Niccolò Palmeri
Somma della storia di Sicilia

SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA]

CAPITOLO XXIII. I. Acclamazione e coronazione di Guglielmo II. — II. Scissure fra’ ministri. — III. Arrivo del conte di Gravina. — IV. Fuga del gaito Pietro. — V. Partenza del conte di Gravina. — VI. Stato del regno e della corte. — VII. Venuta di Stefano, dei conti del Percese. Sua condotta: cospirazione contro di lui. — VIII. Sommossa de’ baroni di Puglia. Gita della corte in Messina. — IX. Carcerazione del conte di Montescaglioso: giudizio dell’alta corte de’ pari contro il conte di Molise. — X. Tumulto di Messina e di Palermo. Partenza del gran cancelliere Stefano. — XI. Nuovi ministri. — XII. Terremoto. — XIII. Fabrica del tempio di Morreale. — XIV. Matrimonio del re. — XV. Congresso di Venezia. — XVI. Matrimonio della principessa Costanza. — XVII. Imprese militari. — XVIII. Morte del re: suo carattere.

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CAPITOLO XXIII.

I. Acclamazione e coronazione di Guglielmo II. — II. Scissure fra’ ministri. — III. Arrivo del conte di Gravina. — IV. Fuga del gaito Pietro. — V. Partenza del conte di Gravina. — VI. Stato del regno e della corte. — VII. Venuta di Stefano, dei conti del Percese. Sua condotta: cospirazione contro di lui. — VIII. Sommossa de’ baroni di Puglia. Gita della corte in Messina. — IX. Carcerazione del conte di Montescaglioso: giudizio dell’alta corte de’ pari contro il conte di Molise. — X. Tumulto di Messina e di Palermo. Partenza del gran cancelliere Stefano. — XI. Nuovi ministri. — XII. Terremoto. — XIII. Fabrica del tempio di Morreale. — XIV. Matrimonio del re. — XV. Congresso di Venezia. — XVI. Matrimonio della principessa Costanza. — XVII. Imprese militari. — XVIII. Morte del re: suo carattere.

I. — Posto fine al pubblico corrotto, il nuovo re, con grande accompagnamento equitò per la città. La tenera età sua, la bellezza del suo volto, i dolci modi suoi gli attirarono la benevolenza universale. Coloro stessi, che erano stati avversi al padre, tenevano ingiusto il trasferir l’odio all’innocente figliuolo; e però il popolo, che sempre spera bene dalle mutazioni, gioiva di cuore per l’esaltazione del nuovo re. Nel duomo di Palermo colle solite forme ebbe luogo la coronazione di Guglielmo II; e, perchè vacante era allora quella sedia arcivescovile, il nuovo re fu unto e coronato di Romualdo arcivescovo di Salerno, città capitale della Puglia; e perciò tenuta allora la seconda in tutti i dominî del re.

Per rendere più gradito ai sudditi il nuovo governo, la regina mise in libertà tutti i carcerati; richiamò i fuorusciti quasi tutti; e restituì loro i beni; rilasciò a tutti i debiti loro verso l’erario; e soprattutto abolì la gravosissima imposta della redenzione (271). Assicurata così l’interna tranquillità, rivolse l’animo a conservare la sicurezza esterna. Era allora il regno minacciato dall’imperadore Federico Barbarossa, il quale era sceso in Italia con grandi forze, per cacciare dalla sedia pontificia il pontefice Alessandro III ed esaltare un anti-papa da lui promosso. La regina mandò suoi ambasciadori a stringer lega col papa, cui soccorse di gente, di navi e di danaro, mentre l’imperadore assediava Roma. Il timore dell’invasione ivi a poco svanì. L’aria malsana delle campagne , l’intemperanza dei soldati tedeschi, la diversità del clima produssero tanta morìa nell’esercito imperiale, che ne perirono i più distinti personaggi e fra gli altri l’arcivescovo di Colonia, cancelliere dell’impero, che era uno dei comandanti dell’esercito; destino, cui in quei tempi soggiacevano sempre gli eserciti alemanni, che scendevano in Italia; intantochè portavano sempre con loro le caldaje, per bollirvi le ossa degli estinti e ricondurli alla terra natale (272). L’imperadore, vinto così senza combattere, ebbe a tornarsi in Germania.

II. — Il regno venne allora tranquillo; ma la corte cominciò ad essere agitata dalle fazioni dei ministri, che bastarono per tutta la minorità di Guglielmo II. Avea la regina data la massima autorità all’eunuco Pietro, gran camerario del regno: il gran protonotajo e Palmeri erano come suoi coadiutori. Erano allora in corte i due arcivescovi, Romualdo di Salerno e Rugiero di Reggio, ed i vescovi, Gentile di Girgenti e Tustano di Mazzara, i quali aspiravan del pari all’arcivescovado di Palermo ed alla carica di gran cancelliere, vacanti. E perchè il Palmeri agognava anch’egli a quei posti, e conoscevano che per essere, comecchè non ancora consacrato, vestito anch’egli della dignità vescovile, per la parte, che avea nel governo e per l’alta capacità sua, poteva di leggieri esser loro preferito, cominciarono a tenere in pubblico i discorsi più ingiuriosi, e talvolta anche mendaci, contro di lui, per renderlo odioso; e secretamente divisavano i modi anche i più iniqui di disfarsene o per lo meno d’allontanarlo, ed in ciò, benchè occultamente, il gran protonotajo li favoriva. Insomma era questa una cospirazione di tutti i regnicoli, che erano in corte, contro quello straniero.

Per trarre alla loro l’eunuco Pietro, la cui opera era affatto necessaria, si diedero a piaggiarlo, mostrandosi del tutto a lui ossequiosi; cominciarono poi ad insinuargli destramente di stare in guardia; dachè l’ambizioso Palmeri, che mal pativa un superiore nel governo, ordiva alcun che a danno suo. Il credulo eunuco, aggirato da tali insidie, s’unì strettamente a loro e proibì a’ soldati ed ai contestabili di accompagnare il Palmeri quando si recava alla corte; anzi promise di farlo uccidere ai suoi soldati; ma poi, ove lo incontrava, si dimenticava della promessa fatta agli altri, correva ad abbracciarlo, ritirava l’ordine dato; redarguito dai vescovi, tornava a promettere, poi si pentiva di nuovo; ed alternando sempre tra la promessa e il pentimento, lung’ora passò senza che i vescovi avessero potuto ottenere, non che la morte, pur l’allontanamento del rivale.

Non ignorava del tutto, ned era del tutto avversa a tali mene la regina, la quale secretamente odiava il Palmeri, perchè si ricordava sempre della durezza, colla quale egli, gonfio del suo potere e della confidenza, di cui godea presso il re Guglielmo I, avea sempre, durante la vita di questo, respinto le dimande di lei. Era allora in Palermo il cardinal Giovanni da Napoli, assai rispettato in corte, che in tutti i maneggi si tramettea; costui in apparenza per metter fine a quella contesa, in realtà perchè egli più degli altri agognava al vacante arcivescovado, mostrandosi sollecito della sicurezza del Palmeri, lo sconsigliava ad allontanarsi di queto.

III. — In questo, Gilberto conte di Gravina, saputa la morte di Guglielmo I, dalla Puglia ove si trovava, mosse verso Palermo, sulla speranza che, pel suo valore e pei legami del sangue colla regina, avrebbe potuto ottenere facilmente il supremo comando delle armi, e con esso la somma autorità nel governo. Giunta in Palermo la notizia d’aver egli valicato il faro, Palmeri fu più sollecito de’ suoi nemici a cattarne per lettere il favore. Giunto egli in Palermo, i vescovi, non avendo potuto trarlo alla loro, si diedero ad empir di sospetti l’animo della regina, facendole credere che il conte non ad altro mirasse che a torle la reggenza e governare egli solo; e tanto fecero, che Gilberto non ottenne da lei quell’accoglienza che aspettava. Avvistosi egli di essere da lui alieno l’animo della regina, introdottosi un nelle camere di lei mentre v’era l’eunuco Pietro, cominciò a rampognarla d’avere posti in non cale tutti i conti e tutti gli uomini più distinti del regno, affidato il supremo potere ad un schiavo evirato, e di tollerare che si cospirasse per allontanare della corte Riccardo Palmeri, il cui senno avea spesso posto argine agli ordini sconsigliati del morto re; e tanto s’inoltrò nel dire, che la regina diede in dirotto pianto; ciò non di manco non potè rimuoverla dal suo proponimento, e solo la trasse a proporgli di farlo compagno all’eunuco nel governo. Il conte si tenne offeso dalla proposizione d’esser messo del pari con colui, che non era nobile, uomo, e sdegnosamente la riggettò.

La corte restò allora divisa in due potenti fazioni; parteggiavan pel conte tutt’i conti, i baroni ed i nobili; erano per l’eunuco i soldati stipendiarii, compri dalle sue largizioni. I soli nobili che seguivano questa parte erano un Ugone, figliuolo d’Atone, cui l’eunuco avea dato il comando de’ suoi soldati; uomo d’armi e di senno valente e ’l gran contestabile Riccardo di Mandra, audace sì, ma di poco sano consiglio, cui l’eunuco, per avere dalla sua parte anche un conte, avea fatto alla regina investire con gran pompa della vastissima contea di Molise.

IV. — L’eunuco per ispaurire il suo nemico ed accattar partigiani, si mostrava da per tutto seguito da gran tratta d’armati e largo donatore era a tutti coloro, che a lui si accostavano. L’altro all’incontro, per far vedere di stopparlo, andava per le strade, o tutto solo o con pochi amici, senza verun apparato ostile; ma questa stessa fidanza di lui dava che pensare all’eunuco, il quale l’attribuiva alla sicurezza della riuscita di qualche gran colpo, che si ordiva a danno suo; e, da tal paura ne fu preso, che un sull’annottare, fingendo di recarsi ad una nuova casa, da lui fabbricata nel quartiere della città, che allora si diceva Kemonia (273), venne al porto, e quindi, sopra una saettia secretamente preparata, coi suoi tesori ed alquanti altri schiavi fuggì in Affrica al re di Marocco.

