corsero sopra. Il conte finse esserne spaventato e si volse in fuga; quelli con più calore l’inseguirono; come li ebbe tratti lungi dalla città, rivoltosi istantaneamente co’ suoi, diede loro addosso. Sopraffatti dall’impensato assalto, i Saracini si diedero a fuggir da vero; ma, tanto lontani erano dalla città, e il conte l’incalzava tanto, che pochi giunsero a mettersi in salvo entro le mura. Degli altri, i più vi lasciarono le armi ed i cavalli, molti la libertà, non pochi la vita. Lieto della riuscita dell’impresa, rimbarcatosi colla preda e’ compagni, il conte fece ritorno in Reggio e si diede a fare i necessarî appresti per un’altra spedizione.
II. — Pur comechè non piccolo fosse stato il numero e straordinaria la valentìa de’ Normanni, l’impresa non sarebbe stata lieve, se le scissure dei Saracini non avessero depresse le forze loro e dato luogo ad un caso che aprì il varco al conquistatore ed a lui fu di grande ajuto. Fra gli ottimati, che in varie città dell’isola avevano usurpata la suprema potestà, era un Ben al Themanh, il quale, insignoritosi da prima di Siracusa, aveva poi di forza presa Catania, ucciso Ben al Kelabi, che ne stava al governo; ed a tanta potenza era giunto, che per lui si facevano pubbliche preci, ch’era appo i Saracini distintivo di sovranità. Aveva costui sposata la Meimunh, vedova di al Kelabi, sorella di Al Kaid Alì ben Naamh, soprannominato Ebn al Huash, signore di Castrogiovanni, Girgenti e Castronuovo. Un dì venuto a bastola colla moglie, caldo di vino, adizzato dalle pungenti parole della linguacciuta donna, tanto imbizzarrì, che le fece aprir le vene, per farla morire. Ibrahim suo figliuolo corse a chiamare i chirurghi, che fermarono il sangue e richiamarono la donna in vita. Il domane, freddata l’ira, digerito il vino, Ben al Themanh si pentì del fatto, chiese perdono alla donna, la quale mostrò dimenticare l’offesa. Dopo alcun tempo disse al marito volere recarsi per pochi giorni appresso il fratello; e quello, non solo il consentì di buon’animo, ma la mandò con ricchi presenti. L’altera donna, che non avea sgozzata l’ingiuria, narrò il fatto al fratello e dichiarò di non volere mai più ritornare al marito e ’l fratello le promise di non rimandarla; e quando il cognato mandò per la moglie, apertamente si negò a renderla. Eserciti l’uno e l’altro accamparono; quello per riavere di viva forza la moglie, questo per respingerlo. Ben al Themanh s’accostò a Castrogiovanni, ov’era il cognato. Questi venne fuori ad incontrarlo. Ostinata fu la battaglia. L’esercito di Ben al Themanh fu rotto e disperso. Accecato dalla rabbia e dal desiderio della vendetta, venne a trovare il conte Rugiero in Reggio; lo stimolò ad imprendere la conquista dell’isola; gli si offrì compagno nell’impresa (163).
Con lieto animo accettò il conte l’offerta del saracino. Messosi in mare nell’ultima settimana di carnovale del 1060, con centosettanta militi e Ben al Themanh, prese terra presso Messina e tirò verso Milazzo. Era notte; un fratello di Ebn al Huash si mise in guato sulla strada, con animo di mettere a morte Rugiero. Il conte precedeva i suoi, senz’altra armatura che lo scudo e la spada; fra l’ombre vide un’uomo a cavallo, che a lui, come di furto, s’accostava; senza perder tempo a chiedere le altre armi allo scudiero, che lo seguiva, corse sopra quel ribaldo, e con un solo ruvescione lo tagliò netto nel cinto, sì che la parte superiore andò giù, l’altra restò ad inforcar gli arcioni. Donato ad uno dei suoi il cavallo e le armi del morto, venne depredando il paese sino a Milazzo e Rometta; e quindi tornò al faro, per rimbarcarsi colla preda.
La preda era già sulle navi; il vento contrario fece soprastare ad imbarcarsi i guerrieri. I Saracini di Messina, ingannati da ciò, credettero che parte della banda del conte era in mare; e però vennero fuori, sicuri di combattere solo con parte de’ Normanni. Come li vide, il conte mandò il valorosissimo suo nipote Serlone ad attaccarli da un lato; onde non potessero salvarsi colla fuga; egli stesso con tutta l’altra gente, loro corse incontro dall’altra. Pur uno dei Saracini non restò in vita o libero.
Ottenuta la vittoria, s’accostò il conte a Messina credendo di trovarla indifesa: ma trovò che fin le donne erano sulle mura, risolute a fare gagliarda resistenza; però si ritrasse. Voleva celeramente ripassare in Calabria, per non dar tempo ai Saracini di que’ dintorni d’accorrere; ma il mare tempestoso nol consentiva. Fece allora voto di destinare la preda a riedificare la chiesa. di S. Andronio presso Reggio. Il mare s’abbonacciò (e Malaterra che fa fare ai santi miracoli a posta sua, lo ascrive a S. Andronio); il conte co’ suoi ritornò salvo in Calabria.
III. — Stettero il conte e ’l duca i mesi di marzo ed aprile a raccorre genti, e navi, l’uno in Calabria e l’altro in Puglia, per la grande spedizione di Sicilia. Ne’ primi giorni di maggio del 1061 (164) l’esercito era già riunito, e le navi erano pronte nell’estremo lido di Calabria, ove lo stretto è più angusto; ma vi trovarono non lieve ostacolo. I Saracini di Palermo avvertiti dalle due prime corriere del conte, che le sue mire erano dirette contro la Sicilia avevano mandata un’armata nel faro, per impedire i passaggio ai Normanni. I nemici eserciti stavano a guardarsi dalle opposte rive; l’armata saracina sorgeva nel mare frapposto. L’astuto Rugiero disse al fratello di restar lì colla sua gente, per tenere a bada i nemici; egli con trecento militi scese a Reggio, vi procurò altre barche e, salitovi su, nottetempo valicò il faro (165) e corse sopra Messina. I Messinesi, spaventati dal subito apparire di quella schiera, non potendo opporre difesa; perchè il fiore della gioventù atta all’armi era perito non guari prima, s’arresero. Entrato Rugiero in città, ne mandò le chiavi al fratello. L’armata saracina, visto che lo stare ancora in quel mare, era, non che inutile, pericoloso, essendo in potere de’ Normanni il porto di Messina, si ritirò in Palermo. Il duca Roberto col resto dell’esercito, venne senza contrasto a Messina.
Un avvenimento riferisce il Malaterra assai degno di nota; perchè mostra ove giungeva la nimistà fra la gente di diversa fede. Era frai Saracini di Messina un giovane di nobile nazione, che aveva una sorella bellissima sul primo fiore degli anni, da lui tenerissimamente amata. All’entrare dei Normanni fuggì a piedi, seco menando la sorella. Non usa la vergine allo strapazzo, agitata dal timore, corso alquante miglia, venne meno di stanchezza. La paura che la sorella potesse o essere astretta a cambiar di fede, o esser violata da un cristiano, estinse nel fratello ogni senso di pietà. Di sua mano l’uccise; e poi si struggeva in lagrime nel darle gli ultimi amplessi.
Dimorato otto giorni in Messina per dar ordine al governo ed alla difesa della città, lasciatovi buon presidio, si vennero i due fratelli accostando a Rometta. I Saracini, che colà erano, fatto senno dal male, che n’era incolto a quei di Messina, che erano venuti fuori per combattere i Normanni, resero la città di queto e si sottomisero al nuovo governo.
