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SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA] CAPITOLO XXII. I. Stato del regno. — II. Ministero di Majone. — III. Sedizione de’ baroni d’oltremare e di Sicilia. — IV. Sottomessione della Puglia. — V. Pace conchiusa col papa. — VI. Iniquità di Majone. — VII. Perdita delle conquiste in Affrica. — VIII. Nuova sommossa in Puglia. — IX. Cospirazione di Matteo Bonello. — X. Nimicizia tra Majone e l’arcivescovo di Palermo. Morte di Majone. — XI. Mal animo del re contro Bonello. — XII. Cospirazione contro il re. — XIII. Morte del duca di Puglia. — XIV. Nuovi ministri. — XV. Carcerazione e gastigo di Bonello. — XVI. Assedio di Butera. — XVII. Guerra d’oltremare. — XVIII. Oppressioni in Sicilia. — XIX. Morte del re. — XX. Suo carattere. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I. — Tale era il governo di Sicilia, quando Guglielmo I cominciò a regnare da sè. Il regno era tranquillo al di dentro, temuto al di fuori; ma i nemici, che avean dovuto piegarsi alla forza di re Rugiero, eran sempre pronti a ghermire l’occasione di rifarsi. Non erano uscite di mente al greco imperadore le antiche pretensioni sulla Sicilia e le provincie di là dal faro; e molto meno le recenti sconfitte delle sue armate e le più cospicue città dell’impero saccheggiate. Federigo I, soprannominato Barbarossa, assunto all’impero di Germania, agognava all’acquisto della Puglia e del vicino paese, per estendere il suo regno d’Italia. La corte romana non poteva sgozzare la prigionia di papa Innocenzio, il titolo di re, da lui estorto, ed i privilegi concessi. I Mori, già padroni della Barberia, eran sempre pronti a piombare sulle città marittime conquistate da re Rugiero. E fra i baroni di Puglia molti mordevano il freno; sì che eran sopiti non ispenti i semi della rivolta. Per far fronte a tal minaccevole apparato, era mestieri che il regno si fosse mantenuto composto; e ’l nuovo re avesse avuto lo stesso vigor di mente e di braccio del suo antecessore, onde i sudditi e gli stranieri non si fossero avvisti del cambiamento. Ma l’incauto Guglielmo, erede del trono, non delle virtù del padre, sin dalle prime sì condusse in modo, che destò egli stesso un incendio di guerra intestina, la quale, finchè visse, sconvolse il regno, die’ luogo a delitti e calamità d’ogni maniera, rese arditi gli esterni nemici; e dopo la sua morte meritò a questo principe il soprannome di Malo, con cui la posterità l’ha contraddistinto.
II. — Era in grande stato appo Guglielmo un Majone, il quale avea sortito dalla natura grandi qualità e vizî grandissimi; straordinario ingegno, e pari all’ingegno eloquenza, somma capacità per gli affari, nè minor sagacità e destrezza; ma ambiziosissimo, di perduti costumi, avido di dominio, e più che di dominio di danaro, sfrenato ne’ suoi desiderî, ed anche più nella scelta de’ mezzi per appagarli, furbo e soppiattone a segno, che sotto un’aspetto benigno sapea nascondere i più neri disegni. Figliuolo costui di un oliandolo di Bari, era stato da prima notajo del governo. Re Rugiero, che ne apprezzava la capacità senza conoscerne i rei costumi, che sotto quel governo non potevano mostrarsi, lo avea grado a grado promosso sino all’alta dignità di gran cancelliere; e finalmente il giorno della coronazione di Guglielmo era stata a lui conferita la carica di grand’ammiraglio, alla quale erano addetti grande autorità e profitti grandi. Guglielmo si diede tutto in mano a costui, non prestava orecchio, se non ai consigli di lui; tutto a lui si credeva, nulla ad alcun altro; egli solo era ammesso alla confidenza del re, anzi alla presenza di lui; insomma avea Guglielmo il vôto nome di re, Majone ne avea l’autorità. La sola invidia senza i vizî suoi e l’abuso fatto della sua autorità, sarebbe stata bastante a muover contro il grand’ammiraglio l’odio di tutti e particolarmente dei grandi baroni, che allora più che tutti valevano; ma egli ne diede più forti ragioni. Tutti quei ministri e quei prodi guerrieri, ai quali era dovuta la gloria del passato regno, furono, qual con un pretesto, qual con un altro, carcerati o banditi e le loro cariche affidate a persone tutte sue; ma principalmente rivolse il grand’ammiraglio l’animo suo contro tre signori, che ben conoscea d’essere impossibile indurre a secondare gli ambiziosi e rei disegni suoi, e ciò erano Roberto di Bassavilla, cugino del re, cui il giorno della sua coronazione avea Guglielmo investito della contea di Lorotello, che in nome del re governava la Puglia; Simone conte di Policastro; ed Eberardo conte di Squillace.
Cominciò a destar sospetti nell’animo del re contro il conte di Lorotello, facendogli credere ch’egli aspirasse al trono. Il neghittoso Guglielmo, naturalmente di mal animo e sospettoso, inabile a veder le cose cogli occhi proprî, sel credette; cominciò ad odiare quel conte; e, non solo gli tolse il governo di Puglia; ma, essendosi egli recato in Salerno, venutovi il conte ad ossequiarlo, non fu pure ammesso alla sua presenza. Non eran quelli tempi tali da potere senza pericolo fare un’affronto ad un suddito potente. Punto dal dispetto quel conte, si mise alla testa di tutti i baroni malcontenti (ed assai erano) e cominciò a tener secrete mene col papa, col greco imperadore e con Federico Barbarossa, imperadore di Germania.
Tale era lo stato del governo quando il re nel 1154 si recò in Salerno, ove venne a trovarlo un cardinale, mandato a lui, non si sa per quale affare, da papa Adriano IV, il quale nella sua epistola non lo chiamava re, ma signore di Sicilia. Il re incagnatosi a ciò, non volle vedere il pontificio legato; e, fatto ritorno in Palermo, lasciò ordine ad Ascontino, arcidiacono di Catania, suo cancelliere, che lasciò a governar la Puglia, d’invadere gli stati pontificii; e quello corse tosto ad assediar Benevento. I Beneventani cominciarono a difendersi con tal cuore, che fin misero a morte l’arcivesovo, perchè entrarono in sospetto di tenere dalla parte del re; e grandemente furono ajutati dagli stessi baroni di Puglia, molti dei quali vennero in loro difesa, e molti si negarono a prestar servizio in quella guerra; per che il cancelliere si ritrasse dall’assedio, e rivolse in quella vece le armi contro altre città di minor nome, delle quali alcune incese, alcune spianò. Papa Adriano ricorse alle solite armi, la scomunica, che sollennemente fulminò al re.
Parve allora a Majone d’essere quello il momento di compir la rovina del conte di Lorotello e togliere un potentissimo capo a’ baroni a lui nemici; e però indusse il re ad ordinare al cancelliere Ascontino di arrestare quel conte e mandarlo con buona custodia nelle carceri di Palermo. Colui, per eseguire senza rischio tal ordine, fece dire al conte di recarsi in Capua, ove egli era, per comunicargli i comandi del re. Il conte, che savio era, vi si recò con cinquecento militi del suo seguito, s’attendò fuori la città e mandò dicendo al cancelliere di venirlo a trovare, per fargli conoscere gli ordini sovrani. Comechè Ascontino avesse da ciò conosciuto d’esser quel conte venuto in sospetto di ciò che da lui si volea, non si perdè di animo; recatosi al campo, disse al conte: volere il re che egli cedesse ad altri il comando della sua gente. Con fiero piglio il conte rispose: essere contro tutte le leggi che i militi seguissero altro capitano che il proprio barone, ove questo non sia inabile o fellone; e come il cancelliere insistea nel volere eseguito l’ordine, il conte gli diè del forsennato e del traditore, e levato quindi il campo, si recò in Abruzzo (257).
Mentre di là del mare tali cose accadevano, re Guglielmo stavasi chiuso nel palazzo di Palermo, inaccessibile a tutti, menocchè al grande ammiraglio e ad Ugone arcivescovo di Palermo, che si erano strettamente collegati, per ajutarsi scambievolmente; e, secondo il costume introdotto già da’ Saracini in Sicilia, s’eran giurati fratelli. Ma come funesta era stata al pro Serlone la fratellanza giuratagli dal saracino Brahem, fatale tornò in appresso al grande ammiraglio il giuramento dello arcivescovo, non meno tristo del saracino. Rivolsero costoro le loro mire contro il virtuoso conte di Policastro gran contestabile del regno; e per farlo cadere dall’animo del re, cominciarono destramente a farlo entrare in sospetto che egli teneva secrete corrispondenze col conte di Lotorello. Il conte di Policastro aveva in quei dì unita tutta la sua gente a quella del cancelliere Ascontino, per reprimere i movimenti sediziosi de’ baroni di Puglia e respingere l’invasione, di cui il regno era minacciato. Una briga era nata, e forse si era secretamente suscitata dal grand’ammiraglio fra le due bande, che il gran contestabile avea tosto sedata. Ciò non di manco il cancelliere, ligio del grand’ammiraglio riferì quel fatto al re, lo esagerò, ne diede colpa al gran contestabile, soggiunse, che egli tenea secrete pratiche col conte di Lorotello, e che, per favorir lui e gli altri baroni nemici, cercava di ribellar l’esercito. Guglielmo, senz’altro esame, dimentico de’ passati servizii e dell’irreprensibile condotta del gran contestabile, lo spogliò della carica e gli ordinò di venire in Palermo a giustificarsi. Quello, confidando nella propria innocenza, vi venne; ma appena giunto, senza ammetterlo a discolpa fu carcerato (258).
III. — Correva intanto l’anno 1155; l’imperador Federico Barbarossa era già venuto in Roma a coronarsi; ma una violenta morìa sopraggiunta nel suo esercito, l’obbligò a ritornare in Germania, senza nulla tentare contro il regno di Sicilia. Ciò non però di manco i baroni di Puglia si levarono in armi, e, confortati dalle forze di papa Adriano, da un’armata e dal denaro spedito dal greco imperatore, invasero la Puglia. Il conte di Lorotello assalì le città marittime; Roberto, già principe di Capua, riacquistò il suo stato, la Terra-di-lavoro s’unì ai sediziosi; i Greci presero Brindisi, tranne il castello, Bari ed altre città. Per tal modo, eccetto Napoli, Amalfi, Salerno, Troja, Melfi e poche altre piazze, tutta la Puglia fu perduta.
Tanta perturbazione calzava a capello co’ rei disegni del grand’ammiraglio. Era già gran tempo che costui covava in mente il pensiere di cacciar dal trono Guglielmo ed usurpare il regno. Grandi difficoltà aveva in ciò a superare; ma non mancava in lui nè la capacità, nè l’iniquità necessaria all’impresa. Con tale intendimento aveva levato di posto, carcerato, bandito tutti quegli alti personaggi, dai quali aveva da temere; sue creature aveva elevato alle prime cariche dello stato; s’era studiato di rendere odiosissimo il governo del re; e sperava avvantaggiarsi dei pubblici disordini, che avrebbero dato ai suoi partigiani il destro di mostrar la necessità di metter lo scettro in mani più abili. Pur comechè tale fosse stato il suo disegno, e già da lung’ora fosse venuto accattando mezzi e seducendo persone per favorirlo, non tutti conoscevano tutto il suo piano. Lo stesso arcivescovo di Palermo non ne vedeva il fondo; perocchè il grande ammiraglio, lo aveva indotto a dargli mano solo nel deporre il re ed assumere essi due il governo del regno e la tutela dei piccoli principi.
