Niccolò Palmeri
Somma della storia di Sicilia

SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA]

CAPITOLO XXI. I. Invasione della provincia di Pescara. — II. Parlamento d’Ariano. — III. Nuove brighe colla romana corte. — IV. Conquiste in Affrica. — V. Guerra d’oriente. — VI. Morte del re: sue qualità. — VII. Forma del governo: bajuli, giustizieri e camerari. — VIII. Magna curia: grandi uffiziali: parlamento: alta corte de’ pari. — IX. Prove giudiziarie. — X. Condizione de’ cittadini: villani, rustici, borgesi, militi, baroni e conti. Colletta. Descrizione di tutto il regno. Vincoli de’ feudi.

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CAPITOLO XXI.

I. Invasione della provincia di Pescara. — II. Parlamento d’Ariano. — III. Nuove brighe colla romana corte. — IV. Conquiste in Affrica. — V. Guerra d’oriente. — VI. Morte del re: sue qualità. — VII. Forma del governo: bajuli, giustizieri e camerari. — VIII. Magna curia: grandi uffiziali: parlamento: alta corte de’ pari. — IX. Prove giudiziarie. — X. Condizione de’ cittadini: villani, rustici, borgesi, militi, baroni e conti. Colletta. Descrizione di tutto il regno. Vincoli de’ feudi.

I. — La pace conchiusa tra re Rugiero e papa Innocenzio fu presto per esser turbata. La provincia di Pescara, contermine allo stato romano che oggi è compresa nell’Abruzzo ulteriore, era allora dipendente dal principato di Capua. Tal ragione mise avanti il re ( ragioni sono mai mancate ai conquistatori) nello spedirvi con armata mano nel 1140 il suo secondo figliuolo Anfuso principe di Capua, e poi l’anno appresso il primogenito Rugiero duca Puglia, a farne lo acquisto. La provincia, comechè sparsa di forti e popolose città e di munite castella, fu ridotta al dominio del re. Quella nuova mossa delle armi siciliane presso ai confini degli stati suoi dava che pensare a papa Innocenzio, il quale non era ben sicuro che que’ confini sarebbero stati rispettati. E però per due cardinali mandò pregando i principi siciliani a non invadere gli stati di lui. Risposero: non esser loro intenzione molestare gli stati altrui; volere solo raccattare ciò che loro si pertenea. Sopraggiunto poi il re stesso in quelle parti, venne da per tutto facendo le stesse protestazioni di amicizia; e, per tranquillare l’animo del pontefice, mandò ordine ai figliuoli di ritirarsi, lasciate le necessarie guarnigioni nelle città e castella della conquistata provincia.

II. — Venuto poi a Capua, sbandò l’esercito, tenuti presso di cinquecento militi, co’ quali discorse tutta la provincia di Pescara, e quindi si fermò in Ariano, ove convocò il parlamento, per dare quei provvedimenti, che si credevano più acconci al bene del regno. Ma, tali erano allora le idee degli uomini, che in quel parlamento si credè promuovere la ricchezza pubblica con uno statuto, che direttamente dovea produrre la pubblica miseria.

Circolava allora per l’Italia una moneta d’argento, coniata in Roma, detta perciò romesina, la quale, per essere d’ottima , era da per tutto ricevuta. Parve al parlamento che col mettere in corso moneta che avesse maggior titolo e minor quantità di metallo prezioso, sarebbe venuta ad accrescersi la ricchezza dello stato. Con tale stoltissimo intendimento fu vietato il corso delle romesine, ed in quella vece furono coniate due ragioni di monete; i ducati, d’argento, ai quali, comechè di bassissima lega, si diede forzatamente il valore di otto romesine; ed i follari di rame, tre de’ quali si volle che valessero una romesina. Ne avvenne, ciò che doveva avvenirne, un generale arretamento nel commercio. Nissuno volle più vendere, per non ricevere una moneta non creduta; nissuno volle comprar cica dallo straniero, al quale dovea dare buona moneta, per riceverla cattiva nel rivendere. Alte querele si destaron da ciò negli stati vicini; dachè, per essere in quell’età ignoto il cambio, tutto il commercio si faceva con moneta effettiva. Lo scriba beneventano dice: andar quello stato poco di lungi dalla morte e dall’indigenza (229). E, perchè al re era anche in alcun modo soggetta la città di Benevento, ivi fu ordinata l’esecuzione dello statuto. I Beneventani se ne dolsero al pontefice, il quale rispose: stessero di buon animo; chè presto si sarebbe posto riparo a ciò; e ne scrisse efficacemente al re. La cronica del Beneventano, che qui resta monca, ci lascia allo scuro sull’esito dell’affare; ma tale insano divisamento è stato sempre di breve durata. Gli uomini danno talvolta un valore convenzionale a ciò, che in se stesso non ne ha alcuno; un pezzo di carta può tener luogo di qualunque moneta; ma il solo valore nasce dalla libertà di rifiutarlo; se la pubblica autorità ordina d’accettarlo a forza, tutti lo rifiutano.

Conchiuso il parlamento, il re si recò in Napoli ove fu ricevuto con istraordinaria pompa. Dimorato ivi alcun tempo, assai provvedimenti diede per lo reggimento della città; molti di nuovi feudi investì; diede ad ogni milite cinque moggia di terra con cinque villani, ciò fatto, addì 5 di ottobre del 1142, montato in nave, in Sicilia fece ritorno (230), lasciato il figliuolo primogenito Rugiero al governo del suo ducato di Puglia, ed Anfuso del principato di Capua.

III. — La guerra fu per riaccendersi alla morte di papa Innocenzio II nel 1143. Celestino II, che a lui successe, si negò a ratificare il trattato conchiuso tra ’l re e’ suoi antecessori; però il re passò in terra ferma, per essere più pronto a far valere le sue ragioni. Ma Celestino dopo pochi mesi venne a morire; e nel marzo 1144 fu eletto Gherardo de’ Caccianemici da Bologna. Il re ne fu oltremodo lieto, per essere il nuovo pontefice suo amico e suo compadre; spedì a lui suoi ambasciatori, per congratularsi dell’esaltazione di lui e pregarlo ad accontarsi entrambi in alcun luogo presso i confini de’ loro stati, per dirimere a viva voce qualunque controversia. Convennero in Coperano; ma la conferenza a nulla montò; papa Lucio non volle scattare un pelo dalle sue pretensioni. Il re fece allora avanzare un esercito nello stato romano, prese Ferentino, Terracina e strinse di assedio Veroli.

I progressi delle armi del re furono arrestati da una domestica sciaura, la morte di Anfuso, principe di Capua e duca di Napoli, secondo figliuolo di lui; però il padre diede l’investitura di quegli stati a Guglielmo, ultimo dei suoi figli. Morì pochi mesi dopo nel febbrajo del 1145, papa Lucio. Eugenio III, che tosto dopo fu eletto, ebbe gran mestieri di farsi forte, per la sua sicurezza, dell’amicizia del re di Sicilia.