Sparsasi al far del giorno la notizia di quella fuga, accorati ne furono gli amici, lieti i nemici dell’eunuco e tutti sorpresi. Erano un di que’ in presenza della regina molti conti, vescovi ed altri magnati (274), fra’ quali i conti di Gravina e di Molise; parlandosi di quella fuga, il conte di Gravina disse: non esser da maravigliare di esser fuggito in Marocco quel servo vilissimo,  il quale, invece di soccorrer Mahadia coll’armata che comandava, avea voltate le prore, per dar la città al marocchino; esser bensì da maravigliare che non abbia piuttosto pensato d’introdurre a tradimento i marocchini in città e nel real palazzo, per trarne a man salva i reali tesori, e lo stesso re: ciò avrebbe dovuto accadere, per l’autorità, che scandalosamente s’era data a quello schiavo. Il conte di Molise, che amico e creatura era dell’eunuco rispose: non potere il gaito Pietro dirsi schiavo, per averlo il morto re dichiarato libero nel suo testamento; e la sua libertà essere stata confermata dal presente re e dalla regina reggente, col promuoverlo all’alta dignità; mentire chiunque lo chiamava traditore; esser egli pronto a provare colla spada il contrario. E tanto s’inoltrò nel dire che giunse a chiamar quel conte vile ed indegno di comandare le armi del re. Audace era l’uno, il ferro non crocchiava all’altro; eran per mettere le mani all’elsa, quando interpostisi la regina e quanti erano presenti, li fecero, almeno in apparenza, rappacificare.

V. — La regina e tutta la fazione del fuggito eunuco cercavano intanto il modo d’allontanare il conte di Gravina, senza renderlo nemico, e il modo fu trovato dal gran protonotajo. Fece egli correr voce per la città d’avere l’imperatore Federico Barbarossa ripassate le alpi con grosso esercito, per invadere il regno; finte lettere, che apparivano scritte da varie città d’Italia, che confermavano ciò, fece spargere. La regina allora chiamato a se quel conte, mostrandosi tutta paurosa per la minacciata invasione, gli disse: non avere a chi altro affidare il governo e la difesa delle provincie oltre mare; esser egli il più prode e ’l più leale dei baroni; e però a cui conferiva il supremo comando di tutte le forze ch’erano ivi; gli dava amplissima facoltà di fare ogni appresto per la difesa delle città e castella di quelle parti; e gli ordinava di recarvisi tantosto. Il conte comechè conoscesse d’essere ciò un tranello della fazione dell’estinto Majone (275), del fuggito eunuco e del conte di Molise, pure conoscendo l’animo della regina ostinatamente avverso, unitamente al conte d’Andria suo figliuolo, si partì.

Allontanato il conte di Gravina, restò il conte di Molise ad occupare nell’animo della regina e nel governo, il posto dell’eunuco Pietro. Furono allora con più calore riprese tutte le mene contro Riccardo Palmeri. Il ricantato cardinale capo della manifattura, procacciò dal papa un breve, con cui si ordinava a tutti i vescovi eletti di Sicilia, di recarsi in Roma, per esservi consacrati. Il colpo era diretto unicamente al Palmeri, il quale da gran tempo era stato eletto vescovo di Siracusa; ma, perchè la corte offriva più largo campo alla sua ambizione, non avea curato di farsi consacrare, per poi recarsi alla sua chiesa. Venuto il cardinale in corte; presente il re, la regina e gli altri cortigiani, lesse il breve pontificio e poi soggiunse, che avendo egli avuto conferita dal pontefice piena facoltà di aggiungere a quell’ordine quanto fosse del caso, per la sua pronta esecuzione, fissava un termine brevissimo, entro il quale i vescovi dovran partire. Rispose a ciò Palmeri: essere pronto ad eseguire ciò che il pontefice ordinava; ma non potere; volere sottomettersi al termine stabilito da chi non avea dritto di farlo; essere ciò una manifesta violazione delle leggi del regno, per non potere i pontefici delegare in Sicilia ad altri l’autorità loro, senza il consenso del re, che n’è il legato nato. La disputa, che indi nacque, andò tanto in lungo, che fattosi già notte, l’affare fu rimesso ad altro giorno.

Era allora nella corte di Palermo un giullare, al quale, purchè facesse ridere, era permesso l’oltraggiare chi che si fosse; vergognoso costume che si conservò in tutte le corti di Europa sino al XVII secolo. Un di que’ giorni quel buffone dimandò al cardinal Giovanni quanto Roma fosse di lungi da Palermo; quello rispose, esservi quindici giorni di viaggio «Gnaffèdisse il buffone «io, vedendoti fare tanto spesso un tal viaggio, avea sinora creduto non distare oltre alle venti miglia. Ora conosco quanta sia la tua ingordigia di danaro; che ti fa spesso imprendere un tal viaggio. Affè che, se fosse in vita il vecchio Guglielmo, non andresti tanto spesso in Roma, carico di tesori di Sicilia, qui verresti a seminare scandali.» Da ciò venne l’adagio, che allora corse, che pel cardinale Roma era venti miglia lontana da Palermo.

Palmeri intanto, cui di ben altro appoggio era mestieri che le giullerie, seppe secretamente con doni ed altri argomenti trarre alla sua il conte di Molise. Riproposto nel real consiglio l’affare della sua partenza, i vescovi ed i cortigiani fingevano d’intercedere per indurre il cardinale a dare un termine più largo; ma, ostinatosi quello, conchiusero d’esser necessario ubbidire. Qui levatosi il conte di Molise, con piglio severo, disse: io non so come si osi pretendere l’allontanamento d’un uomo valente, come Riccardo Palmeri, cui il morto re onorò della sua confidenza, finchè visse, e dopo morte gli affidò la cura del regno dei figli; volere ciò è un mancar di fede al re. Quei detti fecero ammutolire il cardinale e gli altri; sì che la regina stessa dichiarò che per la consacrazione, per altro qual si fosse motivo poteva permettersi l’allontanamento di Palmeri.

Pure tal contrattempo non distolse quel cardinale dal malfare. Era in que’ venuto in Palermo Riccardo di Sagio, gran contestabile del ducato di Puglia, non guari prima creato dalla regina conte di Fondi, il quale avea reso importanti servizî al morto re nelle commozioni di quella provincia. Dimandava costui lo scioglimento del suo matrimonio con animo di sposar poi la nipote dell’arcivescovo di Capua. La regina designò alcuni vescovi ed altri prelati per esaminar le ragioni dei conjugi e decidere sulla validità di quel matrimonio. Que’ vescovi invitarono a presedere al giudizio il cardinal Giovanni e ’l cardinale vescovo d’Ostia, che in Palermo allora era, perchè li tenevano assai esperti in tali cause che sempre sogliono agitarsi nella romana corte. Il cardinal da Napoli accettò l’invito; ma l’altro, uomo di salda virtù, sapendo che il compagno avea già presa l’imboccata dal marito, si negò. La ragione, per la quale quel conte pretendeva d’esser nullo il suo matrimonio era l’avere egli prima d’ammogliarsi, fornicato con una cugina della contessa, e ne adduceva in prova l’asserto di due soldati, che dicevano d’averlo visto cogli occhi proprî. Dalla parte della contessa, e per sostenere la validità del matrimonio e per l’onore della cugina, si replicava essere quei testimonî manifestamente mendaci, appunto perchè dicevano d’aver visto il fatto; perocchè azioni simili, massime tra persone d’alto rango, non possono essere esposte alla vista altrui, e molto meno di coloro che non erano familiari. Ciò non di manco il cardinale ammise i due testimonî al giuramento, e su questa sola prova dichiarò nullo il matrimonio, libero il conte di contrarre altre nozze; e, per soprassello d’iniquità, condannò la moglie a non potere più rimaritarsi. Gli altri vescovi e prelati, i quali, per quel che appare, ebbero anch’eglino il boccone, assentirono; pure dimandarono al cardinale se quel giudicato potea loro servire di norma in avvenire: mainò, sfrontatamente rispose, ciò che posso far io, voi nol potete (276).

Concorrevano allora alla corte di Palermo da tutte le parti di tali venturieri, che venivano ad ingrossarsi a spese della Sicilia. Fra questi si distinse un fratello della regina Margherita, che il re di Navarra suo padre non avea mai riconosciuto per figliuolo, perchè la madre a molti avea fatto copia di (277). Costui saputa la morte di Guglielmo I, accompagnatosi a molti soldati spagnuoli, era venuto in Sicilia, ed era stato ben accolto dalla sorella, la quale gli diede in moglie una figliuola naturale del re Rugiero e gli concesse la contea di Montescaglioso di del faro ed altre terre in Sicilia. Si chiamava egli Roderigo; ma perchè barbaro e ridevole suonava allora un tal nome alle orecchie de’ Siciliani, la regina fece dirlo Arrigo. Era costui un omicciolo contraffatto e di mal colore, senza barba, scilinguato, imprudente, vizioso e, tranne il giuoco, di null’altro sentiva. Sprecato tutto il danaro (ed assai era) avuto dalla sorella, si partì da Palermo, per ritirarsi alla sua contea; ma fermatosi in Messina, la sua casa ivi divenne un ritruovo di corsali, buffoni adulatori, ladroni ed altrettali uomini rigattati, in cui compagnia passava i giorni a stravizzare, le notti a giuocare; intantochè la regina, per levare lo scandalo, fu costretta ad adoprare la sua autorità, per farlo passare in Puglia, onde nuovi incidenti poi lo richiamarono.

VI. — Era in questo già scorso l’anno della morte di Guglielmo I; e, comechè la corte di Palermo fosse stata in quel tempo il teatro delle ambiziose gare de’ ministri e della cupidigia degli stranieri, il regno s’era serbato tranquillo. Aperte le prigioni, richiamati gli esuli, cessate le atroci punizioni del passato governo, abrogati gli abusi, tolti i pesi oltre la legge imposti, era venuto meno il fomite delle insurrezioni; ed i grandi baroni, che in quell’età facilmente turbavano i regni, se non avean parte diretta al governo, ne erano rispettati e carezzati; la regina, oltre le tante concessioni di feudi, avea creati otto nuovi conti.

Avea allora la somma podestà fra’ ministri Riccardo conte di Molise; la carica di gran cancelliere si amministrava in comune da Palmeri e dal gran protonotajo; l’eunuco Riccardo, gran camerario, e l’eunuco Martino, che stava sopra le dogane, intervenivano anch’essi nel consiglio del re e parte avevano ai pubblici affari. Il gran protonotajo, che conosceva di non potere ottenere la carica di grand’ammiraglio, che allora vacava, aspirava ad ottenere per solo quella di gran cancelliere; e l’arcivescovado di Palermo con pari studio affettavano il Palmeri e ’l vescovo di Girgenti. Ma la regina, che tutt’altro avea in animo, li tenea tutti in pastura.