Pure si sapeva in nube da tutti che Majone mulinava un piano contro la vita o il regno di Guglielmo; epperò quando il re dopo il suo ritorno da Salerno, non si fece più vedere da alcuno a segno che molti venuti da oltremare o per ossequiarlo o per supplicarlo, non poterono ottenere d’essere ammessi in sua presenza, si sparse di leggieri la voce d’essere egli morto di veleno datogli dal grande ammiraglio, il quale tenea celata la morte di lui, finchè il suo disegno fosse maturo. Laonde ai primi movimenti del conte di Lorotello e degli altri baroni di Puglia, anche que’ di Terra-di-lavoro, quale per uzzolo di novità, quale per la speranza di preda, quale per favorire il disegno del grande ammiraglio, e quale per vendicare la morte del re, tutti corsero all’armi. Nè guari andò che lo incendio si appiccò alla Sicilia.
Era fra’ baroni siciliani uno dei più potenti il conte di Montescaglioso, signore di Noto, Sclafani e Caltanissetta, uomo prode, generoso, dabbene, ma alquanto lieve e versatile; però venne in pensiero a Majone, anzi che disfarsene, trarlo alla sua. Con tale intendimento gli fece inaspettatamente togliere la signoria di Noto, facendo considerare al re d’esser pericoloso che una città così forte e popolosa fosse in mano di un suddito. Come ebbe aizzato così quel conte contro il re, avutolo a sè, cominciò a mostrarsi cruccioso contro il re, chiamandolo tiranno efferato ed ingiusto: «ma» soggiunse «ciò bene sta ai baroni siciliani, i quali, quasi femmine imbelli non osano tentar nulla contro d’un principe così forsennato ed ingiusto, che null’altro ha in mira se non l’oppressione dei sudditi e particolarmente de’ nobili.» Conobbe il conte essere quel discorso diretto a scoprir l’animo suo; e, volendo in quella vece scalzare il grande ammiraglio, rispose «Tutti pensano che le operazioni del re sono sempre da voi dettate; voi siete perciò oggetto dell’odio universale; se sinceri sono i vostri sentimenti, mettete in piena luce la forsennatezza del re, date mano a coloro che vogliono disfarsene; io sarei il primo a bevermene il sangue.» Il grand’ammiraglio, creduto d’aver fatto tutto suo quel conte, gli disse: «È gran tempo che molti, fra’ quali l’arcivescovo di Palermo, cospirano per mettere a morte il re; e vogliono promovere me al regno; ma io nol consento; sono anzi d’avviso doversi il regno conservare ai figliuoli di Guglielmo.» — «No» rispose il conte «del tiranno non deve restare pur seme.»
Il grand’ammiraglio, gongolando per aver preso quel paolino per lo naso, più non si tenne; gli palesò fil filo la trama; gli si raccomandò per ajutarlo nell’impresa. Il conte il prometteva; ma sottomano palesava agli altri baroni le ree intenzioni di colui.
Forse non dispiaceva ai baroni siciliani che Guglielmo fosse deposto ed anche messo a morte; ma nissun di loro avrebbe tollerato che salisse al trono un uomo vile di nascita, turpe di costumi; però il conte di Montescaglioso, che il grand’ammiraglio teneva già tutto suo, da una mano lo veniva istigando a compiere il disegno dar morte al re, dall’altra si teneva pronto ad ammazzar lui per vendicare il regicidio. Ma il grand’ammiraglio, per cui la morte del re, e forse ancora dei figliuoli di lui era il primo passo, non voleva darlo, senza esser sicuro della riuscita del secondo, di cui conosceva le difficoltà, però veniva tempellando. Il conte visto che la cosa andava in lungo, volle troncare in un colpo le fila della rea trama. Fece appiattare una mano di sgherri nel real palazzo per mettere a morte il grand’ammiraglio, come vi fosse entrato; ma una nave carica di soldati, giunta da Gallipoli in quel punto, fece soprassedere i sicarii. Il conte, a scanso che altri non fosse ito ad avvertire il grand’ammiraglio del suo tentativo, corse a lui dicendogli ch’egli impaziente di metter a morte il re, avea la mattina stessa tentato di farlo uccidere; ma l’arrivo delle truppe avea fatto soprastare la sua gente. Rispose Majone assicurandolo che avea fatto venire quella soldatesca per valersene a suoi disegni; per essere essa da lui compra, e comandata da uffiziali a lui fidi.
Saputo ciò, i baroni entrarono in pensiere che il grand’ammiraglio con quella giunta di forze non venisse a capo dei suoi disegni, ad onta della loro opposizione; però, facendo loro capo il conte di Garsiliato, si levarono in armi e vennero ad occupare Butera ove potevano resistere a qualunque forza: tanto il luogo era munito. Aveva fin’allora il grand’ammiraglio o del tutto celato al re o fattogli tener lievi gli sconcerti delle provincie oltremare; ma avvertito dalla sedizione dei baroni siciliani che la sua impresa era più difficile ch’ei non avea creduto, ebbe a palesarla al re. Guglielmo, che, immerso nelle lascivie del suo palazzo, ignorava lo stato del regno, fu altamente sorpreso di quella sommossa, e per conoscerne la ragione spedì ai sollevati baroni il conte di Squillace, cavaliere d’incorrotta probità. Giunto costui in Butera, chiese al conte di Garsiliato ed agli altri baroni un abboccamento. Gli fu concesso a patto di giurar prima di riferire fedelmente al re quanto essi eran per dire; e quello ne fece sacramento. «Noi» disse allora il conte di Garsiliato «nulla osiamo od oserem tentare contro il re; ma siamo ricorsi all’armi, per impedire i perfidi disegni del grand’ammiraglio e dell’arcivescovo di Palermo, i quali hanno congiurato di metterlo a morte, perchè il primo ne usurpasse il trono; e pronti siamo venire inermi a piedi del re, ov’egli infligga ai suoi felloni il meritato gastigo».
Il conte di Squillace, di ritorno in Palermo, riferì fedelmente, come avea giurato, al re il discorso tenutogli in Butera. Il re dapprima ne fu turbato forte; ma poi, vinto alla sua affezione pel grand’ammiraglio, non potè indursi a credere che un uomo tanto da lui beneficato potesse cospirare contro la sua vita e il suo trono; e non solo tenne falso l’avviso; ma chiamato a se il grand’ammiraglio, a lui palesò quanto il conte di Squillace gli avea riferito, assicurandolo, che egli non sarebbe mai per dar fede a tali calunnie; anzi gli diede ordine di fare ogni appresto di guerra, perchè voleva egli stesso recarsi coll’esercito in Butera a punire quei tracotati baroni. Tale era il carattere di Guglielmo, che passava istantaneamente dalla somma negghienza all’audacia estrema, per cui si gettava a casaccio nei rischi; e questa inaspettata attività spesso confuse i suoi nemici e lo trasse d’imbarazzo.
Mentre si radunavano le regie forze in Palermo, il conte di Montescaglioso, lasciati presidii nelle sue terre, era ito a congiungersi agli altri baroni in Butera. Al tempo stesso il popolo di Palermo, levatosi a tumulto, cominciò a gridare contro la ingiustizia del grand’ammiraglio, che teneva in carcere il conte di Policastro, il cui senno, il cui valore avrebbero recato a lieto fine l’impresa, a cui sarebbe appartenuto il comando di quelle armi, se non gli fosse stata senza ragione tolta la carica di gran contestabile. Fu forza contentarlo; e tale era il rispetto, che generalmente si portava a quel signore, che la sola sua presenza valse quetare il tumulto.
Sedato quel subuglio, il re venne a cingere di assedio Butera; ma per la fortezza del sito, il numero e il coraggio dei difensori, vi perdè gran tempo invano; e già disperava di potere l’impresa riuscire a buon fine, quando, postosi per lo mezzo il conte di Policastro, fece piegare gli assediati baroni a venire all’accordo. E perchè in quella età i re non giuravano mai l’adempimento dei patti; ma i più insigni personaggi della corte giuravano per l’anima del re, il grand’ammiraglio, l’arcivescovo di Palermo e quei conti, che militavano nell’esercito regio, giuravano in quel modo di non impedire o recare altre molestie a quei signori, che aveano prese le armi, se andavan fuori del regno. Pure, come il re passò in Messina, per recarsi alla guerra d’oltremare, trovatovi il conte di Montescaglioso, ch’era per partire, il grand’ammiraglio, ad onta del giuramento, lo fece intraprendere e carcerare, per serbarlo alla sua vendetta.
Nè meno atroce fu la maniera, con cui in quello stesso tempo fu trattato il cancelliere Ascontino. Costui era stato uno de’ più fidi esecutori delle iniquità del grand’ammiraglio; ma poi, caduto dalla sua grazia, lo aveva fatto accusare di molti delitti; egli venne in Messina per giustificarsi; ma quello temendo forse che il cancelliere avesse mostrato che in quei delitti era stato mandario di lui senza ammetterlo a discolpa, senza forma di giustizia, lo fece dannare a perpetuo carcere, ove ivi a poco si morì.
IV. — Il re, valicato il faro, giunse nel 1156 in Salerno. Per distaccare il pontefice dagli altri suoi nemici, a lui spedì ambasciadori a chieder pace, proponendo condizioni vantaggiose alla corte romana; ma furono rigettate. Posta allora re Guglielmo ogni sua speranza nell’esito della guerra, venne ad assediare Brindisi, che era stata presa dai Greci e da essi era difesa. Comecchè fosse mandato a costoro l’ajuto del conte di Lorotello, il quale tardò a venire o, come altri dice, allo avvicinarsi del pericolo fuggì a Benevento, e fossero stati abbandonati dalla cavalleria romana, e da una banda di Celti, che si diede al re; pure attaccarono la mischia con coraggio, e tennero lunga pezza indecisa la vittoria; ma finalmente ebber a cedere al valore delle truppe regie, e restarono in parte uccisi, in maggior numero prigioni coi loro comandanti; e tutti furono mandati in Palermo. La città tosto s’arrese, e vi trovò il re molto danaro ed alcuni de’ baroni che avevan prese le armi, dei quali di presente altri fece impiccare ed altri accecare.
Soddisfatte l’avarizia e la crudeltà, che erano le due principali passioni sue, Guglielmo si diresse a Bari. Tutti quei cittadini gli vennero incontro inermi, chiedendo mercè; il re, accennando il castello, da essi demolito nella rivolta, disse loro «Voi avete atterrato la mia casa; vuole giustizia che lo stesso sia delle vostre; due giorni vi son concessi per andarne altrove con quanto avete». Nè diverso dal dire seguì l’effetto; ivi a due giorni quella città, la più ricca, la più antica, la più grande di Puglia, fu muriccia. Quell’esempio di rigore mise lo spavento in tutte le città di quella provincia, in ogni età facili a pigliar le armi sognando libertà, e facilissime a deporle prima di venire alla prova (259); talmentechè tutte gareggiavano nella celerità d’arrendersi. Quei baroni, abbandonati da per tutto dal popolo, si ritirarono in Abbruzzo. Roberto principe di Capua, perduto l’ultima volta il suo stato, si diede anch’esso a fuggire; ma traversando le terre del conte Riccardo dell’Aquila, suo vassallo e suo consorto nella sollevazione, nel traghettare un fiume, fu da lui con vile tradimento preso e consegnato al re, il quale meritò quell’infame azione con perdonare e rimettere nella grazia sua il traditore. Lo sventurato Roberto fu chiuso nelle carceri di Salerno e non guari dopo d’ordine del grand’ammiraglio ebbe cavati gli occhi.