Il popolo romano era allora inebbriato dell’eresia più politica che religiosa di Arnoldo da Brescia, il quale, mentre seguiva gli errori che si imputavano al famoso Abelardo, di cui era stato discepolo, veniva predicando: avere Gesù Cristo dichiarato, il suo regno non essere di questo mondo; la spada e lo sceltro essere solo di ragion dell’autorità civile; gli abati, i vescovi, il pontefice stesso dovere per necessità rinunziare o ai loro beni temporali, o all’eterna loro salvezza; le sole volontarie oblazioni dei fedeli essere sufficienti non a soddisfare il lusso e l’avarizia loro, ma al sostentamento d’una vita frugale ed esemplare; lamentava i vizî del clero e la corruzione. del popolo, tanto degeneri dal primitivo stato; esortava i Romani a far valere i dritti inalienabili d’uomini e di cristiani; a ristabilire i magistrati della repubblica; a rispettare il nome dell’imperatore; e lasciare ai loro pastori solo il governo spirituale della chiesa. Tali sensi erano avvalorati dall’eloquenza dell’eresiarca, dalla sua non comune erudizione, daglillibati costumi suoi, dall’abito monastico che indossava e soprattutto dal pubblico favore; ed i suoi partigiani divennero più numerosi e più arditi, dopo che cominciò ad esser perseguitato, per avere papa Innocenzio II condannato le dottrine di lui nel concilio laterano. Il basso clero cominciò la riforma della chiesa con cacciare i cardinali dalle ventotto parrocchie di Roma; cominciò la plebe, come sempre ha fatto, la riforma dello stato con saccheggiare le case de’ grandi. Fra ’l sangue, i tumulti e le rapine, vollero i Romani rinverdire l’antico governo; i nuovi senatori si misero in possesso del Campidoglio e vi s’afforzarono; papa Lucio II s’attentò di cacciarneli, e vi restò morto a furia di sassi; nel trambusto fu eletto Eugenio III, il quale, non tenendosi sicuro in Roma, venne a farsi consacrare nel monastero di Farfa, e poi stanziò in Viterbo.

Sentiva bene papa Eugenio, che nell’esaltazione, in cui erano i Romani, le armi spirituali nulla valevano a difendere la potestà temporale; temeva (e i Romani lo speravano), che Corrado III, che allora sedea sul trono in Germania, non volesse cogliere quel destro di raccattare il dominio di Roma. In tale stretta non altronde poteva sperare soccorso che dal re di Sicilia, e però senza por tempo in mezzo, ricevuto dal re una grossa somma di danaro, confermò, non che il trattato conchiuso con Innocenzio II, ma tutte le precedenti concessioni. I Romani gli apposero ciò a delitto; scrissero all’imperador Corrado una lettera gratulatoria, nella quale (tanto ignoravano la storia romana) mentre sognavano libertà, si davano il vanto d’avere ristabilito il governo, nella forma in cui era sotto Costantino e Giustiniano, che avevano spente tutte le antiche istituzioni, e ridotto il governo dell’impero a puro dispotismo; lo invitavano a recarsi al più presto in Italia, per racquistare la perduta autorità e cacciare dalle usurpate provincie, il re di Sicilia, con cui s’era collegato papa Eugenio, che gli avea concesso l’uso del pastorale, dell’anello, della dalmatica, della mitra, de’ scandali; e gli avea promesso di non mandar nei suoi stati alcun legato, senza sua richiesta. Ciò era la conferma della bolla di Urbano II. Ma Corrado, tutto inteso alla spedizione di Terra santa, alla quale s’accingeva, non fece alcun caso delle fanfaluche de’ Romani.

IV. — Re Rugiero, nulla avendo a temere da questo stato, pose l’animo ad estendere i suoi domini in Affrica. Già sin dall’anno 1134 s’era egli insignorito dell’isola delle Gerbe (231); nel giugno poi del 1146 mandò una grande armata ad espugnare Tripoli, e per le interne scissure la città non oppose resistenze, I cittadini, che da prima erano fuggiti, bandito l’editto di sicurezza, tornarono alle case loro; sei mesi stette colà l’armata siciliana, a fortificar meglio la città; fece poi ritorno in Sicilia, menando seco statichi dei Tripolini, che furono rimandati, quando il dominio del re fu saldo in quelle parti (232). Era la Barberia allora afflitta da una straordinaria carestia, che bastò dal 1142 sino al 1148; per cui molti degli abitatori di quelle parti erano venuti a campar la fame in Sicilia. Saputo da costoro essere il paese tanto malparato, il re ne approfittò per estendere ivi la sua conquista. Un’armata di cencinquanta legni (233) comandata dal valente Giordano Antiocheno, grande ammiraglio di Sicilia, direttasi prima a Pantellaria, addì 22 giugno del 1148 fu a vista di Mahadia. L’emir Al Hasan, che vi comandava, chiamò i suoi a consiglio, i quali risposero, che la fame gli avrebbe uccisi prima delle spade nemiche (234); però Al Hasan ed i maggioringhi fuggirono, menando seco il meglio che poterono. La fuga loro fu agevolata dal vento contrario, che non permetteva alle navi del re di appressarsi al lido.

Verso vespro l’armata siciliana entrò in porto. Il grand’ammiraglio, trovata la città deserta, venne al palazzo dell’emir; vi trovò grandissime ricchezze e molti eunuchi Dopo due ore di saccheggio (235) bandito il solito editto di sicurezza, la città fu ripopolata da’ suoi abitatori. Caduta Mahadia, parte dell’armata venne ad espugnate Siface, e parte Susa, ed ambe furono prese senza combattere, per esserne fuggiti gli abitatori, che, fatti cauti d’ogni molestia, vi ritornarono. Nissuno osò far fronte: intantochè tutto il paese da Tripoli a Tunisi, dal deserto d’Affrica a Cairvan riconobbe il dominio del re di Sicilia (236). Fu allora che Rugiero ebbe la vanagloria di aggiungere al suo stemma il motto Appulus et Calaber, Siculus mihi servit et Afer.

È veramente da maravigliare che la potenza di re Rugiero sia stata tale, che, dopo d’avere sostenuto dieci anni di rovinosissima guerra nel cuor del suo regno, abbia potuto mettere in mare armate numerose ed accampare floridi eserciti, per imprendere e recare a fine la conquista d’Affrica. E, se la storia di Sicilia ad ogni passo nol mostrasse, basterebbe questo solo fatto a provare, che la potenza degli stati, più che all’estensione loro, è da attribuirsi ad altre circostanze, col variar delle quali cresce o vien meno il nome e la forza delle nazioni. Più grave ragion di maraviglia il pensare che, contemporaneamente alla conquista d’Affrica, abbia re Rugiero sostenuta, con maggior rischio e più gloria, un’altra guerra contro l’impero bizantino.

V. — Da gran tempo il nome greco era venuto inviso ai Latini. Inabili gl’imperatori di Costantinopoli a resistere ai Saracini, ai Turchi ed agli altri popoli, che avevano invaso le migliori provincie dell’impero, avevan cercato soccorso dai principi latini, con prometter loro ogni maniera di ajuto, per togliere dalle mani dei miscredenti la santa città di Gerusalemme. Un torrente d’armi e d’armati inondò allora l’oriente; e quegl’imperadore avendo forse più a dolersi dell’avarizia e dell’insolenza dei cristiani, che del valore, e dell’ambizione de’ Turchi, ricorsero all’armi dei deboli, il tradimento; e, mentre in apparenza si mostravano amici de’ crocesegnati, facevano sottomano ogni loro possa, per fare andare a male la impresa loro; intantochè si giunse allora a credere, molti tra’ Latini ed alcuno fra’ Greci lo scrissero, ed i moderni storici lo hanno senza criterio ripetuto, che, per far perire gli eserciti cristiani, si mescolava gesso alla farina del pane, che dovavan mangiare (237).

Alle universali doglianze degli Europei aggiungeva re Rugiero particolari ragioni di querela; perocchè gl’imperadori bizantini, non potendo sgozzare la perdita della Calabria e della Puglia, onde i principi normanni li aveano cacciati, non avevan trascurato mezzo di dar molestia al re; soccorsi di danaro avevano dato al conte d’Avellino ed agli altri baroni di Puglia, che contro di lui avevan prese le armi; ed eran venuti sempre adizzando ora i Veneziani, ora gl’imperadori di Germania a muovergli guerra. Aveva il re, forse con animo di por fine alla nimicizia, fatto chiedere nel 1143 all’imperadore Giovanni Comneno una sua figliuola in sposa di Rugiero duca di Puglia. Gli ambasciadori siciliani, giunti in Costantinopoli, trovarono quell’imperadore e fecero la richiesta ad Emmanuele, figlio e successore di lui. Aderitovi egli, mandò in Sicilia un Basilio Xero a conchiudere il trattato. Costui, oltrepassando i limiti della sua commessione, sedotto dai doni del re, inserì nel trattato la condizione, che indi in poi i re di Sicilia fossero trattati colle stesse onorificenze degli Augusti, o sia i principi della famiglia imperiale. Gl’imperadori bizantini si tenevano assai da più di qualunque altro principe; a segno che quando, nella seconda crociata, Luigi il giovane re di Francia passò da Costantinopoli, in una pubblica conferenza coll’imperadore Emmanuele Comneno, non altro seggio ebbe che un piccolo sgabello, accanto al trono. Lo Xero morto in viaggio campò la pena di quel trascorso; ma tanto fu offeso Emmanuele da quella condizione apposta nel trattato, che non volle pur vedere gli ambasciatori siciliani; ed alcuni degli storici latini dicono averli messi in carcere.

