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SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA] CAPITOLO XIX. I. Stato della religione cristiana: vescovadi eretti. — II. Bolla di Urbano II. — III. Governo civile stabilito dal conquistatore: magistrati e forme giudiziarie: tributi e servizî — IV. Concessione de’ feudi: doveri de’ feudatarî: dritti ch’esercitavano. — V. Indipendenza de’ monarchi di Sicilia. — VI. Conquista di Malta. — VII. Assedio di Cosenza, d’Amalfi, di Capua. — VIII. Morte e carattere del conte Rugiero. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I. — Venuto il conte Rugiero signore dell’isola tutto l’animo pose a comporne il governo; e, perchè più che d’ogni altro titolo di gloria, andava superbo del nome di ristauratore della cristiana religione, a quest’oggetto le prime sue cure rivolse. Ciò era in tanto più necessario, in quanto trovò egli la religione cristiana in tale stato, che fu mestieri ricomporre del tutto il governo ecclesiastico. Comechè le memorie dei tempi mostrino che i Siciliani conservarono sotto la dominazione dei Saracini l’antica loro religione, le memorie stesse provano altresì che il conquistatore la trovò in sommo decadimento. Dei tanti vescovi, che la Sicilia aveva avuti (177), solo l’arcivescovo di Palermo restava, ed in tal condizione che quella chiesa non avrebbe potuto avere lunga esistenza. Gli antichi monasteri erano caduti o cadenti; nè i pochi monaci che restavano, avevano mezzi di farli risorgere. Se era già da secoli freddato il fervore dei primi cristiani, per cui le chiese erano mantenute a dovizia colle sole obbligazioni dei fedeli. Se fossero state vere le crudeltà usate da’ Saracini, per obbligare i cristiani a cambiar di fede, che si leggono nelle monastiche leggende, il sangue dei martiri avrebbe riacceso lo zelo ed addoppiato il coraggio loro, e al fin dei fini i Normanni avrebbero trovato più fiorente la religione. È in quella vece da credere che, se più lunga fosse stata la dominazione dei Saracini, il nome cristiano sarebbe stato spento in Sicilia, come lo fu in Affrica, dal lento, ma efficacissimo veleno, il disprezzo del governo.
È poi da considerare che la Sicilia, sin dal principio dell’ottavo secolo era stata soggetta ai patriarchi di Costantinopoli. Greco era l’arcivescovo di Palermo; basiliani, o sia greci, erano per lo più i monaci il rito e le credenze della chiesa greca seguivano i Siciliani; ed in quell’età non meno dei musulmani erano dai Latini odiati i Greci. Il conquistatore adunque trovò in Sicilia cristiani assai, ma non trovò alcun elemento, onde riordinare la chiesa siciliana. E però, con avvedutissimo consiglio, nel provvedere le prime sedi vescovili fece venire da oltremonti uomini insigni e per santità e per sapere e per natali; vi aggiunse egli la ricchezza e le prerogative, per dar più peso all’esempio loro ed alla loro autorità.
La cattedra di Palermo era da più anni rialzata; ed un nuovo vescovado aveva il conte eretto in Troina, nel 1078, nella cui vastissima diocesi fu da prima compresa Messina, ove poi nel 1090 trasferì la sede del vescovo, che stabilì nel tempio di S. Niccola, da lui in quella città eretto. Trovò quasi in abbandono la chiesa di Catania; per farla risorgere gittò gli occhi sopra un Angerio, di patria bretone, monaco del monastero di Santa Euffemia in Calabria. E, perchè sapeva con quanto senno aveva costui governata quella chiesa in assenza dell’abate, volle promoverlo alla sede vescovile di Catania. Si recò egli stesso in quel monastero a pregarnelo. Molto ne incresceva a tutti quei monaci, e più che altri lo stesso Angerio forvoglia vi acconsentiva; pure ebbe a cedere alla volontà del sovrano, il quale da tanto lo teneva, che, oltre alla pingue dotazione, concesse a lui ed a’ suoi successori la città stessa di Catania colle sue attenenze; nè ciò fece il conte per verun’altro vescovo (178).
Alla chiesa siracusana fu promosso il provenzale Rugiero, decano della chiesa di Troina. Tutto quel popolo fu dolente della perdita di quel prelato, il quale per la sua dottrina, pegl’illibati costumi, le dolci maniere, il senno, l’eloquenza era d’esempio a tutti, di guida a molti, non che nell’ecclesiastiche, ma nelle profane faccende. Nè meno virtuoso era il normanno Stefano da Rouen, che il conte promosse al vescovado di Mazzara.
Celebra ne’ suoi fasti la chiesa cattolica la solenne santità di Gerlando, nato in Borgogna di famiglia piemontese, che nelle sacre discipline molto avanti sentiva: ed alla santità e dottrina sua andava del pari il linguaggio. Costui fu da Rugiero scelto in vescovo di Girgenti; e tanto volle privilegiarlo, che la diocesi a lui assegnata si estendeva sino alla sponda settentrionale, e n’erano confini i fiumi Torto e Grande.
Conquistata l’isola di Lipari, vi avevano nel 1088 il duca Roberto e ’l conte Rugiero eretto un monastero di benedettini. Un’altro ne eresse in Patti nel 1099 il conte, che volle unito a quello di Lipari, sì che un abate li governasse tuttaddue, ed un Ambrogio fu il primo vescovo ed abate, perocchè in quell’età i vescovi erano abati di alcun monastero, al quale era addetto il vescovado, e venivano scelti dai loro monaci.
Sottomessa poi l’isola di Malta, Rugiero fece risorgere quell’antico vescovado, ed un Gualtieri fu da lui destinato a quella sede. Nè ai soli vescovadi il conquistatore si tenne. Gli antichi monasteri furono da lui restaurati; di nuovi in gran numero ne furono eretti e largamente dotati.
Il Malaterra riferisce l’elezione dei vescovi di Catania, Siracusa, Girgenti e Mazzara nel 1088 dopo la presa di Castrogiovanni, prima che il conte fosse ito all’assedio di Butera, e si fosse in Troina abboccato con papa Urbano. Forse allora ne concepì il pensiere; ma tutto porta a credere che ciò si fosse recato ad effetto dopo quella conferenza; e che allora il pontefice abbia dato al conte a viva voce la facoltà di ordinare a senno suo le cose ecclesiastiche dei suoi dominî, come se legato pontificio fosse prima che ciò gli fosse stato espressamente concesso. Del qual privilegio tanto contrastato in. appresso, e che tutti i re di Sicilia hanno considerato come il più bel giojello della loro corona, ben cade qui in acconcio l’accennare la origine e l’estensione.