IV. — Venuti poi i conquistatori ne’ campi di Maniace, loro vennero incontro tutti i cristiani che abitavano il val di Demona, portando loro doni e soccorsi. Quindi vennero a Centorbi; ma i Saracini di quella città non si lasciarono intimorire; per che i due fratelli non vollero sprecare la gente loro in quell’assedio, mentre già sapevano che un grosso esercito saracino loro veniva sopra. Si ritirarono e vennero ad accamparsi nelle pianure di Paternò, ove credevano poter combattere con vantaggio. Ben al Themanh che fedele alla sua promessa, accompagnava il conte in quella spedizione, seppe dagli esploratori da lui spediti, non essere ancora raunato l’esercito saracino; però i Normanni s’avanzarono sino ai mulini, ch’erano lungo il fiume che scorre dal lago di Castrogiovanni (166). Qui sopraggiunse l’esercito saracino, forte di quindicimila uomini. Non erano i Normanni più che settecento; pure tale era la prevalenza delle armi e del valor loro, che i Saracini, sgominati al primo impeto, si volsero a fuggire in rotta verso Castrogiovanni; ed i cristiani nell’inseguirli ne uccisero (dice Malaterra) diecimila. Lo spoglio fu tale che, per un cavallo perduto nella battaglia, dieci n’ebbe ogni cavaliere.
Dopo la vittoria vennero il conte e ’l duca colla gente loro a fermarsi sul monte di Calascibetta. Rugiero ivi a pochi giorni ne partì con trecento cavalieri e venne mettendo a fuoco ed a ruba tutto il paese sino a Girgenti. Non era allora altra maniera di guerregiare, che la devastazione; nè altro modo di vettovagliare gli eserciti, che il saccheggio. Ricco di prede, tornò al campo di Calascibetta.
L’inverno in questo s’avvicinava. Era già un mese che l’esercito cristiano stava ad infestare i dintorni di Castrogiovanni, senza che quella città desse alcuna speranza di resa. Però i due fratelli, lasciato buon presidio in Messina, fecero ritorno, il conte in Calabria il duca in Puglia. Restò a continuar la guerra Ben al Themanh, che da Catania, a lui soggetta, veniva portando le armi nel circostante paese. L’infaticabile Rugiero dopo la metà di dicembre ritornò con dugento cinquanta militi in Sicilia; fece una seconda escursione sino a Girgenti. I cristiani di quelle parti in folla gli venivano, incontro, lo festeggiavano, per quanto era in loro, lo favorivano; quindi venne a Troina. Era la città popolata di cristiani, che con lieto animo l’accolsero. Vi si fermò; e vi celebrò le feste di Natale. Ivi venne a trovarlo un messo, speditogli, da Roberto, abate di S. Euffemia, il quale gli mandava dicendo d’esser egli arrivato in Calabria colla Delicia sua sorella, fidanzata allo stesso conte. Era essa bellissima e di gran sangue; chè scendeva dai duchi di Normandia; però Rugiero senza por tempo in mezzo venne in Calabria e con gran pompa solenneggiò le nozze in Mileto.
Non anneghittì per questo il conte dopo pochi giorni, lasciata la moglie in Calabria, tornò in Sicilia; chiamò a se Ben al Themanh, e colle loro forze unite vennero ad assediar Petralia. Vi abitavano saracini e cristiani, i quali di comune accordo s’arresero e si dichiararono a lui soggetti. Muniti di presidio e di vettovaglia i castelli di Petralia o di Troina, lasciato a combatter per lui Ben Al Themanh, tornò il conte in Calabria, ove nuovi incidenti a lungo lo trattennero.
V. — Comechè il duca Roberto avesse ceduto a Rugiero una metà della Calabria, pure la cessione non aveva mai avuto luogo nel fatto per le versuzie del maggior fratello. Talmentechè Rugiero, dalla città di Mileto in fuori, null’altro possedeva. Ritornato da Sicilia, chiese egli stesso al fratello l’adempimento del patto; ne lo fece chiedere dai più distinti personaggi. Il furbo Roberto costantemente si negò; per che Rugiero se ne staccò bruscamente; venne a Mileto e si preparò a far valere coll’armi la sua ragione. Pure, per fare che il solo Roberto avesse l’odiosità di quella guerra fraterna e fosse il primo aggressore, stette a badare quaranta giorni ch’era in quei dì il termine che si dava al cominciamento delle ostilità.
Il duca venne con grande forze ad assediare Mileto nel 1062. Si trovava allora Rugiero in Geraci travagliato dalla febbre, cagionata dall’aria malsana della città. Tutto ammalato che era, s’armò, venne incontro all’esercito di Roberto ed impedì, ch’egli potesse fermarsi sul monte di sant’Angeto e sul monte verde, onde poteva nuocere alla città. Erano i due fratelli giovani del pari e del pari mastri di guerra; però l’assedio tirò in lungo. In una sortita fatta dalla gente del conte perdè la vita Arnoldo fratello della contessa, giovane di gran valore, di che assai dolse a tutti e più d’ogni altro alla sorella. Per istringere maggiormente la città, Roberto edificò due forti dagli opposti lati di essa e li munì d’armi e d’armati. Sperava egli che quella molestia obbligasse finalmente il fratello, alla resa. Ma la molestia tornò in suo danno. Il conte veniva fuori ad assaltare quello de’ due forti, in cui sapeva non essere il fratello; questo v’accorreva; ed egli, passando per la città, veniva ad assaltare l’altro; e con tali gangheri faceva logorare inutilmente le forze di Roberto.
Una notte Rugiero uscì con cento militi da Mileto e venne a Geraci. I Geracesi lo accolsero in città. Avevano eglino giurata la fedeltà a Roberto; ma non gli avevano mai dato il dominio della città, per paura ch’egli non vi edificasse alcun castello e li riducesse così in servitù, comechè avesse il duca giurato di non edificar mai il temuto castello. Come seppe Roberto che Geraci s’era data al fratello, lasciato il necessario presidio ne’ due forti di Mileto, corse col resto delle sue genti ad assediare Geraci. Era nella città un Basilio, primajo fra i cittadini, amico del duca; però, durante l’assedio, lo invitò a pranzo. Il duca, che forse cercava per tal mezzo di riavere la città vi si recò travestito. Un domestico palesò l’esser egli in città. Il popolo furioso trasse in quella casa, chiedendo d’aver consegnato il duca. Basilio volle fuggire in una chiesa vicina; ma prima di arrivarvi fu ucciso. Morte più crudele ebbe la donna sua (167), e ne andò della vita a tutti coloro, ch’erano in voce di parteggiare pel duca. Questi, come fu preso, tanto disse, e dissero tanto gli uomini più assennati della città, che il popolo s’indusse a metterlo in carcere per serbarlo a più matura vendetta. I suoi capitani saputo il caso, non avendo altro mezzo di salvarlo, si diedero nelle mani di Rugiero, cui narrarono l’accaduto. La generosità estinse il cruccio del conte. Corse a Geraci; si mostrò irato più che mai contro il fratello; disse volerlo nelle sue mani, per vendicare i torti suoi; pregò; minacciò; l’ebbe. Libero Roberto, abbracciò il fratello, promise l’adempimento della pattuita ripartizione della Calabria. Un’incidente riaccese la guerra. I soldati del conte, saputa la prigionia del duca, ignari del seguito accordo, vennero fuori di Mileto, assalirono i due castelli, posti dal duca, l’espugnarono, ne demolirono uno, trassero prigioni tutti coloro, che v’erano di presidio. Al tempo stesso la duchessa, creduto morto il marito, fuggì a Tropea. Il duca bistorto in cuore, montò in bizza, dimenticò il segnalato beneficio del fratello, non volle più sentir parola di pace; comechè Rugiero, per togliere ogni ragione di querela, avesse rimandato liberi i prigioni e restituito i castelli dalla sua gente espugnati. Si tornò all’armi. Venne fatto a Rugiero soprapprendere il castello di Messiano; piazza fortissima, che apriva il varco a tutta la Calabria, la quale altronde inchinava alle parti del minor fratello. Fu forza a Roberto venire a patti. I due fratelli convennero in Val di Crati; e sur un ponte, che conservò il nome di Guiscardo, fu recata ad effetto la contrastata divisione della Calabria.
