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SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA] CAPITOLO XX. I. Prime azioni di Rugiero II. — II. Stato della Puglia. — III. Rugiero è riconosciuto duca di Puglia. — IV. Papa Onorio II lo scomunica: gli vien contro coll’esercito: si pacifica. — V. I baroni e le città di Puglia sono sottomessi. — VI. Il duca Rugiero assume il titolo di re: è coronato in Palermo. — VII. Sottomette Amalfi. — VIII. Nuova sommossa dei baroni di Puglia. — IX. Scisma della chiesa. — X. Battaglia di Scafato. — XI. Campagna del 1133 e del 1134. Sommissione del conte di Avellino e di tutta la Puglia. — XII. Rinnovazione della guerra. — XIII. Campagna del 1135. — XIV. Incursione dell’imperadore e del papa in Puglia. — XV. Ritorno del re. Battaglia di Ragnano. — XVI. Campagna del 1139. — XVII. Prigionia di papa Innocenzo. Pace. — XVIII. Sottomissione totale della Puglia. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I. — Di tutti i figliuoli del conquistatore soli Simone e Rugiero a lui sopravvissero; anzi tanto breve ed oscuro visse Simone, che molti pensano d’essere anch’egli morto prima del padre. Sin dall’infanzia Rugiero diede a conoscere non ordinaria elevatezza d’animo e perspicacia di ingegno. Vivente il padre, non altro erano i suoi fanciulleschi trastulli, che simulacri di guerra. Egli e ’l piccolo Simone si facevan capitani di due schiere d’altri fanciulli, che combattevano tra esse. Rugiero, che riusciva sempre vincitore in tali combattimenti, motteggiava il maggior fratello, dicendogli: Così trionferò di te dopo la morte di nostro padre e ti farò vescovo o papa: chè sei solo da ciò (212). Morti poi il conte Rugiero I, e non guari dopo il fratello Simone, finchè fu sotto la tutela della contessa Adelaide sua madre, nissuno andava a lui pezzendo, senza averne limosina; e se non aveva che dare, ne cercava con calde istanze dalla madre.
Venuto adulto ed armato cavaliere, cominciò a regger da se lo stato; e sin dalle prime si mostrò severissimo nel perseguitare e punire i ladroni ed ogni maniera di malfattori; e così bene sapeva regolare la spesa e le rendite sue, che presto venne ricchissimo; per che fu temuto e rispettato, non che dai sudditi, dai principi vicini e da’ lontani.
Pieno la mente dell’esempio paterno, agognava ad estendere l’ereditato dominio; nè stette molto ad aspettare il destro. Il governo di Puglia, non più sostenuto dal saldo braccio di Roberto Guiscardo, era tutto sconvolto; perchè Rugiero, figliuolo di Roberto, e Guglielmo, figliuolo di Rugiero, erano principi buoni e pacifici, qualità che mal s’attagliavano a’ tempi; per cui i baroni potentissimi di quello stato insolentivano a segno che quei duchi ebbero spesso mestieri dell’aiuto de’ loro congiunti di Sicilia. Nel 1122, come il duca Guglielmo era per entrare nella città di Fosco, Giordano conte d’Ariano gli si fece contro alla porta della città e gli tenne l’ingresso, minacciandolo di tosargli il montello (213), e poi mise a sacco tutti i dintorni della città. Il duca, inabile da sè solo a punire quel tracotato, ebbe ricorso a Rugiero II, per averne truppe e danaro, offerendogli in merito di quell’aiuto la metà della città di Palermo, che i duchi di Puglia ancora tenevano. Rugiero accettò il partito; mandò al nipote secento militi e cinquecent’once di oro; egli si mise in possesso della mezza città; il duca con quel soccorso sottomise il ribelle barone, il quale, spogliato di quanto possedea, ebbe dicatti salvar la vita per l’intercessione di altri baroni ed andò via.
Reso così padrone Rugiero di tutta la capitale di Sicilia pose l’animo alla conquista delle vicine isole minori; e perchè forse i Saraceni di Malta s’erano negati a pagare il tributo, imposto loro dal primo conte, colà si recò coll’armata nel 1127, od in quel torno. Quella ed altre isole erano già sottomesse, quando venne a notizia del conte la morte del duca di Puglia, suo nipote senza legittimi successori. E perchè credeva egli a lui spettare la successione, tornò di volo in Palermo per accingersi a conseguirla.
II. — Difficile era l’impresa. Molti e potenti erano coloro che lo avversavano. I primi Normanni che vennero con Guglielmo braccio-di-ferro alla conquista della Puglia e della Calabria, e quelli che in appresso agli altri fratelli si accompagnarono, ebbero nel conquistato paese vastissime signorie che di distretti più presto che di privati dominii avevan sembianza; tali erano quelle del principe di Bari, dei conti di Conversano, di Avellino, di Lorotello, di Monopello, di Ariano, di Andria, di Mantescaglioso, di Lecce, di Chiaramonte e le signorie dell’Aquila, di Chieti ed altre molte, le quali tanto estese erano, che il conte di Lorotello potè una volta concedere trenta castelli compresi nella sua contea. Tanta estensione di dominio dava maggior fomite a quello spirito di salvaggia indipendenza, proprio de’ popoli perisci, dai quali i baroni di Puglia e di tutta l’Europa traevan l’origine. E però ad ogni ragion di querela, che alcun di costoro aveva o credeva d’avere contro un altro, vedevi in tutta la provincia un chiamar di vassalli, un assoldar di schierani, un devastar di campagne, un incendiar di biade, un rubar di bestiame, un’assalir di castelli, uno spogliar ed uccidere di viandanti, di agricoltori, di pacifici cittadini, se pure ve n’erano in quell’età. E tanto generale era il mal vezzo, che gli stessi abbati del monastero di Montecasino, le cui possessioni, per le largizioni del duca Roberto Guiscardo e degli altri principi normanni, erano estesissime, invece della mitra e del pastorale, usavan più presto l’elmo e la spada, ned erano da sezzo in tali ribalderie.
A frenare il reo costume, che affliggeva tutta l’Europa, perchè la stessa ne era per tutta la cagione, fu introdotta nel principio nell’undecimo secolo la tregua di Dio, per cui era vietato assalire il nemico ne’ dì festivi ed in alcuni giorni della settimana; miserabile compenso, che poco o nulla valeva allora a riparare il male, molto vale ora a farci conoscere, che nulla era allora l’autorità dei principi, verso i quali i baroni conservavano la dipendenza militare, in ragione dell’opinione che avevano del loro personale coraggio; ma non si piegavano all’autorità civile di lui. Ed in tanto più indomiti e licenziosi erano i baroni di Puglia, in quanto ognuno dì essi poteva venire in campo con gran codazzo di feudatarii da lui dipendenti per gli stessi vincoli feudali. Venti baroni dipendevano dal conte di Montescaglioso; quattordici dal conte di Avellino; altrettanti dal conte d’Aquila; diciassette dal conte di Gravina; undici dal conte di Conversano; ed ognuna di quelle baronie era suddivisa in molti feudi.
Vassalli di tal potenza e di tal indole, comechè fossero tra essi spesso in guerra aperta e sempre in attitudine guerresca, s’accordavano nel non volere che la Puglia cadesse sotto il dominio di un principe, che sapeva, voleva e poteva imbrigliargli. Nè lo volevano i vicini principi; i duchi di Napoli, i principi di Capua e soprattutto i romani pontefici, a’ quali, nell’infanzia della loro potestà temporale, dava ombra la vicinanza di un principe potente ed ambizioso.
III. — Rugiero, preparate in Palermo le forze pel caso, in cui potesse averne mestieri, con avvedutissimo consiglio, s’avvicinò alla Puglia senza alcun apparato di guerra. Con sole sette galee s’accostò a Salerno, capitale del ducato: e senza pigliar terra, mandò dicendo a quei cittadini: a lui spettare per dritto la successione; averglielo l’ultimo duca Guglielmo promesso. Comecchè i Salernitani si fossero da prima con tanta ostinazione negati, che misero a morte un Sarolo, ch’era un di quelli che per parte del conte erano venuti in città, Rugiero sgozzò l’offesa e non si rimosse dei modi pacifici; per che quei cittadini finalmente si piegarono a riceverlo in città e riconoscere la sua autorità, con questo che in potere loro restasse il castello; e ’l savio Rugiero il consentì, sicuro di rifarsene, come avrebbe messo piede stabile su quel trono.
In questo, Rainulfo conte d’Avellino, che cognato era di lui, come seppe il suo arrivo in Salerno, a lui venne e propostogli dal conte Rugiero di prestare a lui come duca di Puglia l’omaggio, rispose: sè essere pronto, ove si dichiarasse a lui esser soggetto il conte d’Adriano. Ciò era contro tutte le leggi; però Rugiero si negava da prima; pensando finalmente che il valore e le grandi dipendenze di quel conte assai potevano valere per l’acquisto del ducato, concesse al cognato la dimanda e ne ricevè l’omaggio. Sull’esempio di Salerno e del conte di Avellino, la città di Amalfi riconobbe l’autorità di Rugiero colla stessa condizione di restar le fortezze in mano del popolo (214). E lo stesso fecero Troja, Melfi e quasi tutte le città e tutti i baroni di Puglia.