VII. — Era stato il giovane re fino allora sotto la disciplina dell’inglese Gualtiero Offamil, dal quale era stato istruito nelle umane lettere. Per compirne l’istruzione, avea la regina scritto ad un suo zio, arcivescovo di Roano d’inviargli persona da ciò; e quello scelse Pietro di Blois arcidiacono di Bath in Inghilterra, che era in voce d’uomo distinto per sapere che molto e con lode avea scritto, e che nel dritto civile e canonico molto avanti sentiva. Al tempo stesso avea la regina pregato quell’arcivescovo ad indurre a venire in Sicilia o il tedesco Roberto da Neoburg o il francese Stefano, figliuolo del conte del Percese, ambi congiunti di lei. Quest’ultimo accettò l’invito, ed accompagnatosi a Pietro di Blois, seguito da altri francesi, venne prima in Puglia ove unitosi al conte di Gravina, figliuolo d’un suo fratello, ne fu informato dello stato della corte e del regno di Sicilia; dimoratovi pochi giorni, temendo l’aria mal sana di quei luoghi, che la state era già innoltrata, si ridusse in Palermo.

Era lo Stefano stretto congiunto della regina, per essere la regina di Navarra, madre di lei, dei conti del Percese; ed, oltre ai legami del sangue, era essa grata a quella famiglia; perchè per l’ajuto quel conte avea il padre suo ottenuto il regno di Navarra. Per tale ragione Stefano fu da lei accolto con grande onorificenza. I cortigiani, i vescovi, le milizie gli vennero incontro e lo condussero al real Palazzo, ove la regina, dopo le prime accoglienze, pubblicamente dichiarò: esser sua volontà che quel suo parente fosse da tutti onorato di grado; e da ciò sarebbe essa per conoscere la fede e l’amore di ciascuno verso di e del re; e tutti, ma non tutti di buona voglia, lo promisero.

Stretto poi dalla regina a fermarsi in Sicilia, per ajutarla nel governo, Stefano, informato già dal nipote delle fazioni, che agitavano la corte, del carattere de’ cortigiani e de’ ministri, della corruzione de’ magistrati e della prevalenza degli eunuchi, era restìo; ma la regina tanto fece, mettendogli in veduta gli onori, che a lui serbava, la ricchezza che sarebbe per acquistare, la povertà de’ paesi oltramonti, ove volea tornare, e soprattutto promettendo grandi premî a coloro, ch’erano con lui venuti, che finalmente lo indusse a rimaner seco. Ottenuto ciò, convocò il parlamento, ed ivi lo dichiarò gran cancelliere del regno e gli conferì la somma potestà fra tutti i ministri. Fattolo poi all’arcivescovo di Salerno ordinare suddiacono, diede ai canonici di Palermo la facoltà, lungo tempo da loro chiesta invano, di scegliere il nuovo arcivescovo; riuniti poi nel real palazzo, a voti unanimi (e chi potea dissentire?) scelsero Stefano.

Promosso così costui alle due più eminenti dignità dello stato e della chiesa, cominciò a condursi in modo da cattare l’altrui benevolenza, e meritare l’applauso di tutti. Pensando che Riccardo Palmeri avea perduto i lucri, che traeva dall’amministrazione della carica di gran cancelliere, gli assegnò in quella vece due casali, addetti a quella carica, con questo che l’uno, da lui si godesse finchè restava presso il reo l’altro fosse perpetuamente annesso alla mensa episcopale di Siracusa; ma quello, che non poteva sgozzare la perdita dell’autorità, che avea, e dell’arcivescovado di Palermo, che contava d’avere, lunghi di sapergli alcun grado del beneficio, non si lasciò mai scappar la congiuntura di nuocergli. L’ingratitudine di lui accorava, ma non distoglieva il gran cancelliere dal suo proponimento di recidere gli abusi del governo e punire severamente i malfatti, quali che i malfattori si fossero; di che esempî luminosi si narrano.

Erano in quei venuti in Palermo a dimandare alcun che dal governo certi Pugliesi; menata buona la dimanda, per la spedizione del sovrano decreto si diressero ad un Pietro notajo di corte, che congiunto era del gran protonotajo e come lui uso alle estorsioni. Negavasi costui a farlo senza una grossa mangerìa; il gran cancelliere, cui coloro ebbero ricorso, fece spedire il decreto da un’altro notajo, vi appose il suggello, e quelli tutti lieti si misero in via. Il notajo Pietro, non vistili più venire a lui, suppose come l’affare era ito; e, corso loro appresso, li soprapprese, tolse loro il decreto, ne ruppe il suggello, lo lacerò, li sopraccaricò di vellanie e di bastonate. Que’ meschini tornarono a ricorrere al gran cancelliere, il quale carcerò quel tracotato notajo: ma ivi a pochi giorni, intercedendo il gran protonotajo e gli altri cortigiani, lo rimandò libero, e si contentò solo di spogliarlo della carica. Ciò, che oggi sarebbe riprovevole per soverchia condiscendenza, lo fu allora per soverchio rigore: alte querele se ne fecero in corte; e Riccardo Palmeri ebbe cuore di dire in faccia al gran cancelliere, che, se si usava in Francia, non si usava in Sicilia di carcerare i notai della corte, come i più vili plebei.

Non per questo il gran cancelliere cambiò condotta. Per frenare la rapacità de’ notai fissò i dritti che loro potevano spettare; con sommo rigore sorvegliava la condotta degli stratigoti e di tutti i magistrati delle città e delle provincie, per tor loro il mal vezzo di opprimere il popolo: e ben ne venne a capo; sì che da tutte le parti del regno le genti venivano in Palermo a reclamare petorti prima sofferti; e tanta era la calca, che alla pronta spedizione delle sentenze i giudici erano sufficienti, i notai, comechè se ne fosse in quell’occasione accresciuto il numero. Lodava il popolo a cielo la giustizia severa del gran cancelliere; uom diceva, esser egli un angelo liberatore mandato da Dio a riformare il governo.

I Palermitani, fatto cuore da ciò, si unirono ad accusare il famoso Roberto da Calatabiano. Gli apponevano d’essere apostata, e in prova ne adducevano l’aver egli riedificata a sue spese una moschea de’ Saracini entro il castello-a-mare di Palermo; lo accagionavano delle case e dei poderi estorti, de’ cittadini carcerati, cruciati e fin fatti morire nelle carceri, delle donne violate e delle vergini stuprate con violenza; e di avere appigionata ad alcuni bettolieri una sua casa, la quale, essendo egli a parte de’ turpissimi profitti, era destinata ad ogni maniera di brutture le più nefande.

Roberto, uso a comprar sempre l’impunità dei suoi delitti, nulla curava da prima di tali accuse; ma visto tornar vani i doni a larga mano offerti al gran cancelliere, tutto pauroso corse ad implorare il patrocinio degli eunuchi, per lo più complici de’ suoi malfatti, e secondo il caso or protetti or protettori di lui. Costoro corsero a gittarsi a piedi della regina, dicendo non esser conveniente dare ascolto alle querele, messe avanti contro un uomo che tanti servizî avea resi al governo; esser egli accusato, per aver molti nemici, e molti averne, per essere stato rigido esecutore degli ordini avuti. Tanto insistettero que’ menni, che la regina s’indusse prima ad insinuare, e tornate vane le insinuazioni, ad ordinare al gran cancelliere di soprassedere in quella processura; perciocchè, essa dicea, gli omicidî e le rapine, di cui era accusato, non a Roberto eran da apporsi, ma al gaito Pietro allora potentissimo in corte, i cui ordini non poteva negarsi ad eseguire. Rispose il gran cancelliere: potere eseguire tale ordine solo pei delitti ch’eran di competenza de’ magistrati ordinarî; ma, come arcivescovo, non potere in sua coscienza lasciare impuniti quelli, il conoscere i quali apparteneva alla corte ecclesiastica. E, senza por tempo in mezzo, posti dall’un de’ lati i furti, le rapine, gli omicidi, le ingiurie, gli stupri violenti, la corte arcivescovile si diede a compilare il processo solo per li spergiuri e gl’incesti e gli adulterî (278), pei quali delitti, essendone evidenti le prove, fu il reo condannato ad esser frustato per la città, al perpetuo carcere ed alla perdita de’ beni.

Forse il gran cancelliere coll’infliggere una pena tanto grave per que’ soli delitti, volle appagare il pubblico sdegno contro quel tristo per gli altri delitti suoi, che restavano impuniti; ma invano. Il popolo affollato nelle strade, per cui dovea passare, lo aspettava per lapidarlo; fu d’uopo frustrarlo solo nelle strade attorno al palazzo arcivescovile fra due fila di soldati colle spade nude; ma anche ciò fu inutile, il popolo, respinti i soldati, diede addosso allo sciaurato e lo malmenò sì, che, ricondotto nelle carceri, vi morì della stessa tormentosa morte, che avea fatto patire a tanti disgraziati.