Il duca fece ritorno in Puglia, Rugiero si mise in possesso del paese a lui assegnato; e si diede a provvedere il bisognevole per la guerra di Sicilia. Era la città di Geraci in Calabria restata divisa fra’ due fratelli, Rugiero diede mano a costruire un castello nella sua parte. I Geracesi misero avanti il giuramento fatto da Roberto. Rispose il conte, che quel giuramento poteva valere per la mezza città del duca; egli, che non aveva giurato, potea fare quel che volea nella sua metà. Inabili ad usar la forza, quei cittadini ebbero a pagare una grossa taglia, per distogliere il conte dal proponimento. Con quel danaro provvide i suoi di armi e di cavalli, e con trecento militi fece ritorno in Sicilia.
Gravi perturbazioni erano nate, durante la sua assenza, nell’isola. Ben Al Themanh, per estendere la conquista, molte città aveva indotte a riconoscere il dominio del conte e veniva molestando quelle che si negavano. S’era accostato ad un castello, che il Malaterra chiama Antulio od Antelio, il quale, già tempo era stato a lui soggetto. Vi comandava un Nichel, che sotto di lui aveva militato. Costui gli mandò dicendo di recarsi con pochi compagni in un sito, ch’egli disegnò, ove sarebbero convenuti i primarî fra gli Antuliesi, per trattare della resa. Ben Al Themanh, che molto aveva beneficato que’ cittadini senza sospetto venne al luogo assegnato. Come vi giunse, fu accerchiato dagli Antuliesi, che s’erano ivi posti in guato, e messo a morte. Coloro, ch’erano restati di presidio in Petralia e Troina, mancato il comandante lasciato dal conte, temendo d’essere sopraffatti da tutti i Saracini dell’isola, vennero a riunirsi ai loro compagni in Messina.
VI. — Il conte Rugiero venne a Troina, menando seco la moglie. Era quella città popolata di cristiani di rito greco; e, più che di rito, erano greci d’indole e di fede. Accolsero da prima il conte con lieto viso; ma ivi a pochi giorni, come egli venne con gran parte della sua gente ad assediare Nicosia, credendo di potere facilmente opprimere i pochi Normanni restati colla contessa, levatisi in armi, li assalirono; ma trovarono quella resistenza, che non s’aspettavano. Si combattè sino alla sera. Il conte che al primo annunzio della sommossa, era corso in aiuto de’ suoi, trovò i Troinesi padroni di mezza città, abbarrata in modo da non esser facile il cacciarli dal posto. In questo i Saracini de’ dintorni accorsero, diedero mano a’ Greci, accerchiarono la mezza città, in cui erano i Normanni, i quali non potendo più procacciarsi il bisognevole, per la consueta via del predare (tanto era il numero de’ nemici) vennero presto stremi di vitto e fin di vestito; intantochè il conte e la contessa avevano in tutti e due una sola cappa, di cui a vicenda si copriva o quello o questa, che andava fuori; e per soprassello sì dovea combattere senza rispitto, per respingere gli assalitori, che d’ora in ora divenivano più arditi e più numerosi. Pure i Normanni combattevano e col solito coraggio; e gran prova ne diede un di quei giorni il conte stesso. Accaduta una mischia tra i suoi ed i nemici, v’accorreva; quando gli fu morto il cavallo, con cui cadde egli stesso; uno stuolo gli si avventò addosso furioso, facendo i massimi sforzi per tenerlo e trascinarlo altrove; sforzi faceva egli per liberarsi. Nel dibattersi gli venne fatto svincolare il braccio destro e trarre la spada. In un attimo fece bella la piazza intorno a se. Tanti ne uccise, che restò assiepato dai cadaveri. Libero, venne al morto cavallo, ne trasse la sella, e recatalasi indosso come se nulla avesse avuto da temere, a passi lenti si ritirò fra’ suoi.
Ciò non però di manco pericoloso era lo stato di Rugiero Si trovava da quattro mesi chiuso da tutte le parti, senza speranza d’aiuto o di potersi fare strada in mezzo a tanti nemici. Un’inverno rigidissimo sopraggiunse; ma quello inverno, che da prima aggravò gli stenti dei Normanni, venne in fine a trarli d’impaccio. I Saracini, usi al clima d’Affrica, o a quello più temperato de’ luoghi marittimi di Sicilia, mal potevano reggere su quell’altura al ghiado di fitto verno, che meno molesto era ai Normanni nati nel settentrione. Credevano gli assalitori temperare il freddo esterno con l’abuso del vino, per cui assiderati ed ubbriachi, con poca o nessuna vigilanza facevano la scolta di notte. Se ne avvide il conte; e per meglio deluderli, ordinò che i suoi stessero, la notte comechè vigliantissimi, nel più alto silenzio; per che i Saracini ed i Greci, credendo che i Normanni, del pari vinti dal freddo, fossero inabili a combattere; più negligenti ne divennero; talmentechè, assaliti alla sprovveduta dal conte e da’ suoi, pochi ne poterono fuggire; molti passarono dal sonno alla morte; anche più ne furono presi. Tutto il campo nemico venne in potere de’ Normanni, che vi trovarono tanta copia di viveri, che presto si rifecero del passato stento.
Dopo la vittoria, tornò Rugiero in Calabria ed in Puglia, per acquistare i cavalli, che in gran numero erano mancati, durante l’assedio. Lasciò in Troina la moglie ed i militi suoi; ma prima di partire fatto senno dell’accaduto meglio fortificò la città. Presto fu di ritorno, menando seco cavalli e quant’altro era mestieri per continuare la guerra. Saputo che molte schiere di Saracini, venute dall’Affrica, erano ite a fermarsi in Castrogiovanni, fatto riposare alquanto i cavalli che seco menato aveva, colà si diresse. Fece precedere trenta militi, comandati dal valoroso suo nipote Serlone, cui diede ordine di volgersi artatamente in fuga, come fosse attaccato, verso un luogo, ove egli stesso si pose in guato col resto della sua gente. I Saracini di Castrogiovanni, vista la schiera di Serlone, che alla città s’avvicinava, vennero fuori e l’assalirono con tal’impeto ed in tal numero, che que’ trenta militi ebbero a fuggir davvero; e nel fuggire, prima di giungere al luogo dell’insidie, soli due ne restarono liberi e vivi.
Il conte, visto lo sterminio della sua gente, venne impetuosamente sopra i nemici, i quali, comechè sopravvedutamente assaliti da gente fresca, non ne furono sgominati, nè cessero senza lungo combattere. Pur finalmente cessero e ’l conte l’inseguì oltre un miglio. Ricco di preda tornò a Troina. Quindi venne depredando il paese sino a Caltavuturo. Nel ritorno rasentò le rupi di Castrogiovanni con animo di trarre a battaglia un’altra volta i Saracini; ma quelli lo lasciarono menar via il bestiame de’ campi a posta sua. Ivi a pochi giorni da Troina, ove s’era ridotto, fece una incursione dall’altro lato dell’isola sino a Butera, onde trasse assai bestiame e prigioni; ma per la via lunga e difficile, per l’eccessivo calore dell’estate e per la mancanza d’acqua, gran numero di cavalli perdè.