IV. — Sedeva allora sul trono pontificio Onorio II, il quale, come seppe i progressi di Rugiero, venuto a Benevento, in una messa solenne, dichiarò scomunicati lui e quanti sarebbero per dargli mano all’acquisto di Puglia. Tanto bastò perchè quei baroni, e prima fra tutti il conte d’Avellino, che forvoglia lo avevano riconosciuto, da lui si distaccassero ed al papa aderissero. Rugiero tentò tutte le vie di placar l’animo di Onorio; per suoi ambasciatori lo presentò di gran doni; gli profferì il dominio di due città, si esibì pronto a riconoscere da lui il ducato. Eran novelle. Rispose alle mansuete proposizioni di Rugiero iterando la scomunica; nè alle sole armi spirituali si tenne. Si strinse in lega con Roberto principe di Capua; per farselo maggiormente amico venne a Capua; ed alla sua presenza lo fece a quell’arcivescovo con gran pompa consacrare. Vi chiamò un sinodo di tutti i vescovi, nel quale scomunicò per la terza volta Rugiero; convocò tutti i baroni di Puglia, e con patetica allocuzione gli invitò alla guerra (215). E per dar loro maggior coraggio pubblicò una indulgenza plenaria di nuovo conio (216). Per cui tutti coloro, che pigliavano le armi in quell’impresa, restavano assoluti dei peccati; con questo che, se morivano in battaglia i peccati erano rimessi tutti, se sopravvivevano, una metà (217).
Tornate affatto vane le vie pacifiche, Rugiero, per far tornare in capo un po’ di cervello al pontefice, venne in Sicilia, chiamò il servizio dei baroni siciliani; vi unì un corpo di mercenarî, che egli teneva a soldo; e con tali forze, rivalicato il faro, chiamati anche i baroni di Calabria, venne da prima ad invadere il principato di Taranto, che era già appartenuto a Boemondo, il quale nel partire per la Palestina lo aveva lasciato sotto la tutela del pontefice. Taranto, Otranto, Brindisi, Castro, Oria si resero senza resistere; lo stesso facevano le città, che gli si paravano innanzi nell’inoltrarsi in Puglia.
Papa Onorio s’accinse a respingerlo colla forza. Venne fuori di Roma con trecento militi; chiamò il principe di Capua, il conte d’Avellino e tutti i confederati baroni; e con tali forze sotto il suo comando venne incontro al conte Rugiero «Ecco» dice qui il Di Blasi «alla testa delle schiere, contro un principe cristiano, e per motivi puramente mondani, un successore di San Pietro, cui Gesù Cristo aveva ordinato di riporre la spada nel fodero». I due eserciti furono a fronte a Vedo-petroso, il Bredano era fra essi. Conosceva Rugiero che l’esercito pontificio non poteva tenere a lungo la campagna; perocchè i baroni, che seguivano il papa, non tenuti dal servizio militare, si sarebbero presto annojati di mantenere a proprie spese le genti loro; ed il papa poteva dar loro; indulgenze, non danaro; e però, avvantaggiandosi del potere egli menare in lungo la guerra, per avere un corpo di mercenarii, e potere, spirato il termine del servizio, tenere a soldo i suoi baroni, venne a porsi ad oste sulle giogaje di que’ monti, ove, se i pontefici si fossero attentati di venirlo ad assalire, poteva combattere con gran vantaggio; senzachè dava così a vedere di non volere essere il primo ad assalire il capo della chiesa. Il papa e i suoi si fermarono nelle supposte pianure, come, per tenergli l’uscita. Stettero così quaranta giorni i due eserciti; era nel cuor della state; i baroni collegati e il papa stesso non potevano patire la sferza del sollione; senzacchè molti di quelli erano già ridotti a tale di vendersi fin le sopravvesti per mangiare; però alcuni nottetempo scantonavano, e tutti altamente mormoravano ed andavano a rilento nel servizio; e però papa Onorio, visto che l’esercito suo era per isciogliersi, mentre il conte di Sicilia serbava intere le sue forze, sbaldanzì a segno che mandò secretamente ad offerirgli la pace, a patto di recarsi in Benevento e ricever da lui l’investitura della Puglia. Acconsentitovi Ruggiero il papa fece ritorno in Benevento e quello venne a fermarsi sul monte Sanfelice, e quindi s’avanzò sino al ponte che era fuori della città, ove non volle entrare. Ivi venne a trovarlo il papa, ed in presenza di numeroso popolo gli diede l’investitura e le insigni ducali nell’agosto del 1128. Di che gravi querele nacquero tra il papa ed i baroni, che egli aveva chiamati all’armi.
V. — Il nuovo duca di Puglia, ottenuto senza trarre la spada quanto bramava, si volse a sottomettere Troja, città grande e forte, che a lui si mostrava avversa; ma trovatala munita sì, che sarebbe stato mestieri perdervi assai tempo ed assai gente riserbando alla nuova stagione l’impresa, venne a Salerno, per ritornare in Sicilia sulla fine dell’autunno. Prima d’allontarsi, Melfi ed altre città a lui volontariamente s’arresero. Non era appena arrivato in Sicilia, che Tancredi conte di Conversano assalì e prese Brindisi e tutte le terre che nell’invasione dell’anno antecedente avea perdute. Nella primavera del 1129, fatto ritorno coll’esercito nel continente, il duca, tentato prima senza far frutto l’assedio di Brindisi, presa e distrutta dalle fondamenta Castro, che pel conte di Conversano si tenea, si volse ad assediare Montalto. Qui un Roberto di Grantmesnil, ch’era uno de’ baroni che seguivano il duca, venne in sua presenza dicendogli: non potere egli più continuare nel servizio; perocchè il suo feudo era troppo piccolo, nè la rendita di esso era bastevole a trarne le spese; volere altre concessioni. Il duca rispose che sottomessa del tutto la Puglia, lo avrebbe fatto contento; ma quello, colla insolenza propria dei baroni di quell’età, dichiarò che se di presente non gli si dava quanto chiedeva, avrebbe rinunziato il feudo, si sarebbe ritirato, per andarne oltremonti; e senza fare altro motto lasciò il campo.
Caduta ivi a poco Montalto, il duca corse ad assalire le altre terre del conte di Conversano. Presi allora di paura il principe di Bari, lo stesso conte di Conversano e gli altri baroni, che avevano prese le armi, vennero volontariamente a sottomettersi. Il duca restituì allora al conte di Conversano le terre che gli avea tolte, ed ordinò a tutti gli altri di seguirlo all’assedio di Troja. I trojani cercarono l’ajuto del principe di Capua, che non volle tramettersene: solo il conte d’Avellino, il quale comechè cognato del duca, fu il più pertinace dei suoi nemici, vi accorse; ma, minacciato da questo d’invadere, prima d’assediar Troja, la sua contea, abbandonando i Trojani, si pacificò col cognato. Troja di viva forza fu presa; tutte le altre città del ducato volontariamente si sottomisero.
Non avendo più altri nemici a combattere, il duca Rugiero venne coll’esercito a Lagopeloso, ove stanziava quel Roberto di Grantmesnil, e, per punirlo della disubbidenza, l’obbligò a rinunziare, in presenza di tutti gli altri baroni il suo feudo. Ridotti all’obbedienza tutti i baroni di Puglia, a por termine ai mali che avevano travagliata la provincia, convocò un parlamento in Melfi, in cui sancì che nessun barone, qual ne fosse la ragione, movesse guerra all’altro, o s’attentasse di protegger ladri e malfattori d’ogni maniera; che anzi qual ne vivesse ne’ loro stati fosse da loro consegnato ai magistrati posti sopra ciò; che nessuno osasse appropriare i beni degli arcivescovi, de’ vescovi e di qualunque chierico o monastero, e di molestare o far molestare gli operai, gli agricoltori, i pellegrini, i mercatanti e qual si fosse altra persona.
Mentre per tutto in Europa non altro compenso era per mantenere la pubblica tranquillità e la sicurezza delle persone che la tregua di Dio, Rugiero seppe divisare il vero rimedio del male, cioè dar più vigoria alla suprema autorità, esigere l’obbedienza de’ più potenti vassalli colla forza, invece di comprarla con nuove concessioni, che li rendevano più insolenti. E se alla sua altissima idea non rispose in tutto l’effetto, i tempi più presto che lui è da accagionarne.
Conchiuso il parlamento, fece il duca ritorno in Sicilia; e, per non lasciare in Puglia alcun fomite di perturbazioni, fece giurare il Grantmesnil di ritornare oltramonti, senza farsi più vedere in Italia. Ma quel fellone, allontanatosi appena il duca, si levò in armi contro di lui, e venne ad insignorirsi di Orgeolo e Castrovillari. Però Rugiero, rivalicato con grandi forze il faro, venne ad assalirlo e l’obbligò ad arrendersi. Rivoltosi poi contro Salerno, volle consegnata la fortezza, che prima avea consentito che restasse in mano del popolo. Tornò ad assediar Troja, per obbligare quei cittadini a riedificare quelle bastite, che, per ridursi a libertà, avevano demolite alla morte del duca Guglielmo; lo stesso fece in Melfi, Venuto in cognizione che il conte d’Ariano mulinava alcun reo disegno, invase gli stati di lui; e quello ebbe a comprar la pace con cedergli Padulo e Montefosco. Tanto vigor di mente e di braccio lo resero così temuto, che il principe di Capua gli prestò l’omagio di vassallo.