Re Rugiero s’accinse allora a trar vendetta dei torti antichi e delle recenti offese. Lo stesso valoroso ammiraglio Giorgio fu da lui spedito con grande armata in levante, tosto dopo la presa di Mahadia; si avvicinò egli da prima a Corfù e l’ebbe senza resistenza; perocchè molti di quegli abitanti, mal contenti del governo bizantino, si giovarono della congiuntura per iscuoterne il giogo. L’ammiraglio, lasciatovi mille Siciliani, passò oltre; invase l’Acarnania e l’Etolia, e sottomise le città mediterranee di quelle provincie; entrato nella Beozia, prese d’assalto Tebe, che ancora era città opulentissima; ricchissimo fu il bottino che ne trasse, e grande il numero de’ prigioni, fra’ quali furono molte persone di ambi i sessi, esperte nell’arte di produrre e tesser la seta. Maggiori ricchezze furono trovate in Corinto. Gli abitanti, all’avvicinarsi dell’armata siciliana, abbandonata la città bassa, s’erano, con quanto aveano di prezioso, ritratti nell’Acrocorinto, fortezza tanto munita, che sarebbe stata inespugnabile, se i Corinti fossero stati ancora Corinti; ma i degeneri successori di Timoleonte non ebbero cuore di tener l’assedio. Quanti ivi erano, d’ogni età, d’ogni grado, d’ogni sesso, con tutte le ricchezze loro furono messi sulle navi siciliane, le quali, al dir del greco Niceta Coniate, non più da guerra, ma apparivano da carico, e questo era tanto strabocchevole, che correvan rischio di esserne sommerse. Grande fu la ricchezza venuta in Sicilia per quelle prede; ma la ricchezza più solida fu lo stabilimento delle manifatture di seta, alle quali il re destinò quei prigioni, ch’eran da ciò.

Scosso il greco imperadore dalla subita invasione, apprestato un’esercito ed un’armata, venne nel 1149 ad assediare Corfù, che, per esser un punto assai vantaggioso pel commercio del levante, che era il solo che a que’ si faceva, era, per quanto appare, la sola conquista che il re volea stabilmente fare in quelle parti; per tutto altrove era stata una gran correria. Cercò il re tutte le vie di soccorrer la piazza, ma tanto numerosa era l’armata greca che la circondava, alla quale s’erano unite sessanta galee veneziane, che non potè venirne a capo. Ciò non pertanto quei mille siciliani, che v’erano di presidio, a fronte delle prepotenti forze nemiche, comechè sfidati d’avere soccorso, si difesero con tal cuore, che l’assedio tirò in tre mesi, resero la città se non quando vennero affatto stremi di viveri; ma la resero, ottenuta la condizione di venirne fuori liberi, colle armi, le bagaglie loro e tutti gli onori di guerra.

Durante l’assedio, l’ammiraglio Giorgio, sulla speranza di divertire le forze del nemico, venne colla sua armata a molestare le altre provincie del greco impero; ma, tanto numerosa era l’armata bizantina, che il Comneno potè staccarne parte, per correre appresso ai legni siciliani e parte ne lasciò a continuare collo stesso vigore l’assedio. Le due armate presto furono incontro; nella battaglia, che ne seguì, i Siciliani ebbero la peggio. Ciò non però di manco con quaranta galee, che loro restarono illese, s’innoltrarono sin sottesso le mura di Costantinopoli; gran quantità di saette affocate (238) scagliarono entro la città, forse con intendimento di destarvi un incendio ed approfittarsene per penetrarvi; ed alcuni di essi ebbero lo ardire di scalare le mura dei giardini imperiali e trarne delle frutta che seco menarono in trionfo.

Fallito il disegno d’incendiar la città, a scanso che l’ammiraglio nemico non fosse venuto a soprapprenderlo e chiudergli il varco all’uscita, Giorgio tornò indietro. Venuto fuori del mare di Marmora, s’abbattè nell’armata nemica. Il greco Giovanni Cinnamo dice che i Bizantini nella battaglia, che ne seguì, riportarono una seconda vittoria; ma ciò pare smentito dal fatto, che i Siciliani in quella fazione tolsero dalle mani dei Greci il re di Francia Luigi VII, che, reduce dalla sciaurata spedizione di Terra-Santa, era stato intrapreso da quelli e contro ogni dritto fatto prigione. Sebbene il greco storico dice che il re di Francia non era stato preso prima; ma che durante la battaglia, la nave, sulla quale era, s’imbattè a passare fra le due armate, che combattevano; assalita dai Greci, Luigi si salvò sulla nave dell’ammiraglio siciliano e con esso fuggì. Che che ne sia, il re Luigi venne in Palermo coll’ammiraglio Giorgio e quindi si recò in Calabria, ove re Rugiero allora era, da cui fu grandemente onorato, e poi fatto accompagnare sino a Tusculo, dove si incontrò con papa Eugenio.

Resa intanto Corfù, volle il greco imperadore portare egli stesso la guerra in Sicilia; per lo che apprestata una grande armata, e messivi su armi e soldati in gran numero, si mise in via a questa volta; ma sopprapreso da fiera tempesta, le sue navi furono rotte o disperse, ed egli stesso potè a malo stento salvarsi, Non però venne in lui meno l’uzzolo di far la guerra al re di Sicilia. Apprestò una nuova armata, ne diede il comando a Michele Paleologo, che ad illustri natali univa il nome di gran capitano; provvedutolo d’armi e di danaro, lo mandò prima a Venezia per accordarsi con quella repubblica ed alcun mal contento barone, ed invadere poi col loro ajuto il regno. Se è da credere al greco Niceta Coniate, entrato in Puglia riportò molte vittorie sugli eserciti del re e molte città sottomise coll’ajuto di un conte Alessandro, consanguineo del re, che per ingiurie sofferte si era gettato al greco; e finalmente aveva espugnata Bari. Ma il Cinnamo che scrisse la sua storia da un mezzo secolo prima del Coniate, e più prossimo a questi fatti, comechè non men di lui fosse inteso a magnificare il nome greco e denigrare il latino, non fa alcun motto di tale spedizione e di tali trionfi, alcuno scrittore latino ne fa cenno.

Ma le migliori speranze del Comneno eran fondate sull’accordo fatto con Corrado imperador di Germania, marito di sua sorella, quando costui per portar le armi in Gerusalemme era passato da Costantinopoli, ove avevano concepito il piano d’assalire contemporaneamente da due parti il regno di Sicilia e le sue provincie. Ritornato Corrado in Germania, non potè adempir così presto la promessa, per la guerra mossagli da Guelfo duca di Baviera, sostenuto dal danaro, che gli faceva giungere re Rugiero; e quando poi, liberatosi da quell’intoppo, si prepareva a scendere in Italia, fu colto dalla morte in Bamberga nel 1152. Ottone di Frisinga, tedesco e stretto di sangue a quell’imperadore, dice d’essere allora corsa voce ch’egli sia morto di veleno, che re Rugiero gli fece dare da un medico, che si recò in Germania, fingendo cansar dallo sdegno del re, o per la sua perizia si era introdotto presso l’imperadore; ma il volgo in tutta l’età ha sempre attribuito a veleno la morte inaspettata dei grandi personaggi, ed ha dato credito intorno a ciò alle favole più assurde, fra le quali è da annoverarsi questa.