VII. — Entrato l’anno 1063, i Saracini, fecero uno straordinario sforzo; gente chiamarono dall’Africa e dall’Arabia e vennero ad assalire Cerami, ove occorse il conte ed accadde la famosa battaglia, nella quale, dice il Malaterra, che Serlone, venuto fuori di Cerami con soli trentasei militi, volse in fuga trentamila Saracini. Sopraggiunto poi il conte stesso con cento militi, stava in pendente se doveva attaccar battaglia co’ Saracini, malgrado la grande sproporzione del numero. Ursello di Baliol lo minacciò di non volerlo mai più accompagnare, se schivava di venire alle mani co’ nemici. L’esercito normanno si mosse. Fu visto allora uscir dalla fila e correre il primo sopra i nemici uno ignoto cavaliere, coperto d’armi lucentissime, sopra bianco cavallo, avente in mano un bianco vessillo con sopra una croce. Tutti conobbero esser quello S. Giorgio, il quale vescovo e patriarca d’Alessandria in vita era già divenuto dopo morte cavaliere e patrone di cavalieri. Un’altro bianco vessillo con una croce fu visto sventolare dall’asta del conte. L’esercito cristiano, sicuro della vittoria per tanti segni del divin favore, assalì i Saracini. Il capitano, tenuto invincibile per lo straordinario valore e la saldissima armatura, si fece avanti; il conte gli corse sopra colla lancia in resta e al primo urto gli fece vôtar gli arcioni. Tutto l’esercito saracino fuggì come stormo di passare assalito dallo sparviere (168); quindicimila ne furono uccisi, gli altri, che allora camparono, furono soprappresi il domane o sparsi pe’ campi o ascosi nelle lustre. I Normanni vennero ad alloggiare nel campo abbandonato dai Saracini, ove trovarono dovizie a sgorgo.
Tale è il racconto del Malaterra, le cui pie considerazioni su quel miracolo non possono indurre un sensato lettore ad ascrivere il fatto a cagioni soprannaturali. Non però è da credere del tutto mendace il racconto. La vittoria è certa. Il conte Rugiero ne diede parte a papa Alessandro II, e gli mandò in dono quattro cameli trovati nel campo nemico; il pontefice gradì il dono; esortò il conquistatore a recare a fine la gloriosa impresa; lo presentò del vessillo di S. Pietro. Ma il fatto potè ben accadere senza miracolo. Primieramente è difficile credere che soli centotrenta fossero stati i Normanni. In più volte ne era venuto da oltremare un numero a più doppî maggiore; nè è probabile che per affrontare un grand’esercito il conte ne avesse menato fuori quel pugno. La vanagloria de’ vincitori avrà potuto minuire il loro numero ed esagerare quello dei vinti. Fra tanti strani effetti che produceva in quell’età l’esaltazione delle idee religiose e cavalleresche, potè aver luogo la visione di S. Giorgio, il quale poteva essere alcuno dei cavalieri normanni, che più animoso degli altri, fu il primo a correre; e la riscaldata immaginazione delle truppe gli diede la lucente armatura e il vessillo. Nè un monaco dell’undecimo secolo poteva avere tanta filosofia da negar fede a ciò che tanti testimoni oculari dicevano ed in buona fede credevano d’aver visto. Quella vista era sufficiente a convincerli di essere invincibili, e il soldato sicuro d’esserlo lo è. Sopratutto poi è da por mente ad una circostanza, riferita dallo stesso storico, cioè che fra i musulmani militavano de’ Siciliani (169), quali, mentre erano astretti a combattere pe’ Saracini, forse in cuore volevano la vittoria de’ cristiani; ed ognun sa che una sola schiera, che volti faccia, basta a sgominare un esercito e produrre una generale disfatta.
Che che ne fosse quella vittoria non ebbe altra conseguenza che il potere i Normanni con più libertà andar predando; ma le forze loro non ne ebbero aumento; intantochè il conte non potè avvantaggiarsi dell’invito fattogli dai Pisani, i quali, per vendicarsi di alcuni torti che dicevano d’aver ricevuti da’ Saracini di Palermo, mandarono un’armata nelle spiaggie del val Demone, e proposero al conte d’assalire Palermo dal mare, s’egli correva sopra la città dalla terra; e dalla vendetta in fuori, null’altro chiedevano. Il conte rispose; non essere ancora presto per tale impresa; soprassedessero. Quelli vollero da loro soli tentar l’assalto; ma trovarono la città così ben munita, che poterono solo rompere la catena, che chiudeva il porto, e menarla seco in trionfo.
In questo, era già prossima la state; il conte volle fare una gita in Calabria. Prima di partire per lasciare Troina, ove restava la contessa, provveduta di viveri, fece una correria sino a Collesano, Brucato e Cefalù, onde ritornò ricco di predato bestiame. Dimorato tutta la state in Calabria, con dugento militi venne a dar guasto al contado di Girgenti, e poi s’avviò a Troina. Fece precedere la preda fatta; egli fra due schiere, che lo guardavano davanti e da tergo, la seguiva. I Saracini di quelle parti, vogliosi di ricattarsi della battaglia di Cerami, in numero di settecento si posero in quato; assalirono e volsero in fuga l’antiguardo. Il conte e la schiera d’appresso, avvertiti dal tafferuglio, accorsero; assalirono i Saracini, li dispersero, ritolsero la preda e trionfanti vennero a Troina.
VIII. — Entrato già l’anno 1064, il duca Roberto venne in Sicilia in ajuto del fratello, che gli venne incontro sino a Cosenza in Calabria. Ed ambi valicato il faro, con cinquecento militi vennero ad assalire Palermo (170). Dopo tre mesi, tornati vani gli sforzi loro, decamparono e corsero ad assediare Bugamo, città della quale, come di tante altre nominate dal Malaterra, non possiamo oggi indovinare il vero nome e il sito; la presero, la spianarono, il duca ne menò seco gli abitanti in Calabria, che fece stanziare nella città di Scribla, da lui prima distrutta e poi riedificata.
Restò il conte Rugiero, in Sicilia, e veniva estendendo il suo dominio. Molte città a lui si davano di queto; molestava con ispesse incursioni sul loro tenere quelle che resistevano. E, perchè i suoi corridori avessero un luogo di riparo edificò e munì un castello presso Petralia, e quindi o riduceva sotto il suo dominio o teneva in suggezione una gran parte dell’isola. Nel 1068 s’inoltrò con numeroso stuolo sino a Misilmeri. Un grande esercito venne fuori da Palermo per attaccarlo. Il conte come vide i nemici a lui venire, messa la sua schiera in ordine di battaglia, sorridendo disse a’ suoi «Ecco una preda, che Dio ci manda; dividiamcela alla maniera apostolica.» Parole più da predone che da guerriero; ma nella battaglia, che tosto seguì, tutti si condussero da grandi guerrieri e non da predoni. I Saracini furono del tutto disfatti; immensa fu la strage; quanto si avevano venne in potere dei vincitori. Nel campo nemico trovarono i Normanni le stie con entro i colombi, che i Saracini addestravano a servir di corrieri; appeso al collo di essi una cartolina tinta di sangue, li misero in libertà. Tutto lo stormo volò a Palermo, e diede così notizia del funesto caso, prima che i fuggiaschi fossero giunti.