VI. — Esteso a tal segno il suo dominio, Rugiero concepì l’ambizione d’assumere il titolo di re; ed a ciò fare era istigato da’ suoi cortigiani, e più che altri dal conte Arrigo suo zio materno. Veramente s’egli sdegnava d’occupare un posto secondario fra’ monarchi d’Europa ne avea ben d’onde. Un imperatore e nove re erano allora in Europa. L’imperatore di Germania, che si diceva dì Roma, era l’ombra vana d’un gran nome; e de’ re di Francia, d’Inghilterra, di Scozia, di Castiglia, d’Aragona, di Navarra, di Svezia, di Danimarca e di Ungheria, solo i primi due vincevano il monarca Siciliano d’estensione di dominio; ma questo li vinceva tutti di dovizie di magnificenza, di considerazione ed anche di potenza. L’esattezza, colla quale amministrava egli la sua rendita sin dall’adolescenza, gli avea fatto accumulare tesori tali che egli solo fra tutti i principi d’Europa poteva tenere a soldo un corpo d’armati. Palermo, antica sede degli emir, in cui i Normanni trovarono magnifici edifizii, in cui fiorivano le arti dai Saracini introdotte, ignote negli altri regni, popolata di Greci e di Saracini, ch’erano i popoli più colti di quell’età, da Cordova in fuori, era la città più lussuriante d’Europa. Rugiero aveva in tutto adottato la pompa e i modi di vivere de’ principi musulmani; il suo palazzo soprabbondava di nobilissimi arredi; eunuchi e donzelle in gran numero erano addetti al servizio della famiglia sovrana; un corpo di fanti saracini tenuti a soldo, comandati da un proprio contestabile, ne faceva la guardia; insomma il fasto della corte di Palermo aveva sembianza d’orientale più presto che d’europeo; ed al fasto ben rispondeva l’importanza e la potenza. In quella età, in cui Roma era il centro di tutte le operazioni politiche d’Europa, ed in oriente correvano gli eserciti e le armate di tutti i principi, Rugiero, i cui stati si estendevano fin presso Roma, nei cui porti venivano per lo più a riunirsi i crocesignati, avea gran peso negli affari d’Europa. E, mentre l’autorità degli altri principi era vincolata dalla potenza dei loro vassalli, Ruggiero avea messo in tal soggezione i suoi baroni, che ad ogni cenno poteva dalla Sicilia, dalla Calabria, dalla Puglia accampare un numeroso e fioritissimo esercito, che rinforzava quanto voleva colle schiere di fanti Saracini.
Pur se ragionevole era l’ambizione di Rugiero, lodevolissima fu la via, che tenne per appagarla. Recatosi in Palermo chiamò un parlamento, in cui volle che intervenissero, oltre gli ecclesiastici ed i baroni gli uomini più distinti per sapere e per altre qualità; ivi propose l’affare. Dopo lungo esame a pieni voti il Parlamento stanziò: essere giusto che il duca Rugiero assumesse il titolo di re; ma dovea ricevere la corona reale in Salerno, per ripristinare l’antico regno di Sicilia; e se quel regno nei tempi andati si estendeva alla sola isola, essere giusto che ripristinato ora fossero allo stesso re soggette anche le altre provincie (218). Il parlamento adunque non elevò Rugiero ad un trono novello; ma volle fare risorgere l’antico e glorioso trono di Gelone, d’Agatocle di Pirro e di Gerone; e lo stesso confermò poi nella sua bolla papa Innocenzio II quando dopo tante guerre, ebbe a riconoscere il regno di Sicilia.
Ottenuto il voto del parlamento di Puglia, Rugiero fece ritorno in Palermo, ove chiamò un’altro parlamento, per assistere alla sua coronazione. Riproposto l’affare, fu con generale applauso confermato il voto dei Pugliesi. Il giorno di Natale del 1130 ebbe luogo nel duomo di Palermo la coronazione del nuovo re. Tanta fu la pompa della città, che, a dir del Telesino, avresti creduto che tutte la dovizie e le magnificenze del mondo si fossero riunite in Palermo.
Le regie sale erano parate di magnifiche tappezzerie, i solai ne erano coperti di tappeti vaghissimi per la varietà dei colori. Il nuovo re venne fuori, preceduto da tutti i baroni e cavalieri del regno; ivan costoro a due a due; d’oro o d’argento eran le briglie ed i fornimenti dei loro cavalli, con apparato forse più magnifico seguivano i più distinti personaggi, che facevan corona intorno al re. Giunto al duomo, vi fu consacrato dagli arcivescovi di Benevento, di Capua, di Salerno e di Palermo; il principe di Capua gli porse la corona (219). Nei reali banchetti, che indi seguirono, non altro vassellame si vedea che d’oro o di argento; gli scalchi, i paggi, i donzelli e fino i valletti, che servivan le mense, erano vestiti di tuniche di seta che in quell’età era di tanto valore, che nella fastosa corte di Costantinopoli si usava solo dallo imperatore e dagli augusti.
VII. — Dato onesto luogo alle publiche esultazioni per quell’avvenimento, ch’era per assegnare una nuova era nei fasti siciliani, il re, sempre inteso a raffermare la sua autorità, sì che non avesse avuto più a temere interni sconvolgimenti per l’eccessiva potenza de’ sudditi, mandò ordine agli amalfitani di consegnare a lui tutte le fortezze, ch’erano intorno alla città, ch’egli avea dovuto acconsentire che restassero in mano dei cittadini, per indurli a riconoscere il suo dominio, e che allora in poi non avevan mai voluto cedere. Non intimoriti dalla maggior potenza e dignità del re, coloro si negarono; anzi risposero: bastar loro la vista di difender quelle fortezze a fronte delle truppe regie. Avuta tale audace risposta, il re spedì per terra un grosso esercito, comandato da Giovanni, che era uno dei suoi ammiragli; ed un’armata sotto gli ordini del grande ammiraglio Giorgio d’Antiochia. Quello, per espurgare tutti i forti ch’erano sul tenere degli Amalfitani; questa per sottomettere le isole ed impedire che giunsero per mare soccorsi alla città. I due comandanti, presi dall’uno le isolette di Guallo e Capri, dall’altro altri forti entro terra, riunirono le loro forze per istringer dal mare e dalla terra Trivento; e, caduta, malgrado la gagliarda resistenza, quella fortezza, corsero ad assediare Ravello, città munitissima, in cui erano riposte le speranze degli Amalfitani. Qui sopragiunse il re; e trovò che già la torre maggiore, battuta da gli assalitori, crollava. Allora cadde l’animo, non che ai Ravellini, ma agli stessi Amalfitani, i quali, a scanzo di maggior danno, si piegarono al volere del re, cedendogli tutte le altre fortezze. Il re vittorioso venne a Salerno.
Restava in quelle parti ancora indipendente la città di Napoli, la quale davasi il vanto che, dalla caduta del romano impero, non era mai stata sottomessa dalle armi straniere e s’era sempre governata a popolo, sotto il regimento dei suoi duchi; pure in tanta soggezione avea messi il re gli stati vicini, che i Napolitani volontariamente spedirono a Salerno il loro duca Sergio, per dichiararsi vassalli di lui e prestargli colle solite forme l’omaggio.
VIII. — Ma, mentre tutto pareva piegarsi alla autorità di re Rugiero, da una lieve scintilla divampò un vasto incendio di guerra che più anni bastò e fu per fargli perdere le provincie continentali. Era fra’ baroni di Puglia potentissimo innanzi ad ogni altro il ricantato conte d’Avellino. Riccardo fratello di lui, levato in superbia per la nobiltà del suo sangue, per li vasti dominî del fratello e per l’esser questo cognato del re, avendo menato in moglie la Matilde sorella di lui, ivasi vantando: essere la contea d’Avellino e la città di Merculiano, stati affatto indipendenti, nè doversi per esse alcun servizio al re. Non era Rugiero tale da lasciar andare impunita simile bravata; e però spedì un regio messo ad impossessarsi per lui della contea e della città. Nissuno osò resistere, tranne l’avventato Riccardo il quale buttato in terra quel messo, gli mozzò le nari e gli cavò gli occhi. In questo, la contessa d’Avellino, lasciato secretamente Alife, ove dimorava, venne col figliuolo ad unirsi al re suo fratello in Salerno; dichiarando di non volere più tornare al marito e chiedendo la restituzione della Valle caudina con tutte le terre e le castella in essa comprese, che avea recato in dote.
Era allora il conte d’Avellino in Roma, mandatovi dal re con dugento militi, in ajuto dello antipapa Anacleto, cui aderiva. Come seppe la fuga della moglie e l’appropriazione degli stati, spedì suoi messi al re per chiedere la restituzione di quella e di questi. Rispose il re: sè non avere rapita la contessa, nè tenerla a forza; avere essa piena libertà di tornare al marito, malgrado l’esser egli d’avviso, giuste essere le querele, ragionevole la dimanda di lei; Avellino poi e Merculiano essere stati a buon dritto appropriati, in pena del fellonesco parlare di Riccardo, di cui il conte si era reso complice; perocchè in sua presenza il fratello avea sempre detto non doversi alcun servizio per que’ feudi, senza che egli lo avesse mai, non che ripreso contraddetto; anzi soggiunse il re, io, io stesso, quando eravamo in Palermo, al conte mi querelai dall’arroganza del fratello, ed egli, poste in non cale le mie querele, lasciò che quello continuasse a far delle sue; del resto, venga egli in mia presenza, in compagnia. di quei signori che vuole, si sottoponga al mio giudizio ed otterrà ciò che sarà di ragione.