Vittorioso di tutti i suoi nemici, si diresse il re coll’esercito a Benevento, ove erano col papa i conti di Lorotello e di Rupecanina, che Guglielmo voleva ad ogni costo nelle mani. Papa Adriano, privo di qualunque straniero soccorso, ebbe allora a pentirsi di non avere accettate le condizioni offerte da prima; pure non ismagò. Licenziato il maggior numero di Cardinali, restò con pochi ad aspettare l’arrivo del re; e, come questo fu presso la città, tre cardinali spediti dal papa, vennero ad intimargli per parte di S. Pietro (in cui nome allora tante belle cose si facevano) di guardarsi di offendere la città di Benevento e le altre possessioni della santa sede; di pacificarsi colla chiesa romana e rispettare i dritti di essa.
V. — Guglielmo, lungi d’avvantaggiarsi dalla congiuntura per sottrarsi al dominio che i papi contro ogni dritto s’erano arrogati sopra alcune provincie del suo regno, si tenne fortunato di rinnovare il vassallaggio. Ma in quell’età i papi avean per loro la pubblica opinione; per cui le bolle erano più formidabili degli eserciti; e gli eserciti scompagnati dalla pubblica opinione, sono stati in ogni età strumento di dissoluzione, non mezzo di sicurezza degl’imperi. E però i principi che mancavano di personale abilità, come Giovanni Senza-terra d’Inghilterra e Guglielmo I di Sicilia, credettero render più saldo il loro trono col dichiararlo vassallaggio del papa. E forse ancora il grand’ammiraglio volle così rendere il re più spregevole agli occhi del pubblico, ed ingrazianarsi la corte romana, di cui poteva aver mestieri in appresso.
Addì 26 di giugno del 1156, nella chiesa di S. Marciano, poco di lungi da Benevento, presso il fiume Colore, Guglielmo fu da papa Adriano investito del regno di Sicilia, del ducato di Puglia, del principato di Capua, di Napoli d’Amalfi e della Marca; e con giuramento promise pagare l’annuo tributo di secento schifati per la Puglia, e cinquecento per la Marca. Fu pattuito che i conti di Lorotello e di Rupecanina cogli altri baroni, che s’erano riparati in Benevento, potessero senza molestia andar fuori del regno. Il re, dopo la funzione, presentati il papa ed i cardinali di magnifici doni d’oro e d’argento e di drappi di seta lavorati in Palermo, fece ritorno in Sicilia.
VI. — Nulla avendo più a temere, cominciò il grande ammiraglio a dar libero corso alle sue vendette ed alle ambiziose mire sue. Il conte di Montescaglioso, cui, con solenne spergiuro, era stato difeso il passaggio oltremare, tosto dopo il ritorno del re fu accecato; lo stesso destino si preparava al buon conte di Policastro, cui s’era mandato ordine di venire in Palermo; ma la morte, che lo colse in via, lo sottrasse a maggiori calamità. Guglielmo conte d’Alesa, Boemondo conte di Tarso, Roberto di Buovo, valoroso cavaliere zio del conte di Squillace, e migliaja di alti nobili personaggi erano, non che affastellati nelle carceri di Palermo, ma quali accecati, quali crudelmente scudisciati, quali gettati in oscuri e sozzissimi sotterranei. Nè andavano illese le mogli e le figliuole loro. Vedovi matrone e vergini di chiarissimo sangue strappare da’ loro palagi, altre venir chiuse in carcere co’ più vili malfattori; altre servire a forza ai sozzi piaceri del grand’ammiraglio; ed altre ridotte a far turpe copia di sè per vivere. Gli stessi principi Tancredi e Guglielmo, figliuoli naturali di Rugiero duca di Puglia, fratello primogenito del re, erano strettamente custoditi nel real palazzo.
Pure tutto ciò non saziava ancora la rabbia del grand’ammiraglio. Restava a trar vendetta del conte di Squillace, da lui innanzi ad ogni altro odiato, per avere quel vittorioso, signore, come giurato avea, esattamente riferito al re le parole dettegli dai baroni in Butera. Ciò non pertanto tale era la rettitudine di lui, che Majone non avea mai potuto trovare da apporgli alcun che, per denigrare le sue azioni agli occhi del re. Finalmente un giorno che quel conte uscì a cacciare in compagnia dei familiari, il grand’ammiraglio corse al re, dicendogli, che colui, senza chiederne permesso, s’era visto allontanare da Palermo con molta gente armata; che ciò dava da sospettare; e però era mestieri richiamarlo. Il re spedì ordine al conte di tornare indietro; ed egli lasciata la caccia, venne in Palermo, e si diresse al real palazzo; ma non sì tosto n’ebbe oltrepassata la soglia, che fu preso, tratto in carcere, ed ivi gli furono cavati gli occhi e mozzata la lingua.
Spenti, messi in ceppi, o banditi coloro fra i grandi del regno, la resistenza dei quali aveva il grand’ammiraglio a temere, per trarre a sè tutto il potere, fece promovere i suoi congiunti alle prime cariche dello stato. Simone Siniscalco, marito d’una sua sorella, ebbe il governo di Puglia e di Terra-di-lavoro; Stefano suo fratello fu fatto ammiraglio. Egli al tempo stesso, oltre alle schiere da lui compre, raunò una banda di soldati lombardi e transalpini, assai valenti in guerra, attirandoli con larghi stipendii; ed ogni studio pose a cattare la benevolenza del popolo colle largizioni e con maniere piacevoli, e del clero, promovendo a cariche distinte gli ecclesiastici. È questa la ragione, per cui i vescovi, ch’ebbero allora parte ai pubblici affari, furono per lui a segno che Romualdo arcivescovo di Salerno nella sua cronaca tace qualunque circostanza a lui ingiuriosa (260).
Mentre così veniva il grand’ammiraglio raffermando la sua autorità nell’interno del regno, od allontanava gli ostacoli che potevano frastornare i suoi disegni, non trascurava la politica esterna. Il greco imperatore, malgrado la sconfitta del suo esercito a Brindisi, non avea voluto piegarsi alla pace. Un’armata comandata dall’ammiraglio Stefano fu spedita in levante, la quale disperse l’armata greca, prese Negroponte, Almira, Sanjacopo, la torre de’ Pisani, corse la Romania, mettendo il paese a sacco ed al foco, e carica di preda tornò nel 1158 in Palermo. Ciò rese più docile il bizantino; la pace fu conchiusa.
Morto Adriano IV, Alessandro III fu elevato alla sedia pontificia; un’antipapa era sorto, che si diceva Ottaviano, sostenuto dall’imperadore Federico I. Il grand’ammiraglio e con danaro e con maniera di soccorso sostenne Alessandro, la cui amicizia poteva essergli necessaria per le operazioni che aveva in mente. Per tal modo, tranne alcune correrie di lieve momento, che il conte di Lorotello e gli altri fuorusciti facevano a quando a quando sui confini, il regno non aveva nemici esterni a temere.
Nell’interno i grandi fremevano, ma fremevano in silenzio; sopraffatti dal governo crudelissimo, ma energico del grand’ammiraglio, scuorati dall’infelice riuscita delle precedenti sommosse, non osavano ricorrere all’armi; l’esercito mercenario, da lui compro, era pronto a sostenerlo; il clero, pe’ favori da lui ricevuti, e per la secreta influenza di Roma, lo favoriva; la plebe, sedotta, forse lo amava. Egli intanto, per farsi strada al suo disegno; mentre tutte le azioni del re erano da lui dettate, si dava in pubblico a predicare l’insania e la bessagine di Guglielmo; a lui solo accagionava tutto il male, che si faceva; anzi talvolta, per renderlo vie più odioso, lo induceva (e facile era indurvelo) a dare alcun ordine crudele, come di cavar gli occhi o mozzar la lingua a qualche innocente, ed egli stesso poi ne sospendeva l’esecuzione, dicendo a tutti: non doversi eseguire ordini emanati da uno sconsigliato tiranno. Un avvenimento straordinario fece allora tale condotta maggiormente palese.
VII. — Quando re Rugiero avea conquistate le città di Affrica, tutti i profughi erano rifuggiti presso Abd al Mumen, che in Marocco regnava, il quale promise loro soccorso. Nel 1159 apprestato un esercito di centomila soldati e numerosa armata, mosse da Marocco ed a lui venne ad unirsi Al Asan, già signore di Mahadia; e colle loro forze unite cominciarono a ripigliare il paese perduto. Era fra tutte quelle città innanzi ad ogni altra forte e di gran momento Mahadia. La quale era posta in una penisola, congiunta al continente da una stretta gola; e però da quella sola parte era accessibile. Abd al Mumen conosciuta l’impossibilità d’espugnarla di viva forza, prese consiglio di cingerla in modo, che la fame avesse obbligata la guarnigione alla resa. L’armata, forte di cencinquanta legni, le fu posta intorno, ed un forte muro fu eretto sullo istmo, per impedire le sortite della guarnigione. Lasciatovi parte dell’esercito, col resto delle sue forze venne il marocchino espugnando le città entro terra, che inabili a tenere un lungo assedio, a lui s’arresero. Saputo in Palermo i progressi degli Affricani e l’assedio di Mahadia, fu una costernazione generale. Il grand’ammiraglio si mostrava più che altri sollecito della conservazione di quella piazza. I primi re di Sicilia e particolarmente Guglielmo I, adottando in tutto le maniere de’ principi orientali, avevano al loro servizio gran numero di eunuchi, i quali, convertiti in apparenza alla religione cristiana, ma musulmani in cuore, in gran veduta erano nella corte di Palermo, come in quella di Costantinopoli e di Bagdad. Ve ne erano prossimi alla carica di gran camerario; ve n’erano destinati alla amministrazione delle reali entrate; ve ne erano comandanti delle armate, ed a costoro si dava il titolo di gaiti, corrotto dall’arabo al Kaid. Un gaito Pietro, ch’era in grande stato presso il re Guglielmo, ed anche più presso il grand’ammiraglio, comandava un’armata, che allora era nei mari di Spagna. A costui finse il grand’ammiraglio di mandar ordine di soccorrere Mahadia; e quel gaito colà si diresse. All’avvicinarsi delle galee siciliane fecero cuore gli assediati, e già si preparavano ad attaccare il muro dell’istmo, e correr sopra gli Affricani, mentre l’armata siciliana avrebbe combattuta la marocchina. Gli Affricani ne furono tanto spauriti, che tiraron in terra i legni loro; ma l’evirato ammiraglio, fattosi appena vedere, voltò le prore per Palermo; i Marocchini, ripreso cuore, rimisero in mare l’armata, si diedero ad inseguire le navi siciliane, e loro venne fatto di prendere alcuni de’ legni sezzaî. Ciò non pertanto la piazza continuò lung’ora a difendersi; mancati affatto i viveri, quei prodi soldati giunsero a mangiare i cavalli, i cani e fino i più sozzi animali. Il re di Marocco cui non era ignoto lo stato loro, chiamatine a parlamento i capi, loro disse: non ignorare egli la loro strettezza; sapere altresì per la lettera scrittagli dagli eunuchi del Palazzo di Palermo, che da Sicilia non sarebbe mandato loro alcun soccorso, esser vano ostinarsi più oltre a tenere piazza quasi contro il volere del loro re; e però se di queto rendevano la città, offriva loro di ritenere al suo servizio coloro che non volevano andare incontro alla tirannide di re Guglielmo, o rimandargli sopra legni suoi in Sicilia, se ciò fosse lor grado. A quest’ultimo partito promisero attenersi, se infra un termine posto non fossero giunti soccorsi. Alcuni di loro vennero in Palermo, esposero lo stato della piazza e la seguita convenzione; ma il grand’ammiraglio, celando al re il vero, gli disse che la guarnigione di Mahadia avea richiesto altri viveri; che non era mestieri inviarne, avendo egli risposto colà viveri per un anno. I messaggieri furono rimandati; la piazza fu resa; la guarnigione venne in Palermo sulle navi marocchine e palesò com’era ito l’affare.