Mentre in Sicilia tali cose accadevano, il duca Roberto stava ad assediar Bari, città popolosa, ricca e fortissima, posta sul lido, che sola restava all’impero bizantino. Nè gli era venuto fatto d’averla, comechè da tre anni l’avesse stretta dalla terra e dal mare; perchè i Baresi opponevano gagliarda risistenza, confidati nel loro numero, nel forte sito della città, e nel soccorso che d’ora in ora aspettavano da Costantinopoli, ove avevano spedito un di loro a chiederne premurosamente. L’imperatore Romano Diogene aveva rimandato il messo, per avvisare i cittadini, che l’armata, carica, di soldati e di viveri, era per mettere alla vela; e però mettessero tutte le notti fani sopra le torri; perchè le navi non errassero il corso. Gli assalitori visto la notte que’ falò sulle bastite, indovinarono d’esser quello un segnale convenuto. Era allora giunto da Sicilia il conte Rugiero, che con molti legni armati era venuto ad ajutare il fratello in quell’impresa. Destinò alcune di quelle barche a correr tutte le notti in alto mare, per avvisare se l’armata nemica s’appressava; tenne le altre preste all’assalto. Una notte i legni esploratori scoprirono da lontano molti lumi, che parevano galleggianti; corsero a darne avviso al conte; ed egli con tutte le sue navi venne ad incontrare i Greci, i quali credendo d’essere da Bari i legni che ad essi venivano, non si prepararono alla difesa. Assaliti nel cuor della notte, alla sprovveduta, fu facile distruggere, prendere, fugare tutti quei legni. Vi perderono la vita solo cencinquanta cavalieri normanni, i quali nell’affollarsi tutti da una banda, per saltare sulla nave nemica, la barca, sulla quale erano, si riversò, caddero in mare ed annegarono. Cadde il cuore ai Baresi per la disfatta dell’armata amica e s’arresero nel 1070, che allora correva.
La guerra di Sicilia, più presto che conquista, era stata fin’allora una correria. Da Messina in fuori, le città principali dell’isola erano in potere dei Saracini. Espugnata Bari, nulla restando a sottomettere in Puglia, i due fratelli posero l’animo all’acquisto di Palermo. Rugiero fece ritorno in Sicilia, e venne ad aspettarvi il duca Roberto, il quale, dimorato i mesi di giugno e luglio in Otranto, per farvi i necessari appresti, facendo correr voce che le forze erano dirette alla conquista di Malta, navigò in Sicilia e venne in Catania, città amica; perchè il saracino Ben al Themanh, che la tenea, ad essi s’era unito. Ivi stava ad aspettarlo Rugiero. Unite colà le forze loro di terra e di mare, vennero a stringere d’assedio Palermo.
IX. — La forma di questa città era allora diversa dalla presente. Era essa posta in fondo di un porto, che si apriva tra due fortezze. Una che sin d’allora si chiamava Castello a mare; l’altra era detta dai Saracini Kalza. Il porto dividevasi in due seni, che formavano due porti minori. Nella lingua di terra frapposta fu da prima edificata la città, che dall’avere il porto da tre lati aveva avuto il greco nome di Panormo, o sia tutto porto. Divenuta sotto i Saracini sede del governo, per la grande affluenza di nuovi abitatori, la città era venuta stendendosi al di là del porto orientale, dal lato ove oggi scorre l’Oreto; e questa parte si diceva città nuova.
Come vi giunsero i due fratelli, il conte strinse la città dal lato d’occidente; il duca colle schiere di Puglia e di Calabria s’accampò presso la città nuova; l’armata chiuse l’ingresso del porto. Comechè stretta da tutte le parti, tanto la città abbondava di popolo e di difesa, che l’assedio bastava da cinque mesi, senza che gli assalitori avessero potuto concepire speranza di recare a fine l’impresa. Pur finalmente, non dalla forza, ma dall’astuzia del Guiscardo, fu vinta. Si nascose egli durante la notte ne’ giardini che erano dalla parte ov’egli stava, con trecento eletti soldati; mandò il resto dall’altro lato, ove Rugiero diede un generale assalto. Coloro, che erano a guardia delle mura della città nuova, non vedendo alcuno de’ nemici da quel lato, credettero che tutto l’esercito normanno era venuto all’assalto dall’altra parte; però corsero là ove maggiore credevano il pericolo. Il duca, visto le mura abbandonate, poggiatovi le scale, quindi entrò colla sua schiera in città e corse a rompere una delle porte, per la quale entrò il conte col suo esercito. Caduta così la città nuova, i Saracini, dopo avere inutilmente combattuto tutto il giorno, sul far della sera si ritirarono nella vecchia. Il domane alcuni dei maggiorenti vennero fuori a trattar della resa. Promettevano di rendere la città e pagare i tributi, con questo che non fossero molestati nell’esercizio della loro religione, e sicuri fossero i beni e le persone loro, A tal patto giuravano sul corano di tenersi indi in poi fedeli al nuovo governo. Avuta quella promessa, resero la città nel gennajo del 1072 (171).
La prima cura dei conquistatori, come vennero in possesso della città, fu quella di rimettere in onore la cristiana religione. Fu riposto nella sua sede l’arcivescovo, il quale avea avuto assegnata da’ Saracini la piccola chiesa di santa Ciriaca, fuori la città, ove, vecchio e timido com’era, teneva vivo per quanto poteva il culto cristiano. Il duomo, che era stato convertito in moschea, fu soprabenedetto, largamente dotato e provveduto di sacri arredi. Preso il duca Roberto della bellezza della città, la volle per se, lasciato al fratello quanto s’era fin’allora acquistato e quanto speravano d’acquistare.
X. — La gioja de’ fratelli per la presa della capitale fu avvelenata dalla notizia della morte del valoroso loro nipote Serlone. Era restato egli con una schiera in Cerami, per tenere in soggezione i Saracini di Castrogiovanni, uno de’ quali, Brahem di nome, aveva contratta seco amicizia, a segno che s’era dichiarato suo fratello adottivo come costumavano i Saracini quando volevano render sacra ed inviolabile l’amicizia. Uno di que’ giorni il Saracino, indettato co’ suoi, mandò alcuni presenti a Serlone, e secretamente lo avvertiva, che, in un giorno ch’ei designava, sette da Castrogiovanni dovevan fare una correria, su quel di Cerami. Il normanno, che stoppava quella poca gente senza far caso dell’avviso, venne fuori quel giorno stesso a cacciare con pochi compagni. Que’ sette, vennero a depredare la campagna di Cerami; Serlone co’ suoi loro corsero sopra; quelli si diedero a fuggire, e questi ad inseguirli, finchè furono finiti in un agguato, ove stavano nascosti settecento cavalieri e duemila fanti, che accerchiarono que’ pochi Normanni. Serlone, appoggiando le spalle ad una rupe che ivi era, e che d’allora in poi è stata detta pietra di Serlone, si difese lunga pezza, e finalmente cadde trafitto da mille colpi. Perirono con lui i pochi suoi compagni, tranne due, che semivivi restarono sepolti sotto i cadaveri.