II — Quando fu elevato alla sedia pontificia il famoso Ildebrando, monaco di Clugnì, che prese il nome di Gregorio VII, il popolo romano, conservando le forme della primitiva chiesa ed un avanzo dell’antica libertà, sceglieva i vescovi di Roma; e gli imperatori di Germania confermavano la scelta, come coloro, che malgrado le donazioni di Pipino e di Carlomagno, esercitavano sino al XIII secolo un resto della antica loro giurisdizione sullo stato romano; e giunsero talvolta a conferire il papato come un privato benefizio. Dall’altro lato i pontefici, sin da che ebbero fa signoria di quella provincia, cominciarono a pretendere, non che di sottrarsi da quella soggezione, ma di sottomettere alla loro l’autorità di tutti gli altri principi. Papa Gregorio incapato più degli altri in tal pensiere, per rendere l’autorità ecclesiastica indipendente dalla civile potestà, volle levare ai sovrani il dritto di dar l’investitura ai vescovi eletti nei loro stati; dritto, che tutti i principi avevano sempre esercitato.
Con tale intendimento in un concilio convocato in Roma fece dichiarare illegale il dritto dei sovrani dl dare ai vescovi il pastorale e lo anello ch’era il simbolo dell’investitura. Indi nacque la fatale scissura tra il sacerdozio e lo impero, che per secoli turbò la chiesa e lo stato.
Arrigo IV, che allora sedea sul trono di Germania, non tollerò in pace quell’atto; e con procedere del pari avventato, convocata una dieta in Vormazia, vi fece dichiarare Gregorio illegittimamente eletto e decaduto dalla sede pontificia. Qui papa Gregorio, non contento alle iterate scomuniche fulminò la famosa bolla colla quale dichiarò Arrigo caduto dal trono, e sciolse i sudditi di lui dal giuramento di fedeltà. Fu questo il primo esempio di tal violentissimo abuso dell’autorità pontificia, pur troppo imitato in appresso. Nè i principi d’Europa hanno mai dimenticato tal’atto (179); Rugiero non fu indifferente allo spettacolo dell’imperatore dannato a star tre giorni di fitto verno nel cortile del castello di Canosa, spogliato del regio manto e scalzo, mentre nevigava a ribocco; e, dopo tanta penitenza, ottener solo la comunione per mano del pontefice, il quale non volle per questo scattare un pelo dalle sue pretensioni (180).
Era il conte Rugiero religiosissimo; ma alla sua pietà andavan del pari l’altezza dell’animo e la perspicacia dell’ingegno. Sentiva ben egli che solo della sua spada e dal suo cuore riconosceva il trono; nè pativa che nel suo stato altra autorità, qual che si fosse, prevalesse alla sua. Per la morte di Gregorio non avevano i successori di lui cessato di negare ai sovrani il dritto di dar l’investitura ai vescovi dei loro stati. Intanto più aveva Rugiero ragione d’esser geloso di quel dritto, in quanto papa Gregorio da lui pregato a consacrare il vescovo eletto di Troina, non s’era negato, ma aveva risposto, che il consentiva, comechè la scelta fosse stata illegale, per non esservi stato l’intervento di un legato apostolico e il consenso del pontefice (181). Da ciò era facile il conoscere quali erano le pretensioni della romana corte.
Ben cadde in acconcio allora la venuta di papa Urbano in Sicilia. Nelle conferenze, che ebbero luogo tra lui e il conte, è assai verisimile che questo avesse dichiarato a quello di non volere in conto alcuno menar buone le pretensioni messe fuori da papa Gregorio. Poteva in quel momento Rugiero far valere i dritti suoi; non poteva Urbano mostrarsi tenace nel difendere l’autorità pontificia; perochè non altronde poteva avere ajuto nelle angustie, in cui era impelagato. Però trovò il ripiego di conferire al conte tutte le facoltà di legato pontificio. Così, indefiniti restando i confini tra la pontificia e la sovrana autorità, nulla il pontefice perdeva in dritto, tutto il conte acquistava in fatto.
Che così sia ita la bisogna, possiamo argomentarlo primieramente dagli stessi diplomi del conte Rugiero per l’elezione dei vescovi di Siracusa di Catania, di Girgenti e di Mazzara, fatta tosto dopo la partenza di Urbano. In essi si erige il vescovado e si sceglie il vescovo, senza il consenso del pontefice e l’intervento del legato pontificio, come papa Gregorio avea espressamente voluto che si facesse in appresso; si stabiliscono i confini delle diocesi; si assegnano le città soggette ad ogni vescovo; e finalmente si dichiara scomunicato chiunque contravvenisse a ciò che si stabilisce nel diploma; insomma si veggono in questi atti manifestamente confuse la civile e l’ecclesiastica autorità. Oltracciò papa Urbano, che forse s’era riserbato in petto il dritto di metter dell’un dei lati il convegno di Troina come ne avesse il destro, dieci anni dopo la sua venuta in Sicilia, destinò suo legato nell’isola il vescovo di Troina, senza farne parte al conte, di che questo alto si dolse; perchè Urbano ritrasse addietro l’elezione (182), e mise fuori la famosa bolla nella quale espressamente dice di concedere in iscritto, ciò che prima avea promesso in parola, cioè che, durante la vita di Rugiero, di Simone suo figliuolo e dei legittimi successori, non manderebbe nissun legato nei suoi stati, senza il suo consenso; che da lui si facesse tutto ciò che avrebbe a fare un legato pontificio; che nel caso di una convocazione di concilio, il papa scriverebbe al conte di mandare i vescovi de’ suoi stati, ed egli fosse in dritto di mandarne quali e quanti vorrebbe (183).
In quest’età, in cui il progresso de’ lumi e la maggior consistenza de’ governi hanno reso stanti que’ diritti, che un tempo i romani pontefici credevano avere sugli stati altrui, reca maraviglia come per secoli si sia menato tanto rumore di tale bolla, la quale al postutto nulla conduceva al conte di Sicilia al di là di ciò, che ogni principe ha il dritto di fare. Ha dritto ogni sovrano di tener l’entrata negli stati suoi a qualunque persona, e particolarmente a quella che venga vestita di straniera potestà: ha dritto di regolare giusta i sacri canoni le cose ecclesiastiche dei suoi domini; ha finalmente il dritto di non permettere che s’allontani chiunque è addetto al servizio dello stato, sia militare, civile od ecclesiastico. Ma in quell’età, in cui i romani pontefici tenevano che alla loro autorità qualunque altra in tutto e per tutto dovesse dar luogo; in cui non sempre pure erano le intenzioni, nè sempre illibati i costumi dei legati pontifici (184), l’essere il sovrano stesso investito per sè e suoi di tutte le facoltà di legato pontificio era privilegio di gran momento. E soprattutto tale lo rendeva il dritto, che indi veniva, di decidere in ultimo appello le cause definite dai tribunali ecclesiastici, le quali avrebbero dovuto portarsi in Roma. I monarchi siciliani hanno di allora in poi esercitato questa eminente prerogativa, con destinare a ciò un ecclesiastico conventato, che ha il titolo di Giudice della Monarchia ed apostolica legazione.