L’inesorabile giustizia del gran cancelliere lo rese caro a tutto il popolo siciliano; i Lombardi soprattutto, che tanto erano stati vessati da quel Roberto, furono lietissimi del gastigo e della morte di lui; gridavano d’esser pronti a spargere il sangue per la difesa dell’arcivescovo. Ma quella stessa severità sua gli tirava addosso molti e potenti nemici. I grandi, cui era chiusa ogni via di opprimere, come per lo passato, impunemente i deboli; i magistrati inferiori, avvezzi da gran tempo alle concussioni, agli abusi d’autorità ed a far mercato della giustizia, a malincuore tolleravan quel freno. Si univano a costoro il gaito Riccardo e tutta la corte degli eunuchi, i quali non avean potuto sgozzare il gastigo di Roberto, in dispetto della loro protezione; un Balcassem nobile e potente saracino, il quale rodeasi al vedere in grande stato appo il gran cancelliere il gaito Seditto, altro ricco saracino di lui nemico; intantochè per ossequii, per doni avea potuto cattare la grazia di quel ministro. Odiavano finalmente il gran cancelliere, Riccardo Palmeri, il gran protonotajo, il vescovo di Girgenti Gentile, l’arcivescovo di Salerno Romualdo e tutti gli altri cortigiani, i quali, mentre gareggiavan tra loro, per ottenere ognun per o l’arcivescovado di Palermo o la carica di gran cancelliere, erano restati tutti delusi, anzi avean perduto l’autorità ed i profitti, di che prima godeano.

il favore del popolo valeva a contrappesare l’inimicizia di costoro; chè in quell’età non popolo era, ma plebe corriva, cieca, sfrenata e pronta sempre a farsi strumento della violenza e dell’ambizione di quei pochi, nelle cui mani era ogni avere e potere. Aggiungi che lo stesso gran cancelliere, malgrado la sua virtù, dava ai suoi nemici grave e vera ragione di querela, per la grandissima confidenza accordata al francese Otone Quarel, canonico di Chartres, che seco era venuto, il quale compartiva qual grazia da lui si voleva, purchè la si pagasse e bene. Per costui mezzo, a dispetto degli avvertimenti degli amici, s’erano introdotti nella familiarità del gran cancelliere molti dei suoi nemici, i quali erano spie di tutti gli altri, che, per dargli mala voce, venivano predicando: essere proprio scandaloso che un ciullo straniero, investito di colpo delle prime dignità del regno, abbia egli solo tutta l’autorità e tutti i lucri, restandone affatto esclusi coloro, che incanutiti erano nel maneggio de’ pubblici affari; alcun mistero dover esser in ciò; la regina dice esser costui suo parente; ma s’ignora come essa spagnuola possa aver parenti francesi; forse sotto il velo della consanguinità si ascondono altri men che onesti legami.

contenti alle sole voci ingiuriose, venivano ordinando una cospirazione, per trovar via di smaltire il ministro, il quale non ignorava del tutto le loro mene; però, visto che corrieri spesso. erano spediti dal protonotajo al suo fratello, vescovo di Catania, mandò un Roberto da Balesme suo familiare con gente armata, ad intraprenderne due ch’erano partiti e toglier loro le lettere che portavano, dalle quali sperava scoprire il filo della trama. Il colpo andò fallito: uno dei due corrieri (ed era quello che portava le lettere) studiando il passo campò, dall’altro nulla potè sapersi. Ivi a pochi giorni quel Roberto si morì di veleno; e ne fu convinto un medico salernitano, familiare del gran protonotajo.

VIII. — Mentre in Sicilia covavano questi mali umori, un fermento era anche fra’ baroni di Puglia, i quali soffrivano a malincuore l’esaltazione di Riccardo di Mandra; e, per allontanarlo dalla corte, si erano dati ad aizzare il conte di Montescaglioso, dicendogli: non esser da tollerare che un dappoco, come Riccardo, oltre all’essere stato investito della nobilissima e ricchissima contea di Molise, fosse venuto in tale stato appo la regina, che governava a posta sua il regno; e, se ciò a tutti era grave, gravissimo dovea parere a lui che fratello era della regina; dover egli patire, senza nota d’ignavia, che altri più di lui valesse. Subito com’era quel conte, a que’ detti andò in fisima e rispose: essere pronto e vendicare l’ingiuria. Raccolti i soldati spagnuoli, che seco menato avea, ed altri avventurieri sopraggiunti, accompagnato da Boemondo conte di Monopoli, uomo savio e facondo, e da altri baroni, movea per Palermo, quando giunse in quelle parti la notizia della promozione del gran cancelliere, della sua capacità e del suo gran potere.

A tal novità soprastettero tutti alcun tempo, ma poi, che che fosse per esserne, si rimisero in via. Erano già arrivati in Termini, quando il conte di Molise, conosciuto che costoro venivano con animo reo contro di lui, corse a cercar l’ajuto del gran cancelliere, il quale comechè quel conte non gli fosse andato a pelo, temendo non quell’incendio, trovato in Palermo altro fomite, si dirigesse contro di lui, s’accinse ad estinguerlo. Spedì a quei baroni ordine di sostare; ed invitò il conte di Montescaglioso a recarsi solo in Palermo. Avutolo a , si diede a piaggiarlo con parole tutte dolci; lo ammoniva a non dare altrui occasione di ribellare; a non aver fede ne’ baroni di Puglia, i quali, dopo d’averlo imbarcato, lo avrebbero lasciato solo nel ballo; ed avrebbe così perduta senza prò la grazia della regina sua sorella, dalla quale molti favori avea ricevuti ed anche maggiori poteva sperarne. Quel bergolo, deposto a quei detti ogni livore, corse a pacificarsi colla sorella e col conte di Molise, e cominciò ad osservare in tutti i modi il gran cancelliere; con lui andava ogni giorno in corte; ad ogni detto di lui voleva essere il primo ad assentire; con lui solo usava e con tanta familiarità, che seco entrava nel bagno.

Guadagnato il capo, il gran cancelliere mandò per gli altri baroni rimasti in Termini; accoltili benignamente, chiese loro a che fossero venuti. Coloro, perduto l’appoggio del conte di Montescaglioso, trovato lo stato del governo tutto diverso da quello che pensavano, risposero: esser venuti per ossequiarlo, profferirglisi pronti ad ogni suo ordine, e chiedere al governo alcune grazie, che per lo mezzo di lui, speravano ottenere. Il gran cancelliere rese loro le migliori grazie; ma li consigliò a non mettere avanti petizioni, per non essere tempo da ciò; di che coloro, per avventura anzi scornati che no, si partirono. Solo il conte di Monopoli, che savio era, si trattenne col gran cancelliere in più secreti ragionari sulle cose del regno; e tanto restò pago de’ sentimenti di lui, che gli giurò salda fede e mai in appresso non la ruppe.

In questo, i nemici del gran cancelliere, per distaccar da lui il conte di Montescaglioso. venivano dicendo a costui; non dovere egli tollerare d’esser secondo ad alcuno; avanti che corteggiare, dovere essere corteggiato; a lui come fratello della regina, spettare gli onori, i proventi, la carica, il maneggio de’ pubblici affari, che imprudentemente s’erano dati a Stefano. A ciò egli rispondea: non essere il gran cancelliere per sangue inferiore ad alcuno; ma niuno essere, che quello valesse che egli; a migliori mani potevasi affidare il governo del regno; quanto a , conoscer egli di non esser da ciò, perchè ignorava la lingua francese, che si parlava in corte.

Tornato vano quel mezzo, si diedero coloro a fare spargere fra soldati spagnuoli del conte la ingiuriosa voce delle tresche amorose della regina col gran cancelliere. Que’ soldati cominciarono allora a rimproverare al loro signore la viltà di piaggiare un uomo, che pubblicamente si sapea d’esser l’adultero della sorella lui, ed egli, che di poca levatura era, colto al punto; s’accinse a vendicare ciò che diceva onor suo: e però, distaccatosi di repente dal gran cancelliere, s’accostò alla parte avversa e giurò la morte di lui.

Era de’ primi in quella congiura l’eunuco gaito Riccardo, gran siniscalco del regno, il quale oltre la banda de’ Saracini, che teneva a suo soldo, avea tratto nella cospirazione tutti gli arcieri e gran numero degli altri soldati del re. Una cospirazione così estesa diede che pensare al gran cancelliere. Fece stare cinquanta soldati suoi all’ingresso del suo palazzo, perchè non a tutti in tutte le ore fosse dato andare a lui; e, per accrescere il numero dei soldati suoi, tenne al suo soldo una banda di cavalieri francesi, venuti allora in Palermo per passare in Terra-santa, fra’ quali era un Giovanni di Lavardino. Al tempo stesso indusse il re e la regina a recarsi in Messina, per dimorar ivi l’inverno e poi al sopraggiunger della primavera passare in terra ferma; e ciò all’oggetto di distaccare i capi della cospirazione da Palermo, ch’era il centro delle loro forze e punirli con pubblico giudizio. Con tale intendimento scrisse al conte di Gravina, facendogli veduto il suo pensiere, pregandolo a recarsi in Messina con buon nervo di gente.

Era nel cuor dell’autunno, che in quell’anno era stato oltre all’ordinario piovoso; per che le strade eran venute affatto rotte. Tutti i cortigiani consigliavano a differir quella mossa sino alla primavera; ma il gran cancelliere, fermo nel suo proponimento, spedì ordine in tutte le città e terre lungo la via di riattare le strade e fare i necessarî preparamenti per lo passaggio del re e della sua corte. Serenatosi poi il cielo, addì 15 di novembre del 1169 la corte mosse per Messina.

Ivi giunto il gran cancelliere, procurò di cattar l’amore di quel popolo col confermare alcun privilegio, che re Rugiero avea prima concesso alla città e poi ritratto; e col gastigare, comechè mal suo grado, lo stratigoto della città, di cui tutto il popolo si dolea. Ciò non però di manco il conte di Montescaglioso e Gentile vescovo di Girgenti venivano secretamente trovando compagni; ed in ciò erano favoriti dall’insolente e licenzioso procedere de’ soldati francesi, che il gran cancelliere seco menato avea, che moveva a sdegno tale il popolo, che facilmente dava ascolto alle ree insinuazioni de’ congiurati. E comechè l’arrivo del conte di Gravina con cento militi suoi, tutta gente provata, avesse per alcun tempo repressa l’audacia de’ cospiratori, pure, quando si credettero numerosi abbastanza per tentare il colpo, stabilirono il giorno e ’l modo di mettere a morte il gran cancelliere (279).

Il conte di Montescaglioso, imprudente come era, volendo trarre nella congiura uno dei giudici della città, gli palesò fil filo la trama; e quello, malgrado il promesso silenzio, corse a svelar tutto al gran cancelliere, il quale si appigliò allora ad un partito estremo, cui la regina stessa, posto da parte l’amore fraterno aderì. Fu convocato subito il parlamento per condannare con pubblico e legale giudizio il conte di Montescaglioso. Il gran cancelliere, sapendo che fra’ conti ed i prelati più d’uno dava mano alla cospirazione di quel conte, fece entrar nella sala una mano de’ suoi soldati; egli stesso, sotto l’abito pontificale avea la corazza, ed i suoi cherici la spada soppanno. Entrati il re, la regina, i prelati, i conti, i baroni ed il gran giustiziere colla gran corte, a tutti fu negato l’ingresso.