La perdita di quella città in un modo tanto iniquo parve a tutti una ferita all’onor nazionale; ma più che tutti se ne mostrava sdegnato il grand’ammiraglio; si andava da per tutto dando vanto d’aver egli fatto la massima premura al re, perchè la piazza fosse soccorsa; ma che il re s’era ostinato a volerla del tutto abbandonare, dicendo che costava tesori il mantenerla, senza trarne alcun prò.
Ciò non però di manco quel tristo non illudeva alcuno con tali arti, che tutti conoscevano a qual fine fossero dirette; ed era ciò tanto palese, che correva allora voce d’aver egli talvolta mostrato a suoi familiari il diadema e le regie insegne già preparate in casa sua; e si diceva di averle avute dalla stessa regina Margherita di Navarra, che dava mano alla rea impresa, per l’amorazzo che a lui la stringea. Era fama altresì d’essere stato spedito in Roma con gran somma di danaro un Matteo gran protonotajo del regno (261), per comprare da Papa Alessandro la bolla, colla quale si rinnovasse il caso dell’infelice Chilperigo III re di Francia, con dichiarare Guglielmo incapace di regnare per la sua ignavia, e dare il regno al grand’ammiraglio; e che un Giovanni da Napoli, cardinale dava opera a ciò. Pur comechè tutti vedessero qual destino si minacciava al re, e di ora in ora tutti s’aspettassero di vederlo spento, o chiuso in un chiostro, o confinato in un isola, e tutti ne fremessero, nissuno osava avvertirnelo: tanto ognuno era spaventato dal funesto caso del conte di Squillace.
VIII. — Ma, mentre tutto pareva piegarsi a favorire le ree macchinazioni del grand’ammiraglio, un’incendio divampò, quando meno se l’aspettava, da un estremo all’altro del regno. Il popolo di Melfi fu il primo a dichiarare di non volere indi in poi dare esecuzione a verun ordine di lui, nè ricevere in città alcun di coloro, che egli avea lasciato a governar la Puglia. Fu questa come una scintilla caduta sopra un barile di polvere. In un attimo tutti i conti ed altri maggiorenti di quelle contrade si levarono in armi e si obbligarono l’un l’altro con giuramento a procurare per qualunque via di mettere a morte il grand’ammiraglio e non obbedire a verun ordine del governo, finch’egli non fosse morto o fuggito in altro regno. Gionata conte di Conza, Giliberto conte di Gravina, consanguineo della regina, Boemondo conte di Monopoli, Rugiero conte d’Acerra, Filippo conte di Sangro, Rugiero conte di Tricarico, Riccardo conte d’Aquila con altri baroni, si diedero a percorrere la provincia, per indurre a forza gli abitanti a prestare lo stesso giuramento; ma non accadde nè pregare nè minacciare: i popoli traevano in folla ad incontrare ed ingrossar la masnada.
Spaventato il grand’ammiraglio dalla subita ed universale insurrezione di Puglia e di Terra-di-lavoro, fece scrivere al re lettere alle città d’Amalfi, Sorrento, Napoli, Taranto, Otranto e Barletta animandole a tenersi fedeli; ma tali lettere in nissun luogo furono, non che lette, ricevute. Scrisse egli stesso all’ammiraglio Stefano suo fratello di accrescere l’esercito mercenario con promettere larghi stipendii a’ soldati. Simone Siniscalco suo cognato, inabile ad affrontar quella piena, cedendo il campo, s’era ritratto in luogo forte. Il vescovo di Mazzara mandato in Melfi, per indurre le città a tornare all’obbedienza del re, come vi giunse, confermò il popolo nella rivolta, predicando i tradimenti e le iniquità del grand’ammiraglio.
IX. — Mentre tali cose inutilmente si facevano per acquetare la Puglia e la Terra-di-lavoro, la insurrezione cominciò a comunicarsi anche in Calabria. Il grand’ammiraglio, per ispegnere il nascente incendio, mandò colà un Matteo Bonello, il quale per esser congiunto di sangue a molti dei baroni calabresi, assai dipendenze avea nella provincia. Era costui signore di gran sangue, prode, generoso, bello della persona ed in qualunque atto d’armi niuno era in Sicilia quello valesse ch’egli. Per tali qualità sue, comechè sul primo fiore della gioventù e di natura versatile anzi che no, tutti l’onoravan di grado. Il grand’ammiraglio, per acquistare la cognazione delle più nobili famiglie, aveagli già da più anni fidanzata una sua figliuola, comechè allora fanciulla. Aspettando ch’essa fosse giunta ad età convenevole, Matteo si era dato ad amoreggiare la vedova contessa di Molise, sorella naturale del re. Il grand’ammiraglio, temendo non quella tresca lo distogliesse dallo sposar la figliuola, gli avea fatto tener l’uscio di quella casa; di che l’innamorato giovane sentiva alcun rancore. Ciò non di manco, accettato l’incarico, si recò in Calabria.
Come vi giunse, chiamò a consesso i principali di quei baroni, e si diede ad accampare argomenti per mostrare loro false essere le voci sparse contro il grand’ammiraglio; esser lui innocente dei delitti, che gli sì apponevano. Qui, levatosi un Rugiero di Martorano, barone di gran nome, per parte di tutti gli altri rispose «Io non so con qual cuore abbii tu preso consiglio d’eseguire gli ordini di un traditore; di chiamarlo, contro la opinione di tutti, innocente; e con assumerne la difesa, farti credere complice della congiura da lui ordita. Non è da maravigliare se per costui parteggino coloro, i quali, o stretti dalla miseria, pongon dall’un dei lati l’onesto; o vili di sangue e di cuore, si tengono onorati dal piaggiarlo; o non hanno altro modo d’elevarsi dal basso stato in cui nacquero; o per avere avvilita con azioni men che oneste la nobiltà loro, hanno perduto ogni sentimento d’onore; ma tu chiaro di sangue, e finora anche chiaro di nome, tu ricco, tu che puoi di per te stesso aspirare ai primi onori, a che vuoi tu accattare con turpi mezzi turpissima civanza? Se alcuno non vi fosse che osasse mostrar la fronte al tiranno, dovresti tu solo imprendere la vendetta di tanti nobili ingiustamente banditi, carcerati, traditi, mutilati, spogliati dei loro beni, disonorati nelle loro famiglie e in mille modi cruciati. Ed ora che tutti con unanime volere, contro di lui ci leviamo, tu, solo tu, lo predichi innocente. E qual è più nocente di lui, che centella il sangue de’ buoni, che incrudelisce contro coloro che conosce incolpabili, e che cospira contro la corona e la vita di un re, dal quale è stato elevato a tanta altezza? E tu chiami ciò innocenza? Approvi tu quel reo disegno? Non pensi qual macchia quindi porterebbe il tuo nome? Potrai non esser chiamato spergiuro, se acconsenti al regicidio, tu che giurasti al re fedeltà? Potrai non esser tenuto vilissimo degli uomini, se ti soffre l’animo di prestare omaggio a tal plebeo? Dirai tu venendo a regnar Majone, sarai il primo appo lui; a piene mani a te si verseranno gli onori; tue saranno le più nobili contee... Oitù sconsigliato! Pogniamo il re deposto; regnerebbe per questo Majone? Il giorno stesso, in cui vorrebbe usurpare il regno, sarebbe con tutti i suoi consorti messo a morte, se altri armi mancassero, a furia di sassi. Pensa che tutti gli sguardi nel regno sono a te rivolti; che che sarai per fare, non può essere ignoto; nè puoi fare che il tuo nome non venga quindi innanzi famoso o per insigne virtù o per viltà insigne. Schifa un suocero, dal quale bruttata verrebbe la chiarezza dei tuoi natali. Ricusa una sposa, che ti darebbe figliuoli, per lo sangue biforme, degeneri. Accingiti alla comune vendetta. Torna in libertà te e quanto avanza della nobiltà siciliana. Conosca per prova il comune oppressore, che ad uomini valenti nè la rabbia dalla vendetta, nè un ferro per appagarla manca mai. La salvezza del re, la pace del regno, la libertà di noi tutti in tua mano, e solo in tua mano, è riposta. Propizia fortuna offre a te solo il destro di farti chiaro coll’illustre attentato. Il tiranno vive tanto sicuro d’averti con sue male arti fascinato, che solo tu fra i nobili del regno puoi senza tema o sospetto a tuo grand’agio affrontarlo e metterlo a morte; Corri, corri intrepido ove l’onore ti chiama. Non volgere il tergo alla fortuna. E, se prometti sulla tua fede di recare a fine la grand’impresa, oltre alla gloria che a te quindi verrebbe, ne saresti da noi meritato colle nozze della nobile e potente contessa di Catanzaro».
Quel forte ragionare, accompagnato dalla promessa di nozze tanto splendide, ridestò nel giovane tutti quei generosi sentimenti, che le moine del grand’ammiraglio avean sopiti, ed a partito riciso giurò d’ucciderlo, anche prima che quei baroni non aspettavano. La contessa di Catanzaro, col consenso di tutti i suoi, giurò di dargliene in merito la sua mano. I baroni, aspettando l’evento, s’acquietarono. Bonello riprese la via di Sicilia.