La riunione della civile ed ecclesiastica potestà nella stessa persona del principe, assai valse a render più saldo il governo del conte; imperciocchè più rispettabile ei ne fu agli occhi dei sudditi secolari, ed in pari soggezione tenne gli ecclesiastici, che allora molto potevano. E però potè Rugiero con franca e sicura mano dar opera ad ordinare anche il governo politico.
III. — Era allora la Sicilia popolata da più generazioni d’uomini, diversi di origine, di lingua, di religione, di governo, di leggi e di costumi. Oltre ai discendenti degli antichi abitatori, v’era Greci e Seracini in gran numero, vi era Ebrei e Lombardi; ed a costoro vennero ad aggiungersi i Normanni. Abitavano essi tal volta mescolati nella stessa terra; ma per lo più tenevano distinto paese. Quella provincia che oggi si dice Val Demone, era in gran parte popolata di Greci, che quindi potevano avere più facile comunicazione colla Romania; l’altra, che guarda l’Affrica, era frequente di Saracini; i Lombardi stanziavano in Piazza, Butera, Randazzo, Nicosia, Capizzi, Maniaci ed altri luoghi entro terra.
Nè i tempi consentivano il fare un nuovo ordine di leggi generali, e sottoporvi indistintamente, qualunque fossero gli abitatori dell’isola, nè il conquistatore aveva forza e lumi da ciò. Con avveduto consiglio il conte lasciò che ognuna di quelle genti continuasse a reggersi colle sue leggi particolari, e furon fin rispettate le domestiche consuetudini d’ogni famiglia. Anzi gli Ebrei ed i Saracini, eccetto coloro, che presi in battaglia, erano stati ridotti in servitù e si dicevano villani, conservarono l’esercizio dei dritti civili; ritennero i beni loro; ed ebbero notai della loro nazione, per poter contrarre alla maniera loro (185). Indi avvenne che i Siciliani ed i Greci continuarono anche dopo la conquista a governarsi col codice di Giustiniano, come avevano fatto sotto i Saracini; i Lombardi vivevano secondo le consuetudini e ’l dritto di Longobardi; il corano continuò ad essere la suprema legge dei Saracini; e pei Normanni valeva il dritto dei Franchi (186). Da ciò nacque altresì la necessità di usare contemporaneamente la lingua greca, la latina e l’araba in ciò che voleva farsi noto al pubblico. Si conservano ancora diplomi, iscrizioni, monete di quell’età, trilingui.
Per la ragione stessa lasciò il conte gli stratigoti, stabiliti dal governo bizantino, ad esercitare il criminale nelle provincie o distretti; ed i vicecomiti, a rendere ragion civile in ogni terra o città e riscuotervi i tributi (187). Semplicissima era poi la maniera di procedere nelle civili, come s’addiceva ad un popolo nuovo, pressocchè tutto militare. Tranne pochi privilegiati personaggi, ai quali era dato mandar causidici a difendere le loro ragioni, tutti gli altri dovevano comparire in persona. In ogni contesa si sceglieva una giunta degli uomini più distinti della terra, ai quali presedeva il vicecomite. Nulla si proponeva in iscritto. Se era del caso una ispezione locale, il vicecomite, la giunta, i contendenti, i testimoni si recavano sul luogo; si ascoltavano le dimande, le risposte, i testimoni; la giunta profferiva la sentenza; il vicecomite la faceva di presente eseguire; ed il piato appena nato finiva (188). Ove poi contendevano persone eminenti in dignità, il principe delegava straordinariamente alcuni loro pari a giudicare; ma il giudizio procedeva colle stesse semplicissime forme (189).
Ai vicecomiti apparteneva del pari il riscuotere la rendita dello stato, la quale allora si componeva di tributi e dei servizi. Un dazio si pagava in Catania sopra tutte le derrate, delle quali si dovea dare la decima; un dazio nella compra e vendita delle legne; un dazio sull’olio e sulle pelli degli agnelli; un dazio nel valicare il fiume; pagavano nei mulini un tumolo di frumento ed un mondello di farina per salma; e pagavano in danaro la decima delle pecore e de’ latticcini. Gabelle si pagavano in Palermo sopra i macelli, i caci, i pesci, le frutta, l’olio e ’l vino; v’erano le gabelle della tinta, del filetto e del fumo; e gabelle si pagavano nel porto, nelle porte, ne’ mulini, nei bagni. Dazi si pagavano in Messina sulla tinta, sull’olio, sul macello, sugli erbaggi, sulla pesca, sui bagni pubblici. Ed imposte della stessa natura pagavano quei di Girgenti, di Sciacca e di Licata. Oltracciò i Saracini andavan soggetti a quel tributo stesso, ch’essi avevan fatto pagare ai cristiani pel libero esercizio della loro religione, e si diceva gesia. E, se il Novairo dice che il conte Rugiero non lasciò ai Saracini nè bagni, nè botteghe, nè mulini, nè forni (190), pare che ciò non debba intendersi in altro modo che l’aver gravato di dazio i bagni, le botteghe, i mulini ed i forni dei Saracini. Lo stesso dazio della gesia si pagava dagli Ebrei. Ed alcune popolazioni di Lombardi andavano soggette al peso della marineria, ch’era l’apprestare o uomini o danari per lo mantenimento dell’armata (191).
Ove si consideri che il conte Rugiero in tutti i suoi diplomi si dava il vanto d’esser venuto ad affrancare i Siciliani; e che a tal suo linguaggio si accordano le espressioni degli storici contemporanei; non sembrerà verisimile che tante gravezze fossero state da lui per la prima volta imposte. E’ sarebbe più ragionevole il credere che abbia egli trovato quei pesi, imposti già dal governo saracino; ed egli altro non fece che sottoporvi anche que’ Saracini che restarono nell’isola. E ciò rende ragione del non essere le imposte da per tutto uniformi. Ma la natura del nuovo governo portò seco la necessità di volere dai sudditi, oltre a quegli ordinari tributi, servizi straordinari che nel linguaggio dei tempi si dicevano angherie e perangherie; e ciò erano, il dare in ogni caso di guerra uomini all’esercito ed all’armata; il somministrare i servi e gli animali necessari all’equipaggiamento dei legni da guerra; l’albergare i soldati nelle case proprie, che si chiamava dritto delle posate; il prestar l’opera e il legname per la costruzione e lo ristauro delle fortezze; ed oltracciò in quei casi in cui i feudatari erano obbligati a pagare al Principe quel tributo che si chiamava adiutorio o sussidio, il resto della nazione uno ne pagava, che si diceva colleta.