Comechè privo dell’ajuto del cognato, volle il greco imperadore da solo ingagliardire la guerra, e mandò ordine al suo cugino Alessio Comneno, ch’era succeduto al Paleologo nel comando dell’armata d’Italia, di assalir la Sicilia e fare ogni sforzo per sottometterla. Ma prima di giungere l’ordine suo, il Comneno, comechè da prima avesse riportato alcun vantaggio sull’armata siciliana e fosse poi venuto a metter l’assedio a Brindisi, assalito con nuove forze dal re, aveva perduto lo esercito, ed egli stesso era rimasto prigione. Un Costantino l’Angelo fu allora destinato con nuova armata all’impresa. Era costui per mettere alla vela; ma fu fatto soprastare fino a tanto che gli astrologhi, osservato gli astri, non ebbero conosciuto ch’essi eran propizî. Ma gli astri furono mendaci; Costantino perdè del pari l’armata, e restò prigione del pari (239). Dopo tanti disastri, il Comneno, visto che anche gli astri erano a lui nemici, comechè si fosse dichiarato di non deporre le armi, se prima non riuniva l’Italia all’impero, cacciato i Barbari di dai monti, porse orecchio alle pacifiche insinuazioni di Papa Eugenio. La pace fu conchiusa dai due ammiragli, Majone per parte del re, Alessio Comneno per lo Greco. Di bel patto furono reciprocamente restituiti i prigioni, tranne i lavoranti di seta, che il re volle ritenere.

VI. — Fra tante cure di guerra ebbe il re a soffrire la dolorosa perdita della maggior parte dei suoi figliuoli. Nel 1144 era morto Anfuso, principe di Capua e duca di Napoli; quattr’anni dopo finì di vivere Rugiero duca di Puglia suo primogenito, che lasciò solo due figliuoli naturali, Tancredi e Guglielmo; Arrigo, ch’era il quarto dei figliuoli del re, era morto in tenera età. Il superstite Guglielmo, principe di Taranto, comechè il padre lo avesse tenuto poco degno anche di quel principato (240), non avendo altri figliuoli, fu da lui prima investito del principato di Capua e del ducato di Puglia, e poi nel maggio del 1151 lo volle compagno nel regno e lo fece coronare in Palermo. Per meglio assicurare la successione, per essere da molti anni morta la regina Elvira de’ reali di Castiglia, sua prima moglie, passò il re alla seconde nozze con Sibilla, figliuola del duca di Borgogna; e, morta fra poco tempo anche questa, senza portar figli, menò in moglie la Beatrice, figliuola del conte di Rethel, dalla quale nacque Costanza, che il re non vide, per esser venuto a morte, prima di nascer lei, addì 26 di febbrajo del 1154, nel cinquantesimonono anno dell’età sua, e nel ventesimoquarto da che fu re.

Fu re Rugiero bello della persona, comechè di gran taglia, non era atticciato; nella bellezza del suo volto un che di leonino appariva; e pari alla bellezza del volto eran le qualità dell’animo. Avvegnachè prontissimo al concepire, ove trattavasi affari di gran momento, nulla risolveva prima di sentirne il parere degli altri; e, dopo averlo sentito, manifestava la sua volontà sempre accompagnata dalla ragione che lo movea; ed agiva con prudenza pari alla maturità di consiglio, con cui risolvea. La sua severità nel punire i malfatti spesso oltrepassava i confini del giusto; ma ciò era forse necessano per assodare un governo nuovo, in tempi tanto licenziosi. Indi avvenne che sottomessa del tutto la Puglia, cessato il fomite della romana corte, nissuno osò più resistere alla sua volontà. Molti gli apponevano d’esser egli cupido di danaro, più che qualunque altro principe d’Europa (241); ma nissuno accenna un solo esempio d’aver egli usato mezzi iniqui per ottenerne; l’avere spogliati dei loro feudi quei baroni di Puglia, che contro di lui s’eran levati in armi, oltre d’essere stato richiesto dalla prudenza, era prescritto dalla legge. Ove poi si ponga mente all’uso ch’egli fece del danaro, lungi di dargli colpa di ciò, la posterità deve essergliene riconoscente. Magnifico in tutte le opere sue, egli ridusse a miglior forma il real palazzo di Palermo. Era esso posto fra due torri; l’una chiamata de’ Pisani, ove erano riposti i reali tesori; l’altra, che si diceva Greca, stava a cavaliere di una parte della città; nel corpo di mezzo erano sale, nelle quali eran profusi l’oro, le gemme, le ricchissime tappezzerie, i più nobili arredi; altre servivano alla dimora del re; altre tenevano le matrone, i donzelli, gli eunuchi addetti al servizio della famiglia reale; in altre più spaziose e con maggior lusso parate il re o chiamava a consiglio i suoi ministri, o vi convenivano a parlamento i grandi del regno. Nobilissima era poi in quel palazzo la real cappella, incominciata dal duca Roberto Guiscardo e recata a fine da re Rugiero. accade far parola del pavimento di marmo bianco e di porfido, de’ mosaici che copron le pareti, del tetto dorato, delle porte di bronzo, del portico e di quant’altro v’è di pregevole, perocchè essa si conserva ancora nel primo suo essere.

Nel palazzo stesso (tanto re Rugiero proteggeva le arti) erano le officine dei setajuoli e dei lapidari. Qui si tessevano drappi di seta di ogni ragione, quali verdi, quali color di foco, quali marezzati, quali in tessuti d’oro o di margherite; qui si lavoravano le gemme, che o si incastonavano in anella, o se ne facevan monili o si commettevano, affacciandole in modo che appena n’era visibile il convento, e si disponevano con tal maestria che colla varietà dei loro colori imitavano la pittura. Arte che si esercitava dai Saracini, che l’avevano introdotta in Sicilia. Ma tali arti, più che dall’avere stanza nel real palazzo, traevan favore dallo sfarzo dal re e, sull’esempio del re, di tutti i grandi del regno.

Non meno splendidi erano i luoghi di delizia. Per la pesca aveva costruito, nella contrada, che si dice Favara, un vasto vivajo, nel quale a grandi spese si trasportava l’avanotto, che ivi cresciuto, poi offriva larga pescagione di pesci fluviali di ogni ragione. Avea per la caccia una villa nei dintorni di Palermo, presso la quale aveva piantato un bosco, cinto di mura, nel quale era immensa copia di selvaggiume. Dal nome di Parco in fuori, che quindi restò alla contrada, nulla oggi ne rimane. E mentre così magnifico era nelle opere sue, colla sola ordinaria rendita sosteneva una lunga ed aspra guerra in Puglia; conquistava una provincia in Affrica; danaro profondeva ai principi di Germania, per divertire le forze di quegli imperadori; e portava gloriosamente le armi sino in Costantinopoli. Tutto ciò è certo ben lontano dalla sordida avarizia.

VII. — Ma il nome di re Rugiero, più che per le conquistate provincie, per le riportate vittorie, per le arti protette e per lo splendore che da lui trasse la Sicilia, sarà sempre glorioso, per aver egli consolidata la monarchia, con istabilire quella forma di governo, con tanta sapienza composto, che malgrado i cambiamenti che il tempo e ’l variar di fortuna v’apportarono, salde ne rimasero per sette secoli le basi.

Avea re Rugiero riuniti sotto il suo dominio parecchi stati, l’uno dall’altro indipendenti, ognun de’ quali avea una particolar forma di reggimento; volle egli, nell’informare la costituzione della monarchia, fondere tutti i dominî in un sol regno e sottomettere indistintamente i sudditi alle stesse leggi; ma volle recare a compimento l’opera del padre di spegnere in Sicilia ed in Calabria, ove i Saracini avevano avuta dominazione, le istituzioni musulmane, per sostituirvi quelle, che l’uso avea fatto adottare per tutto altrove in Europa. Con tale intendimento lasciò intatti gli antichi regolamenti del ducato di Puglia, del principato di Capua e degli altri dominî suoi, i quali, dall’essere soggetti allo stesso principe in fuori, nulla avean di comune col regno di Sicilia, ed imprese a dare una nuova costituzione alla Sicilia ed alla Calabria, che il conte Rugiero avea sottratto alla dominazione de’ Saracini e poi costituirono propriamente il regno.