Forse il re sarebbe restato contento a tale sommissione del cognato, la quale altronde importava un riconoscere la sua dipendenza feudale; e forse fu questa la ragione, per cui il conte si negò a comparire innanzi il re e rimettersi al suo giudizio; per lo che il re, per torgli ogni speranza di riavere la moglie, e ’l figliuolo, l’una e l’altro mandò in Sicilia. Quel conte si preparò allora a farsi ragione colle armi. Tale era la condizione de’ tempi, che un solo, che osava levarsi in armi, contro il re, trovava tosto compagni. Aderì principalmente al conte d’Avellino il principe di Capua e per l’amicizia, che tra essi correa, e perchè a malincuore soffriva l’aver dovuto dichiarare il suo stato feudo del regno di Sicilia; ed a loro si unirono il principe di Bari, i conti di Conversano e d’Andria. Ed in tanto più animosi eran costoro a pigliar le armi, in quanto avevano ragione di sperare potente ajuto straniero.
IX. — Alla morte di papa Onorio II, due pontefici erano stati eletti; ciò che spesso accadeva, quando l’elezione era in mano del popolo, ossia dei prepotenti baroni romani, ognun dei quali veniva all’elezione seguito da numerosa ciurmaglia armata; e ne’ conflitti, spesso sanguinosi e mortali, la fazione, che restava padrona del campo di battaglia, dava il capo alla chiesa. Ma talvolta un altro ne sbucciava dalla fazione perdente. I due eletti reciprocamente si scomunicavano e si chiamavano anti-papi; i sovrani d’Europa, quale a questo, quale a quello aderivano, finchè la morte o la spada non mettea fine allo scisma. Ciò era avvenuto in quei tempi. Anacleto ed Innocenzo II acremente lottavano; quello era sostenuto da re Rugiero, questo non tenendosi sicuro in Italia, era ito da prima in Francia e col denaro tratto da quelle chiese, avea comprato l’ajuto di Lotario re di Germania; e con un esercito da lui comandato, era per ripassare le alpi, per cacciar dal solio il rivale. E, perchè in un concilio da lui convocato in Francia aveva fatto scomunicare Anacleto ed i suoi fautori, speravano i baroni pugliesi, che il papa e l’imperatore fossero per dar mano alla loro rivolta.
Il re, non ispaventò da tale apparato di guerra; anzi confidando nella celerità delle sue mosse, raccolto in Sicilia un numeroso esercito, all’apparire della primavera del 1132 sciolse le vele e pose a Taranto. Quivi si trovava il conte d’Andria, il quale, comecchè agli altri ribelli collegato, venne in corte. Il re lo ricevette a sopracciglia levate; lo minacciò di sottoporlo a solenne giudizio pei delitti, di cui veniva accagionato. Tanto avea quel conte a temere di quel giudizio, che accattò il perdono colla perdita della maggior parte dei beni suoi. Volse allora le armi il re all’assedio di Bari, ove il principe Grimoaldo si era afforzato. Voleva il conte di Avellino correre colla sua gente in difesa del consorto; il principe di Capua ne lo distolse sulla ragione che, non essendo essi ancora in aperta guerra col re, era prima da tentare di trarlo alla buona; ed altronde sperava che il re avesse a logorare lunga pezza le sue forze nell’assedio di una città tanto forte che, il pro Roberto Guiscardo avea durato tre anni per espugnarla. Ma il re fu sì abile o fortunato, che in tre settimane di viva forza la prese, facendovi prigione lo stesso principe, che in ceppi fu mandato in Sicilia. Il conte di Conversano allora, anzichè affidarsi all’incerto evento della guerra, fatto senno delle disgrazie del conte di Andria e del principe di Bari, pattuì col re la vendita di Brindisi e quant’altro egli possedea, per passare, come allora era in voga, in oriente, in busca di miglior ventura. Così pagatone ventimila schifati (220), tutte quelle città vennero in potere del re. Lo schifato si suppone pari ad una doppia di Spagna, ossia sei delle nostre once (221), e però tutto il capitale pagato risponderebbe a centoventimila once; ma paragonando i prezzi delle derrate di allora ai presenti, si vede che quel denaro, oltrepassa due milioni di once di oggidì. Ciò mostra la vastità degli stati di quel conte e l’immense dovizie che il re dovea tenere in serbo, se nel bollore di una guerra poteva disfarsi di tal capitale.
Il principe di Capua non istava intanto ozioso. Sin da che il re assediava Bari, aveva a lui spedito un suo messaggio, per pregarlo a restituire al conte d’Avellino gli stati e la moglie, altrimenti avrebbe a lui negato il suo servizio. Comecchè vassallo del re di Sicilia, era il principe di Capua anch’egli sovrano; però non eran lievi le preghiere e le minacce sue; ma il re, cui la prospera fortuna avea reso inflessibile nelle sue determinazioni, con viso arcigno rispose: maravigliare che il principe ardisse tramettersi in ciò che non gli appartenea; essere questo un pretesto, per sottrarsi al dovere del servizio, farebbe per suoi messi sapere a lui la sua volontà; pensasse che negandosi a prestare il dovuto servizio, qual che ne fosse la ragione, si farebbe reo di fellonia e di spergiuro. Tosto dopo mandò a lui ordine di recarsi colla sua gente in Roma in ajuto di papa Anacleto. Rispose il principe che non avrebbe mai obbedito agli ordini suoi, se prima non fosse tutto restituito al conte d’Avellino.
Da ambe le parti si ricorse allora alle armi. Il re coll’esercito si avanzò sino al castello di Crapacoro, poi si diresse a Montecalvo. Il principe e ’l conte lo seguivano di costa. Il re mandò chiedendo al principe il passaggio coll’esercito per lo suo stato, ordinandogli, come suo signore, di seguirlo colla sua gente in Roma, com’e’ diceva. Il principe si negò all’uno ed all’altro se non precedeva la restituzione di tutto al conte d’Avellino. Il re tornò a chiedere il passaggio per lui solo, promettendo di farsi trovare ivi a quindici giorni sul ponte di Sanvalentino, ove invitava il principe a recarsi, per trattar di presenza l’accordo; ma quello ostinatamente rispondeva, che non avrebbe ammesso alla sua presenza alcun messo del re, se prima al conte d’Avellino non erano restituiti gli stati e la moglie.
Mentre il re cercava così di menar per parole i nemici, e pareva di volere schivare un’incontro, procurava d’indurre i Beneventani a dichiararsi in suo favore, per avere in sua mano un posto vantaggiosissimo in quella guerra. Il governadore, l’arcivescovo ed altre persone avevano già indotto molti de’ Beneventani a giurare fedeltà al re, quando i più venuti in sospetto che il re, con quel pretesto non volesse sottometterli al suo dominio, levatisi in capo, cacciarono dalla città il governadore e l’arcivescovo, e chiamarono in quella vece il principe di Capua, con cui si strinsero in lega.
X. — Perduta la speranza d’avere Benevento, il re corse ad assediare Nocera, che apparteneva al principe, il quale, saputo che il re colà s’era diretto, mosse coll’esercito, che s’era accresciuto delle bande de’ Beneventani, e venne per distogliere il re dall’assedio; ma arrivato al fiume Sarno trovò che il re ne aveva fatto rompere il ponte di legno. Mentre il nuovo ponte costruiva, il re, saputo l’arrivo dei nemici, levò l’assedio ed in ordine di battaglia al fiume s’appressò. L’esercito del principe lo aveva già valicato, ed era anch’esso schierato. Addì 24 luglio del 1132 fu combattuta la battaglia nella pianura di Scafato. La cavalleria dell’ala destra dell’esercito del re fu la prima ad attaccar la mischia, e diede con tal impeto addosso all’ala sinistra del principe, che la prima linea fu volta in fuga. La seconda schiera, per dar luogo ai fuggiaschi, si disordinò, nè potè tener l’impeto de’ cavalli del re; i fanti che in ultimo erano, presi di spavento fuggirono in rotta; molti, volendo salvarsi valicando a noto il fiume, annegaro; molti furono presi o morti nel fuggire per quelle pianure. Il principe allora riordinata la seconda schiera, la fece avanzare contro l’ala sinistra del re. Duro fu lo scontro; ma i Capuani, scuorati già dalla fuga pe’ primi, mal potevano resistere, e cominciavano già a cedere. Il conte d’Avellino, che con cinque squadre di cavalli, teneva il corno destro di quell’esercito, visto il principe pressochè del tutto rotto, accorse colla prima schiera, ed a mano a mano venivano entrando in mischia le altre; le truppe regie, stanche già del lungo combattere, assalite da quelle schiere fresche, che impetuosamente sopravvenivano, cominciarono a piegare; in quel fortunoso momento, i primi ch’erano stati volti in fuga, vista la prova delle milizie del conte, ripreso cuore, tornarono indietro e vennero a rinfrescar la battaglia. I regî non tennero l’urto e si volsero a fuggire in rotta, nè valse al ritenerli la voce o l’esempio del re, che fu l’ultimo a voltar la briglia e con soli quattro militi venne a riparare in Salerno. Venti baroni, settecento militi oltre i gregarii in assai maggior numero, vi restarono prigioni; anche più ne furono uccisi; cavalli, armi bagagli tutto venne in potere de’ vincitori (222).