La rabbia della vendetta e la sicurezza che quindi innanzi ogni cosa, che fosse per acquistare, sarebbe suo, addoppiarono l’attività del conte. Tenne sotto di sè la maggior parte della gente che aveva seguito il duca, il quale tosto dopo la presa di Palermo fece ritorno in Puglia. Due castelli fabbricò nel 1073, l’uno in Mazzara, e l’altro in Paternò, e vi lasciò presidio. Un’altro ne edificò l’anno appresso sul monte di Calascibetta, per molestare di continuo i Saracini di Castrogiovanni. Chiamato da suoi affari in Calabria, lasciò a governare in sua vece Ugone di Gircea, valoroso cavaliere francese, al quale aveva dato in moglie una figliuola. Prima di partire lo avvertì a guardarsi dalle insidie del Saracino Ben Avert, innanzi ad ogni altro prode, infaticabile ed astuto signore di Siracusa e di Noto, sotto al cui comando s’erano riuniti tutti i Saracini, che restavano ancora non sottomessi; e però, quali che fossero le provocazioni di lui, non venisse mai fuori di Catania per attaccarlo.
L’incauto Ugone, avido di gloria, volendo prima del ritorno del suocero segnalarsi con qualche gran fatto, dimentico degli avvertimenti di lui, venne a Troina colla sua gente; invitò ad unirsi a lui Giordano, figliuolo naturale del conte, e colle milizie che colà erano tuttaddue si diressero a Catania forse con animo di trarre il Saracino a campal battaglia. Ma quello, avuto lingua della gita d’Ugone, postosi in guato sulla via colse tanto sprovvedutamente i due guerrieri, che Ugone vi lasciò la vita, Giordano la salvò fuggendo a Catania.
Infellonito il conte all’annunzio di tanta sciagura, come fu di ritorno nel 1076, corse verso Siracusa, demolì dalle fondamenta cammin facendo il castello di Judica, mise a fil di spada tutti gli uomini che vi abitavano, mandò a vendere in Calabria le donne e’ fanciulli. Entrato in quel di Siracusa, mise foco alle biade che mature erano; l’incendio rapidamente si dilatò per tutto il paese e ciò gittò l’anno appresso una carestia generale.
XI. — Sfogata così l’ira sua, nel maggio del 1077 venne ad assediare Trapani. Era attaccata a quella città una penisola, la quale, congiunta alla terra da una stretta gola, veniva dilatandosi e formava una pianura, che in quella stagione era coperta d’erba. All’avvicinarsi del conte colla sua schiera i Trapanesi trassero in città il bestiame, e tutti i giorni lo menavano a pascere in quel chersoneso. Si difendevano da prima con gran cuore, sicuri che il vitto non poteva mancar loro. L’animoso Giordano, visto quel bestiame che colà pasceva, in sul vespro, senza farne motto al padre, messosi in barca con cento compagni, giunse sul far della notte nella penisola e si nascose in certe lustre che vi erano. Al far del giorno, come il bestiame venne fuori, sbucarono que’ predoni, e paratoselo avanti, lo cacciavano verso il lido, per imbarcarlo. Vennero fuori in gran numero i cittadini armati. Giordano e’ suoi compagni, lasciato il bestiame, corsero ad affrontarli: molti ne uccisero; gli altri fuggirono in città; il bestiame fu asportato. Scorati da tale perdita i Saracini, resero a buoni patti la città, nella quale il conte, accresciutone le fortificazioni, lasciò presidio, e quindi venne espugnando molti castelli di quel contado, dei quali investì i suoi militi. Quindi venne a riposare nel castello, che Malaterra chiama Brica, e non è improbabile essere stato Vicari, come alcuni dei moderni storici pensano e come mostra il fatto, che seguì.
Teneva allora il castello di Castronovo il saracino Beco, il quale, venuto in cruccio col suo mugnaio, lo bastonò. Questi non isgozzò l’offesa; trovò compagni alla sedizione; venne con essi a postarsi sur una ertissima rupe inacessibile, che stava a cavaliere del castello, e chiamò in ajuto il conte, che tosto v’accorse. I soldati normanni cominciarono a salire lassù tratti colle funi da quei di sopra. Beco, visto che, reso il conte padrone di quel posto, il castello non poteva più tenere, lo abbandonò.
Più duro intoppo ebbe a superare Rugiero l’anno appresso nell’assedio di Taormina, città fortissima e per sito e per arte e per lo folto popolo che l’abitava. La cinse tutt’intorno di fossato e di torri; onde venne impossibile agli assediati trar viveri da fuori. Ciò non di manco resisterono dalla fine di febbrajo sino ai primi giorni d’agosto (172), quando, vinti dalla fame, si arresero. Alla resa di Taormina tenne dietro quella dei pochi castelli che in val di Demone restavano ai Saracini. Sottomessa quella provincia; Rugiero ne fece capitale Troina, ove eresse un vescovado che riccamente dotò.
Passato nel 1079 in Val di Mazzara, ebbe a battagliare assai per sottomettere Jato e Cinisi. Era Jato posta sulla vetta di un’arduo monte, detto oggi San Cosmano, di là da Morreale. Vi abitavano tredicimila famiglie di Saracini, i quali in tanto meno avevano a temere dall’assedio, in quanto nelle inaccessibili giogaje del monte il numeroso loro bestiame stava al sicuro. Confidati nelle naturali difese, si negarono al pagamento dei tributi. Il conte maggiormente messo al punto della difficoltà, destinò all’assedio di Jato i militi siciliani, ai quali aveva concesse le terre di Partinico e Corleone; ed i calabresi a quello di Cinisi. Egli comandava i due assedî; passava dall’uno all’altro; s’esponeva il primo alle fatiche ed ai pericoli. Ciò non di manco le due piazze tennero sei mesi; ma quando fu dato foco alle biade già mature nei campi di Jato cadde il cuore agli Jatini e s’arresero. S’arresero del pari quei di Cinisi, per non incorrere nella stessa sciaura. La gioja di quel trionfo fu accresciuta dal maritaggio seguito nel 1080 della Matilde figliuola del conte con Raimondo conte di Provenza.
Ma i progressi delle armi di Rugiero in Sicilia erano ritardati dalle sue spesse gite in Calabria ed in Puglia. In una di queste l’infaticabile Ben Avert corrotto con doni il Saracino Ben Cimen, che regea Catania, v’entrò con esercito numeroso. Il valoroso Giordano e pochi altri cavalieri occorsero da Troina. Ben Avert loro venne incontro con tutte le sue schiere di fanti e di cavalli. Tre volte i fanti saracini respinsero l’attacco dei cavalieri normanni, i quali si volsero finalmente contro la cavalleria, che fu sgominata e dispersa. Scorati da ciò i pedoni, non tennero il quarto assalto e fuggirono in rotta. Perduta la battaglia, Ben Avert, abbandonata Catania, fuggì a Siracusa.
La prudenza di Ruggiero fu in quel tempo messa alla prova da’ tentativi sediziosi de’ suoi più cari. Un Angelmaro, soldato di vil nazione, in tale stato era venuto appresso il conte pel suo valore, che gli diede in moglie la vedova di Serlone, che figlia era di Rodolfo conte di Bojano, con ricca dote e la quarta parte della terra di Geraci. Di che colui venne tanto orgoglioso, che si tenne uguale ai primi. Fingendo di fabbricare una casa di sua abitazione nella sua parte di Geraci, vi costrusse in quella vece un’alta torre, ed al tempo stesso cercava di farsi amici i Geracesi, che Greci erano. Ingelosito il conte, gli ordinò di sbassare la torre e ridurla a casa. Quello arditamente si negò e, confidando in quei Greci che promettevano dargli mano, si preparò a difendersi. Il conte vi venne con buon nerbo di gente. I Geracesi spauriti non vollero pigliar la difesa d’Angelmaro. Questi, vistosi allora a mal partito, abbandonò la torre e fuggì (173).