Il fondatore della monarchia siciliana nel dar forma alla costituzione del regno, chiamò prima da’ lontani e da’ vicini paesi uomini insigni e di ogni maniera dotti, che trovarono nella sua corte onorevole stanza, ed a costoro furono affidate le prime cariche; studiò le leggi e gli usi degli altri paesi; e soprattutto ebbe a modello quanto s’era fatto, in quella stessa età, dal conquistatore Guglielmo in Inghilterra; perocchè pari era il genio dei due principi, comune la nazione, ed ambi venuti in possesso di regni nuovi, vollero in essi stabilire una costituzione feudale. Se non che il legislatore siciliano s’accinse all’opera, dopo che il popolo era composto all’obbedienza; onde non ebbe resistenza a superare.

Lasciati gli stratigoti, ove ven’erano, ai vicecomiti, che il conte Rugiero avea stabiliti in ogni comune, il figlio sostituì i bajuli, i quali, come i primi, furono destinati ad amministrare la rendita pubblica. Esigevano essi tutto ciò che nel comune si pagava, o per conto del re, e ciò si diceva a credenza, o in appalto, e ciò chiamavano a staglio. Da ciò nacque il chiamarsi bajulazione, bajulato, e più comunemente baglia, la somma di ciò che il bajulo esigea. Oltracciò rendevano i bajuli giustizia in tutte le cause civili, eccetto le feudali; e giudicavano dei piccoli furti e di quei delitti, pei quali non poteva essere inflitta pena corporale; ne’ casi più gravi potevano carcerare i rei, coll’obbligo di rimetterli a’ giustizieri delle provincie.

Difetto essenziale dell’ordine giudiziario stabilito dal conte Rugiero era quello di non esservi magistrati superiori, che avessero sorvegliata la condotta degl’inferiori, ed ai quali avessero potuto le parti appellarsi. Sull’esempio del conquistatore inglese, che avea istituiti i giustizieri, per girare di continuo le provincie e le contee, che però erano detti Justitiarii itinerantes; ed altri giustizieri detti del banco del re; ed un capitale giustiziero, che formavano una corte suprema, che per lo più stava a fianchi del re; il legislatore siciliano, con maggior senno, stabilì un ordine graduale di autorità l’una all’altra superiore, che fossero di freno e d’appello dalle inferiori. I giustizieri in Sicilia, invece d’essere erranti come in Inghilterra, ebbero stabilmente assegnata una provincia, e provincie furono assegnate ai camerari.

Dipendevano da’ giustizieri gli stratigoti ed i bajuli, per l’esercizio delle loro funzioni giudiziarie; ed in que’ luoghi, ove non era costituito officio di giustizia criminale, procedevano in prima istanza i giustizieri, i quali nel criminale giudicavano de’ delitti di maestà, dei latrocinî, dei grandi furti, delle violenze fatte alle donne, insomma di tutti quei misfatti, ai quali era addetta la pena di morte o del troncamento d’alcun membro. Nelle civili poi decidevano in prima istanza le cause di quei feudi che non erano descritti ne’ quaderni fiscali, e rivedevano per appello tutte le decisioni de’ camerari, degli stratigoti e de’ giustizieri locali; ed avevano anche il dritto di avocare a le cause pendenti avanti questi magistrati e le corti delle baronie, se fra due mesi non proferivan la sentenza.

Per la parte economica i bajuli eran dipendenti da’ camerari i quali sorvegliavano in tutta la provincia loro assegnata all’esazione de’ tributi e delle rendite fiscali; decidevano in prima istanza tutte le liti tra’ bajuli e gli appaltatori od i contribuenti de’ tributi; ed eran nelle civili giudici di appello delle cause decise dai bajuli. Tenevano anch’essi la carica a credenza od a staglio; era temporale, come quella dei giustizieri; e, spirata essa, dovevano restare cinquanta giorni presso i loro successori, soggetti alla sindicatura ed esposti a rispondere ai reclami di tutti gli abitanti della provincia. Ma la divisione geografica delle rispettive provincie non era la stessa pe’ due magistrati. Comechè i Saracini avessero divisa la Sicilia in più distretti, che si dicevano valli, e si avessero memorie del val di Demena, del val di Milazzo, del val di Mazzara, del val di Noto, del val d’Agrigento, pure re Rugiero per l’amministrazione della giustizia lasciò solo i tre valli di Demena, di Mazzara e di Noto, ed un giustiziero destinò per ciascuna. Ma per l’amministrazione della rendita dello stato pare che si sian volute assegnare ai camerarî più ristrette provincie; e si sia lasciata l’antica divisione; perocchè sino a tempi di re Federico I lo svevo si contavano tre camerari dal lato orientale del fiume Salso, e si parla del camerario del val di Agrigento, dall’altro lato.

Ma i bajuli, i giustizieri, alcuno di quei magistrati avea facoltà di giudicar da solo; erano sempre assistiti da un collegio di giudici. saprebbe dirsi su qual fondamento il Gregorio dica (242), che tali giudici intervenivano da semplici assessori. Per mostrare che i camerari erano nelle civili, magistrati superiori a tutte le corti locali delle provincie, adduce quello scrittore lo esempio d’una lite che pendea innanzi i giudici di Maddaloni; ed il camerario, avocatala a , la decise assistito dai giudici di Capua. Ma nell’atto di quel giudicato si dice, che il camerario Ebulo, convocata in sua presenza la corte, dopo lungo dibatto ordinò ai giudici di Capua ed a noi di profferir la sentenza (243). Da ciò è manifesto primieramente che, oltre ai giudici di Capua, altri intervennero al giudizio; e che le funzioni loro erano di giudicare effettivamente, non di dare il semplice voto d’assessori. E, quando poi si considera che nel 1154 il giustiziero di val di Demona decise una lite intorno ai confini di Gagliano e del casale di Milga, assistito da due giudici di Castrogiovanni e dai bajuli di Troina e di Centorbi, e vi furono chiamati buoni uomini tanto cristiani, che Saracini (244), si vede anche più chiaro che quei giudici non eran magistrati ordinarî, esercitavano un’officio proprio, ma eran chiamati a giudicare occasionalmente. Ed abbiamo grande argomento di credere che le funzioni di costoro, che in Sicilia si chiamavano giudici, erano simili a quelle di coloro che in Inghilterra si chiamavano e si chiamano ancora giurati, i quali sono scelti secondo il caso; può esservene alcuno altronde vestito di pubblica autorità; fanno parte momentaneamente della corte di giustizia; ma giudicano solo intorno al fatto, ed il magistrato poi applica la legge al caso. E forse re Rugiero, che informò il governo di Sicilia sul modello di quello d’Inghilterra, volle anche adottare tal forma di giudizio, che da tempo immemorabile era stabilito in quell’isola, che il conquistatore normanno vi lasciò e gl’Inglesi hanno voluto sempre conservare; perchè la tengono ed è il più saldo sostegno della libertà e della proprietà del cittadino.