Quella sconfitta ebbe grandi conseguenze. Il conte di Conversano, che ancora non era partito per Gerusalemme, come avea promesso, pentito della vendita fatta, riprese le armi, e, raccolta una presa di gente, ribellò la città di Gilenza, ed indusse quei cittadini a cacciare Polutino, governatore postovi dal re, e darsi a lui. Le armi riprese del pari il conte d’Andria; e loro s’unì il conte di Matera. Costoro mandaron messaggi al principe di Capua ed al conte d’Avellino, per istringersi in lega. La stessa città di Bari poco mancò che non levasse lo stendardo della rivolta; in una sommossa popolare erano stati uccisi parecchi de’ Saracini, che il re vi avea lasciati a fabbricare alcuna fortificazione. Il re, cui molto calea di quella città, vi si recò e facendo ragione a quei cittadini d’alcune dimande, estinse l’incendio. Lasciato poi una mano dei suoi ad osservar gli andamenti dei nemici; messa una forte guarnigione in Montefosco, per molestare il tenere di Benevento, venne in Sicilia a far gli appresti della nuova campagnia.
In questo il principe di Capua e il conte d’Avellino, venuti prima in Puglia, giurata la lega coi nuovi consorti, si recarono in Roma, ove sapevano d’essere già arrivati papa Innocenzo e re Lotario, il cui soccorso speravano; ma le speranze loro andarono fallite. Ne furono bene accolti; ma nè il pontefice, nè il re vollero travagliarsi dei fatti di Puglia. Re Rugiero dal canto suo, apprestato un grosso esercito, di cui la maggior parte era di Saracini, all’avvicinarsi della primavera dell’anno 1113 valicò il faro, con animo risoluto a trar clamorosa vendetta delle città e dei baroni che lo avversavano. Espugnò rapidissimamente Venosa, Nardò, Biroli, Minervino ed altre terre in quelle parti; e da per tutto, se è da credere allo scribba Beneventano, pose a ferro ed a fuoco le città, uccise uomini, donne, fanciulli, e fin ne arrostì (223); venne poi ad assediar Matera, ove comandava Goffredo, figliuolo del conte, il quale malgrado la valorosa resistenza, una colla città cadde in mano del re. Roberto altro figliuolo di quel conte, s’era chiuso in Armento, e fu fatto del pari prigione, espugnata la città. Ambi i fratelli furono mandati nelle carceri di Sicilia. Il conte di Matera, perduto i figli e lo stato, fuggì in Dalmazia, onde tornato in appresso, menò nella miseria i giorni suoi. Prigione anche fu fatto e mandato in Sicilia il conte d’Andria, preso in un suo castello.
Restava a punire la slealtà del conte di Conversano. S’era costui afforzato in Montepiloso, ne aveva accresciuta la munizione, ed il conte d’Avellino per rinforzarne la guarnigione vi aveva spediti quaranta militi, comandati da un Rugiero di Plenco, valorosissimo cavaliere acerrimo tra’ nemici del re. Cinta la Città, lunga pezza si combattè sotto quelle mura con varia fortuna; finalmente venne fatto ai Saracini, ch’erano nell’esercito regio, colmare un fossato e demolire un barbacane, e quindi entrarono. La Città fu posta a sacco e poi data alle fiamme; i cittadini messi a fil di spada. Il conte di Conversano e Rugiero di Plenco, travestiti, s’erano ascosi; trovati, furono portati in presenza del re, il quale fece impiccare il Plenco, e volle che il conte lo menasse al patibolo, tenendone il capestro (224); e poi fu cogli altri mandato in Sicilia.
Spaventate da tanto rigore, le città di Puglia non osarono più resistere. Que’ di Gilenza si sottomisero di queto, ed il re vi restituì l’antico governatore Polutino; venuto poi in Troja, punì severamente quei cittadini che inchinavano ai ribelli, demolì le fortezze della città, e la divise in più villaggi; per non potere tentar più novità Melfi, Bisseglia, Trani, Sant’Agata, Ascoli ed altre terre furono riprese; intantochè, tranne i domini del principe di Capua e del conte d’Avellino, tutta la Puglia fu riconquistata in quella campagna. Avvicinato in questo l’inverno, lasciato l’esercito in Salerno, tornò il re in Sicilia.
Non istavano intanto a badare il principe di Capua e ’l conte d’Avellino; questi aveva unito alle sue forze quelle del duca di Napoli e del conte di Bojano; e quello era ito a cercare soccorso de’ Pisani, i quali promisero d’entrar nella lega e somministrare cento galee, a patto che i Genovesi, loro emuli aderissero al trattato e promettessero di non molestarli durante la guerra, e loro fossero pagate tremila libre d’argento. Conchiusa colla mediazione di papa Innocenzio II la convenzione, venne il principe, in Capua, accompagnato da. due consoli della republica e da mille soldati ivi levati. Venuti colà a trovarlo i suoi consorti, approvarono la lega, e, per sollecitare la venuta delle galee pisane, furono spogliate le chiese di Napoli e di Capua, onde si trasse l’argento pattuito, che fu immantinente pagato.
Mentre costoro stavano ad aspettare l’armata pisana, sulla speranza ch’essa avrebbe impedito il ritorno del re; e però le milizie regie, non più socorse e prive di conduttiere, sarebbero state facilmente cacciate dalla Puglia e dalla Calabria, il re, nell’appressarsi della primavera del 1134 giungeva a Salerno con sessanta galee. Dato il guasto al porto di Napoli ed alle vicine castella, s’inoltrò nel principato di Capua. Il conte d’Avellino, che si trovava allora con poca gente separato dai compagni, fece loro grandi premure d’accorrere al presente pericolo. Si riunirono tutti a Marigliano; ma le forze loro erano a gran pezza inferiori a quelle del re. Però il principe di Capua tornò di volo a Pisa, per affrettare il pattuito soccorso; e ’l conte d’Avellino si mise per le poste dell’esercito regio, ad ispiarne gli andamenti e far di ritardarne i progressi.
Libero il re nei suoi movimenti, valicò il Sarno, e lasciato al passo di Scafato buon nerbo di cavalli e d’arcieri, per tenere il guato ai nemici, col resto dell’esercito tirò all’assedio di Nocera. Tentò più volte il conte di guadar di viva forza il fiume; ma incontrò tal resistenza, che ogni tentativo fu vano. Gli restava solo speranza che il re avesse a sprecare invano le sue forze sotto quella munitissima città; ma i cittadini, spaventati dall’esercito numeroso che s’appressava senza molestia; dal grande apparato di macchine e strumenti bellici e soprattutto dal male che ne era incolto a quelle città che avevano osato resistere, presero consiglio d’arrendersi, malgrado il numero, il coraggio e ’l fermo proponimento della guarnigione. Venuti fuori di nascosto i maggiorenti, si presentarono al re; si dichiararono pronti ad ammetterlo di queto in città; pregavano solo a lasciare impuniti, i cittadini e non demolire la città e ’l castello, e ’l re il consentì. Il pro Rugiero da Sorrento, che comandava in quel castello, visto la città già resa, disperato di soccorso, per mala forza si piegò al comun volere ed andò via colla gente che seco avea.
Caduta Nocera, volse il re le armi contro gli stati del conte d’Avellino, incontrando per tutto debole o nulla resistenza. Le città e le castella erano spianate, gli abitanti messi a fil di spada, le campagne sperperate. Cadde allora l’animo del conte, ed avanti che perder tutto lo stato, cercò salvarne parte sottomettendosi (225). Spedì messi al re, per proporgli di tornare all’obbedienza di lui. Il re, avuto tal messaggio, sostenne la guerra e rispose al cognato: se essere pronto a pacificarsi e restituirgli la moglie e ’l figliuolo, a patto che la contessa si avesse la Valle caudina che avea recata in dote, ed a lui restassero le città e le castella acquistate colle armi. Per dure che fossero tali condizioni, ebbe il conte per mala forza ad accettarle; venuto in presenza del re; piangendo a calde lacrime, voleva prostrarsi e baciargli i piedi; il re nol consentì; levatolo da terra, lo abbracciò, lo baciò. Fu offerta anche la pace al principe di Capua, a patto di tornare a prestare omaggio al re pel suo principato e cedergli tutte le città conquistate; e se egli non volea personalmente acchinarsi, cedesse lo stato al figlio, con questo che il re, come supremo signore, lo tenesse, per restituirlo al figlio, come fosse di maggiore età, purchè il padre nulla più tentasse contro il re. E perchè quel principe era allora in Pisa, gli si diede tempo, sino alla metà del vegnente agosto (era allora sull’entrar di luglio) per accettare il partito.