IX. — Il conte di Montescaglioso, sicuro che tutti ignoravano la cospirazione, cominciò ad esporre la sua indigenza, per non bastare al suo mantenimento la contea di Montescaglioso, e dimandò o il principato di Taranto o la contea di Policastro; e ciò per riportarne dal gran cancelliere una negativa, che gli avesse porto il destro d’inveire contro di lui. Qui, levatosi il conte di Gravina, si diede a rinfacciargli la turpe condotta e il delitto di metter discordia tra la regina e il re suo figliuolo, insinuando a quella di guardarsi del mal animo di questo verso di lei, e consigliandola a ritirarsi nelle sue castella co’ suoi tesori, prima che le fossero tolti di forza; e al tempo stcsso consigliava il re ad allontanar la madre, che sprecava balordamente le reali entrate e mandava il regno sossopra; e che il giovane re avea risposto, che più che dalla madre, avea ragione di diffidare di chi gli dava tali consigli. « contento» soggiunse quel conte «a tanta iniquità, hai cospirato per metter a morte il gran cancelliere. Dichiara, se puoi, qui in presenza del re, qual delitto a lui apponi; t’è grave ch’egli abbia quell’autorità che tu non hai? Sii a lui pari in virtù, se vuoi esserlo in autorità; ma quest’autorità, che per le tue nequizie non avresti mai potuto legalmente ottenere, cerchi ora usurpare colla cospirazione che hai ordito, per cui ti sei fatto meritevole perdere, non che la contea, la vita

Quel conte, confuso al veder palesate, quando men lo credea, tutte le sue azioni, smagò; volea rispondere e balbutiva più del solito; pure negava d’aver cospirato contro il gran cancelliere. Qui chiamato il giudice, che avea svelata la congiura, confermò quanto avea detto. A ciò lo sciaurato conte perdè la scrima, cominciò a chiamar quel giudice spergiuro, traditore, infame delatore, e con ciò venne a confessare il suo delitto; per che la corte ne ordinò la carcerazione. Saputo in città d’essere egli carcerato, i suoi Spagnuoli corsero a chiudersi nella casa di lui; tutta la città fu in moto; molti pigliavan le armi. Il gran cancelliere e il conte di Gravina fecero venire tutti i loro militi a difesa del Palazzo della corte. Regî uffiziali furono destinati a correr per le strade a sedare il tumulto. Con una grida fu ordinato che tutti i soldati spagnuoli sgombrassero d’un subito, altrimenti il domani, quanti se ne sarebbero trovati in città, sarebbero carcerati. Lasciate le armi, costoro si recarono in Calabria, ove, soprappresi e spogliati dai Greci ivi occorsi, perirono di fame e di disagio in quei boschi.

Spaventati da quell’esempio di rigore, alcuni dei congiurati volontariamente si palesarono; altri ne furono scoperti e venivano a scoprire nuovi compagni; e così venne a conoscersi il gran numero, e la potenza dei cospiratori. Molti degli amici del gran cancelliere lo consigliavano ad usar clemenza più presto che rigore; e, gastigato il conte di Montescaglioso, perdonare tutti gli altri, avanti che trarsi addosso l’odio della maggiore e miglior parte della nazione, con punirli; ma prevalse la contraria sentenza del conte di Gravina che volle trar vendetta del conte di Molise, che lo avea fatto allontanar dalla corte. Dopo pochi giorni, convocato di nuovo il Parlamento, Boemondo di Tarso, giovane chiaro per sangue e per virtù, levatosi accusò Riccardo di Mandra, conte di Molise, d’esser complice della congiura del conte di Montescaglioso e si dichiarò pronto a provar colla spada la verità della accusa. Il conte lo chiamò mendace, piangea di rabbia e piangendo gridava: esser pronto a combattere, non che l’accusatore, ma con due altri a lui pari. Il parlamento a quei detti inchinava in favor suo: ma il conte di Caserta soggiunse alla prima accusa, d’aver egli, senza il consenso del re, usurpato la terra di Mandra e parecchi castelli presso Troja. A ciò egli rispose: Mandra essergli stata data a tenere dal gaito Pietro, quando in nome del re governava il regno, a patto di pagarne una rendita al re; ed i castelli essergli stati concessi dal camerario di quelle parti. Chiamato quel camerario, negò d’aver fatta tale concessione. Il parlamento destinò l’alta corte de’ pari ad esaminare i fatti e decidere. Era la corte composta dei conti di Monopoli, di Caserta, di Tricarico, di Avellino, di Sangro e di Geraci; dal gran giustiziere Rugiero di Tours, e dai giustizieri Florio di Camarota, ed Abdenago di Annibale (280).

La corte, esaminata la cosa, decise, che il conte di Molise potea aver tenuto la terra di Mandra legittimamente finchè governò il gaito Pietro; ma dopo la fuga di lui, essendo il re insciente di ciò, il suo possesso divenne illegittimo; ed essere stati usurpati al re gli altri castelli. Come il conte di Monopoli pubblicò la sentenza, il conte di Molise, avventato com’era, gridò essere ingiusta e si dichiarò pronto a provarlo colla spada. Il conte di Monopoli vietò che alcuno rispondesse all’audace; dicendo: non a loro, ma al re esser diretta l’offesa. I vescovi furono destinati a condannarlo come sagrilego, giusta la costituzione di re Rugiero, per avere falsato il giudizio; e quelli dichiararono: esser i suoi beni, le sue membra e la sua vita a disposizione del re (281); ed immantinenti fu chiuso nel castello di Taormina.

Il conte di Montescaglioso era stato imprigionato nel castello di Reggio. Altri pochi de’ cospiratori furono chiusi in diversi castelli del principato di Salerno. Il conte di Gravina allora, dandosi vanto che per opera sua ogni cosa era tornato tranquillo, ne chiese in merito la contea di Lorotello e l’ottenne. Ciò destò generale dispiacere; perchè veniva così a chiudersi la strada al ritorno del conte di Lorotello, che tutti amavano; e venne ad accrescere ne’ nemici del gran cancelliere il desiderio d’allontanare lui e tutti i suoi Francesi, i quali miravano a ridurre nelle loro mani tutte le cariche e tutti i feudi del regno. La regina in questo, avea disposto di rimandare in Ispagna il conte di Montescaglioso suo fratello, datogli mille once; e, perchè dovea lasciar la Sicilia e fare ritorno in Francia Otone Quarrel, si diede a lui ordine di apprestare per quel viaggio sette galee, menar seco quel conte e lasciarlo nella spiaggia d’Arli. Date tali disposizioni, la corte fece ritorno in Palermo addì 20 marzo di quello anno.

Comechè il gran cancelliere, carcerati i conti di Montescaglioso e di Molise e pochi altri, non avesse voluto che si fosse andato più oltre nel punire gli altri cospiratori, anzi si fosse mostrato più benigno verso di essi, non potè vincere la pervicacia loro. Il gaito Riccardo gran camerario, il protonotajo, Gentile vescovo di Girgenti e tutti i loro consorti, fatto cuore per lo ritorno in Puglia del conte di Gravina colla sua gente, rannodarono le fila della cospirazione e stabilirono di mettere a morte il gran cancelliere nella domenica delle palme, come sarebbe per venir fuori del palazzo accompagnando il re. Poco avevano a stentar costoro nel procurar compagni; dachè la rapacità dei francesi, familiari del gran cancelliere, ben li favoriva. Primajo fra questi era Giovanni di Lavardino, al quale egli avea fatto concedere Caccamo e le altre terre, che erano appartenute a Matteo Bonello. Costui obligava i borgesi di quei luoghi a pagargli l’insolito e pesantissimo tributo della metà di tutti i loro beni mobili, dicendo, tale esser l’uso di Francia. Replicavan que’ meschini: in Sicilia esser tenuti ad annue prestazioni solo i Greci ed i Saracini che villani erano; esser loro uomini liberi, che all’infuori di volontarî donativi, in casi straordinarî, nulla pagavano; quella consuetudine potea valere in Francia, ove non eran cittadini liberi (282), non in Sicilia. Ma le loro suppliche furono dal gran cancelliere respinte; perchè i suoi gli fecero capire che menando buone le costoro dimande, tutti gli abitatori dei feudi si sarebbero levati in capo. Quei meschini allora cominciarono ad anelare più degli altri di torsi da dosso quel governo; e però molti di buona voglia entrarono nella cospirazione.

Il gran cancelliere, che non dormiva sugli andamenti dei nemici suoi, convocò il parlamento: il gran protonotajo, convinto del suo delitto, fu carcerato; il vescovo di Girgenti, vistosi a mal termine, fuggì a Girgenti, ove cercò di ribellare gli uomini di quelle parti; ma soprappreso dal giustiziere della provincia, provato dal parlamento il suo delitto, fu chiuso nel Castello di Sammarco; il gaito Riccardo, per la protezione della regina, non fu carcerato, ma in quella vece fu arrestato nel real palazzo, col divieto di conversare coi soldati.

X. — In questo, il rapace Quarrel, lungi di partire al più presto e menar seco il conte Montescaglioso, come gli si era ordinato, si stava in Messina ad estorquere danaro a tutti quei mercatanti, che quindi si recavano in levante. Il popolo, non potendone più, tolta occasione da una rissa tra Greci e Francesi, compagni di lui, levatosi in capo, corse a Reggio ed a Taormina e ne trasse i conti di Montescaglioso e di Molise. Assalita poi la casa, ove il Quarrel al primo destarsi del subuglio s’era ritratto, ne lo trasse fuori, lo condusse per la città sur un asino, l’uccise, lo fece in pezzi e tale vi fu, che lambì il sangue che grondava dal pugnale, con cui lo avea trafitto.