IV. — Pur comechè nulla o poco avesse il conquistatore alterato le antiche istituzioni, una da lui introdottane fu di tal momento, che, spente grado a grado tutte le altre, venne, col volger degli anni ad informare il dritto pubblico di Sicilia; ciò furono le concessioni dei feudi. S’ingannano a partito coloro i quali pensano che tutta la superficie di Sicilia sia allora divenuta feudale. Nessuna prova abbiamo che i Saracini e poi i Normanni abbiano spogliati dei beni loro quei cittadini che non si tramettevano in cose di guerra. Il conte Rugiero dispose solamente di ciò, ch’era appartenuto agli ottimati saracini, da lui vinti o fugati, che per dritto di conquista divennero suoi, i quali potevano essere la maggiore e la più nobile parte dell’isola, non il tutto. Però restarono i possessori di quei beni, che, a distinzione dei feudali, erano chiamati allodiali; e, perchè nelle lingue teutoniche bourg suona città, borgesi furono chiamati i cittadini, e burgensatici i loro beni.
Di tutti gli altri dominî, il conte ritenne per sè una parte, che costituì il suo patrimonio, che nei tempi d’appresso fu detto demanio, e quindi traeva il mantenimento della sua famiglia e le ordinarie spese del governo. Degli altri fece larghe concessioni ai principi suoi congiunti, alle chiese ed a coloro che avevano sotto lui militato. Dei suoi tre figliuoli, Giordano ebbe Siracusa e Noto; Goffredo Ragusa; Malgerio altre terre, e del contado di Butera, in cui si comprendeva Piazza ed altri villaggi popolati dì Lombardi, investì Arrigo, fratello della contessa, figliuolo di Manfredi marchese di Lombardia. Al vescovo di Catania concesse quella città ed Aci; al vescovo di Patti l’isola di Lipari, la città di Patti ed i castelli di Fitalia, del Salvadore e di Librizzi; a Goffredo Borello la valle di Milazzo; a Rugiero di Barnavilla, Castronovo; a Guglielmo Malaspatario, Argirò; ad Amerino Gastinello, Geraci; a Goffredo di Saggejo, Caccamo; a Rodolfo Borrello, Carini; a Rinaldo e Roberto Avenello, Partenico; all’arcivescovo di Palermo, il casale di Gallo con 94 villani; al vescovo di Mazzara, il casale di Bizir con altrettanti villani; all’arcivescovo di Messina il castello d’Alcaria e il casale di Rahalbut, abitato da Saracini; ai monasteri di Mandanici, di Gala e di Agrilla, quei villaggi; ed innumerevoli furono le concessioni di lati campi, di tenute, di fiumi, di montagne, di boschi e di terre disabitate (192).
Tutte queste possessioni cambiarono allora natura e divennero feudi; ma non tutti i feudi erano uguali in dignità nè portavan seco gli stessi dritti ed i doveri stessi. Feudi di primo ordine erano le contee; inferiori eran le baronie; avevan l’ultimo luogo i feudi semplici; perciocchè più feudi formavano una baronia; più baronie una contea; più contee un sovrano dominio. È per ciò che Rugiero dicea di dovere egli essere il primo a combattere, per essere il primo a possedere ed a distribuire (193). Nè sempre le concessioni si facevano direttamente dal principe, nel quale caso si diceva tenere il feudo in capite; un conte poteva concedere alcuna baronia, un barone alcun feudo, e questi si chiamavano suffeudi. Indi nacque la distinzione di feudi che si tenevano in demanio, e di quelli che si tenevano in servizio. Nell’uso poi tutti eran compresi nel nome generico di baroni.
E perciocchè la base del governo feudale era la obbedienza ed i doveri del feudatario in verso del suo signore, di gran momento era e solenne l’atto, che nel linguaggio dei tempi si diceva investitura. Posto il nuovo feudatario ginocchioni, innanzi al suo signore, che stava a sedere, con esse le mani stese e congiunte tra le mani di questo, pronunziava ad alta voce il giuramento di difendere la vita, l’onore, le membra di lui; di servirlo ed ajutarlo contro chiunque lo volesse offendere. Da quel momento andava egli soggetto a tutti i doveri, e poteva esercitare i dritti annessi alla nuova dignità. Ciò non però di manco, s’ei volea edificare nel feudo alcuna fortezza, doveva ottenere dal principe il permesso, e prestare per quella un nuovo giuramento. Fu questa la ragione, per cui Angelmaro fu tenuto ribelle, per avere fabbricata una torre in quella parte della terra di Geraci a lui conceduta, senza intelligenza del conte. Il feudatario veniva allora chiamato uomo, ligio, fedele, vassallo del signor concedente; e dalla parola homo, nacque homagium con cui in quell’età sì designava l’atto di riconoscere la suprema autorità del principe.
Il dritto pubblico dei tempi aveva fissato i doveri dei vassalli verso il principe. Andavano essi primieramente soggetti ad una prestanza in danaro per lo riscatto del signore, se veniva a cadere in servitù; e quando armava cavaliere uno dei suoi figlioli o maritava una figliuola. E ciò si diceva adjutorio o sussidio. Morto il feudatario, il successore di lui doveva al principe il relevio, che era anch’esso una prestanza. Ma il principale dovere, che portava seco il feudo, era quello di armarsi ad ogni richiesta del signore e seguirlo in campo e combattere in difesa di lui. E però i feudatari costituivano allora l’esercito dello stato, ed i feudi erano i loro stipendi. Indi è manifesto il perchè militi si dicevano essi, e braccio militare si chiamò nei tempi d’appresso quella parte del parlamento, in cui convenivano i baroni del regno.
Ma la legge feudale aveva fissati i limiti di tale importantissimo servizio. Ogni feudo rispondeva alla rendita annua di vent’once, e per esso si doveva il servizio di tre fanti e tre cavalli per tre mesi. Se il feudatario voleva esentarsi dal servizio personale, doveva pagare tre once e quindici tarì al mese, o sia dieci once e quindici tarì per ogni vent’once di rendita (194). Indi si vede la ragione, per cui in quell’età i più grandi appresti di guerra tornavano spesso infruttuosi; perocchè i guerrieri se non erano ritenuti dalla speranza di personali acquisti, compito il termine del servizio abbandonavano il campo, senza che i principi avessero avuto dritto e mezzi di ritenerli.
Erano finalmente i feudatari obbligati ad assistere il loro signore, non che colla spada in guerra, ma col consiglio in pace. I popoli settentrionali, che invasero il romano impero e vennero a fondare le moderne monarchie, ebbero sempre il costume di trattare in comune i pubblici affari. Si adunavano quei guerrieri, ed in quelle adunanze i supremi capitani potevano persuadere, non comandare (195). Ridotte poi a nazioni quelle barbare masnade, divenute leggi stabili le antiche loro consuetudini, ciò fu anche più necessario; imperciocchè non sarebbe stato possibile esigere obbedienza da sudditi trapossenti, nelle cui mani era la forza pubblica, se gli atti della suprema potestà non fossero stati validati dal loro consenso. E però le adunanze dei feudatari, che poco appresso furono in tutta Europa chiamate parlamenti, nelle quali si giudicavano i misfatti e le civili contese dei feudatari stessi, e si consultava intorno ai grandi affari dello stato, erano il costitutivo dalle monarchie feudali; e l’intervenirvi era servizio, non diritto (196).