Il conte di Bojano, visto piegarsi tutto in favore del re, accettò il perdono, con cedere al re tutto il paese che giace ad oriente del fiume Biferno, e la città di Castellammare. Restavano ancora in armi Sergio duca di Napoli e Raimpoto contestabile di Benevento. Questi era venuto in Napoli con due figliuoli e molti militi beneventani; nell’avvicinarsi del re volle recarsi a Pisa sopra una galea; ma in una fortuna di mare vi restò sommerso, con uno de’ figli.
XII. — In questo, per esser forse trascorso il termine concesso al principe di Capua, il re coll’esercito a Capua si diresse. Niuno osò far fronte; tutti i baroni di Terra-di-lavoro correvano a prestargli omaggio; giunto alla città, vi fu ricevuto dal clero e da tutto il popolo, che in processione venne fuori ad incontrarlo e fra gl’inni e gli applausi popolari fu condotto al duomo, ove ricevette il giuramento di fedeltà da tutti i Capuani. Passato poi in Aversa, minacciò il duca di Napoli di diriggere tutte le forze sue contro quella città, se tosto non veniva a sottomettersi. Il Napolitano, in quanto avea sin’allora bravato, in tanto gli cadde l’animo al presente pericolo. Nelle pianure d’Aversa, in presenza di tutto l’esercito, postosi in ginocchio a piedi del re, colle solite forme gli giurò l’omaggio di vassallo (226). Accostatosi poi a Benevento, non fu mestieri venire alla prova dell’armi, per indurre i Beneventani a darsi all’anti-papa Anacleto e giurare di tenersi indi in poi fedeli al re. Ottenuto così quanto desiderava, fece Rugiero ritorno in Sicilia.
La guerra, che pareva allora estinta, tornò ivi a non guari ad incrudelire più fiera. In quella età, in cui il solo timore teneva a freno i grandi vassalli, se le vicende della guerra li facevano momentaneamente piegare, restava sempre in attitudine minaccevole, ad agguatare il destro di rifarsi. E però un soffio bastava a richiamarli alla rivolta ed all’armi; ed un soffio potentissimo allora vi avea. Papa Innocenzio II cacciato da Roma, che per Anacleto si teneva, stava in Pisa, tutto inteso a trar vendetta di re Rugiero, per l’ajuto che dava al suo rivale. Finchè lo vide alle prese col principe di Capua e co’ suoi baroni, facendo la vista di non pigliar parte in tali brighe, secretamente incitava e soccorreva i ribelli. Visto poi, che costoro erano restati del tutto conquisi, gittata la maschera, si fece apertamente capo di una lega contro il re. Suscitò i Genovesi ed i Pisani a muovergli guerra; e pressanti lettere scrisse a Lotario III imperatore, per venire con grosso esercito in Italia a cacciar da Roma l’anti-papa Anacleto e punire il re di Sicilia d’avergli dato mano e d’avere usurpato Napoli all’impero. Aveva allora Lotario tanto da fare in casa sua, per le guerre, in cui era rivolto con Federico duca di Svevia, col proprio fratello Corrado e con molti dei suoi vassalli, che le mene del papa sarebbero ite a vôto, se un caso non avesse riaccesa la guerra nel cuor del regno.
Il re gravemente ammalò in Palermo; e, prima di tornar sano, infermò la regina Albira sua donna e si morì; per che, tra per la convalescenza. e il dolore di tanta perdita, si tenne gran pezza chiuso nelle sue camere, senza ammettere in sua presenza altri che i più confidenti de’ regî familiari. Il popolo, dolentissimo della morte della regina, non vedendo più il re, cominciò a dubitare, non che della sanità, ma della vita di lui. Tal sospetto, accrescendosi d’ora in ora, die’ origine alla voce della morte del re, la quale passata oltramare, si sparse rapidamente in quelle provincie. Parve allora al principe di Capua, al duca di Napoli, al conte d’Avellino ed agli altri baroni, che tanto avevan perduto nella guerra, d’esser venuto loro il destro di ricattarsi. Però il principe, che in Pisa ancora era per sollecitare i pattuiti soccorsi, corse a Napoli con venti galee, e vi chiamò il conte di Avellino. Ivi fu stretta la lega tra essi e ’l duca Sergio, per fare i massimi sforzi di riacquistare quanto ognun di loro avevan perduto. Il conte, venuto fuori, fatto un’inutile tentativo di soprapprendere Capua, cominciò a dare il guasto alle terre del re. I popoli, costernati e dalla voce della morte del re e dalla subita guerra, stavano infra due.
Aveva il re lasciato al governo di quelle provincie il gran cancelliere Guerino e l’ammiraglio Giovanni, i quali con somma efficacia operavano per ispegnere il nascente incendio, con ismentire la voce della morte del re, con animare i popoli a serbarsi fedeli e con afforzare le principali città. Ma la notizia della morte del re acquistava maggior verisimiglianza dal non vederlo comparire in quelle parti, comechè varcata fosse la metà del maggio e sin da’ primi giorni di aprile i nemici fossero stati in armi, Però venne fatto al conte d’Avellino indurre quei d’Aversa a darsi a lui ed ammetterlo in città. Erano già arrivati in ajuto del principe e del conte ottomila Pisani, i quali, avuto Aversa, volevano correr diviati ad assalire Capua; ma quelli, sapendo quanto la piazza era munita e ben difesa dal gran cancelliere, ne li distolsero ed in quella vece vennero ad accamparsi tutti presso il fiume Chiano, aspettando forse l’opera di coloro che dentro Capua li favorivano. La vigilanza di Guarino prevenne il colpo; arrestò e mandò nelle carceri di Salerno tutti coloro che a lui erano sospetti. Sopraggiunto poi l’ammiraglio colle forze raccolte in Puglia, venne a porsi ad oste di fronte ai collegati. Il Chiano scorrea fra i due eserciti; nè lo ammiraglio, nè il conte d’Avellino volevano guadarlo in faccia al nemico, per non venire con disavvantaggio alle mani; ed altronde l’avveduto ammiraglio voleva tenere in pastura il nemico fino all’arrivo dell’esercito regio. Però cominciato a mancare i viveri nell’esercito nemico, il principe co’ Pisani si ritirò in Napoli, il conte co’ suoi venne a fermarsi in Aversa.
XIII. — Tale era lo stato delle cose, quando addì 5 di giugno 1135 il re giunse in Salerno. Posto appena piede in terra, tirò ad Aversa. La sola notizia del suo arrivo e della sua marcia fece scappar dalla città la maggior parte degli abitanti e lo stesso conte d’Avellino. Il cruccio del re non ebbe freno; quanti cittadini caddero nelle sue mani, furono messi a morte; la città fu saccheggiata, arsa, spianata. Accostatosi poi a Napoli, ne incese i sobborghi, ne disertò le campagne. Nel tempo stesso il gran cancelliere veniva riducendo all’obbedienza del re le terre, non guari prima occupate dal conte d’Avellino.
Voleva il re assalire in ogni conto Napoli; però diede mano ad erigervi tutt’intorno torri e bastioni, per piantarvi su le macchine; ma, trovato per tutto il terreno sollo, non poterono gettarsi pur le fondamenta di tali opere, senzachè la scarsezza dell’acqua ed i grandi calori dell’estate, già molto avanzata, rendevano penoso e difficile il lavoro; per lo che il re per allora se ne rimase. Ma in quella vece riedificò Aversa e Cuculo, e vi mise numerosi presidi, per instar sempre a devastar quei campi e scorazzare, onde Napoli non avesse viveri. I collegati, che dentro la città erano, non osavano venir fuori ad attaccar battaglia colla gente del re, più numerosa e ben preparata a riceverli; nè potevano restar dentro lunga pezza, per la fame che già li stringeva. In tali angustie chiesero nuovi e solleciti soccorsi ai Pisani, i quali spedirono a quella volta venti galee con altri soldati. Costoro mentre s’avvicinavano a Napoli, volendo dare un colpo al re e sperando forse divertirlo dall’assedio di Napoli, preso terra presso Amalfi corsero ad assalirla, e trovatala sguernita di truppe, che il re le aveva chiamate presso di sè, colta la città alla sprovveduta, la saccheggiarono; nè contenti a ciò, avanzati entro terra, assalirono le vicine castella, e da ultimo si fermarono ad assediare la Fratta. Avuto il re avviso di ciò, da Aversa, ove si trovava, colà corse diviato, e coltili, mentre tutt’altro che ciò s’aspettavano, ne uccise o fece prigioni da mille cinquecento, essendovi restati dei consoli della repubblica due prigioni ed uno morto. Coloro che sulle navi erano, saputo il caso, dilungaronsi e volsero le prore a Pisa, menando seco il bottino d’Amalfi. Fra quelle spoglie si vuole essersi trovato il manoscritto delle pandette di Giustiniano, che pubblicato poi in Firenze, venne a formare la parte essenziale della giurisprudenza di Europa.
Cacciati i Pisani d’Amalfi, il re tornò ad Aversa, per compire le fortificazioni della città e devastare del tutto i colti intorno Napoli. Ciò fatto, s’avvicinò coll’esercito a Benevento, e, per far conoscere quanto si tenea sicuro di tenere le sue conquiste, con gran solennità investì il suo figliuol primogenito Rugiero del ducato di Puglia; Anfuso o sia Alfonso del principato di Capua; e ’l suo genero Adamo della contea di Matera. Restavano al re altri due figliuoli Guglielmo ed Arrigo, che per essere ancora ragazzi, erano rimasti in Palermo. Visitate poi le principali città di Puglia e di Terra-di-lavoro, lasciatovi le necessarie provvisioni, all’avvicinarsi dell’inverno fece ritorno in Sicilia.