X. — Si appressava in questo il giorno posto tra il grand’ammiraglio e l’arcivescovo di Palermo per uccidere il re. Venuti essi a colloquio intorno a ciò, cominciarono a disputare sulla persona, alla quale si doveano affidare i tesori ed i figli del re. Il grand’ammiraglio, cui molto calea di ciò, li volea ad ogni patto, in poter suo, mettendo avanti la ragione che quei tesori eran necessarii, per sedare i tumulti e sostenere la guerra, che dovea destarsi per la morte del re. Ma l’altro, sia che ancora ignorasse tutto il disegno di lui, sia che volesse frustrarlo della speranza di salire al trono, a verun patto non gliel consentiva. Essere, diceva egli, imprudente il mettere i figliuoli del re in balia di lui, cui la voce pubblica apponea di mirare al trono; volere l’onor loro che quella voce fosse avanti smentita che confermata; e però doversi la custodia dei principi e del tesoro affidare ai vescovi ed a persone d’integra fama; se la rendita ordinaria dello stato non fosse sufficiente alle non previste occorenze, potersi col consenso loro trarre dai reali scrigni il danaro che sarebbe del caso. Imbizzarrito il grand’ammiraglio per tale opposizione, cominciò a rimproverare all’arcivescovo la sua ingratitudine, e conchiuse dicendo che abbandonava il pensiere di mettere a morte il re; e anch’io, rispose l’altro, conosco quanto male a noi può venirne e me ne rimango. D’allora in poi, datosi il grand’ammiraglio ad istigare il re contro l’arcivescovo, gli fece estorquere settecent’onze. Convertita così in fiera nimistà la fratellanza da prima giurata fra costoro, mentre, soppiattoni com’erano entrambi, conservavano le apparenze dell’amicizia, ciascun dei due disgrumava il partito come smaltire l’altro. Il grand’ammiraglio tentava di corrompere alcuno dei domestici dell’arcivescovo, per farlo avvelenare; e questo si faceva secretamente capo dei nemici di lui, dei quali veniva accrescendo il numero e lo sdegno, col palesarne ai suoi familiari le scelleraggini.
In questo, un Nicolò Logoteta, che in Calabria era, diede avviso al grand’ammiraglio dello sponsalizio tra Bonello e la contessa di Catanzaro, e del partito posto tra lui ed i baroni calabresi. Majone non prestava da prima fede a quell’avviso; ma, fattone poi certo da altri che lo confermavano, tutto cruccioso si preparò a prevenire il colpo e farla pagar cara a Bonello. Costui intanto, reduce da Calabria, era giunto in Termini, ove venne a trovarlo uno dei suoi uomini d’armi, che lasciato avea in Palermo, il quale lo avverti d’essere il grand’ammiraglio a giorno di ciò ch’egli avea promesso di fare e ben preparato alla vendetta. Bonello soprastette e scrisse a Majone una lettera tutta umile ed amorosa, nella quale a lui diceva: esser in Calabria ogni cosa tranquillo; que’ baroni esser tornati all’obbedienza; e soggiungeva, ch’egli era stato e sarebbe sempre in avvenire pronto a durar qualunque fatica ed affrontare qualunque pericolo per lo suo servizio; ma non averne ancora ottenuto quel merito, che il suo cuore ardentemente desiderava, le nozze della sua figliuola; e però caldamente lo pregava a contentarlo di ciò, senza differire il maritaggio più oltre.
Tale lettera dileguò affatto i sospetti del grand’ammiraglio, il quale credendo di smentire tutti coloro, che lo avevano avvertito della intenzione di Bonello, gongolando a tutti la mostrava. Rispose amorosamente, ringraziando Bonello di ciò che avea fatto e pregandolo a venir tosto in Palermo, ove le sue nozze non sarebero più dilungate. Bonello non pose più indugio al ritorno, e fu con lietissimo viso accolto dal grand’ammiraglio. Recatosi poi di soppiatto dall’arcivescovo, lo mise a giorno di quanto s’era indettato co’ baroni di Calabria, e quello altamente approvò il disegno e caldamente lo istigò a mandarlo con sollecitudine ad effetto, a scanzo di alcun contrattempo.
Era intanto venuto fatto al grand’ammiraglio di fare avvelenar l’arcivescovo, di che s’era ammalato; ma temendo che il veleno non fosse stato efficace abbastanza per torlo di vita, uno più forte ne preparò, e recatoglielo egli stesso sul far della sera del giorno 10 di novembre 1160, cominciò a pregarlo a pigliare quel rimedio, ch’egli stesso, sollecito della sua salute, avea fatto sotto gli occhi suoi preparare. L’arcivescovo, senza mostrare alcun sospetto, se ne scusò, dicendo: esser egli stomacato di beveraggi, sì che pure un zinzino lo avrebbe fatto ricevere. L’altro, per non dar sospetto di sè, non insistè più oltre. In questo, l’arcivescovo fece secretamente avvisato il Bonello, che il nemico era in sua casa; e quello, raccolta la sua gente, animatala con larghe promesse, la mise in agguato in tutte le vie, per le quali il grand’ammiraglio dovea passare o potea fuggire, ed egli stesso si appiattò presso la porta che si dicea di sant’Agata, non guari discosta. Intanto l’arcivescovo passando a bello studio da un ragionare all’altro, menava in lungo il discorso. A sera già inoltrata il grand’ammiraglio s’accomiatò; e l’arcivescovo, com’egli venne fuori, fece a’ suoi domestici chiuder l’uscio di strada. Mentre il grand’ammiraglio, parlando coll’arcivescovo di Messina, s’avvicinava al luogo della insidia, Matteo d’Ajello gran protonotaio e ’l gran camerario Adenolfo, rompendo la calca di coloro che lo seguivano, a lui appressati gli zufolarono negli orecchi, d’essere ivi presso in agguato il Bonello con gente armata, per ucciderlo. Turbato a tale avviso, gridò a Bonello di accostarsi; e quello che non distava, tratta la spada si fece avanti, dicendo eccomi o traditore, a vendicare, benchè tardi, i nobili da te oppressi. Dire e menar la punta fu tutt’uno. Schivò quello il primo colpo; ma al secondo, passato fuor fuori cadde esanime. I suoi seguaci spauriti fuggirono. Il gran protonotajo, che nell’oscurità era stato ferito, a malo stento potè salvarsi.
Sparsa per la città la notizia della morte del grand’ammiraglio, somma fu la letizia del popolo, il quale, non più represso dal timore, si diede con grandi clamori a mostrar l’odio suo contro di lui, traendo in folla al luogo, ove ne era restato il cadavere, che nessuno avea osato rimuovere, per tema di esser tenuto suo partigiano; chi lo sputava, chi lo scalpitava, chi lo pelava. Il re, che dal vicino palazzo udiva l’insolito trambusto, ne chiedea la cagione, quando a lui venne il contestabile Ottone a palesargli l’accaduto; di che forte si crucciò. Comechè fosse noto, diceva egli, che il grand’ammiraglio mulinava alcun reo disegno contro di lui, non si dovea punirlo senza suo ordine. Non pensava egli qual male ne era incolto a coloro, che lo aveano altra volta avvertito della iniquità del suo ministro. La notte stessa furono addoppiate le guardie della città, a scanso di tumulti, e guardie furono poste alla casa dell’estinto Majone; ma non si potè impedire che la plebe avesse dato il sacco ad alcune case di parenti ed amici di lui.
Il domani il re chiamato a sè Arrigo Aristippo, arcidiacono di Catania, uomo di assai dolci costumi, nelle latine e greche lettere dotto, a lui affidò la carica di grand’ammiraglio e la somma degli affari del governo. Costui e Silvestro conte di Marsico si diedero a raddolcire l’animo del re, nè poterono venirne a capo se non col mostrargli alcuni diademi che si trovarono riposti in casa di Majone. Convinto il re da ciò del delitto di lui, ne fece carcerare il figliuolo e il fratello, ambi ammiragli, ed il gran protonotajo, che era stato uno dei suoi confidenti e de’ più iniqui. Fu trasportato al real palazzo tutto il danaro rinvenuto nella casa dell’estinto e tutto quello occultato o in altre mani depositato, che potè scoprirsi, martoriando l’eunuco Andrea ed altri familiari di lui; anzi il suo stesso figliuolo palesò d’avere il padre dato a conservare al vescovo di Tropea trecent’once d’oro. Quel prelato dichiarò che ben altro danaro era in poter suo, e consegnò settecentomila tarì, che, per valere allora la moneta venti volte più che oggidì oltrepassano il milione dei nostri scudi. Capitale ingente, che basta a provare la rapacità del grand’ammiraglio.
Il re si mostrava tanto convinto della reità dell’estinto ministro, che giurò di non molestare il Bonello; però gli amici di lui spedirono messi a richiamarlo da Caccamo, ove s’era rifuggito la notte stessa del commesso omicidio. Egli, più che nel giuramento del re, confidando nel favore del popolo, nell’alleanza di tutti i baroni e nelle proprie forze, venne in Palermo. Il suo ingresso in città fu un vero trionfo. Gente senza numero, di ogni condizione, venne fuori ad incontrarlo, gridandolo liberatore, accompagnandolo sino al real palazzo, ove fu accolto dal re con grandi dimostrazioni di stima. Fu ricondotto a casa dai più distinti personaggi della corte. Il suo nome venne caro ad ogni cittadino e da un’estremo all’altro del regno era lodato a cielo. Le città e le provincie sollevate, mancata la causa della sommossa, si ricomposero. I baroni di Puglia e di Calabria posarono le armi; ma si dichiaravano pronti a riprenderle, se fosse fatto alcun male a Bonello.
XI. — Ma la grazia dei principi; ove sia effetto di necessità, copre l’odio secreto; e l’odio è in tanto maggiore, in quanto la persona, che si mostra di amare, e più cara al popolo. Guglielmo, che avea dovuto cedere alla pubblica indignazione contro il suo ministro, facilmente dava ascolto alle insinuazioni di coloro, che lo venivano secretamente adizzando contro il Bonello. La regina e gli eunuchi del palazzo, che in quella corte assai prevalevano e nel seguìto cambiamento tutto aveano a temere, nulla a sperare, come coloro ch’erano stati o complici od esecutori delle nequizie di Majone, venivano di continuo dicendo al re: dover egli aprir gli occhi al pericolo che a lui soprastava, per essere Bonello giunto a tale arroganza, che si teneva già a gran pezza superiore a qualunque altro personaggio del regno; la sua ambizione non aver limiti e difficilmente potersi tenere alla condizione di suddito; il popolo, i soldati, i baroni esser da lui dipendenti e seco stretti da secreti giuramenti; riuscitogli il primo colpo, esser egli continuamente istigato a più rea impresa da’ baroni di oltremare, i quali, conscii di essere imperdonabile l’ultima loro ribellione, lo incitavano ad acquistar gloria maggiore, a render sicura e compita libertà al popolo e ad acquistar per sè quella sicurezza, che non avrebbe mai, finchè vivesse un re, cui avea troncata la mano destra (così diceva il re quando rammentava la morte di Majone); esser da stolto il contare sulla fede di colui, il quale con nera ingratitudine, infranto i giuramenti ed i legami della contratta affinità, avea messo a morte un suocero, dal quale era stato amato qual figlio, per cui opera aveva ottenuta la restituzione del patrimonio paterno; essere affatto calunniose le voci sparse del grand’ammiraglio; i diademi trovati in casa sua essere stati da lui preparati per donarli in istrenna al re nel calen di gennajo; non esser credibile che una cospirazione così estesa avesse avuto il solo oggetto di mettere a morte il grand’ammiraglio; doversi piuttosto credere, che con quel primo passo si volle aprir la strada a più alto disegno.
Tali sospetti, destramente porti dagli eunuchi, facilmente appigliarono nell’animo di Guglielmo, il quale cedendo a perfide insinuazioni di quella vilissima genìa, dalla quale era in tutte l’ore accerchiato cominciò a guardar di mal’occhio il Bonello. Non osava attaccarlo apertamente; ma cominciò a chiamarlo di rado in corte e lo strinse a pagare sessantamila tarì, che si era una volta obbligato a dare al re, venendo a composizione, onde ottenere il possesso dei beni del padre e per opera di Majone non ne era stato mai più richiesto. Vedeva altronde Bonello in grande stato appo il re il gran camerario Adenolfo, il quale era stato confidente ed amico di Majone; e gli altri di quella fazione levar la fronte, da che era a lei venuto meno l’appoggio dell’arcivescovo di Palermo, mancato di vivere, non guari dopo il grand’ammiraglio; intantochè un Filippo Mansello, nipote del gran camerario, fu visto una sera con molti armati aggirarsi attorno la casa di lui. Egli, per far vedere d’essere all’erta sugli andamenti de’ nemici suoi e di non mancargli nè cuore nè ajuto, accompagnato anch’esso da sgherri, stiede la notte appresso intorno la casa del Mansello; ma non gli venne fatto incontrarlo.