VIII. — Al modo stesso stabilì re Rugiero la magna curia nel regno di Sicilia, ad esempio della corte del banco del re, che Guglielmo avea stabilita in Inghilterra. Questa era formata da’ giustizieri del banco, e preceduta da un capitale giustiziero, ch’era il più eminente magistrato del regno; nell’assenza del re restava egli a farne le veci, spediva nelle provincie i giustizieri, e quelle liti, che eccedevano le costoro facoltà, da lui e dai giustizieri del banco si definivano. In miglior forma il legislatore siciliano compose la sua magna curia. Era questa del pari preseduta dal gran giustiziero del regno e composta da tre giudici: decideva le cause dei contadi e di tutti i feudi quadernati, ossia di quelli, che, per esser concessi direttamente dal re, erano descritti ne’ quaderni fiscali; decideva in ultimo appello le cause, che, definite prima dai camerarî, erano passate in seconda istanza ai giustizieri provinciali, soprantendeva a tutte le corti inferiori; non era nel regno persona, eminente che fosse, che non riconosceva la sua autorità; e come i camerarî ed i giustizieri, discorrevano di continuo le rispettive provincie, per sorvegliare la condotta dei bajuli e degli stratigoti, discorreva la magna curia il regno tutto per ricevere i reclami contro i magistrati provinciali.

Il nome di Rugiero, già famoso per la severa sua giustizia, tanto alto suonò per l’istituzione della magna curia, che il Novairo dice ch’egli istituì un tribunale, al quale chiunque poteva portare i suoi reclami, e che compartiva giustizia fin contro il figlio del re (245).

Ma v’era una corte suprema, superiore alla stessa gran corte, e ciò era il supremo consiglio, al quale lo stesso re presedea. Seguendo l’esempio di Guglielmo I d’Inghilterra, avea re Rugiero stabiliti sette grandi officiali, addetti alla corona; e ciò furono il gran contestabile, che aveva il comando generale di tutti gli eserciti; il grande ammiraglio, che comandava le armate; il gran cancelliere, che custodiva il real suggello, e lo apponeva in tutti i sovrani decreti; il gran giustiziere, da cui dipendevano tutte le corti di giustizia; il gran camerario, che soprantendeva a tutte le rendite del re; il gran protonotario, capo delle reali segreterie; ed il gran siniscalco, che avea in cura il real palazzo (246). Questi grandi officiali erano naturali componenti della corte e del consiglio del re; ma v’erano altri consiglieri, ed in alcuni casi chiamava il re al suo consiglio alcuni degli altri magistrati. In tal consiglio il re discuteva e risolveva tutti gli affari, e talvolta ancora riesaminava i giudizii della gran corte.

Sopra tutto l’ordine pubblico stava poi il parlamento, cui era riserbato il trattare i gravissimi pubblici affari. Fu il parlamento convocato prima in Salerno, e poi in Palermo nel 1130, che conferì a Rugiero il titolo di re; nel parlamento di Ariano del 1140 furono sancite le costituzioni che ci restano dello stesso re; nel parlamento di Palermo, dello stesso anno, furono eretti i sette grandi uffizii del regno; il parlamento nel 1166 riconobbe in re Guglielmo II; conchiuse nel 1185 le nozze tra la principessa Costanza ed Arrigo lo Svevo; re Guglielmo II fece al parlamento riconoscere il dritto di lei alla successione; ma, venuto a morte in quell’anno stesso il re, il parlamento, conosciuto i mali che sarebbero venuti al regno dalla straniera dominazione, promosse al regno Tancredi conte di Lecce (247). Gli scrittori di quell’età danno a questa adunanza il nome di Curia solemnis, Curia generalis, Curia procerum.

Era il parlamento allora solamente composto dai conti, dai baroni e dai prelati, i quali tutti tenevano i loro feudi in capite dal re; l’intervenirvi era servizio proprio del feudo, in quell’età si conosceva ancora d’esser dritto importantissimo; e perciò i possessori di piccoli feudi non popolati, che si dicevano rasi, daprima s’astennero di prestare il servizio, e col volger degli anni per legale consuetudine perderono il dritto (248).

Ma il parlamento stesso diveniva talvolta corte di giustizia. Era inerente a tutte le costituzioni feudali d’Europa il principio, che ognuno dovea esser giudicato da’ suoi pari; e, perchè tutti coloro che avean sede in parlamento erano pari fra essi, perchè traevano il dritto loro dall’investitura, che direttamente avevano ricevuto dal re, nissun’altra corte di giustizia aveva dritto di giudicare de’ loro delitti, che il parlamento stesso, il quale si chiamava in tali casi alta corte dei pari (249). E al modo stesso, come correvano assai vincoli reciproci trai conti e baroni, e loro suffeudatarî, ove accadea che alcun di essi avesse mancato alla promessa, e dell’altra parte si pretendea per questo e dal signor concedente svestire il suo vassallo del feudo, o dal vassallo negare l’omaggio e ’l servizio a quello, tutti i baroni dipendenti dalla contea, o tutti i militi dipendenti dalla baronia, che eran pari della signoria, come i primi eran pari del regno, erano i giudici naturali di tali piati (250). Nelle contese poi fra’ cittadini alcuni del loro grado erano chiamati a giudicare. Certo fu grande operazione di re Rugiero quella di volere che l’alta corte de’ pari fosse sempre preseduta dal gran giustiziere del regno e dalla magna curia (251), per regolarne gli andamenti; che alcuno dei giustizieri dovesse intervenire nella sentenza delle corti feudali, perchè il suffeudatario potesse essere spogliato del feudo, e che i magistrati inferiori presedessero ai giudizii de’ giurati.

IX. — Pur comechè tanto si fosse re Rugiero ingegnato a comporre l’ordine giudiziario, perchè pronta fosse ed uguale l’amministrazione della giustizia, tali erano le circostanze ed i costumi de’ tempi, che l’effetto mal poteva rispondere al lodevolissimo suo intendimento. Primieramente le prove che allora s’ammettevano in tutta Europa erano in stesse fallaci; e ciò erano i giudizii di Dio. L’ignoranza del medio evo avea reso impossibile ad ottenersi le prove dirette e positive del fatto; e s’erano di necessità introdotte le negative; non avendo mezzi di provare il delitto, si voleva provar la innocenza. Prevaleva allora generalmente la strana opinione che Dio, fonte eterna di giustizia, avrebbe sospese le leggi della natura per far conoscere la verità d’alcun fatto, che non avrebbe potuto altronde provarsi; perciò si credeva che tuffando nell’acqua colui, al quale s’imputava un delitto, sarebbe stato a galla se reo, sommerso, se innocente; e che immerso nell’acqua calda, o fattogli brandire per alcun tempo un ferro rovente; dovea restarne illeso, se a torto era accusato; avrebbe potuto sgozzare pure il pane e ’l cacio, se vero era il suo delitto. Tali insani ed empii esperimenti erano accompagnati da forme solenni di religione. Si conserva ancora nel duomo di Palermo un’antico messale in pergamena, che certamente è dell’epoca normanna, in cui sono minutamente descritte le benedizioni, le cerimonie e le messe che avean luogo ne’ giudizii dell’acqua fredda, della bollente, del ferro rovente, del pane e del cacio (252). Ma fra tutti i giudizî di Dio il più comune era il duello, come quello, che si attagliava ai costumi generali del secolo; però venne a formarsi una particolare giurisprudenza intorno a ciò; leggi e riti religiosi furono stabiliti sulle persone che poteano combattere, sulle armi che potevano usarsi, sui campioni che potevano sostituirsi, sui giuramenti da prestarsi, sul modo da tenersi nel combattimento. Si sfidava il contendente, per provare il suo torto; si sfidavano i testimoni, per provare la falsità della loro deposizione; si sfidava il magistrato stesso, per provare l’ingiustizia della sentenza, e ciò si chiamava falsare il giudizio.

Per assurde che fossero tali prove, essenziale difetto loro non era quello di non menare allo scoprimento della verità. Certo che all’età nostra ogni mascalzone incallito al delitto si troverebbe contento di provar la sua innocenza coll’acqua fredda, col pane e cacio, colle armi; ed ogni innocente sfuggirebbe il cimento dell’acqua calda e del ferro rovente; ma in quell’età, in cui l’ignoranza e la superstizione andavano, come son sempre ite, del pari, nessuno osava dubitare, che in tali casi dovea necessariamente accadere un miracolo, e di tali miracoli migliaja dovevano narrarsene e credersi. Tale idea, accompagnata da quell’interno turbamento, che porta sempre il delitto, esaltata dal solenne apparato di religione, dalle esortazioni de’ vescovi, che tanto impero esercitavano allora sulle coscienze degli uomini, e dalla tremenda invocazione del nome di Dio, dovea smagare l’animo più sicuro, e ’l ferro dovea crocchiare nella mano di colui, che era certo d’impugnarlo, non contro l’uomo, ma contro lo stesso Dio.