I prelati di Sicilia ebbero sian d’allora sede in quelle adunanze, per essere anch’eglino feudatari; perocchè tutte le concessioni loro fatte erano feudali, avvegnacchè il conquistatore per un particolare rispetto alla santità del loro ministero, gli abbia sempre fatto esenti del peso di militar di persona e spesso delle altre prestanze. Nel diploma della concessione fatta al monastero ed al vescovo di Catania, si dice che avendo quei monaci chiesto al conte a qual peso li voleva soggetti, dichiarò null’altro volerne che un pane ed una tazza di vino, sempre che egli od alcuno dei suoi successori visitassero il monastero (197). Ad altri fu imposta una semplice ricognizione di frutta e d’erbaggi.
Ma simili esenzioni si trovano accordate talvolta ad altri feudatari, comecchè non ecclesiastici, i quali venivano solo obbligati a dare al signore un paio di guanti, di sproni, o di tali altre bazzecole. Ciò non però di manco, tali concessioni erano puramente feudali e dritti feudali esercitavano quei privilegiati baroni, nè andavano eglino esenti del peso d’intervenire alle adunanze convocate dal principe (198).
Tali erano i pesi, cui andavan soggetti i feudatari: eglino poi, oltre all’usufrutto del feudo (che la proprietà restava sempre al principe) esigevano per conto loro tutti quei servizi cui si trovavano obbligati gli abitanti del feudo; e spesso nella concessione stessa si specificava quali erano. Nella concessione del villaggio di Agrilla si veggono gli abitanti obbligati a zappare le terre del barone, e nelle sementi ad apprestargli ognuno un pajo di buoi per dodici giorni, e ventiquattro giornate nella messe; nelle vendemmie doveva ognuno portare un cerchio per le botti, e nelle feste di Natale e di Pasqua due galline e delle cacciaggioni; era oltracciò quella gente soggetta alla decima delle capre e dei porci. E nel concedere la terra di Mandanici, prescrisse il conte Rugiero, che ciascheduno degli abitanti desse al barone due bifolchi in ogni mese, ed una gallina nei giorni di Pasqua e di Natale.
Certo nella massima decadenza esser doveva l’agricoltura in una età, in cui era mestieri d’una angheria per coltivare la terra, e fin per avere i cerchi per le botti. E ciò sarà anche più manifesto ove si consideri che i baroni non sempre si tennero entro i confini della legge. Tanto smodate furono le gravezze imposte a quei di Libbrizzi, dopo che quella terra fu concessa al monastero in Lipari, che quei meschini finalmente nel 1117 ne chiesero un qualche alleviamento all’abate Ambrosio, il quale, consultato l’affare coi suoi monaci, stanziò che quindi innanzi travagliassero pel monastero solo una settimana in ogni mese; di che si tennero tanto lieti che spontaneamente aggiunsero per soprassello altre quaranta giornate di lavoro coi propri buoi nel corso dell’anno, una nelle messe, e due nelle vendemmie.
Esigevano oltracciò i feudatari tutti i dazi, che dalla gente di suo vassalaggio si pagava nelle strade, nelle piazze, nelle porte, nei campi, e fin le dogane, che sono state sempre il dritto sovrano, si trovano in quell’età concesse ai feudatari di primo ordine, quali erano il vescovo signore di Catania e il conte di Siracusa.
Ma il dritto più eminente, che esercitavano i baroni, era quello d’amministrare la giustizia nei loro feudi. Non è già che tal dritto era inerente alla natura del feudo; se ciò fosse stato non sarebbe stato mestieri un’espressa concessione del principe; ma nel fatto in tutte le concessioni di feudi in quell’età si trova, con più o men latitudine, concesso quel dritto. A tutti i feudatari si dava la bassa, o sia la civile giurisdizione; l’alta, ossia la criminale, non a tutti s’accordava; ed in que’ casi stessi, in cui tal dritto era concesso, s’eccettuava sempre il giudicare di quei delitti che meritavano la pena di morte, come l’omicidio e l’alto tradimento. Quando era concessa solo la bassa giurisdizione, i baroni ne delegavano l’esercizio ad un vicecomite in ogni terra di lor dipendenza; se poi era loro data anche la criminale, destinavano uno stratigoto per tutta la signoria (199). Da ciò è manifesto, che in quell’età le due più eminenti funzioni del governo, la difesa pubblica e la pubblica giustizia, erano patrimonio ereditario di alcune famiglie.
V. — È a questo luogo richiesto l’esaminare lo asserto di alcuni scrittori, che i feudi di Sicilia furono nella loro origine propriamente suffeudi; perocchè la Sicilia stessa fu, a creder loro, feudo del ducato di Puglia; pigliandone argomento dal detto di Malaterra che, presa Palermo, il duca Roberto volle per sè la città, e lasciò che il conte Rugiero si avesse il resto dell’isola, da tenerla da lui (200); e dalle parole di Leone d’Ostia, che il duca allora investì il fratello della Sicilia (201). Ed il Gregorio, che tenne tale opinione, riferisce assai autorità di storici e di diplomi, in cui il conte Rugiero è chiamato uomo ligio del duca di Puglia (202). Ma qui non si pon mente ad un fatto, cioè: che quando Rugiero venne per la prima volta a cercar ventura in Puglia, ebbe dal maggior fratello concessa la terra di Mileto in feudo; e forse anche in feudo a lui concesse la metà delle terre di Calabria; però a buon dritto era chiamato uomo ligio del duca di Puglia; nè per lo divenir sovrano di Sicilia furono rotti quei vincoli feudali. Mille esempi offre la storia di quell’età di principi potentissimi, ch’erano reciprocamente vassalli e signori, per feudi che ognun di loro avea nel regno dell’altro. E però il chiamare Rugiero il duca di Puglia suo signore, il chiamar questi il conte di Sicilia suo uomo, non prova che la Sicilia era il feudo, onde nasceva la dipendenza; per cui tutta la prova sta nel de se habendam del Malaterra; e nell’investiens di Leone d’Ostia, anzi nelle sole parole del primo.
Leone d’Ostia, prima monaco benedettino, e poi cardinale, scrisse la cronaca del monastero di Monte Casino, di cui era bibliotecario, sino all’anno 1086, e perchè il duca Roberto largamente donò quel monastero, a lui solo egli dà la gloria della conquista di Sicilia; e dice che, venuto egli con grande armata nell’isola, prese prima Catania, poi Palermo, poi Negarim ed investendo Rugiero di tutta l’isola, tenne per sè la metà di Palermo, di Demena e di Messina (203). Certo uno storico imparziale non può dar tanto peso ad una parola di tale scrittore, che va tanto errato ne’ fatti essenziali.