XII. — Fatto certo per tali fatti Bonello, che il partito di Majone, era già risorto, tenendosi mal sicuro, chiamò a consulta tutti quei baroni, che erano dalla sua, per provvedere alla salvezza comune. Proponeva taluno in quel consenso di mettere a morte il gran camerario, come colui che più degli altri si mostrava nemico di Bonello; ma i più dissero: essere più sano consiglio estirpare la radice del male non esser più da dubitare, che restando sul trono Guglielmo, non sarebbero mai mancati i Majoni, gli Adenolfi, i Manselli; il più sicuro partito esser quello di assalire il real Palazzo, trarne il re, confinarlo in una delle isole vicine alla Sicilia e metter sul trono Rugiero suo figliuolo primogenito. Concorsero in tal parere, non che tutt’i baroni, ch’erano presenti, ma gli stessi principi del real sangue; il conte Simone, figliuolo naturale di re Rugiero; Tancredi figlio del duca di Puglia, fratello del re; e Rugiero; conte d’Avellino, stretto congiunto di lui.
Pur comechè il partito fosse stato preso da uomini trapossenti, che godevano in favore del popolo, l’impresa non era lieve. La custodia del real palazzo era affidata ad un Malagerio, uomo d’incorrotta fede e non ordinario valore; le guardie eran disposte in modo, per gli anditi del real palazzo, che impossibile era penetrarvi di forza. Ma come il Malagerio soleva spesso assentarsi e lasciava in sua vece il custode delle carceri, che allora erano nel palazzo, venne facile ai congiurati corrompere costui ed ottenere promessa d’introdurli nel palazzo e mettere in libertà ed armare i prigioni, per cooperare all’impresa.
Disposte così le cose, Bonello sì recò in Mistretta, per raccorre ivi i viveri ed armi, da servire nella guerra, che poteva muoversi a tanto mutamento di cose; e raccomandò ai compagni di nulla tentare prima del suo ritorno. Mentre egli era assente, uno dei congiurati, volendo trarre nella congiura un soldato suo amico, gli palesò imprudentemente tutta la trama e le principali persone che vi avean parte, senza prima chiedere alcun giuramento o promessa di silenzio. Il soldato comechè inorridisse alla notizia, finse approvare il disegno e chiese un giorno, per pensarvi su, prima di determinarsi; staccatosi da quello, gli venne visto un’altro amico, ed ignorando di essere anche questo fra’ congiurati, gli palesò la scoperta fatta; e tutto raccapricciato gli disse, esser necessario di palesar la cosa al re il giorno appresso. L’altro per non dar sospetto di sè, finse di approvare il suo parere; ma, come da lui si divise, corse ad avvertire il conte Simone, che la congiura era per essere palesata al re. Fu mestieri, per prevenire il colpo, precipitar l’impresa. La notte stessa fu avvisato il prigioniere che tutto dovea farsi il domani.
Nell’ora posta i carcerati furono messi in libertà; ed armati, uniti ai congiurati, si diressero alle camere del re, guidati da Simone e Tancredi, che pratichi erano dei luoghi per avere avuto lunga stanza nel palazzo. Era il re a discorrere coll’arcidiacono di Catania; al veder comparire il fratello e il nipote era per isgridarli dell’ardimento di venire, non chiamati, in sua presenza; ma al sopraggiunger degli altri, conosciuto il pericolo, tentò di fuggire; e non gli venne fatto. Spaventato al veder farsi avanti colle spade nude il conte d’Alesa e Roberto di Bovo, uomini crudeli, cominciò a raccomandarsi agli altri per salvargli la vita, dichiarandosi pronto a consentire a quanto avessero chiesto e fino ad abdicare il regno. Riccardo di Mandra, che uno dei congiurati era, postosi in difesa del re, impedì ch’egli fosse morto, di che ebbe poi merito; così restarono contenti gli altri baroni all’arresto del re.
In questo, la marmaglia, ch’era nelle carceri, venutane fuori, si diede a saccheggiare il real Palazzo; danari, vasi preziosi, ricchissimi arredi ne furono tratti in gran copia; e nel trambusto non fu rispettata la pudicizia delle donzelle addette al servizio della regina. La rabbia dei congiurati si rivolse poi contro gli eunuchi ed i saracini; quanti ne vennero loro incontrati nel palazzo o per le vie, furono uccisi. Tratto dal palazzo il piccolo Rugiero duca di Puglia, figliuolo primogenito di Guglielmo, fu condotto a cavallo per le strade e gridato re; dicendosi al popolo che null’altro s’aspettava a coronarlo che l’imminente venuta di Matteo Bonello, primo fautore di quell’impresa. Il popolo al solo sentire che Bonello aveva parte alla cosa, se ne mostrava lieto da prima; ma scorsi già tre giorni, senza che Bonello fosse di ritorno, si cominciò a mormorare della prigionia del re, del saccheggio de’ reali tesori e delle violenze ed uccisioni commesse. Il mal’umore fu accresciuto dell’imprudenza di un Gualtiero arcidiacono di Cefalù, precettore del duca di Puglia, il quale, mentre incitava il popolo a sottrarsi dal tirannico governo di re Guglielmo, insinuava di giurare fedeltà al fratello di lui, ch’ei chiamava il principe Simone. Se il re, si diceva, non deve più regnare, perchè metter sul trono un suo fratello bastardo, e non il figlio, legittimo successore, che i congiurati dicono di essere per coronarsi? Qui serpe ci cova. Dal secreto mormorare si venne presto all’aperto tumultuare; la moltitudine in armi corse al real palazzo, chiedendo ad alte grida la liberazione del re; minacciando di mettere a morte coloro, che lo tenevano prigione. I congiurati si difesero da prima con gran cuore; ma, visto che, per lo scarso numero loro, non avrebbero potuto a lungo resistere, presentatesi al re, si dichiararono pronti a rimetterlo in libertà, purchè fosse loro concesso di andarne altrove senza molestia. Il re sulla sua fede lo promise; fattosi alla finestra, ringraziò il popolo; gli ordinò di ritirarsi e lasciare che coloro, che entro il palazzo erano, liberamente ne venissero fuori; ed essi, come uscirono di presente si recarono in Caccamo, per unirsi a Bonello che ivi s’era ridotto.
XIII. — Tale fu l’esito di quella congiura, che costò ben cara alla Sicilia, non solo per lo sprecamento del reali tesori, ma per la morte indi seguita del piccolo Rugiero, duca di Puglia, dopo che i congiurati lo avevan proclamato re. La qual perdita fu a tutti i Siciliani dolorosissima; perochè quel principe, comechè in tenera età, dava tali speranze di sè, che generalmente si diceva, che, una col nome, erano in lui tramandate le grandi qualità dello zio e dell’avo. Si attribuiva da taluni la sua morte ad una ferita di saetta, da lui riportata mentre il popolo assaliva il real palazzo, per mettere in libertà il re. Altri davano alla sua morte più dolente cagione. Si diceva che il fanciullo, visto il padre rimesso in libertà, tutto festevole era corso a lui; ma ne era stato respinto con un calcio, di che preso da forte battisoffia, era morto poco dopo in braccio alla madre.
Re Guglielmo intanto, sopraffatto dal ricevuto oltraggio, cadde in tale oppressione d’animo che, deposto il regio manto, si stava accoccolato in terra, amaramente piangendo; tolto l’antico divieto, a tutti era dato avvicinarsi a lui, ed a tutti narrava piangendo, in atto commiserevole, il caso avvenutogli. Finalmente, confortato dai vescovi, si recò nella gran sala, contigua al palazzo, ed ivi congregato il popolo, si diede a ringraziarlo di ciò che avea fatto per lui, e ad esortarlo a conservar sempre la stessa fedeltà. Confessava d’essere stata la disgrazia accadutagli un gastigo di Dio, per la sua mala condotta, prometteva emendarsi, dichiarava sè esser pronto a concedere ai sudditi quanto da loro fosse chiesto, che tornasse in lor bene; diceva, volere abrogare tutte le consuetudini nel suo regno introdotte, per cui o veniva ristretta la libertà dei cittadini, o venivano essi gravati di pesi straordinarii ed illegali; e finalmente, in merito del servizio prestato, concesse al popolo di Palermo l’esenzione di tutte le gabelle nel comprare, vendere o portare in città ogni maniera di prodotti della terra, di che fu quel popolo oltre modo lieto, per non averlo mai per lo passato potuto ottenere.
In questo, giunse in Palermo la notizia che Simone, fratello del re, Tancredi suo nipote, il conte d’Alesa, il conte di Conversano, Rugiero Sclavo, bastardo di Simone, e tutti gli altri congiurati, erano iti con tutte le forze loro in Caccamo ad unirsi al Bonello. Il re spedì a costui un messo, per chiedergli qual fosse l’animo suo verso di sè; a che si riunivano colà tante forze; e dirgli ch’ei maravigliava che tanti traditori avessero trovato ricovero nel suo castello. Rispose Matteo: sè non avere nè conosciute, nè approvate le azioni di coloro che il re chiamava traditori; dovere di cortesia averlo mosso a non negare ospitalità a tanti nobili profughi; che se il re ponesse mente alla sua condotta avrebbe da maravigliare, anzichè dell’accaduto, della lunga pazienza de’ baroni siciliani, i quali per tanto tempo ridotti alla condizione di vilissimi servi, avean dovuto tollerare (per tacere di mille altri soprusi) che le figliuole loro restassero per lo più nubili; perocchè non potendo esse andare a marito senza il permesso del re, s’era fin allora tanto stentato ad ottenerlo, che molte ne morivano prima d’averlo, e molte l’ottenevano, quando per l’avanzata età erano già inabili a portar figli; queste e le altre illegali consuetudini, di recente introdotte, volere i baroni (ed egli con essi) abrogate; ned eglino sarebbero per tollerare più oltre che venissero in parte alcuna derogati gli antichi statuti del regno, sanciti da Roberto Guiscardo e dal conte Rugiero confermati.
Il re, che di leggieri passava dall’avvilimento all’arroganza, rispose: volere avanti perdere il regno e la vita stessa, che cedere alle minacce; ma se; abbandonati i traditori, i baroni a lui venissero supplichevoli ed inermi, potrebbe esser loro concesso quanto dimandavano. Infelloniti a tal risposta quei baroni si diedero a rampognare il Bonello, al cui temporeggiarsi accagionavano l’essere ita a male l’impresa; e sì lo adizzarono, che mosse per Palermo colla sua truppa. Somma era allora la costernazione in Palermo; il re avea mandato ordine allo stratigoto di Messina di mandargli tantosto tutte le galee, che colà erano, con quanti soldati vi capivano: ma tal soccorso non era giunto ancora; nissuno correva alle armi per difendere la città e il re; gli amici di Bonello, ch’erano forse i più, pensavano più presto d’unirsi a lui; i suoi nemici, per tema della sua vendetta, cercavano di fuggire o nascondersi; per le campagne sparse di gente armata, non avean potuto raccorsi viveri a sufficienza per tenere un assedio; però all’avviso della mossa di Bonello, nissuno dubitava che, senza resistenza, si sarebbe fatto padrone della città, del re, del regno; ma costui forse spaventato dalla grandezza dell’impresa, come fu presso Palermo voltò la briglia e tornossi in Caccamo.