Più grave di quella d’Angelmaro fu al conte la sedizione del proprio figliolo Giordano, da lui lasciato a governar la Sicilia nel 1082, il quale accecato dall’ambizione, sedotto da pravi consigli, tentò d’usurpare quella signoria, alla quale pegl’illegittimi natali non poteva aspirare. Soprappresi i castelli di Sammarco e di Mistretta corse a Troina, sperando. impadronirsi del tesoro del padre ivi riposto; ma ne fu respinto da coloro, che ne stavano a guardia. Il savio conte, tornato di volo in Sicilia, temendo non l’incauto giovane, per disperato consiglio si gittasse ai Saracini, finse di non far caso del suo delitto e tenerlo trascorso giovanile; per che il figlio si fece cuore a venirgli innanzi e ne fa bene accolto; ma fatti poi pigliare ai suoi sergenti dodici di coloro, che lo avevano confortato alla rea impresa, li fece accecare; lo stesso fece vista di voler fare al figlio; ma poi fingendo tenersene per le preghiere dei suoi familiari, lo lasciò andare, abbastanza punito dall’esempio e dallo spavento.
Non guari andò che più grave cagione richiamò Ruggiero nel continente. Il duca Roberto ritornato in Puglia dopo la presa di Palermo s’era accinto a dilatare il suo dominio in quelle parti; la repubblica d’Amalfi a lui s’era sottomessa; aveva invaso lo stato del principe di Salerno suo cognato; scomunicato replicatamente da papa Gregorio VII, per non aver voluto riconoscere il supremo dominio di lui s’era poi pacificato, quando le ardite pretensioni di quel pontefice gli tirarono addosso le armi di Arrigo IV imperatore d’occidente; varcato l’adriatico avea portate le armi contro il greco impero; conquistata Corfù, Botonero, la Vallona, era venuto a stringer d’assedio Durazzo, e comecchè assai legni ed assai gente avesse perduto in una tempesta ed in una battaglia coll’armata veneziana, venutogli contro l’esercito bizantino, comandato dallo stesso imperatore Alessio Comneno, ne aveva riportata compita vittoria; espugnata poi Durazzo s’era innoltrato fin presso Costantinopoli; lasciato ivi a comandar per lui il figliuolo Boemondo, era ritornato in Italia, per sottomettere alcuni dei suoi baroni, che s’erano rivoltati, e correre in aiuto di papa Gregorio, che l’imperatore Arrigo, entrato già in Roma, assediava nel castello di Sant’Angelo; composto il suo stato, fugati gl’imperiali liberato il pontefice, era ritornato alla guerra d’oriente; assalito nei mari di Corfù dall’armata greco-veneta avea combattuto tre giorni; nei primi due gli alleati ebbero alcun vantaggio, nel terzo la vittoria di lui fu intera, le galee bizantine furono prese e disperse, di nove legni veneziani di straordinaria mole, che combatterono sino all’estremo, sette furono sommersi e due presi; vi perderono gli alleati tredicimila uomini. Fu questo l’ultimo suo trionfo. Preso terra a Cefalonia, soprappreso da invincibile infermità, finì di vivere nel settantesimo anno dell’età sua, addì 17 luglio del 1085. Il suo cadavere, trasportato in Puglia, fu seppellito in Venosa. Morirono in quello stesso anno papa Gregorio VII e Guglielmo duca di Normandia, conquistatore dell’Inghilterra. Tale era l’ignoranza dei tempi che il Malaterra ascrive portento un’ecclissi solare ch’egli dice accaduto nel febbrajo di quell’anno (174), e francamente asserisce di essere stato il fenomeno, a creder suo, presagio del gran caso.
Era stato il duca Roberto due volte ammogliato. Rotto il primo matrimonio, del quale era nato Boemondo, per essere la moglie a lui congiunta di sangue, aveva sposata la Gaita o Sigelgaita, sorella del principe di Salerno, dalla quale era nato Rugiero, soprannominato Borsa cui lasciò morendo il ducato di Puglia e la sua metà di Calabria. Boemondo, che non era nè meno ambizioso, nè men prode, nè men furbo del padre, mal patì la preferenza data al minor fratello, ed imprese a farsi ragione coll’armi, Per ispegnere la contesa dei nipoti, il conte Rugiero passò dalla Sicilia in Puglia; e tanto fece che Boemondo s’acquetò al testamento del padre, contentandosi del principato di Taranto, a lui cesso dal fratello. In merito di ciò il duca Rugiero cesse allo zio quella metà dei castelli di Calabria che il duca Roberto aveva tenuta per se.
XIII. — In questo, il Saracino Ben Avert con molte navi mosse da Siracusa e venne a scorrazzare le spiagge di Calabria. Saccheggiò Nicotra; spogliò due chiese a Reggio; assalì un monastero di donne presso Scilla; ne trasse quanto v’era di prezioso, nè le sacre vergini ne andarono illese. Tutte le sue cure rivolse allora il conte all’assedio di Siracusa, che quel Saracino reggea. Verso la fine di maggio del 1086, fatto ogni appresto di navi e di gente, mosse coll’armata, mentre il figliuolo Giordano coll’esercito colà si recava per terra. Si riunirono alla foce dell’Alabo, presso la moderna Augusta. Fatto notte, spedì verso la città sopra una saettia, per esplorare la situazione del nemico, un Filippo; e, perchè costui, e quanti erano sulla barca, parlavano la lingua araba, poterono, senza sospetto, passare in mezzo all’armata saracina, ed osservar tutto. Di ritorno il domane, riferirono d’essere i nemici presti alla battaglia. Nel cuor della seguente notte il conte mosse coll’armata lasciato ordine al figlio di restarsi collo esercito ad aspettar l’evento. Come i Saracini scoprirono i legni cristiani, corsero ad affrontarli. Impetuoso fu l’attacco di quelli, gagliarda la respinta di questi. Ben-Avert per finire in un sol colpo la battaglia, corse sopra la galea comandata dal conte, sperando superar di leggieri un nemico poco uso a combattere in mare; ma trovò quella resistenza che non s’aspettava. I due campioni erano degni di stare a fronte l’un dell’altro, nè coloro che ai fianchi di questo o di quello combattevano, eran da meno. Il comandante saracino, comechè ferito di giavellotto nel bollor della mischia, pur combatteva, quando l’animoso Rugiero, passando d’un salto sulla galea di lui, gli correa sopra colla spada in alto; quello, per ischivarne lo scontro, volle saltare su d’un’altro legno, ma nol potè; fiaccato dalla ferita, grave dell’armi, cadde in mare ed annegò. La sua morte empì di spavento l’armata e la città; i legni saracini si volsero in fuga; ma sopraggiunti dai cristiani furono tutti presi; e se Giordano avesse in quel momento assalita la città, forse si sarebbe resa senza resistere. Il non aver egli voluto trasgredire gli ordini del padre diede tempo ai Saracini siracusani di prepararsi alla difesa, e fu gagliarda. La città tenne da cinque mesi; invano quei cittadini mandaron fuori tutti gli schiavi cristiani, che in gran numero ivi erano o per risparmio di viveri, o perchè speravano che Rugiero, contento a ciò, si fosse ritirato; visto che l’assedio senza rispitto stringea, la vedova di Ben-Avert, coi suoi tesori e i principali fra quei Saracini, sopra due barche, ingannata la vigilanza de’ galeotti normanni, fuggì a Noto; coloro che restarono resero la città nello ottobre nel 1086 (175).