Ma due gravi mali nascevan da ciò, primieramente colui, che per tal modo era scoperto reo, non riportava una pena proporzionata al delitto, ma una semplice penitenza; perocchè si supponeva che il reato era stato reso manifesto da Dio, che s’era dichiarato di non volere la morte, ma la correzione del peccatore. In secondo luogo quei procedimenti escludevano l’appello; dachè sarebbe stato empio il riesaminare un giudizio di Dio.

I tempi non consentivano il troncamento radicale di tali abusi. Comechè gli ecclesiastici, che fra le tenebre dell’ignoranza del medio evo conservarono alcun raggio di luce, regolassero le loro corti coll’antica giurisprudenza ed ammettessero ne’ loro giudizii solo le prove legali; pure non prima della metà di quel secolo cominciò a divenir volgare lo studio della romana giurisprudenza, ed assai tempo ebbe a passare prima che esso avesse informato le menti di coloro ch’erano preposti al regimento de’ popoli, sì che si fossero adottate forme più regolari ne’ giudizii. Pure re Rugiero seppe dar la pinta alla riforma. Primieramente collo stabilire un’ordine graduale d’appelli dalla sentenza dei bajuli ai camerarii ed ai giustizieri; da questi alla magna curia; e dalla magna curia al suo supremo consiglio; fece che gli uomini naturalmente vennero a preferire all’incerto e rischioso rimedio de’ giudizii di Dio la via regolare dell’appello. Ma questo non avrebbe potuto aver luogo, finchè restava ad alcuna delle parti il funesto dritto di sfidare a duello il magistrato. Qui Rugiero con mano franca portò la scure alla radice del male; mentre facea d’assicurare la libertà civile e la proprietà del cittadino, con minacciare la morte o l’infamia al giudice convinto d’avere male amministrata la giustizia, assicurava l’inviolabilità del magistrato, col dichiarare delitto simile al sacrilegio il porre in dubbio la giustizia di lui. Indi in poi il falsare il giudizio fu delitto capitale.

X. — Ma que’ provvedimenti non valevano ad impedire i mali gravissimi, che venivano dall’essere allora la nazione compartita in tante classi, ognuna delle quali avea dritti e doveri diversi; e però non tutti i cittadini erano ugualmente soggetti alla legge, senza di che non vi ha ben ordinato governo; anzi non è propriamente governo. V’erano allora in Sicilia villani, rustici, borgesi, militi, baroni, conti. Tutti gli abitanti di quelle città e terre, che nella conquista erano state prese di viva forza, rimasero in uno stato assai prossimo alla servitù, e villani nel linguaggio delle leggi barbariche si chiamavano. Eran costoro addetti al fondo, e con esso eran venduti, permutati, donati come gli alberi, che vi eran piantati; e restavano in tal misera condizione eglino ed i figli loro in eterno. Indi è che nelle concessioni di feudi in quell’età è notato il numero dei villani ad esso ascritti. Se osavano dilungarsene, il signore del feudo avea dritto di riprenderli, ove che fossero iti a stanziare. In somma erano per tal modo inerenti al feudo, che nella descrizione generale del regno, fatta da re Rugiero, furono fatti registri a parte che si chiamavano platee, delle famiglie de’ villani, che ad ogni feudo appartenevano, e de’ servizii, cui eran tenuti. Erano eglino addetti all’agricoltura; ed erano destinati a coltivare senza rimunerazione le terre del signore. E se in ciò erano simili ai servi romani, ne differivano in ciò che il servizio di questi era continuo a bel diletto del padrone, ovechè pevillani di Sicilia era determinato il numero delle loro giornate di lavoro, che si chiamavano diete. Dovevano oltracciò alcune prestazioni in derrate; ma poteano ricomprare e l’opera e il tributo con una stabilita somma di danaro. Al di di ciò potevano lavorare ed acquistare per loro, e fin disporre per testamento delle cose loro, ciò che i servi non potevano.

Un diploma tratto dal Gregorio dall’archivio della chiesa di Patti, mostra quali erano i tributi ed i servizii di alcuni villani (253), i quali doveano al signore ogni anno diciotto salme ed un terzo di frumento, ed una quantità d’orzo. Il prezzo del frumento era fissato a cinque tarì la salma; dell’orzo a due tarì e dieci grani. Dieci di essi, che avevan bovi, doveano nelle sementi dieci giornate d’aratro, stimate sei grani e quattro piccoli l’una. Il rimanente eran tenuti a dare trecento ventinove giornate di lavoro personale, che si diceva angaria, nelle sementi, nel sarchiare, nel fare maggesi, nell’acconciar vigne, stimate da rio in buono due grani l’una. Nella messe doveano sessantuna giornata, stimate ogni quattro un tarì; prestavano ogni anno quattordici galline, stimate in tutto due tarì e sedici grani; e centoquaranta uova, stimate dieci grani. Tali prezzi sembrano oggi strani; ma è da considerare che il prezzo medio del frumento in due epoche lontane è la misura più approssimata delle variazioni nel valore della moneta. Paragonando il prezzo medio di quest’età a quello che la legge dava allora al frumento, si vede ch’esso costava venti volte di meno; e però la moneta valeva venti volte di più; per lo che colla stessa quantità di danaro, che oggi è necessario per avere una giornata d’aratro, uno zappatore, una gallina, un’uovo, allora se ne avean venti.

Prossimi ai villani erano i rustici, i quali, come quelli erano dati alle campestri faccende; se non che questi lo facevano per libera elezione loro, quelli per servitù perpetua. Pare che i rustici di allora sieno gli stessi che oggi chiamiamo contadini, i quali non appartengono alla classe dei possessori di terre; ma o vanno ad opera o tolgono a coltivare a medietà o in altro modo alcun poderuccio.

Tutti coloro poi che possedevano terre non feudali ossia allodii, o che abitavano le città ed i villaggi, esercitandovi alcuna professione o mestiere, insomma la classe intermedia fra coloro che diremo oggi nobili ed i contadini, erano allora chiamati borgesi. E, perchè alcuni fra questi erano destinati a richiesta del governo a qualche spedizione militare, e nell’informe stato, in cui erano allora i municipii, aveano una certa ingerenza negli affari del proprio comune, e forse ancora pel loro più agiato vivere, eran tenuti in maggior estimazione dei rustici, che abitavano per lo più nelle campagne.

Sopra queste venivano con graduale dignità le tre classi de’ feudatarii, i militi, i baroni, i conti. Ogni persona in quell’età aveva come un prezzo agli occhi della legge, eccetto il villano, che alle cose più che alle persone appartenea. Il conte valeva il doppio del barone; questo il doppio del milite; il milite il doppio del borgese; e il borgese il doppio del rustico (254). Ciò non però di manco nella pubblica estimazione assai più del doppio valevano i feudatarii; e la legge stessa veniva altronde in appoggio della pubblica opinione. Un’ingiuria fatta da un milite ad un suo pari era punita colla perdita dell’armatura e del cavallo, e l’esilio d’un anno; l’offesa stessa fatta da un borgese ad un milite era punita col troncamento della mano (255). ciò era fuor di ragione; perocchè i feudatarii costituivano allora la forza pubblica; ed i feudi erano parte essenziale della rendita dello stato, per la ricompra del servizio militare, per gli adjutorii feudali, per lo rilevio e per la dura servitù, alla quale andavan soggetti, di potervisi menare a pascere gli armenti reali (256). di tali pesi andavano del tutto esenti coloro, che non erano feudatarii.