Giunto in Palermo l’annunzio di tali avvenimenti, voleva il gran cancelliere correr diviato ad assalire Messina e punire i sediziosi; ma non si volle far mossa prima del giorno che sarebbero per indicare gli astrologhi, i quali erano forse indettati cocapi della cospirazione. Ma invece del giorno fausto ne sopravvenne uno infestissimo. Il gran protonotajo ed il gaito Riccardo ribellarono i servi del palazzo, i quali sparsi per la città levarono la marmaglia a tumulto. Si corse ad assalire il palazzo arcivescovile; ma i Francesi, che lo guardavano, resero vano ogni sforzo per espugnarlo; il gran cancelliere con i baroni, ch’erano dalla sua, ed ad alcuni Francesi, si ritrasse nel campanile del duomo; le truppe regie, comandate dal gran contestabile, ch’erano occorse per sedare il tumulto, furono volte in fuga; il gran protonotajo ed il gaito Riccardo, venuti fuori dalla prigione, fecero per la città suonare le trombe di guerra; a quel suono cristiani e saracini, credendolo ordine del re, accorrevan da tutte le parti ad ingrossar la torma degli assalitori; nel tempio stesso, ove i sediziosi, sfondatone od incese le porte, eran penetrati, acremente si pugnò; ma non venne facile del pari espugnare il campanile; finalmente i capi della cospirazione, temendo non la furia del popolo venisse ad intepidire e l’autorità del re a prevalere, proposero patti di pace, che furono accettati: il gran cancelliere si mettesse tantosto in barca per andarne in Siria; imbarco fosse procurato a tutti i francesi seco venuti; non fosse recata veruna molestia ai baroni siciliani, che avean seguito la sua parte. Giurate tali condizioni da Riccardo Palmeri, dal gran protonotajo, dal gaito Riccardo, da Romualdo arcivescovo di Salerno e Giovanni vescovo di Malta, capi della cospirazione, il gran cancelliere venne fuori, e condotto al lido, fu posto sopra una galea già preparata. Prima di partire i canonici di Palermo lo richiesero di rinunziar la sua elezione, lasciarli in libertà di scegliere il nuovo arcivescovo; a ciò, non potendo far altro, acconsentì. Trasportato da una tempesta in Alicata, comprata ivi una barca genovese, perchè la sua galea non potea più tenere il mare, navigò in Siria, ove ivi a poco si morì (283).

Gli altri Francesi, chiusi da prima ne’ castelli di Partinico e di Carini apprestato loro l’imbarco, andarono via anch’essi. Lasciò allora la Sicilia Pietro di Blois, ch’era venuto precettoro del re, il quale andò a stabilirsi in corte d’Arrigo II re d’Inghilterra, e quindi scrivea a Riccardo Palmeri: «Vi ringrazio di tutto cuore del vostro desiderio del mio ritorno; ma la Sicilia, pel suo clima e per la nequizia degli abitanti, m’è divenuta odiosa; me la rendono abominevole il clima mal sano, la crudelissima frequenza di veleni, che mette in pericolo l’incauta semplicità dei nostri. Chi può con sicurezza abitare un paese, ove a di più d’altri mali, i monti vomitano fiamme e mandano vapori sulfurei? Certo è questa la porta dell’inferno, di cui fu scritto: A porta inferi erue, Domine, animam meam. Voi avete preso in abbominio la dolcezza del clima e gli allettamenti del paese natìo e vi siete avvicinato alle porte della morte. Quanto si mangia o si beve qui è salutare e gradito; costì non mangiano altro che sedani e finocchi. Aggiungete ciò che sempre si legge nel libro dell’esperienza, di essere tutti i popoli isolani infidi, ma i Siciliani essere amici sofistici e nemici occulti ed atroci. L’Inghilterra, che nutrì voi fanciullo, nutrisca me vecchio. Facci Dio che voi, padre, lasciaste codesta terra montuosa e mostruosa, e ritornaste alla dolcezza del clima natìo (284).»

XI. — Le idee del dabbenuomo erano travolte dalle perturbazioni, di cui era stato spettatore: queste cessarono dopo la sua partenza. Sopraggiunti i conti di Montescaglioso e di Molise, ai quali s’era unito Rugiero conte di Geraci, cancellate le sentenze contro loro proferite, tornarono nella grazia del re. Gentile vescovo di Girgenti fu richiamato. Il governo venne in mano di dieci ministri, ch’erano gli autori della rivoluzione; Riccardo Palmeri, Gentile vescovo di Girgenti, Romualdo arcivescovo di Salerno, Giovanni vescovo di Malta, i conti di Geraci, di Molise e di Montescaglioso, il gran protonotajo Matteo, il gaito Riccardo e Gualtiero decano di Girgenti, precettore del re. Primo pensiero di costoro fu d’espellere dal regno il conte di Gravina e ’l conte d’Andria, suo figliuolo. Fu stabilito di rimandarli senza molestia, se di queto s’allontanassero; stringerveli colla forza, se volessero difendersi. Quelli abbandonati da tutti, dato in mano del conte di Fondi i loro tesori, andarono via; guari andò, che l’antico conte di Lorotello ebbe la grazia del ritorno, e, non che gli fu restituita la sua contea, ma ebbe concessa anche l’altra di Conversano. Ugone conte di Catanzaro, anche consanguineo dell’espulso gran cancelliere, fu il solo che non ebbe molestia, per essere un bietolone, da cui nulla era da temere.

Pochi giorni dopo i canonici di Palermo scelsero in arcivescovo l’inglese Gualtiero Offamill, decano di Girgenti, che uno dei ministri era. La regina e tutti gli amici di Stefano speravano che il papa non avrebbe confermata la nuova scelta, ed a tale oggetto avea mandato a Roma settecentonce; ma il papa, che non volea disgustare i baroni siciliani, dai quali altronde ben altro danaro era stato offerto (285) di che gran bisogno avea, per difendersi dall’imperadore Federigo Barba-rossa, confermò la scelta. Ma le speranze della regina per lo ritorno di Stefano andaron tutte perdute, quando giunse la notizia della sua morte.

Pur comechè l’oligarchia sembrasse allora solidamente stabilita; breve durò. Il nuovo arcivescovo di Palermo, che godeva l’intera fiducia del re, già presso ad uscir di tutela, ebbe egli solo tutta l’autorità, e da lui dipendenti restarono Matteo d’Ajello già gran protonotajo, il quale restò ad esercitare la carica di gran cancelliere col titolo di vice-cancelliere, e Gentile vescovo di Girgenti.

XII. — Alle civili dissensioni tennero appresso spaventevoli fenomeni fisici. Addì 4 di febbraro del 1169 un fortissimo terremoto scosse la Sicilia e la vicina Calabria; Catania ne fu interamente distrutta, quindicimila persone restarono sepolte sotto le rovine, e fra questi il vescovo con quarantacinque dei suoi monaci; Lentini e molte castella tra Siracusa e Catania patirono la stessa sventura; il castello di Siracusa quasi interamente andò giù; le acque d’Aretusa indi in poi vennero torbide e salmastre; la copiosissima sorgente di Tavi, onde derivano i fiumi Dittaino e Sanleonardo, per due ore non mandò più acqua, che poi ricomparve per alcun tempo sanguigna; il mare di Messina, ritiratosi prima, ringorgò con tal’impeto, che, superato il lido e le mura stesse della città, dilagò per le strade; il vertice dell’Etna, dal lato di Taormina, fu visto più basso (286). Fu questa l’ultima delle calamità, che afflissero allora la Sicilia.

Cominciato Guglielmo a regnare da , Emmanuele Comneno, imperadore di Costantinopoli, per suoi ambasciatori mandò ad offerirgli in moglie la sua figliuola Zura Maria (287) accettato il partito, fu convenuto il giorno ed il luogo, in cui il greco imperadore dovea mandare la figlia; e, giusta il costume de’ tempi, i grandi delle due corti giurarono pei rispettivi sovrani l’osservanza della convenzione. Avvicinandosi poi il giorno posto per l’arrivo della sposa, re Guglielmo, passato nel continente, venne a fermarsi in Taranto; ma ivi ebbe un bell’aspettare; l’infido greco pentito dallo sponsalizio, non volle mandar più la figliuola. Mentre il re colà si trovava, Arrigo principe di Capua fratello di lui, che lo avea accompagnato, ammalatosi, fece ritorno in Palermo, ove morì addì 19 di giugno del 1172. Il re, che sopraggiunse tre giorni dopo la morte del fratello, ne fu dolentissimo, lo fece seppellire nel duomo di Palermo, accanto il sepolcro del re Rugiero suo avo. Dopo la morte di questo principe nissuno fu più investito del principato di Capua, che indi in poi restò, come le altre provincie, sotto il diretto dominio de’ re di Sicilia.

Ardeva in questo da più anni la guerra tra lo imperatore Federico Barba-rossa e papa Alessandro III, al quale erano collegati i Lombardi e il re di Sicilia. Lo svevo, dopo d’avere battagliato con varia fortuna in Italia, per istaccar dalla lega il re Guglielmo, mandò ad offrirgli la sua figliuola in isposa, a patto di conchiudere una pace particolare. Guglielmo, che leale fu sempre nelle sue promesse, ricusò l’una e l’altra proposizione.

XIII. — Era allora poco di lungi da Palermo un luogo di delizia lieto di copiose acque, di ameni giardini, di folti boschi, abbondantissimi di selvaggiume, ove i re normanni andavano spesso a diporto ed a caccia; e però avea nome Monte-reale. Ivi re Guglielmo nel 1174 fabbricò un magnifico tempio con un monastero di benedettini; contento all’averlo generosamente dotato ed al privilegio ottenuto da Papa Alessandro III d’esser quel monastero esente della giurisdizione di qualunque vescovo, lo volle eretto in arcivescovado; e ciò gli venne accordato nel 1182 da papa Lucio III il quale statuì che gli abati dal monastero fossero arcivescovi ed i suoi monaci fossero i canonici di quel duomo. Venutosi popolando quel sito, vi sorse la città, detta oggi Morreale.

XIV. — Tali religiose occupazioni non distoglievano il re ed i suoi minisiri dal pensiero del suo maritaggio, intanto più divenuto necessario, in quanto, morto il principe di Capua, che era promesso sposo d’una figliuola del re di Scozia, non restava altro maschio legittimo della famiglia sovrana. Riccardo Palmeri, che allora era già vescovo di Siracusa (288), propose la principessa Giovanna figliuola di Arrigo II re d’Inghilterra; assentitovi il re e gli altri ministri, e particolarmente l’arcivescovo di Palermo, inglese anch’esso, furono spediti ambasciatori a farne la richiesta ed a stabilire i patti del matrimonio, Elìa eletto vescovo di Troja, Arnaldo vescovo di Capaccio e il giustiziere Florio di Camarotta.