Restano adunque sole le parole del Malaterra, alle quali, può aggiungersi che Roberto Guiscardo e ’l suo figliuolo Rugiero ebbero il titolo di duchi di Puglia e di Sicilia; le quali cose avrebbero gran peso, se i fatti non provassero il contrario. Primieramente in tutte le sue imprese il duca Roberto chiamò sempre il servizio militare di tutti i suoi baroni; ma non cercò mai quello dei conti di Sicilia; ed il Malaterra dice espressamente in questi casi, che chiamò i baroni di Puglia e di Calabria. Da questi soli volle il sussidio feudale, quando la sua figliuola si maritò con Azzone di Lombardia; e questi soli chiamò nella grande spedizione sua contro l’impero bizantino. E vuolsi qui considerare un fatto riferito dal Malaterra (204). Roberto era tanto avido di dominare, che non pativa che altri possedesse alcun che, presso ai suoi dominî, senza dichiararsi suo vassallo. Goffredo di Conversano, figliuolo di una sua sorella, aveva acquistato la città di Montescaglioso, dalla quale erano dipendenti molte terre e castella. Roberto comecchè non avesse avuto alcuna parte alla conquista, volle che il nipote gliene prestasse omaggio. Negatosi quello, gli fu sopra con tutte le sue forze, e di viva forza lo strinse a riconoscerlo in supremo signore. Or non è credibile che un uomo tale avesse o per generosità o per negghienza, trascurato di chiedere in tutte le occasioni, che ne avea mestieri, il servizio del conte di Sicilia, dal quale avrebbe potuto avere e navi ed armati in maggior numero che non avrebbero potuto darne tutt’insieme i baroni di Puglia e di Calabria. E, se Rugiero venne spesso in Puglia ad aiutare il fratello, ciò fu pei legami del sangue, per cui Roberto venne anche spesso in aiuto di Rugiero in Sicilia. Ed è tanto vero che quei soccorsi erano volontarî, che, quando i duchi di Puglia li cercarono dal conte o dal suo figliuolo, ne li rimeritarono sempre colla cessione della loro parte di Calabria, colla metà di Palermo, e poi coll’altra metà.
Morto il conte Rugiero, nè il piccolo Simone suo figliuolo, nè Rugiero fratello di lui, nell’ascendere il trono paterno pagarono il relevio o in altro modo ebbero mestieri d’essere riconosciuti dal duca di Puglia. In somma nissun fatto può addursi per provare la supposta dipendenza feudale della Sicilia.
È al contrario di gran momento ciò che narra Falcone Beneventano, scrittore di quell’età. Guglielmo duca di Puglia nel 1122, per punire la tracotanza del conte d’Ariano suo vassallo, si diresse al secondo Rugiero, allora conte di Sicilia, che in quelle parti si trovava, e pregando, e piangendo così gli parlò: «Imploro la vostra potenza, egregio conte, e pei legami del sangue, e per la copia delle ricchezze vostre, avendo a dolermi del conte Giordano; acciò col vostro aiuto possa trarne vendetta (205).» Non è questo certamente il linguaggio di un sovrano che avesse avuto dritto di chiedere quel servizio ad un suo vassallo. Quelle espressioni e quel fatto, narrato da uno scrittore che era ivi presente (206) certo pesano più del se habendam del Malaterra; ma il Malaterra, come segnò la concessione feudale della Sicilia, fatta da Papa Leone IX al conte Unfredo, da lui riferita in termini espressi e positivi, potè in questo luogo usare una falsa locuzione, la quale è propria dei tempi per designare una concessione feudale, ma i tempi, non ne conoscevano altre; perchè non altre idee avevano gli uomini; e però quella frase poteva avere un senso più generale. E se il duca Roberto e’ suoi figliuoli usarono il titolo di duchi di Puglia e di Sicilia, ciò fu, perchè vi possedevano la città capitale, e perchè il Guiscardo, che giunse alla sovranità prima di Rugiero, conservò sempre una certa prevalenza sopra di lui, onde menar vanto d’esser egli a lui debitore del trono. In ogni modo le cose narrate, e quanto siam per narrare delle azioni del conte Rugiero e del suo figliuolo mostrano apertamente, ch’essi regnarono per dritto proprio e non per altrui concessione; e che fondarono in Sicilia una monarchia indipendente, e tale la tramandarono ai loro successori.
IV. — Dato ordine ai pubblici affari, non istette il conte a godersi ozioso la sua conquista; ma volle aggiungervi la vicina isola di Malta che ancora restava in mano dei Saracini. Mentre si faceva l’appresto per tale spedizione, Maniero conte d’Acerenza, da lui chiamato, si negò; anzi disse che vorrebbe recarsi in Sicilia, per far danno, più presto che prò. Imbizzarrito a ciò Rugiero, sospesa la spedizione di Malta, passò in Calabria con tutte le sue forze; e per punire quel tracotato, strinse d’assedio Acerenza. Spaventato Maniero dalle prepotenti forze del suo signore, venne fuori con tutto il suo bestiame e i suoi tesori, e diede se e quanto avea in braccio di lui, il quale generoso com’era, gli restituì tutto; solo, per correzione, gli fece pagare mille soldi d’oro.
Fatto ritorno in Sicilia nel luglio del 1091 l’armata si diresse a Malta. Per essere la galea del conte più celere delle altre, giunse egli il primo e con soli tredici militi, che seco erano attaccò e volse in fuga la torma ch’era venuta a contrastargli lo sbarco. Il domani tutto l’esercito cinse d’assedio la città. Il gaito, che vi comandava, ed i cittadini stessi, per la lunga pace divezzi dalle armi, vennero fuori a chieder pace, e l’ebbero a tal patto; che dessero libertà a tutti gli schiavi cristiani; che dessero oltre i cavalli, i muli e le armi loro, una gran somma di danaro; che pagassero un’annuo tributo; e che giurassero di prestare al conte quel servizio, di cui fossero richiesti.
Rimessosi in mare, sottomessa anche l’isola di Gozzo, venne il conte in Sicilia, ed offerì a tutti quei cristiani ricattati, che seco menato avea, di fabbricare per essi una nuova città, che avrebbe fatta immune di qualunque gravezza; e però l’avrebbe chiamata Villa-franca, se volevano restare in Sicilia; o provvederli del bisognevole e far loro le spese del viaggio sin oltre al faro, se volevano tornare alle case loro. Quest’ultimo partito tennero; e sparsi poi per l’Europa, tanto predicarono la generosità e il coraggio di lui, che il suo nome ne crebbe a più doppî.