XIV. — Papa Innocenzio, convinto che i ribelli non potevano da loro soli far fronte al re; nè potersi Napoli a lungo sostenere, per la fame, che d’ora in ora crescea, spedì suo legato all’imperadore Lotario il cardinal Gerardo, cui si unirono Roberto, già principe di Capua, e Riccardo, fratello del conte d’Avellino, per sollecitare la venuta di lui con poderoso esercito in Italia. L’imperadore, grandemente onoratili e presentatili generosamente, li rimandò colla promessa di pronto ed efficace soccorso; nè fu vana. Passate ivi a pochi mesi le alpi, discorsa prima l’alta Italia, dopo la Pasqua del 1137 fu ai confini di Puglia. Conquistati Castel pagano; Siponto, il castello reggiano, Monte Gargano, Troja, Canne, Barletta, si fermò in Bari, facendosi da per tutto riconoscere signore. Re Rugiero tentò di ritardarne i progressi con introdurre trattative di pace; l’imperadore non volle sentirne parola. S’era egli incapato; perchè teneva esser quella, guerra di religione; ed essere incompatibile il regno di Rugiero colla sicurezza sua. Tal’idee gli erano di continuo fitte nell’animo dal papa, dai ribelli baroni e più che altri da S. Bernardo abate di Chiaravalle, il quale, avendo caldamente prese le parti di papa Innocenzio, non si faceva coscienza di scrivere all’imperadore (tanto le idee del santo uomo erano pervertite dal pregiudizio) usando le parole che, secondo il vangelo, si dicevano dagli Ebrei a Pilato per accusar G. Cristo: Qui regem se fecit (aggiungendovi Siciliae) contradicit Caesari.
Al tempo stesso un’altro esercito, capitanato da Arrigo duca di Baviera, al quale s’era unito lo stesso papa Innocenzio, si diresse per Sangermano, di cui si fece padrone. Sottomessa poi Capua e tutto quel principato, lo restituì all’antico principe, e quindi avvicinatosi a Benevento, malgrado un forte presidio ed un numeroso partito, che pel re e per l’anti papa tenea, se ne insignorì; presa poi Troja, venne a congiungersi all’imperadore in Bari, che dopo lunga resistenza s’era finalmente resa; e poco dopo s’arrese anche Melfi. Tale era lo spavento, che da per tutto portava quell’esercito e per lo numero dei combattenti e per la qualità dei condottieri, che le altre città di Puglia ed in parte ancora di Calabria, tranne Amalfi e Salerno, senza aspettarne comando, si diedero all’imperadore; ma Amalfi, scottata del sacco non guari prima sofferto, fatto un dono a Lotario, ebbe pace; e Salerno si arrese, restando entro la principale fortezza quattrocento dei militi del re.
Mentre l’esercito imperiale correva a posta sua le provincie oltremare, il re stava in Sicilia, senza pure accennare di correre in difesa di esse. Sapeva ben egli che tutte le spedizioni dei Tedeschi in Italia, da Carlo magno in poi, erano state grandi incursioni, che al fin de’ fini erano sempre tornate dannose agl’imperadori di Germania, che vi avevano perduto gli eserciti per la moria e per le dissensioni; conosceva che durevole essere non poteva la lega dei suoi nemici, che avevano tutti contrari interessi; e però cercò sulle prime di por tempo in mezzo, con introdurre trattati di pace, sulla speranza che l’intemperanza de’ soldati alemanni, la loro dimora in clima diverso, le discordie dei capitani e ’l suo oro, facesser venir meno le forze di Lotario e sciogliessero la lega. Non essendogli venuto fatto, lasciò che quel torrente di per sè stesso si disperdesse; ed egli in questo serbava intere le sue forze, aspettando il destro di usarle con vantaggio; nè ebbe luogo a spettare.
Credeva l’imperador Lotario nell’invadere le provincie del regno di Sicilia, raccattare un patrimonio già da lung’ora divelto dall’impero; credeva papa Innocenzio che per lui fosse lo acquisto. I Pisani, malcontenti dell’uno e dell’altro, per essere stati delusi della speranza del sacco dell’opulente città di Salerno, si ritirarono. Nè minori disgusti nacquero tra il papa e l’imperadore. Voleva ognun de’ due per sè la città di Salerno; ognun de’ due pretendeva suo essere il padronato del ricchissimo monastero di Monte Casino. Ma la più grave disputa insorse per l’investitura del nuovo duca di Puglia. Erano ambi d’accordo di volere elevare a tal dignità Rainulfo già conte d’Avellino, per essere il più prode capitano dell’età sua e ’l solo capace di far fronte al re. Pretendeva Lotario dovernelo egli investire, per esser la Puglia feudo dell’impero; voleva Innocenzio essere il solo a concedere la provincia, che i suoi antecessori tanto avevano sudato per far credere feudo della romana chiesa. Diceva e diceva il vero Lotario, essere stata quella un’usurpazione de’ papi; diceva, ed anche diceva il vero, Innocenzio, volere l’imperatore usurpare un diritto, che non aveva mai avuto. Un mese stettero a batostare; finalmente uomini dotti, chiamati a dirimere la contesa, decisero di non decider nulla, e, per restare entrambi nel possedimento di quel dritto, che ognuno diceva d’avere e nissuno avea, tuttaddue concorressero all’investitura, con tenere ognun di essi da un capo il gonfalone che si diede al nuovo duca.
XV. — Composta così la gran lite, il papa e lo imperadore, credendo già assicurato il possedimento della Puglia per lo valore del duca Rainulfo, malcontenti l’un dell’altro si separarono; l’uno fece ritorno in Roma; l’altro, lasciati al duca mille Alemanni, s’incaminò per ripassare le alpi. Avevano appena costoro varcati i confini del regno, quando il re, con fiorentissimo esercito raccolto in Sicilia, fu sopra Salerno. Quei cittadini, che solo avean dovuto cedere alla prepotente forza de’ nemici, a lui con lieto animo tornarono, ed a lui s’unirono que’ quattrocento militi; ch’erano restati entro la fortezza. Venuto fuori, Nocera, Capua, Avellino furono da lui prese, saccheggiate, distrutte; e tutto il paese, che dall’aprile al settembre era stato dall’imperadore conquistato, fu in men che non si dice ripreso, e, come la rea consuetudine de’ tempi portava, messo a ferro ed a foco. Spaurito da tal subito mutamento di cose, il duca di Napoli fu il primo a chieder pace e perdono; e ’l re lo concesse, a patto ch’egli ed i suoi dovessero indi in poi militar con lui, e così fecero. I Beneventani, a scanso di maggior danno, cacciata la fazione d’Innocenzio, al re e ad Anacleto si diedero. I rapidi trionfi del re fecero tornare in paura le minacce e la vana fidanza di papa Innocenzio, ed attutirono lo zelo di S. Bernardo. Il primo, tenendo non il re fosse venuto a portar la guerra in Roma, sicuro altronde di non potere più richiamare l’imperadore, spedì il santo abate a chieder pace. Ma inutile fu l’opera di lui; papa Innocenzio si ostinava a pretendere la restituzione del principato di Capua; il re non volle sentirne verbo.
Il solo duca Rainulfo non si lasciò sgomentare. Raccolte le genti di Bari, di Troja, di Trami e di Melfi, che ancora a lui ubbidivano, ed aggiuntovi i mille Alemanni, verso la metà d’ottobre del 1138 fu a fronte dell’esercito regio, presso Ragnano. Contro di lui era principalmente diretto lo sdegno del re. Tante volte con lui riconciliato e tante volte spergiuro, non poteva il re sperar pace, finchè costui fosse libero e vivo; e però non ricusò la battaglia. Comandava l’ala sinistra dell’esercito regio il giovanetto Rugiero, duca di Puglia, il quale cupido di segnalarsi, urtò con tal impeto la schiera che gli stava a fronte, che la ruppe, la volse in fuga, nè si tenne, sì ch’ebbe inseguito i fuggiaschi sino a Siponto. Seppe il valoroso duca Rainulfo cogliere quel momento, in cui il figlio non poteva accorrere alle difese del padre, per attaccare l’ala destra del re col miglior nerbo delle genti sue. I regi tennero lunga pezza la puntaglia; ma finalmente perdutovi la vita tre mila di essi, fra’ quali il duca di Napoli ed i più distinti baroni, tutto cesse alla fermezza degli Alemanni ed al disperato valore di Rainulfo. Il re stesso con pochi seguaci fuggì a Salerno, abbandonato il campo al vincitore, che vi trovò immensa preda. I Salernitani ed i Beneventani offerirono allora al re di grandi soccorsi, per metterlo in istato di tornar subito a far fronte al duca; ma il re, rese loro le migliori grazie che potè, non accettò l’offerta. La fredda stagione era imminente; nè sano consiglio teneva affrontare un nemico abile e vittorioso; con un esercito scôrato dalla disfatta. Imperò, lasciando che il duca a sua piena balìa sottomettesse Troja e disertasse le terre dei baroni, che non tenevan per lui, il re si fermò tutto l’inverno in Salerno, aspettando la gente, che doveva sopravvenire da Sicilia.