Intanto più disperata era allora la condizione dei Saracini siciliani, in quanto per la pace che il conte Rugiero avea conchiusa col re di Tunisi, non potevano sperare soccorso da quella parte. E tanto contava il conquistatore su tal vantaggio, che a nissun patto volle mai indursi a far cosa, che avesse potuto romper la pace con quel re. I Pisani in quel tempo, avendo a dolersi del re barbero, assalirono e presero Tunisi, e, non avendo forza da tenerla l’offerirono in dono a Rugiero; ma egli rispose: non volere romper fede all’amico re, e tutto si volse a sottomettere le poche città, che ancora restavano ai Saracini in Sicilia.
Morto Ben-Avert, caduta Siracusa, il solo Kamut, signore di Girgenti e Castrogiovanni, poteva far fronte alle armi di Rugiero. E perchè costui conosceva che all’acquisto di Castrogiovanni erano sempre state dirette le mire del conquistatore, colà venne a chiudersi col miglior nerbo della sua gente, aspettando d’ora in ora l’assalto, lasciato in Girgenti la moglie ed i figliuoli. Il conte in quella vece tirò a Girgenti ne incominciò l’assedio il primo giorno d’aprile del 1087; e la città s’arrese addì 25 di luglio dello stesso anno. Avuto Girgenti, gli venne facile insignorirsi di Platani, Muxaro, Castanella, Sutera, Sabuci, Regalmuto, Bifara, Macalufi, Naro, Caltanissetta, Alicata e Ravanusa.
Fra i prigioni fatti in Girgenti erano la moglie e i figliuoli di Kamut. Il conte seppe giovarsi di ciò per guadagnar l’animo di quel Saracino ed indurlo a render di queto Castrogiovanni. Ordinò che quella donna e quella famiglia fosse rispettata ed una guardia assegnò per sicurezza del loro onore. Con soli cento militi si diresse poi a Castrogiovanni; come ne fu presso, mandò per Kamut; e quello, sicuro della lealtà del conte, tutto solo vi venne; e venne con animo tanto disposto in favor di lui per l’onesto proceder suo verso la moglie, che non accade lungo argomentare per indurlo, non che a ceder la città, ma a cambiar di religione. E per la più facile riuscita dell’affare, si tornò in città e fece la vista di preparar la difesa, pel caso che il conte fosse venuto ad assediarla. In un giorno poi, già prima convenuto, venne fuori, come per pubblica bisogna, portando seco quanto avea di prezioso e s’avviò per un sito, ove sapea d’essere una presa di gente che lo aspettava ai guato. Giuntovi si finse soprapprenderlo e menarlo prigione. Nel subuglio che tal fatto destò in città, s’accostò il conte con tutto l’esercito; quei Saracini, confusi per la perdita del capo, anzicchè difendersi, pensarono a chiedere buoni patti di resa, che di leggieri ottennero. A Kamut il conte, non solo restituì quanto seco menato avea; ma larghe concessioni di feudi a lui fece in Calabria presso Mileto, ove indi in poi stanziò.
Comecchè non fossero restate ai Saracini allora, che le sole due città di Butera e Noto, varî incidenti ne ritardarono l’acquisto. Primieramente un domestico avvenimento ebbe luogo nella famiglia del conte, che mostra quanto in quell’età scarse erano le comunicazioni reciproche fra gli stati di Europa. Filippo Io re di Francia, comechè da grantempo ammogliato a Berta d’Olanda, dalla quale aveva avuto il figlio Lodovico; che dovea succedere al trono, imprese a ripudiarla, e forse sicuro di venirne a capo, fece chiedere al conte Rugiero una sua figliuola in isposa. Acconsentitovi egli, mandò la figliuola con orrevole cortèo e ricca dote in Provenza; perchè quel conte, marito d’un’altra figliuola di lui, la consegnasse al re. Il conte di Provenza, che ben sapeva che il re, non avendo potuto rompere il primo matrimonio, mirava solo a carpir la dote e a maritare ad altri la donzella, volle sottrar la cognata al disonore, tenendola seco; ma al tempo stesso cercò di chiappar la dote per se; di che venuti in sospetto coloro ch’erano iti compagni della fidanzata, lasciatala al cognato, fecero ritorno col denaro ed i presenti in Sicilia (176).
In questo, nuove discordie erano surte in Calabria tra Boemondo e il duca Rugiero suo fratello, per cui ebbe il conte a rivalicare il faro e dimorare in quei luoghi alcun tempo. Rappacificati finalmente i due fratelli, fece ritorno in Sicilia, e nei primi giorni di aprile del 1089 corse a cinger di assedio Butera. La piazza era già circonvallata, le macchine erano per accostarsi alle mura, quando giunsero al campo alcuni messi a lui spediti da papa Urbano II, pei quali gli mandava dicendo, d’esser egli da Terracina venuto in Sicilia ed arrivato in Troina, per abboccarsi con lui; la stanchezza e le vie disagevoli non permettendogli di proseguire il viaggio, pregarlo a venire in Troina. Rugiero, lasciato ai suoi capitani la condotta dell’assedio, venne a trovare il pontefice.
Era allora papa Urbano travagliato da più parti. La guerra che Arrigo IV imperatore di Germania aveva dichiarato a Gregorio VII, non s’era spenta per la morte di quel pontefice; che anzi Arrigo ne era divenuto più forte. L’antipapa Guiberto da lui promosso e sostenuto, era padrone di Roma, ond’era escluso Urbano, il quale per sua sicurezza era obbligato a dimorare in Terracina sotto la protezione de’ principi normanni. L’imperatore Alessio Comneno lo invitava a recarsi in Costantinopoli con uomini dotti in teologia, per assistere ad un concilio da lui chiamato, per definire la controversia fra i latini e’ greci, se dovea consacrarsi il pane azzimo o il lievitato. Papa Urbano stava infra due, e venne in Sicilia, per chieder l’avviso di Rugiero, ch’era già in voce di savio e potente principe, e prender qual partito a lui paresse migliore. Il conte a lui consigliava di recarsi al concilio, per dar opera a comporre le due chiese; ma la notizia giunta delle vittorie riportate da Arrigo, dopo le quali la fazione di Giuberto aveva maggiormente levata la testa costrinse il papa a fare ritorno in Italia. Rugiero gli si profferì pronto a soccorrerlo d’armi, di danaro e di quanto si avesse potuto aver luogo; ed oltre di averlo altamente onorato finchè in Sicilia stette, di magnifici doni lo presentò quando volle partirsene.
Ritornato allora all’assedio di Butera tanto gagliardamente la strinse, che le fu forza arrendersi. I più potenti fra quei Saracini furono dal conquistatore mandati a stanziare in Calabria. Ma la letizia di lui fu allora amareggiata dalla morte della sua prima moglie. Nè passò gran tempo che sposò Adelaide, nipote di Bonifazio marchese di Monferrato, che il Malaterra chiama marchese di Italia. Le due sorelle minori della nuova contessa furono al tempo stesso maritate ai due figliuoli del conte, Giordano e Goffredo, comechè quest’ultimo fosse ancor fanciullo; nè quel matrimonio potè mai esser consumato; per esser lo sposo morto prima di giungere alla pubertà.
Mentre tali maritaggi si solenneggiavano in Mileto, i Saracini di Noto, che soli restavano ancora sulla difesa, spedirono alcuni di loro a chiedere buoni patti al conte che di leggieri ottennero. Furono loro rilasciati due anni di tributo. La città fu da Rugiero data al figlio Giordano, che venne a governarla ed accrescerne le munizioni E così fu recata a fine la conquista di tutta l’isola, trent’anni dopo il primo sbarco.