VII. — In questo, i Cosentini s’erano ribellati dal duca di Puglia; Rugiero, il quale, inabile a ridurli all’obbedienza; comechè a lui si fosse unito Boemondo principe di Taranto suo fratello, invitò lo zio a venire in suo aiuto colla sua gente; ed egli per l’amor del nipote v’accorse, menando seco molte migliaia di Saracini, oltre le schiere dei militi (207), nel maggio del 1092. I Cosentini, rifatte le bastite della città, provveduto ogni bisognevole, resisterono lunga pezza, confidando nel valore degli arcieri e frombolieri loro, che tenevano in distanza gli assalitori. Pure il conte, vigile ed attivo sempre, tanto fece, or persuadendo, or minacciando, che coloro, conosciuto di non esser vane nè la sua persuasione nè le minacce sue, in lui si rimisero; egli fece che tornassero all’obbedienza del duca, e questi, per puro rispetto dello zio, loro condonò ogni offesa; e, per ricompensar lui del soccorso, gli cesse la metà della città di Palermo (208).
Ma il gaudio per tale acquisto fu nel conte avvelenato dalla perdita del suo figliuolo Giordano conte di Siracusa, solo dei maschi che a lui restava, per essere Goffredo morto alcun tempo prima. Il padre dolentissimo, per onorare la memoria dello estinto figliuolo, da Siracusa ov’era morto, fece con funebre accompagnamento trasportare il cadavere a Troina, ove fu sepolto nella chiesa di S. Niccola, alla quale nuove largizioni di beni fece. Ma il lutto non guari dopo fu dileguato dalla gravidanza della contessa, che poi diede alla luce un maschio ch’ebbe nome Simone.
In questo la grave infermità di Rugiero duca di Puglia, per cui corse voce d’esser morto, destò nuove turbolenze in quello stato. Il principe di Taranto si mise in possesso dei castelli del fratello, dicendo volerli tenere, come legittimo tutore dei due nipoti, sino alla costoro maggiore età. E fu leale; perocchè, come seppe d’esser falsa la notizia della morte del fratello, venne a trovarlo in Melfi, ed a lui restituì le castella. Non così fece Guglielmo di Grantmesnil, cognato del duca, per essere la Mabilia sua donna figliuola anch’essa del duca Roberto Guiscardo, Creduta costui vera la notizia della morte del cognato s’era insignorito della città di Rossano, nè per lo rimettersi quello in salute aveva voluto restituirla, per che il duca chiamato in aiuto lo zio da Sicilia, e col soccorso di Boemondo suo fratello, venne a capo di cacciarlo dai suoi stati. Egli andò allora a cercar ventura in Costantinopoli, ove acquistò grandi ricchezze; e, tornato dopo alcuni anni in Puglia, ebbe dal duca restituiti gli stati, eccetto la città di Santa Maura.
Mentre nella bassa Italia tali cose accadevano, fervea ancora la guerra tra l’imperatore Arrigo IV e papa Urbano II, al quale era venuto fatto di ribellare dal primo il figliuolo Corrado che col suo aiuto aveva levata una sommossa in Lombardia. E perchè a lui mancava il denaro per sostener quella guerra, col consiglio e la mediazione del papa, chiese in moglie una figliuola del conte Rugiero. Assentitovi questi, la fidanzata con gran corteo di baroni e ricchissima dote fu mandata a Pisa nel 1095, ove si celebrarono le nozze.
Non fu lungo il riposo del conte Rugiero dopo il maritaggio della figliuola. Mentre in Sicilia ogni cosa era composto, perchè saldi erano gli ordini pubblici stabiliti dal conquistatore, ed anche più saldo il suo braccio; i duchi di Puglia erano in continua lotta coi baroni e le città di quel ducato; e il conte, ch’era scudo e sostegno di tutti i principi della sua famiglia (209) doveva sempre accorrere in loro difesa. Gli Amalfitani, che mal pativano la perdita dell’antica loro libertà e per essere tutti di sangue lombardo, odiavano i Normanni e la nuova lor signoria, si giovarono della confidenza, che in essi ponea il duca Rugiero, per cui senza sospetto a loro affidava la custodia dei castelli ivi eretti dal duca Roberto per tenerli in soggezione, e levati in armi nel 1096, negarono l’ingresso in città allo stesso duca ed a tutti i Normanni; nè vollero più pagare i tributi e prestare i servizi loro imposti. Il duca, per sottometterli, chiamò in suo aiuto il fratello Boemondo e lo zio al quale promise la metà della città, se fosse stata sottomessa (210). La città, stretta da tutte le parti era per arrendersi, quando ebbe soccorso onde meno lo sperava. Papa Urbano II aveva in quell’anno stesso bandita la famosa crociata, per liberare la città di Gerusalemme dal giogo dei Musulmani. I più illustri cavalieri di quell’età, presi da religioso e guerriero entusiasmo, corsero là ove la voce generale del secolo li chiamava. Boemondo principe di Taranto, che, per aver militato col padre in oriente, conosceva i luoghi e la maniera di combattere di quei popoli, prese la croce, abbandonò il campo d’Amalfi e seco trasse il fiore, di quei guerrieri, sulla speranza d’acquistare in quelle parti maggior signoria e maggior gloria. Nè le sue speranze andaron fallite; la sua spada gli procacciò il regno d’Antiochia, e la immortale tromba del Tasso rese chiari i nomi di lui e di Tancredi suo nipote. Mancato così il miglior nerbo dello esercito, il duca e ’l conte ebbero a levar l’assedio; l’uno fece ritorno in Puglia, l’altro in Sicilia.
Ma non guari andò che il conte Rugiero ebbe a ritornare sul continente in difesa di un altro principe del suo sangue. Riccardo conte d’Aversa discendente del primo conte Rainulfo, seguendo l’esempio degli altri Normanni, aveva conquistato il principato dì Capua, cacciatone Landolfo ultimo principe della famiglia lombarda; alla costui morte era successo e nel principato e nella contea Giordano suo figliuolo; ma lui morto, i Lombardi, dei quali il principato era pieno, avvantaggiandosi della minorità di Riccardo soprannominato il giovane, su figliuolo, lo cacciarono da Capua. Venuto costui in età maggiore, inabile da se solo a riacquistare la perduta provincia, ebbe ricorso al duca di Puglia ed al conte di Sicilia, a lui congiunti di sangue, per essere stato Riccardo primo principe di Capua avo di lui, marito d’una sorella del duca Roberto Guiscardo e del conte Rugiero; e per maggiormente indurveli, dichiarò il principato di Capua feudo del ducato di Puglia, ciò che il Guiscardo stesso aveva mai potuto nè per lusinghe, nè per minaccie ottenere; e promise a Rugiero la città di Napoli, senza che avesse avuto alcun dominio sulla stessa, che allora era repubblica indipendente. Ma più di tal vana promessa, valse ad indurre il conte l’essere stata a lui spedita dal duca suo nipote la sua stessa duchessa, che figliuola era del marchese di Fiandra. Non si potè negare il conte a tanta messaggiera; col più numeroso esercito, che avesse mai raccolto venne sul continente nel 1097; e sotto le mura di Capua s’unì alla gente del duca e del principe.