Giunti costoro in Inghilterra, esposero la domanda, di cui erano incaricati. Re Arrigo, inteso prima il parere di tutti i vescovi, i conti ed i baroni, che riunì in Londra, aderì alla proposizione e rimandò in Sicilia il vescovo di Troja, accompagnato dal vescovo di Norvich, dall’arci-duca di Rochester e da altri suoi ambasciadori, per darne notizia a re Guglielmo, Poco di poi, la principessa, accompagnata da Egidio vescovo di Eureaux e da altri cortigiani, lasciò l’Inghilterra. Giunta a S. Giles nella spiaggia di Linguadoca, vi trovò Alfano Arcivescovo di Capua, Riccardo vescovo di Siracusa e Roberto conte di Caserta con venticinque galee siciliane, che stavano ad aspettarla; passata sulla capitana, si rimise in mare e dopo lungo e nojoso viaggio giunse in Napoli; quindi volle continuare il cammino per terra; giunta a Palermo, vi fu accolta con istraordinarie dimostrazioni di gioja; si fece tanta luminaria, che Hoveden, storico inglese di quell’età, che in corte di re Arrigo era, dice che la città pareva andare in fiamme e ’l lume oscurava le stelle del cielo (289). Fatti i necessarî appresti, nella real cappella furono celebrate le nozze in presenza dei messi del re d’Inghilterra, di cinque arcivescovi, dieci vescovi, cinque conti ed i grandi uffiziali del regno; ed ivi stesso fu la regina coronata addì 17 di febbraro del 1177. Il re allora per dotario di lei le concesse la contea di Monte sant’Angelo in Puglia, le città di Siponto e di Vieste ed altre larghissime possessioni.

XV. — Mentre in Sicilia si gioiva per le regie nozze, l’alta Italia era dilaniata dalla guerra che ardea fra l’imperador Federigo Barba-rossa, le città di Lombardia, papa Alessandro III e re Guglielmo. Federigo finalmente, perduta la battaglia di Carrobio, fece proporre al papa un congresso a Bologna, per trattare la pace. V’aderì il pontefice coll’espresso patto che dovesse fra gli altri intervenire il re di Sicilia, senza il di cui assenso non sarebbe mai per venire ad alcun patto. Ciò conchiuso, re Guglielmo destinò suoi ambasciatori Romualdo arcivescovo di Salerno e il conte d’Andria gran contestabile e gran giustiziere di Puglia e di Terra-di-lavoro.

Giunti in Venezia, per passare quindi in Bologna, papa Alessandro e gli ambasciatori siciliani, l’Imperadore mandò colà l’arcivescovo di Magdeburgo ed il vescovo eletto di Vormazia a complimentare il pontefice, a proporgli di trasferire il congresso da Bologna a Venezia. Conosceva il pontefice d’esser quella città mal sicura per lui, per essere i Veneziani della fazione imperiale; per che poteva essere ivi esposto ad alcun soprammano; ciò non di manco, perchè volea sinceramente la pace, col consenso de’ Lombardi vi aderì, a patto che il governo veneto promettesse di vietare allo imperadore l’ingresso nel territorio della repubblica, senza il consenso del papa. Avuta tale promessa, cominciarono le trattative; ma queste andavano in lungo e forse artatamente. Papa Alessandro, per allontanare le difficoltà, propose ai ministri dell’imperatore di conchiudere la pace perpetua colla romana corte, una pace di quindici anni col re di Sicilia, ed una tregua di sei anni colle città lombarde (290), durante la quale si potevano a grand’agio esaminare i diritti e le querele di esse, per cui allora insorgevano molte difficoltà. I ministri imperiali, avutone il consenso dell’imperatore, vi aderirono; e, per sollecitare la conchiusione de’ trattati, pregarono il papa a permettere che l’imperatore venisse a Chiazza; e ’l pontefice il consentì. Come vi giunse, molti dei Veneziani mandarono secretamente ad offerirgli di farlo entrare in città a dispetto dei suoi nemici: fidato su tale promessa, quando i messi del papa vennero in sua presenza, pregandolo a confermare la pace conchiusa dai suoi ambasciatori, si mostrò ignaro di ciò che nel congresso di Venezia si era fatto.

Al tempo stesso la plebe della città trasse al palazzo ducale, chiedendo ad alte grida che l’imperatore entrasse in città. Il doge stava infra due: alcuni del popolo vennero alla casa, ove il papa era, insolentemente entrarono nella sua camera, mentre egli dormiva, e gli dissero esser volontà del doge e loro che l’imperadore entrasse in Venezia. Il papa disse loro: dover chiamare i suoi cardinali a consiglio; ed il domane avrebbe data risposta. Papa Alessandro si trovò allora in gravissimo rischio; gli ambasciadori siciliani lo salvarono. Vennero ad offrirgli di menarlo altrove su quattro galee loro. Corsero poi al doge, dicendogli che il loro soggiorno era pericoloso in una città, in cui non si tenevano le promesse; avrebbero di presente fatto ritorno in Sicilia; penserebbe re Guglielmo come punire la slealtà di Venezia. Ritornati a casa, si diedero a disporre tutto per la partenza. La loro minaccia non era lieve. Aveva non guari prima la repubblica conchiuso un trattato di commercio col re; per cui in quel momento gran numero di navi veneziane erano ne’ porti di Sicilia; ed assai mercatanti erano venuti a stabilirvi i loro fondachi. I Veneziani però entrarono in paura che, giunti gli ambasciatori in Sicilia, il re, per giusta rappresaglia avrebbe fatto arrestare le navi, i mercatanti, le merci Venezia. Tutti i negozianti corsero al doge, facendo conoscere il male che sarebbe incolto alla repubblica, se venivano a rompersi le conferenze. Il doge ebbe a cedere; non si parlò più dello ingresso dell’imperadore; questi, fallitogli il colpo, divenne più docile, la pace fu conchiusa e giurata dallo istesso imperadore e dodici magnati tedeschi, per parte di Arrigo suo figliuolo, nell’agosto del 1177.

Ritornati gli ambasciadori in Palermo, furono altamente lodati dal re, il quale promise di ratificare con suo giuramento la pace di 15 anni da essi conchiusa.

Nel seguente maggio arrivarono in Palermo gli ambasciatori di Federigo, per avere la ratifica del trattato. Il conte d’Avellino ed undici altri baroni ne giurarono sull’anima del re l’osservanza. Il re fece spedire il diploma di tal giuramento, al quale affisse il bollo d’oro. Gl’imperiali messaggieri fecero ritorno, accompagnati, secondo il costume, da uno scudiere del re. Giunti a Lagonero presso Salerno, nata una rissa tra lo scudiere ed alquanti contadini, quello, per salvarsi, entrò nella casa, in cui gli ambasciadori riposavano; i contadini infuriati vi penetrarono di forza; malmenarono gli ambasciatori ruppero lo scrigno d’uno di essi e ne trassero una coppa d’argento e il diploma. Avutone avviso il re, spedì severi ordini ai giustizieri di quella provincia di carcerare e punire colla massima severità i malfattori. In poco d’ora molti ne furono presi e fatti impiccare in Barletta, in Troja, in Capua, in Sangermano. Un nuovo diploma fu spedito a quegli ambasciatori, i quali, contenti della giustizia del re, andaron via.

Inesorabile era Guglielmo nel punire i malfatti. In quello stesso anno alcuni di Fajano misero a morte l’abate del monastero de’ Benedettini di Salerno; il re, saputo il caso, ordinò ai giustizieri la punizione degli uccisori. Questi carcerati dissero d’essere mandatarî del priore del monastero e di quello del monastero di Fajano; il sacro carattere di costoro non li sottrasse al meritato gastigo.

XVI. — La pace conchiusa coll’imperadore fu per essere rotta, prima di spirare i quindici anni. La regina Giovanna, dopo più anni di matrimonio, non avea dato alcun figliuolo al marito, che cominciava a perdere la speranza di prole; e però era assai probabile che fosse venuta a succedere Costanza figliuola postuma di re Rugiero; perocchè Tancredi conte di Lecce cugino del re, nato da Rugiero duca di Puglia suo zio, era da tutti tenuto bastardo, per non essere stato il matrimonio del duca di Puglia colla contessa di Lecce validato dall’assenso del re suo padre dall’ecclesiastiche formalità. Federico Barba-rossa, cupido di estendere la sua dominazione in Italia, pose l’animo alle nozze di quella principessa con Arrigo suo figliuolo e successore. Avea egli già convertita in istabile pace la tregua di sei anni convenuta colle città Lombarde. Nel 1185 venne in Italia, come per visitare le città, colle quali s’era pacificato, e cominciò a far secrete mene coll’arcivescovo Gualtiero, per indurlo a dar mano a quel matrimonio. Guadagnandolo, mandò ambasciadori in Sicilia a proporre di render perpetua la pace temporale, che era per ispirare ivi a settanni, a patto che il suo figliuolo Arrigo menasse in moglie la Costanza e fosse riconosciuto il dritto di essa alla successione, nel caso che il re venisse a morire senza figliuoli.

Proposto l’affare nel consiglio del re, lungo fu il dibbatto. Tutti i consiglieri, e più che altri il vice-cancelliere Matteo, furono d’avviso, doversi respingere la proposta: essere, dicevano eglino, quel maritaggio per arrecare gran calamità al regno, il quale perduta la sua indipendenza, sarebbe divenuto provincia della Germania; i beni, la libertà, le franchigie dei siciliani sarebbero per divenire esca alla ferocia, alla rapacità d’un popolo straniero; essere a tutti palesi le sevizie, alle quali erano esposte le città lombarde soggette al dominio dello Svevo; essere di rammentare i fiumi di sangue che Federico avea fatto scorrere in Italia; solo con uno scettro di ferro potere i Tedeschi reggere popoli in tanto più impazienti del loro giogo; in quanto erano da essi differenti di costumi, e superiori di civiltà, di ricchezza, d’ingegno, di sapere. Rispondeva l’arcivescovo: non essere da temere mali minori, se il re venisse a morire senza avere assicurato la successione; essere i dominî del re composti di stati indipendenti l’uno dall’altro, i quali rotta la successione, sarebbero per divenire nemici; estinta la legittima discendenza maschile, senza che la principessa Costanza fosse maritata, molti e potenti essere coloro che potevano aspirare al trono, sarebbero per mancare ad ognuno di costoro partigiani; il regno intero sarebbe per essere deserto dalle guerre intestine; solo il braccio potente di Federico poter frenare le private ambizioni; essere con più ragione da temere che lo Svevo, invece di giungere al trono di bel patto, avvantaggiandosi delle interne scissure, venisse ad insignorirsi del regno di viva forza, nel qual caso più sfrenate sarebbero le crudeltà sue e la rapacità de’ suoi.