Giungevano intanto da Messina e da altre parti armi e soldati in ajuto del re; però non furono più in caso i congiurati di ritentar l’impresa; e di leggieri cessero alle persuasioni di Roberto di Sangiovanni canonico di Palermo, uomo chiaro per sangue e per inalterabile virtù, spedito loro dal re, di venire a patti; e i patti furono, che tutti coloro, che erano iti a ricoverarsi in Caccamo, uscissero dal regno, obbligandosi il re a dar loro i legni necessarii. Fu solo perdonato al conte d’Avellino, per la giovanile età sua e per le preghiere della contessa Adelicia, cugina del re ed ava del conte, la quale, non avendo altro erede del suo nobilissimo casato, teneramente lo amava. Riccardo di Mandra, in merito d’aver salvata la vita al re, ebbe la carica di gran contestabile. Per Bonello il re con giuramento si obbligò ad obliare il passato e rimetterlo nella sua piena grazia.
XIV. — Erano allora in grande stato appo il re e suoi ministri l’inglese Riccardo Palmeri, eletto vescovo di Siracusa (262), e Silvestre conte di Marsico; Arrigo Aristippo, ammesso anch’egli nei reali consigli, era odiato dal re; perchè lo teneva partecipe della congiura de’ baroni; gli apponea di avere, nel passato trambusto, tenuto più giorni in casa sua alcune delle donzelle di real servizio; ma soprattutto l’odiava, perchè il cuore di lui era affatto diverso dal suo. Nell’ultimo sacco dato al real palazzo s’erano perduti quei registri, che si chiamavano defatari, ne’ quali erano scritte le consuetudini del regno, le concessioni de’ feudi col rispettivo servizio, nè potendosene fare a meno nel raunare le bande feudali, in un momento, in cui tanto necessario era al re avere una forza; fu tratto dalla prigione e rimesso in carica il gran protonotajo Matteo, il quale, per avere lunga pezza esercitato tale officio essere stato sempre al fianco di Majone, aveva tal conoscenza di que’ libri, che poteva ricomporli. Tornato per tal modo in gran potenza costui venne a risorgere la fazione dell’estinto grand’ammiraglio.
XV. — Mentre tali cose in Palermo accadevano, Tancredi nipote del re Rugiero Sclavo, figliuolo spurio di Simone, ed altri baroni, non volendo sottomettersi alle condizioni pattuite in Caccamo, s’erano riparati in Piazza, Butera ed altre città popolate di Lombardi, coll’ajuto dei quali diedero prima addosso ai saracini, che in quelle parti erano; sì che pochi ne camparono: e poi afforzatisi in Butera, venivano scorrazzando le campagne sino a Siracusa ed a Catania. Raunava un grand’esercito il re, per sottometterli; ma, prima di mettersi in camino, il conte di Marsico gli fece considerare, che era ben da credere che i ribelli avessero secreta intelligenza con Bonello, nemico perniciosissimo, perchè occulto; essere imprudente menarlo seco o lasciarlo libero indietro. Guglielmo posto in non cale il giuramento, aderì a quel consiglio; e, per esser pericoloso arrestarlo palesamente, aggiungendo allo spergiuro il tradimento, lo chiamò a se, e, mentre senza sospetto s’inoltrava nelle regie sale, fu preso e chiuso in oscurissimo carcere, ove, con barbarie inaudita, gli furono cavati gli occhi e troncati i garretti (263). Presi ed accecati furono al tempo stesso Matteo di Cantaluccia, congiunto di lui, e Giovanni Romano suo siniscalco.
Saputo in città il funesto caso, gli uomini di Bonello, i suoi familiari, gli amici e gran parte di popolo, corsero in armi, per trarlo di forza dalla prigione. Ciò era stato ben preveduto; il real palazzo era chiuso e munito; i tentativi per espugnarlo riuscirono vani; l’inutilità degli sforzi attutò l’ira della marmaglia; gli stessi amici dì Bonello indi in poi cominciarono a mostrarglisi avversi, per non dar sospetto di sè. Solo un Ivone cercò di vendicarlo in parte mettendo a morte con un fendente il gran camerario Adenolfo, uno de’ più accaniti nemici del suo signore; ma soprappreso dai sergenti della corte, per ordine della stessa n’ebbe troncata la destra. Tale fu la fine infelicissima di Matteo Bonello, per non aver tenuta presente la massima d’un barone scozzese di quell’età, che chi tira la spada contro il re, deve gittarne il fodero.
XVI. — Liberatosi dal nemico, corse il re ad assediare Butera, ove lo Sclavo e Tancredi si erano ritirati. Era la terra fortissima di sito, frequente di popolo, ben provveduta d’armi e di viveri; per che gli assalitori vi facean poco frutto. L’impresa di per sè stessa difficile, andò in lungo per una circostanza ridevole. Tancredi e Rugiero Sclavo avean menato con loro alcuni astrologhi, per vaticinare quali giorni sarebbero per essere propizii od infausti alle armi loro; nè osavan sortire senza la costoro approvazione; e nelle sortite riuscivano per lo più vittoriosi. Il re, saputo di tali astrologhi, non al valore di Rugiero, al senno di Tancredi, alla natura dei luoghi, ma al retto vaticinar di coloro attribuiva le sue sconfitte; per mettersi del pari, astrologhi procacciò anch’egli; e fece peggio. Quando gli uni volevano giovarsi del giorno fausto, gli altri tenendolo infausto, schivavan l’incontro; però i soldati stavano per lo più colle mani in mano; l’assedio andava in lungo senza prò; i baroni della parte regia ne mormoravano; il tempo del loro servizio tirava al suo fine; l’esercito era per isbandarsi, quando un caso, non preveduto certo dagli astrologhi, diede la terra al re. Per la ripartizione de’ viveri il popolo venne in iscrezio coi soldati; ed a tale giunse il cruccio, che Rugiero e Tancredi, visto che il popolo minacciava d’aprire a tradimento le porte al re, prevennero il colpo e vennero a patti. Il re, che disperava già d’avere la città, facilmente concesse loro d’andare illesi oltre i confini del regno. Avuta così Butera, Guglielmo la spianò, e vietò che in avvenire fosse più ripopolata.
Mentre in Sicilia tali cose accadevano, più gravi disordini travagliavano le provincie oltremare. Il conte di Lorotello, invaso la Puglia, era penetrato sino ai confini della Calabria; tutti i baroni, che avean prese le armi per opporsi alla tirannia di Majone, a lui s’erano uniti, tranne Giliberto conte di Gravina, cui il re avea perdonato a preghiera della regina, di cui era congiunto; il quale anzi coll’esercito regio, che comandava, procurava di opporsi alla marcia de’ sollevati, ai quali s’era accostata la contessa di Catanzaro, ed avea munito il suo castello di Taverna in Calabria, per ripararvi colla madre ed i suoi.
Il re intanto, avuta Butera, accresciuto l’esercito, si preparava a ricondurre all’obbedienza quelle provincie; ma, prima di recarvisi, per ispaventare con un grande esempio i baroni calabresi, chiamato in Sicilia il ricantato Rugiero di Martorano accagionatolo prima di fellonia, senza esserne confesso o convinto, senza alcuna forma di giudizio, di solo suo ordine lo fece carcerare, secondo l’uso crudelissimo de’ tempi.
XVII. — Passato poi coll’esercito oltremare, corse ad assediare il castello di Taverna. Era esso posto presso la vetta d’una rupe, ertissima da tutti i lati, che gli stava a cavaliere. Vani tornarono i primi sforzi per espugnarlo; gli assalitori ne furono sempre respinti, senza alcun danno degli assediati, i quali mandavan giù botti, armate esternamente di lunghi chiodi di ferro, ed enormi macigni, che rotolando giù con gran fracasso, pestavano, ferivano, disordinavano le schiere nemiche. Ognuno teneva impossibile il sottomettere di viva forza quel castello, tutti consigliavano il re a lasciarselo indietro, per correre in Puglia ad imprese di maggior momento. Ma, se duro era l’intoppo, anche più duro era l’animo di Guglielmo ne’ suoi proponimenti. Gli assediati, tenendo affatto inaccessibile la sommità della rupe contigua al castello, non curavano di custodirla; avvistosi di ciò il re, scelta una banda dei più spigliati ed audaci fra’ soldati suoi ordinò di dar la scalata da quel lato; tanto fecero coloro, che inerpicandosi per quella rupe ne giunsero in vetta e quindi senza ostacolo penetrarono nel castello, onde nessuno potè fuggire. La contessa colla madre e gli zii Alferio e Tommaso, che governavano la milizia caddero in mano del re. Alfenio ebbe sul campo stesso l’estremo supplizio; Tommaso fu impiccato in Messina; de’ gregarii, altri ebbero troncate le mani ed altri cavati gli occhi; la contessa e la madre furono mandate nelle carceri di Palermo.
Nelle altre provincie, tutti coloro che avean prese le armi, al primo annunzio dell’avvicinarsi dell’esercito regio, la diedero a gambe. Il conte d’Avellino, reo non d’altro delitto che l’aver menato in moglie, senza l’assenso del re, una figliuola di Fenicia di Sanseverino, fuggì col fratello della sposa, e ben s’appose; che il re, avute nelle mani la contessa e la madre sua, ambe mandò in Sicilia carcerate. Le città di Puglia e di Terra-di-lavoro e tutte quelle che si erano date al conte di Lorotello, colla stessa alacrità, con cui si erano levate in armi, s’affrettavano a chiedere mercè (264); e ’l re a tutte accordava il perdono, con soggettarle a gravissima taglia, che si chiamò redenzione, colla quale volle rifare il suo erario della perdita sofferta nel sacco del real palazzo; il conte di Lorotello, comechè comandasse un esercito più numeroso di quello del re, temendo la dubbia fede degli abitanti, lasciati alcuni soldati a guardar Taranto, si ritirò in Abbruzzo; lo stesso fecero i conti di Consa, di Fondi, d’Acerra e tutti gli altri.
Nell’avvicinarsi a Taranto il re, que’ cittadini gli consegnarono i pochi soldati, lasciativi dal conte di Lorotello, ed e’ li fece di presente impiccare. Bari fu di suo ordine spianata dalle fondamenta. Accadde in que’ dì che un Gioario eunuco, il quale era gran camerario, malmenato dal re con parole e bastonate, volle vendicarsene fuggendo al conte di Lorotello e menando seco i reali suggelli; ma soprappreso e ricondotto al re, fu sommerso tutto vivo in mare. Il promovere tali abbiette persone alle più alte dignità, il bastonarle, il punirle in quel modo, mostra quanto la corte di Sicilia aveva allora sembianza di musulmana; e musulmano nel suo procedere era più che altri re Guglielmo.