Papa Urbano II, mosso dal desiderio di comporre le cose senza spargimento di sangue e forse dalla speranza che i principi combattenti avessero in quella vece portate le armi all’impresa di terra santa, che gli stava tanto a cuore, si recò di persona al campo degli assalitori, e propose di fare terminare da giudici da lui scelti le ragioni del principe Riccardo e dei Capuani, se le due parti promettevano di stare alla costoro sentenza. Il principe e ’l duca, così consigliati dal conte, lo promisero; lo promisero del pari i Capuani. Esaminati i diritti dell’una e dell’altra parte, i giudici menarono buone le ragioni del principe, ma i Capuani, pentitisi allora di ciò che avevano promesso, dichiararono di non potere o volere eseguire la sentenza; però papa Urbano li scomunicò, benedisse le armi degli assalitori e si ritirò in Benevento.
I Capuani ebbero allora più grave ragione di pentirsi di non aver dato ascolto a consigli di pace; tale fu la gagliardia e la vigilanza de gli assalitori e particolarmente del conte, nella condotta dello assedio, che pur finalmente ebbero ad arrendersi e riconoscere Riccardo in loro signore. La fortuna, che in tutto prosperava allora il conte Rugiero, fece che durante l’assedio la sua contessa venne gravida e diede poi in luce un secondo maschio che ebbe lo stesso nome del padre.
Recata così a lieto fine l’impresa, il duca e il conte si ritirarono in Salerno. Papa Urbano vi venne anch’egli da Benevento. Con molta dimestichezza si trattenne più giorni col conte di Sicilia ed ivi pubblicò la ricantata bolla dell’apostolica legazione. Poco sopravvisse il pontefice, il quale morì nel luglio del 1099.
VIII. — Due anni appresso, nel luglio del 1101 venne a morte il conte Rugiero e fu sepolto nella cattedrale di Mileto, da lui edificata e largamente dotata. Fu egli bellissimo di gran taglia, scarzo, destro nel manegiare le armi; ed a ciò univa estrema forza, non minor coraggio, eloquenza, sagacità, maturità di consiglio, modi piacevoli. Due guerrieri della stessa nazione impresero e recarono a fine nello stesso tempo la conquista di due isole poste agli estremi d’Europa; Guglielmo dell’Inghilterra, Rugiero della Sicilia, ed ambi si distinsero per lo valore, qualità allora comune a tutti di quella nazione. Certo diede prova Guglielmo d’altissimo intendimento nel comporre un governo tutto nuovo; ma non può schivar la taccia d’essere stato un crudelissimo oppressore dei suoi nuovi sudditi, ch’egli spogliò dei loro beni, per saziare la cupidigia dei venturieri normanni. Egli imprese e quasi recò a fine il reo disegno di spegnere tutte le famiglie opulenti di quel regno, egli volle abolite le leggi, le consuetudini e fin la lingua di quel popolo; egli ammise per la prima volta in quel regno un legato pontificio (211), di cui si valse d’istrumento per cacciare dalle loro sedi tutti i prelati ed appropriare i loro beni. Le sue oppressioni eran cagione di frequenti rivolte, ed ogni rivolta traeva seco nuove e più crudeli oppressioni, talmentechè la Francia, la Scozia, l’Irlanda furono allora pieni di profughi inglesi, quale accecato, qual mozzo le mani, qual tronco i piedi, e tutti miserrimi.
Il conquistatore di Sicilia al contrario, lungi dall’imprendere a sottoporre i Siciliani ad un nuovo governo, pare che avesse avuto il disegno di non far loro accorgere del cambiamento. Tranne quelle terre, che per dritto di guerra vennero in suo potere, delle quali rimunerò i suoi capitani e larghe donazioni fece alle chiese, non molestò mai gli antichi possessori. Mentre il conquistatore dell’Inghilterra, per far perdere al popolo vinto fin l’uso della lingua natale, istituì da per tutto scuole di lingua francese e volle che questa sola lingua si parlasse nelle corti di giustizia, nei parlamenti, nelle cattedre nel pergamo, il conquistatore siciliano conobbe esser più duro ai popoli l’esser molestati nelle private abitudini, che nei più gravi interessi, e però tutto ciò che doveva essere a notizia del popolo, volle che fosse scritto nelle lingue che si parlavano più comunemente in Sicilia. Mentre il conquistatore dell’Inghilterra ammetteva nel suo regno un legato pontificio, Rugiero seppe chiuder per sempre l’ingresso in Sicilia a chiunque potesse venirvi con tal carattere. Ma ciò che mette il conte Rugiero al di sopra, non di re Guglielmo, ma di tutti i principi dell’età sua, è la sua imparziale condotta verso tutti i sudditi suoi, quale che fosse stata la loro religione; egli zelantissimo della religione cristiana, legato alla chiesa latina, non molestò mai i Greci ed i Musulmani, che in gran numero erano in Sicilia; anzi di questi ultimi formò un corpo di milizia, che teneva sempre presso di sè, come a guardia della sua persona. Ed a tal sua lenità deve principalmente ascriversi, se in Sicilia, non s’intese pure uno zitto durante il suo governo; ovechè l’Inghilterra fu sempre nella vita di Guglielmo agitata da sforzi degl’Inglesi di scuotere il giogo del nuovo governo. E se Guglielmo potè darsi il vanto di essere il creatore del dritto pubblico d’Inghilterra, le tante sue innovazioni furono cagione dei disturbi che agitarono il suo regno e prepararono gli elementi a più gravi perturbazioni nei regni seguenti. Rugiero, conservando quanto trovò in uso in Sicilia, rese caro ai popoli il nuovo governo e spianò la strada alle riforme, che tranquillamente eseguì il suo successore. Ed al fin dei fini Guglielmo morì detestato da tutti i sudditi suoi; Rugiero fu accompagnato al sepolcro dal compianto dei Siciliani, dei Greci, dei Saracini, degli Ebrei, dei Lombardi e dei Normanni.
Fu questo principe tre volte ammogliato; I con Giuditta, figliuola del conte d’Evreux; II con Eremburga figliuola del conte di Moriton; III con Adelaide di Monferrato. Dalla prima moglie nacque solo Matilde, maritata al conte di Provenza. Ebbe dalla seconda Goffredo e Malgerio (di Giordano il Malaterra dice che nacque da una concubina) e sei figliuole, che tutte furono maritate, Matilde al conte d’Avellino, Flandria ad Ugone di Gircea, Giuditta al conte di Conversano, Busilla al figliuolo di Alamano re d’Ungheria, Violante a Corrado figliuolo dello imperatore Arrigo IV, ed Emma, che era stata chiesta da Filippo I re di Francia, e poi fu moglie del conte di Chiaramonte. Nacquero dalla terza moglie Simone e Rugiero.