Negli stessi casi della guerra, dell’incoronazione del re, dell’armarsi cavaliere il figlio, dell’andar a marito la figlia, in cui i feudatarii prestavano il servizio e pagavano una taglia, una imposta si pagava dagli altri cittadini del regno, qual si fosse il luogo di loro abitazione, che si diceva colletta. Indi è manifesto quanto gli abitatori dei feudi erano più gravati degli altri. Primieramente nel caso, in cui il barone pigliava le armi, doveano a lui l’adjutorio ed al principe la colletta; ed oltracciò l’adjutorio feudale pagavano al loro signore, per ricattarlo dalla prigionia, pel cingolo militare del figlio, pel maritaggio della figlia. Ma la colletta, come servizio militare, era limitata, non solo ne’ casi in cui si poteva esigere, ma nella somma in cui in ogni caso poteva ascendere.

Re Rugiero esattissimo com’era nell’amministrazione della rendita sua, ed uso a voler sempre sotto gli occhi suoi tutto ciò che per lui dovea esigersi o pagarsi, fra tante operazioni del conquistatore inglese, che tolse ad imitare, fu il Domesdey book, cioè l’esatta descrizione di tutta l’Inghilterra. In pari modo Rugiero descrisse minutamente tutto il regno di Sicilia, e tale descrizione, ridotta in separati libri, che si chiamavano quaderni, si conservava in una particolare officina che si diceva dogana. In separati quaderni era la descrizione di tutte le contee, le baronie, i feudi, che si tenevano in capite; v’erano registrati i rispettivi confini, l’estensione, le popolazioni che v’eran comprese, il numero de’ villani, che vi erano addetti; i servizii e le prestazioni, cui eran soggetti. Indi è che i feudi concessi direttamente dal principe furono detti quadernati.

Descritti particolarmente furono i feudi delle chiese; e se la pietà del primo conquistatore li esentò dal servizio militare, re Rugiero non patì l’esenzione; ed indi in poi vi furono sottoposti. Colla stessa diligenza registrò quei feudi ch’eran tenuti a somministrare o legname o marinai od altro che poteva servire alla costruzione ed allo equipaggiamento del real naviglio. Per tal modo il re avea sempre presente lo stato di tutte le forze di terra e di mare, di cui poteva disporre; e di tutte le rendite, che doveva esigere. E, perchè tale fondo non potesse mai venir meno, e non avessero luogo usurpazioni, descritto lo stato feudale del regno, dichiarò inalienabili i feudi di qualunque natura; e venne così a stabilire il principio, ch’era la base del governo feudale, cioè d’essere la proprietà de’ feudi riposta nel principe, averne altro il feudatario che l’usufrutto; e però non esservi feudo, comechè amplissimi ed anche sovrani dritti gli fossero annessi, che indipendente fosse dall’autorità del signor concedente; ed i doveri de’ suffeudatarii verso il loro signore dover valere fino al punto che non venivano in contrasto coi doveri di fedeltà dovuta al supremo concedente.

solo lo stato feudale del regno; ma l’ordine stesso dei feudatarii si volle da re Rugiero conservare sempre integro. Con legge espressa sancì che niuno, che non discendesse da famiglia militare, fosse alla milizia ascritto; e che le figlie de’ feudatarii senza permesso del re non potessero andare a marito. E, perchè il feudo era come lo stipendio di colui che in guerra serviva, il successore del feudatario, se non era in età di prestare il servizio, non poteva goderne i frutti ed esercitarne i dritti; però il re concedeva il feudo ad un altro, che prestava il servizio e traeva la rendita del feudo, coll’obbligo di mantenere ed educare il pupillo, finchè fosse giunto all’età maggiore, che per gli uomini era fissata a venticinque anni, per le donne a quattordici, se si maritavano.

Tali consuetudini erano per avventura comuni a tutte le monarchie feudali: il conquistatore inglese ed il legislatore siciliano, che prese ad imitarlo, non altro fecero che ridurlo a leggi stabili. Ma e quello e questo, e forse più questo che quello diedero a vedere non ordinaria elevatezza d’ingegno, nel creare un ordine di magistrati, che per quanto i tempi il comportavano, fosse di freno alla potenza feudale; con tale avvedimento composto, ch’ognuno tenesse a segno l’inferiore, e tutti derivassero le loro facoltà dalla suprema autorità del principe, la quale era sostenuta da un corpo di milizia ereditaria, che non poteva mai venir meno.





229 Inter caetera etenim suarum dispositionum, edictum terribile induxit totius Italiae partibus ab horrendum, et morti proximum et egestati, scilicet, ut nemo in toto ejus regno viventium Romesinas accipiat, vel in mercatibus distribuat, et mortali consilio accepto, monetam suam introduxit, unam vero, cui ducatus nomen imposuit, octo romesinas valentem, quae magis magisque aerea quam argentea probata tebatur. Induxit etiam tres follares aereos romesinam unum appretiatos, de quibus horribilibus monetis totus italicus populus paupertati et miseriae positus est, et oppressus, et de regis illius actibus mortiferis, mortem ejus et depositionem regni optabat. Falc. Benev. Chron., ivi, pag. 379.



230 Vedi in fine la nota XXI.



231 Al Novair, presso Gregor. Rer. arab. ampl. collect., pag. 27.



232 Lo stesso, ivi.



233 Sheaboddin (ivi, pag. 62) fa quell’armata di duecentocinquanta legni.



234 Se ab famis, sed non ab hostium gladio perimi. Sheaboddin, ivi, pag. 63.



235 Al Novair, ivi, Sheaboddin tace il saccheggio, malgrado il suo silenzio, è da crederlo, perchè s’attagliava ai tempi.



236 Al Novair, ivi, pag. 28.



237 Il gesso può bene mescolarsi alla farina asciutta; ma mettendovi l’acqua, le parti gessose, per la particolare loro affinità, si separerebbero dalla massa, aderirebbero tra esse, e coll’azione del calore s’indurirebbero; perciò dal miscuglio verrebbe un pane con una o più pietre entro. Forse sarà venuto comprato ad alcun de’ Latini un pane terroso; ciò avrà fatto nascere l’idea d’esservi mischiato gesso, e per la generate malvoglienza se ne diede colpa allo imperadore: gli storici di quei tempi adattaron la ciarla, i moderni la copiarono.



238 Niceta Coniate e la cronica di Roberto del Monte dicono, che le saette erano d’oro e d’argento. Buffoneria! È da prestar fede piuttosto ad altri scrittori che le dicono igneas. A qual oggetto potevano trarsi quelle saette auree? Era forse ad honorem?



239 Niceta Coniat. presso Caruso Tom. II, pagina 1173.



240 Superstite Guglielmo Tarenti principe, quem vix pater eodem dignum principatu censuerat. Hugonis Falcandi Histor. presso Caruso, Tom. I, pagina 411.



241 Ottone di Frisinga: presso Caruso, Tom. II, pag. 933.



242 Gregorio, Consideraz. sulla Stor. di Sic., Libro II cap. 11.



243 Lo stesso, Not. al cap. 2, del Libr. II, not. 18.



244 Ivi, not. 25.



245 ..... instituit quoque tribunal, quo injuria adfecti suos questus deferebant, quin etiam ipsemet vel adversus filium suum juste et ex aequo res componebat. Novair, presso Gregor. Rer. Arab. ad Hist. Sic. Pert. ampl. coll. pag. 26.



246 Gregorio, ivi. Lib. II, cap. 2.



247 Mongitore, Parl. gener. del regno di Sicilia, Tom. I, cap. 6.



248 Lo stesso, ivi, Libr. II, cap. 7.



249 Lo stesso, ivi.



250 Lo stesso, ivi, Libr. II, cap. 6.



251 Lo stesso, ivi, Libr. II, cap. 2.



252 Vedi la nota XXII in fine.



253 Vedi in fine la nota XXIII.



254 Vedi in fine la nota XXIV.



255 Constit. R. Sic. Lib. III. tit. 43.



256 Gregorio, ivi, Lib. II, cap. 4.



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