Malgrado la disfatta del re, conosceva papa Innocenzio che non ne venivano accresciute le forze del duca Rainulfo, il quale restava sempre solo a sostenere il peso della guerra; sentiva altronde di qual momento era per lui l’essere riconosciuto legittimo pontefice nel regno di Sicilia; e però, mentre il re si teneva ancora in Salerno, mandò offerendogli di rimettere al giudizio di lui la canonicità della sua esaltazione al pontificato. Con miglior animo vi divenne Anacleto. Ambi mandarono in Salerno cardinali e teologhi per sostenere le rispettive ragioni. Il re diede prima ascolto per quattro giorni ai legati d’Innocenzio ed altrettanti poi a quelli d’Anacleto. Udite le ragioni d’entrambi, convocò un’adunanza pubblica del clero e del popolo di Salerno; ivi disse: avere ponderate le ragioni dell’uno e dell’altro pretendente; ciò non di manco non volere decidere da sè solo un affare di tal momento; volerne prima sentire il parere dei vescovi dì Sicilia, secondo il quale s’era fin allora regolato; pregare però ambe le parti a designare un de’ loro per accompagnarlo in Sicilia. Vennero in Palermo col re i legati dei due contendenti pontefici; ma prima di convocarsi quel sinodo provinciale, nel gennajo del 1138 venne a morte Anacleto. I partigiani di lui in Roma, avutone il consiglio del re, scelsero nuovo pontefice un cardinal Gregorio, che si fece chiamare Vittore VI. Brevissimo fu il costui regno; i suoi principali fautori, compri da papa Innocenzio (227), lo abbandonarono; ed egli, rimasto solo, deposto il triregno, riconobbe Innocenzio e tornò in privata condizione.
XVI. — Così ebbe fine lo scisma della chiesa; ma non ebbe fine l’inimicizia tra papa Innocenzio e Rugiero; chè anzi, convocato nel 1139 il secondo concilio laterano, quel pontefice fece dichiarare scomunicato il re. Pensava egli di farlo così ispiegare ad accettare quelle condizioni di pace, che egli voleva dettare. Ma la fortuna s’era allora già piegata in favore di Rugiero, erano morti l’imperatore Corrado e ’l duca Rainulfo, ch’erano stati i più saldi sostegni della fazion pontificia. Quello era finito di vivere nel 1137 in ripassando le alpi; questo, dopo d’aver tenuta a fronte dell’esercito regio la campagna del 1138, era morto di febbre ardente in Troja addì 30 di aprile del 1139. Mancato quel gran capitano, tutto piegava alle armi vincitrici del re. Fu forza a papa Innocenzio venire fuori alla testa d’un esercito, per cercare d’arrestarne i progressi.
Il re, non meno di lui inchinava alla pace: però saputa la sua mossa, mandò suoi ambasciatori ad incontrarlo e fargli note le pacifiche sue intenzioni. Il papa gradì il messaggio e spedì a lui due cardinali, per invitarlo ad affrontarsi entrambi in Sangermano e trattare a viva voce lo accordo. Il re tosto vi si recò in compagnia del duca di Puglia suo figliuolo. Ma la conferenza tornò vana, come le altre; dachè Innocenzio era sempre incocciato a pretendere la cessione del principato di Capua; nè meno ostinato era Rugiero a negarla. Rotte così le trattative, si tornò alle armi.
XVII. — Il re si diede a devastare le terre di quei baroni, che seguivano la fazione contraria; il papa assalì e saccheggiò il castello di Galluzzo, il re, in questo rivolse tutte le sue forze sopra Sangermano, ove stanziava il papa, il quale, per iscansare il pericolo decampò. Il re, spiato il movimento di lui, mandò suo figlio il duca di Puglia, con mille scelti soldati a porsi sulla via, che l’esercito pontificio dovea tenere per intraprenderlo; mentre egli stesso con tutto l’esercito gli tenea dietro. L’antiguardo de’ pontificî, comandato da Roberto già principe di Capua, caduto nel guato, fu rotto e disperso senza che il papa ne avesse pur sospetto; e però andando oltre, si trovò, quando men se lo pensava, cinto dall’esercito siciliano, che non gli lasciava speranza di scampo; e gli fu forza sgozzar l’amaro boccone di render se e tutta la sua gente prigione di un re, cui s’era accinto a togliere il regno e che avea solennemente scomunicato; e di vedere il suo tesoro ed i papali arredi, preda dei soldati siciliani.
Rugiero non abusò dell’ottenuto vantaggio; cercò anzi di rendere al pontefice men dolorosa la sciagura. Lo ricevè con tutti gli onori dovuti al capo della chiesa; tende magnifiche fece ergere, per servire alla dimora di lui e della sua corte; destinò i personaggi più insigni ad onorarlo e servirlo; e, come se sul seggio romano allora sedesse, a lui mandò suoi ministri a pregarlo di por fine alla guerra. Non è a dimandare se la proposizione fu grata al pontefice. Nè accadde lungo disputare; perocchè Innocenzio non era più in circostanza di ostinarsi a pretendere la restituzione del principato di Capua, ch’era il solo articolo, sul quale le due parti non avevan mai potuto accordarsi. Addì 23 di luglio del 1139 fu conchiusa la pace.
Nella bolla pontificia, pubblicata due giorni dopo, non si fa motto nè della guerra, nè della prigionia del papa; è essa diretta a Rugiero re di Sicilia; vi si fa un elogio di Roberto Guiscardo e del conte Rugiero; si accenna la precedente convenzione tra ’l re e papa Onorio II; e poi a lui si concede il titolo di re della Sicilia, la quale, secondo le antiche storie, ebbe sempre il privilegio di regno e le prerogative annesse alla dignità regia; si concedono anche al re il ducato di Puglia e ’l principato di Capua, a patto di pagare alla Santa Sede, in ricognizione del supremo dominio di quelle provincie, l’annuo tributo di secento schifati (228). Per tal modo il re, mentre piaggiava l’ambizione della romana corte, con mostrare di ricevere dal papa quelle provincie, che già possedeva, acquistava sopra di esse un titolo che in quell’età era di gran momento; perchè toglieva il pretesto a chiunque potesse valersi di altro titolo per turbare il suo regno. In somma la bolla d’Innocenzio II servì, come sempre hanno servito le convenzioni fra’ potenti, a convertire la forza in dritto.
XVIII. — I pochi nemici interni, che allora restavano, perduto ogni appoggio, non osarono più resistere. I Napolitani si chiarirono sudditi del re di Sicilia, ed accettarono in loro duca Anfuso principe di Capua, secondo figlio di lui. Troja aprì le porte all’avvicinarsi del re; il vescovo ed i maggioringhi vennero ad incontrarlo e pregarlo ad entrare in città e dimorarvi alcun tempo. Con viso arcigno rispose il re, che non sarebbe per metter piede fra quelle mura, finchè colà dimorava il traditore (intendea dire il cadavero del duca Rainulfo). I Trojani, per meritare la grazia del re, tratto il corpo di quel principe dal sepolcro, in cui giacea, trascinatolo vituperosamente per le strade sino al castello, quindi lo trassero giù in uno stagno limaccioso. Tutti raccapricciarono a quell’atto, e più che altri il giovane duca di Puglia, il quale, pieno il cuore di nobile sentimento, fattosi avanti al padre disse: non essere da cuor generoso e magnanimo l’inveire contro il cadavere d’un nemico; essere bello il perdonare il nemico vivente, che può tornare ad offendere, turpissimo essere il conservare rancore contro chi cessò d’offendere e di vivere; meritare il duca Rainulfo, per le eminenti qualità sue e per la nobiltà del sangue, ben altro trattamento; doversi il re rammentare essere egli stato, comechè fellone, un pro cavaliere, un marito di sua sorella. Il re, convinto dai detti del figlio, a lui permise di dare onorevole sepoltura a quel cadavere.
Il principe di Bari, comechè da tutti abbandonato, cercò di resistere ancora, e tenne per alcun tempo l’assedio; ma i Baresi, confortati dai messi del papa, spaventati dalle macchine che il re faceva accostare alle mura, stretti dalla fame, si levarono in capo ed obbligarono quel principe ad arrendersi. Ebbe da prima buoni patti; ma poi, sul ricorso d’un soldato, cui avea fatto cavar gli occhi, il re lo carcerò, e fece compilare il processo a lui ed a’ suoi complici dai giudici di Troja, di Trani e di Bari, i quali lo condannarono a morir sulle forche, con dieci de’ suoi ministri. A molti altri di quei cittadini furono confiscati i beni; e confiscati furono i beni di tutti quei baroni, che aveano prese le armi contro il re; e fra questi il conte d’Ariano fu inoltre posto in ceppi colla moglie e mandato in Sicilia.
Tale ebbe fine quella guerra, che sulle prime avea fatto concepire speranza ai potentissimi nemici del re, di cacciarlo dal trono, o per lo meno di spogliarlo delle più belle provincie del suo regno, che al levar delle tende accrebbe il regno di Sicilia del principato di Capua, e del ducato di Napoli, e servì a rendere più fermo il trono, più temuta l’autorità, più pingue l’erario, più glorioso il nome di re Rugiero.