Si accostò egli a Salerno, con fermo proponimento di spianarla come Bari. Coloro che avean dato opera alla rivolta, al suo avvicinarsi eran fuggiti; gli altri cittadini mandarono a lui incontro i maggiorenti ad implorare il perdono della città; ma Guglielmo non volle pur vederli. Il gran protonotajo, che da Salerno era, per salvare la città, fece opera che intercedessero i familiari del re e particolarmente il conte di Marsico e Riccardo Palmeri (Arrigo Aristippo più non era; che non guari prima era stato messo in carcere e vi avea lasciata la vita). Venne fatto a costoro tor giù il re dal suo pensiero, a patto che lo stratigoto ed i giudici della città menassero a lui quanti fra’ ribelli ancora vi erano; e quelli gli portarono innanzi alquanti disgraziati, i quali senz’altro esame furono di presente impiccati. Fra quest’infelici, scelti alla cieca, non perchè complici della ribellione, ma per appagare lo sdegno del re, il gran protonotajo fece comprender un’uomo, che tutti i Salernitani dicevano d’esser innocente, per vendetta de’ congiunti di lui, de’ quali era nemico.
La notte stessa, mentre il cielo era sereno, una bufera istantaneamente si mosse, accompagnata da fulmini, da gragnuola e da pioggia dirotta sì, che l’esercito regio fu per essere assorto dai torrenti che ne vennero; il vento era tanto impetuoso che mandò giù le tende, svelti i piuoli, rotte le funi, che le sostenevano, talmentechè il re ebbe immantinente a ritrarsi. Alcun giorno dopo cadde in Salerno una casa mentre vi si celebravano le nozze tra una nipote del gran protonotajo ed un giovane, che a forza di minacce s’era fatto assentire al maritaggio. La sposa e tutto il corteo restarono sepolti sotto le rovine; e ciò recò il lutto in tutte le nobili famiglie di Salerno. Questi fenomeni naturali furono da tutti attribuiti all’ira di Dio, per la morte data a quell’innocente (265).
XVIII. — Mentre tali cose accadevano oltremare, scene non meno luttuose aveano luogo in Sicilia. Aveva il re lasciato a governar Palermo e ’l real palazzo il gaito Martino eunuco, al quale venne allora ad offrirsi bel destro di vendicare la morte di un suo fratello, accaduta nell’ultima sommossa. Scelti alquanti giovani de’ più valenti nel far di armi, promettendo loro per parte del re grandi ricompense, gli induceva ad accusare le persone a lui invise delle ruberie de’ reali tesori, e dichiararsi pronti a provare il delitto per la solita via della corporal battaglia. Restandovi per lo più perdenti gli accusati, li faceva immantinente impiccare; ma, se alcuno degli accusanti soccombea, ne lo faceva andare immune. Quando poi l’orrore di tali scene fece venir meno i campioni, condannava gli accusati, ammettendo la testimonianza, non che di qualunque persona rigattata, ma delle stesse cantoniere e de’ servi.
In questo, il re fu di ritorno in Palermo; ma non però ebbero fine le oppressioni de’ Siciliani. Guglielmo, tornato alla naturale negghienza, si chiuse nel suo palazzo, senza darsi più alcun pensiere de’ pubblici affari. Era allora venuto a morte il conte di Marsico; però erano restati arbitri del regno il gran protonotajo e Palmeri, i quali erano tra essi occulti nemici, come già Majone e l’arcivescovo di Palermo; se non che, questi due lo erano divenuti dopo di essersi giurata fratellanza, per ajutarsi scambievolmente, ovechè quelli non avean mai pattuito alleanza; ma operava ognuno per sè; ed ognuno forse cercava il modo di smaltire l’altro. A costoro fu aggiunto il gaito Pietro eunuco, al quale, dopo la morte dell’altro eunuco Gioario, era stata conferita la carica di gran camerario. Era costui quel desso, che comandava l’armata siciliana, che dovea soccorrere Mahadia e vilmente fuggì; ciò malgrado era avanti mansueto che no, inchinevole più al bene che al male, più al dare che al ricevere; se non che non sapea vincere l’odio verso i cristiani, che teneva dal sangue e dal consorzio degli altri eunuchi, gente vile ed avara, che formava allora una fazione numerosa e potente.
Accadde un di quei dì, che coloro che erano chiusi nelle carceri del real palazzo, s’abbottinarono, e, corrotti i custodi, vennero fuori, con animo di mettere a morte il re e levare una sommossa; ma, trovata forte resistenza al primo ingresso e sopraffatti dalle guardie occorse, vi lasciarono tutti la vita; non fu data sepoltura ai loro cadaveri, che buttati nei campi, vi furono lasciati pasto dei cani. Avvertito il re da questo secondo caso, ordinò che indi in poi, non più nel real palazzo, ma nel castello-a-mare di Palermo ed in altri forti si chiudessero i carcerati.
Comandava allora nel castello-a-mare un Roberto da Catalabiano, creatura degli eunuchi, innanzi ad ogni altro iniquo e rapace. Tutti i cristiani, che venivano in quelle carceri, erano da lui sopraccaricati di gravose catene, tutto dì bastonati ed in mille modi straziati, nè desistea da tal reo trattamento, se quegli infelici non davano a lui o vendevano a vilissimo prezzo le case, i poderi o altra cosa loro che appetiva. Non contento a tale iniquità, fece credere al gaito Pietro che molti dei complici della passata ribellione, impuniti tuttavia, stanziavano nelle città dei Lombardi. Il gaito e gli eunuchi, che agognavano a trar vendetta di quelle città, per l’eccidio non guari prima ivi fatto de’ Saracini, gli diedero la commissione di recarsi colà ad arrestare i supposti rei, ed egli, datosi a discorrer quel paese, venne da per tutto carcerando le persone più facoltose e tormentandole per estorquere da esse danaro. Nè tali iniquità solo in quelle città allora avean luogo; perocchè tutti i giustizieri, gli stratigoti, i camerarii, i catapani, i bajuli, promossi dagli eunuchi e da essi protetti, divennero ministri delle costoro nequizie e non ebbero più freno nelle concussioni, nelle ingiustizie, nella pubblica venalità de’ giudizî. In pari tempo estorsioni violentissime si facevano in Puglia ed in Terra-di-lavoro, per esigere la redenzione.
Tale condotta del governo era allora, non che rea, imprudentissima, per essere il regno minacciato da una straniera invasione. L’imperadore Federigo Barba-rossa, adizzato dal conte di Lorotello e dagli altri fuorusciti baroni, si apparecchiava d’armi e d’alleanze per invadere il reame siciliano; e tanto confidava nella felice riuscita dell’impresa, che sin dall’anno 1162 avea fatte concessioni di città e terre in Sicilia (266).
Intanto Guglielmo, senza darsi alcun pensiero di ciò che accadeva nel regno, si vivea spensieratamente nel suo palazzo. Volendo emulare la magnificenza del padre, si diede a fabbricare una sontuosa villa ne’ dintorni di Palermo, che oggi s’ignora ove sia stata. Il Falcando dice che, pensando egli che il padre avea edificato la Favara, Mimnerno ed altri luoghi di delizia, imprese a fabbricare un nuovo palazzo, che superasse tutte le opere del padre (267). Il Salernitano poi dice che re Guglielmo fabbricò con mirabile artifizio un palazzo assai alto, presso Palermo, che chiamò Lisa, al quale aggiunse pometi, verzieri, peschiere ed altre delizie (268). Da tali parole nulla possiamo argomentare intorno al sito di questa villa. La somiglianza del nome potrebbe farla credere quella che oggi chiamiamo Zisa; ma molti e gravi argomenti mostrano d’essere quest’edifizio opera dei Saracini. Convien dunque credere che il palazzo di Lisa sia ito giù, come quelli di Favara e di Mimnerno, di cui parla Falcando.
XIX. — Mentre quest’opera era per essere recata al suo termine, Guglielmo fu colto da grave dissenterìa. Fu vana l’opera de’ medici e particolarmente di Romualdo arcivescovo di Salerno, il quale, come allora solevano tutte le colte e gentili persone di quella città, professava medicina, per esser fiorentissima la scuola ivi da gran tempo stabilita da’ Saracini. Col costoro ajuto parve che il male volesse cedere; ma ingagliardito istantaneamente, lo trasse al sepolcro addì 7 di maggio 1166, nel 46 anno dell’età sua e nel 15 del suo regno. Prima di morire, Guglielmo chiamò a sè tutti i vescovi ed i baroni del regno ed in loro presenza palesò l’ultima sua volontà; lasciò il figlio primogenito Guglielmo, che allora non compiva il 14 anno dell’età sua, erede del regno di Sicilia, del ducato di Puglia e degli altri suoi dominî, tranne il principato di Capua, di cui investì il secondo figliuolo Arrigo; volle che la regina Margherita governasse il regno, durante la minorità del figlio, assistita dai suoi ministri, il gran protonotajo Matteo, Riccardo Palmeri e l’eunuco gaito Pietro.
Seguita la sua morte, la regina ed i ministri, a scanso che la notizia subitamente divulgata non fosse cagione d’alcun disordine, continuarono a far credere al popolo d’esser ancora in vita il re, finchè non si fosse riunito il parlamento per la legale proclamazione e coronazione del nuovo re. Ciò venne facile, per essere stato Guglielmo I solito a farsi vedere ben di raro. Publicata poi la notizia, il cadavere del morto re fu con lugubre pompa e gran seguito di baroni e di vescovi trasferito nella cappella regia. Per tre giorni tutti i cittadini si vestirono di gramaglia; le donne anche le più nobili, e particolarmente le saracine, che forse erano le sole a pianger di cuore, giravano dì e notte la città, coi capelli sciolti, coperte di manti neri, con gran codazzo di serve, facendo le prefiche, ed ai loro ululi s’accordava lo scampanare a dilungo.
XX. — Il cadavere di questo re fu osservato nel 1811 quando, per un incendio destatosi nel duomo di Morreale, il suo avello di porfido fu fatto in pezzi dalle travi del tetto, che caddero. Era esso così ben conservato che d’ordine del re Ferdinando III, ne fu fatto il ritratto (269). La sua figura era quale l’arcivescovo di Salerno (270) la descrive. Era egli di bello, ma non gradevole aspetto, di taglia altissima, corpacciuto, rossi avea i capelli e la barba, angusta la fronte. Non accade far motto delle sue qualità morali; i fatti della sua vita le palesano a bastanza. Alcuni dei moderni storici hanno tentato di discolpare in parte questo principe con dire, non potendo dire altro, che i mali cui soggiacquero i sudditi nel suo governo più che alla malvagità di lui, si devono attribuire ai perversi consigli dei suoi ministri. Non pensan costoro che i ministri non possono esser cattivi, ove i re non lo siano; ed i ministri di Guglielmo, se pure non li avesse scelti secondo la sua indole, lo sarebbero divenuti per la sua pigrizia, che gli faceva mettere a negghienza i publici affari e negare ascolto agli uomini onesti, che avrebbero voluto avvertirlo della niquizia loro; indi nacque l’allontanamento di tutti gli uomini valenti che avean contribuito alla gloria del passato regno; indi la disgrazia d’Arrigo Aristippo; indi le scelleratezze di Majone, l’estorsioni di Matteo, la prepotenza degli eunuchi, la corruzione dei magistrati e le guerre che sconvolsero il regno durante la vita di questo principe, sì che i sudditi non ebbero mai pace ed a buon dritto a lui diedero il soprannome di Malo.