Guglielmo, cui la pace del regno stava tanto a cuore; malgrado il contrario parere degli altri suoi consiglieri e le insinuazioni di papa Urbano III, al quale quel maritaggio non andava a sangue, aderì al sentimento dell’arcivescovo; conchiuse il matrimonio; e per prevenire ogni disturbo, fece al parlamento riconoscere il dritto di Costanza al trono e giurare di prestarle ubbidienza come regina, nel caso ch’egli venisse a morire senza figliuoli legittimi. La sposa con onorevole corteo, menando seco cencinquanta somme d’oro, d’argento, di preziosi arredi, di sete, si recò a Milano, ove furono solenneggiate le nozze, ed al tempo stesso vi fu coronata regina di Germania (291).

XVII. — Pur comechè Guglielmo tanto avesse avuto a cuore la pace del regno, che conchiuse quel matrimonio in onta ai consigli dei suoi ministri ed alla volontà papa Urbano, per non metterla in pericolo, non ischivava la guerra, ove la giustizia e l’onor del regno la rendevano necessaria; e le armi siciliane furono allora da per tutto temute. Un’armata di cencinquanta galee, accompagnata da dugencinquanta legni da carico, espugnò nel 1175 Alessandria e ne trasse ricchissimo bottino. Il castello di Celle, posto sul confine della Puglia, preso d’assalto nel 1176 dall’arcivescovo di Magonza, che comandava l’esercito dell’imperadore Federico, fu da un esercito siciliano ripreso. Tripoli ed Antiochia, stretti da Saladino, sultano d’Egitto, furono dalle armi siciliane nel 1178 liberate. Altre forze mandò in quelle parti re Guglielmo nel 1180, che si unirono a quelle mandate da Riccardo d’Inghilterra e da Filippo di Francia per soccorrere il cadente regno di Gerusalemme. Nello stesso anno o nel seguente una armata siciliana, venuta alle mani colla marocchina, molti di quei legni affondò, molti ne prese, fra’ quali quello, su cui era una figliuola del re di Marocco, che andava a maritarsi con un principe saracino di Spagna; il Marocchino, per riavere la figlia, conchiuse una lunga tregua col re di Sicilia, manca chi dica d’avere restituita la città di Mahadia. Aveva allora usurpato il trono di Costantinopoli il feroce Andronico, messo a morte l’imperadore Alessio II, e faceva scorrere a fiumi il sangue dei sudditi e particolarmente de’ Latini; Alessio Comneno, principe del sangue imperiale, fuggito dalla Siria, ove era stato dall’usurpatore esiliato, venne in Sicilia ad implorare il soccorso di Guglielmo. Un’armata sotto il comando di Tancredi conte di Lecce cugino del re, ed un esercito capitanato dal conte Arduino e dal conte della Cerra, furono mandati in Romania. Presa d’assaldo Durazzo, Tessalonica e molte altre città, l’esercito siciliano si avvicinava a Costantinopoli. Quel popolo, visto il presente soccorso, tumultuò; l’usurpatore fu preso e fatto morire con atroci tormenti; ma Alessio non ebbe il trono; Isacco l’Angelo lo occupò e seppe difenderlo. In una lunga ed aspra guerra perirono dieci mila de’ Siciliani, e quattromila ne restarono prigioni; la pace finalmente fu conchiusa mentre re Guglielmo apprestava nuove forze, che presto ebbe occasione d’usare altrove. Il pro Saladino, prese Tiberiade, Tolemaide, Afe, Cesarea, Nazzarette, Bettelemme, fatto prigione Guido di Lusignano, re di Gerusalemme, s’era nel 1187 fatto padrone della stessa Santa città. A tale avviso i papi aveano sollecitato i principi d’Europa a correre in oriente con le forze loro; l’imperadore di Germania, i re di Francia e d’Inghilterra, il conte di Fiandra ed altri principi, s’erano accinti all’impresa. Guglielmo, comechè religiosissimo, seguì la condotta de’ suoi predecessori, i quali erano stati sempre pronti ad ajutare i cristiani d’oriente, ma non ebbero mai la follia d’abbandonare e disertare i loro stati, per andare a versare fiumi d’oro e di sangue in paese straniero e lontano. Senza pigliar la croce egli stesso, mandò nel 1188 in Levante un’armata di dugento navi, comandata da Margaritone da Brindisi suo grande ammiraglio, tanto valente in mare che era soprannominato Nettuno o re del mare, per soccorrere Antiochia, Tiro, Tripoli, sole città che restavano ai cristiani in quelle parti. L’armata musulmana fu da lui interamente distrutta, Antiochia fu conservata; Saladino ebbe a levar lo assedio di Tripoli.

XVIII. — Fu questo l’ultimo trionfo del buon Guglielmo, il quale soprappreso da gagliarda febbre, addì 16 di novembre del 1189 si morì, nel 36 anno dell’età sua, e 24 del suo regno. Il suo cadavere seppellito in Palermo, fu poi trasferito, come era stato suo volere, nel Duomo di Morreale, ed ivi deposto accanto al padre in un sarcofago umile e mal conveniente a tanto principe, finchè nel 1575 dall’arcivescovo De Torres ne fu tratto per metterlo nel magnifico sepolcro da lui erettovi, che anche venne distrutto nell’incendio del 1811.

Nel riandare la vita di questo re non puoi fare che non ti s’affacci alla mente il pensiere di esaminare fino a qual segno sia stato egli meritevole del soprannome di buono, con cui è stato contraddistinto. Il contrapposto col padre avrebbe potuto farlo apparire ai sudditi migliore di quel che era; ma ciò avrebbe solo potuto dare un momentaneo splendore al suo nome. La sua generosità verso la chiesa avrebbe potuto attirargli i plausi del clero, che in quell’età molto valea sulla publica opinione; ma anche Guglielmo I fondò chiese e dotò monasteri. Guglielmo II è stato detto il buono, non il grande; buono sarebbe stato se avesse voluto tener dietro a quella funesta gloria che larga materia offre alle storiche narrazioni, e tanto accieca le menti, che fa perder di vista le lacrime e la desolazione de’ popoli. Nessuno ha osato ed oserà mai dire il buon’Alessandro, il buon Cesare, il buon Napoleone, comechè potessero narrarsene alcune lodevoli azioni. Per ben giudicare del carattere di Guglielmo II, non è da esaminare ciò che fece; ma ciò che non fece. Non varcar mai i limiti dalla legge prescritti; non patire che altri impunemente li varcasse; non romper mai la data fede; non gravare i sudditi di pesi straordinarii ed illegali, sono i vanti de’ buoni principi ed i vanti furono di Guglielmo II; un esempio la storia d’avere mai traviato da quella traccia. Coloro che hanno scritto che le colpe di Guglielmo I, più che a lui son da ascriversi ai rei ministri, avrebbero dovuto pensare, che in quell’età tanto licenziosa, in cui la forza privata veniva spesso alle prese colla pubblica autorità, ed anche più spesso la vincea; dopo un regno segnalato da continue cospirazioni, sommosse, guerre intestine, violenze pubbliche e privati delitti; dopo una minorità agitata dalla sfrenata ambizione de’ cortigiani; in un momento, in cui costoro aveano già sottomesso il regno e recato in loro mano tutta l’autorità del governo, non sì tosto Guglielmo II giunge a regnare da , i sediziosi depongono le armi, le fazioni spariscono, le leggi ripiglian l’impero. Onde ciò? Guglielmo I, venuto al regno, bandisce o mette a morte tutti i ministri del padre e si in braccio al solo Majone; Guglielmo II, cominciando a regnare, affida la somma delle cose all’arcivescovo Gualtiero; prelato insigne per senno, per virtù, per sapere; e tutti coloro, che tanto avean primeggiato nel passato regno e nella sua minorità, o non ebbero più autorità o l’usarono in bene. Indi avvenne che, tranne i due esempî di sopra citati, nissun atto di violenza fu mai commesso in tutto il suo regno. Quando papa Alessandro III congregò in Ferrara gli arcivescovi, i vescovi ed i magistrati delle città lombarde, per propor loro di trattar la pace coll’imperadore, disse: essere giusto che nel trattato intervenisse anche re Guglielmo; tutti applaudirono, dicendo: essere loro a grado l’intervento d’un principe tanto amante della pace e della giustizia, che nel suo regno i viandanti dormivano nelle pubbliche vie e nelle aperte campagne senza custodi e senza timore di perdere alcun che delle cose loro; perchè era più sicurezza ne’ boschi del regno di Sicilia, che non nelle città degli altri regni (292). E se ciò può ascriversi ad adulazione dell’arcivescovo di Salerno, plenipotenziario di re Guglielmo in quel congresso, certo non può dirsi lo stesso di Riccardo da Sangermano, che scrisse un mezzo secolo dopo la morte di lui. «Quando regnava Guglielmo» egli dice «le leggi e la giustizia erano in vigore; ognuno vivea contento della sua sorte; per tutto era pace, sicurezza per tutto, il viandante avea da temere le insidie de’ masnadieri, il navigante gli assalti dei corsali (293).»

È poi degno di gran lode Guglielmo II, per avere destinato sempre alle cariche uomini, che erano veramente da ciò. Gualtiero Offamil fu suo primo ministro; fu destinato al congresso di Venezia Romualdo arcivescovo di Salerno, per natali e per sapere a nissuno secondo. Margaritone da Brindisi avea il comando generale delle reali armate. Il valoroso Tancredi, conte di Lecce, ebbe spesso il comando degli eserciti. E colla stessa avvedutezza erano conferite le cariche minori.

minor lode si deve a quel buon principe pel favore a lui dato alle arti. Il duomo di Morreale, da lui eretto dalle fondamenta e recato a compimento da lui, è uno de’ più bei monumenti che restino oggi delle arti del medio evo. Sullo esempio del re l’arcivescovo Gualtiero eresse il duomo di Palermo, forse più magnifico di quello, oggi balordamente deformato. Ove si consideri il gran numero d’artisti d’ogni ragione ch’ebbero ad esser impiegati in tali due sontuosi edifizî, si vedrà di leggieri quale incremento ebbero ad avere le arti; perocchè il solo efficacissimo mezzo di promovere le scienze e le arti è quello di dar da vivere agli scienziati ed agli artisti.

E se la fabbrica del duomo di Morreale, i grandi armamenti, il ricchissimo dotario della principessa Costanza mostrano d’essere stato re Guglielmo uno de’ più doviziosi principi dell’età sua, bello è il considerare che le sue dovizie non costarono mai lacrime o rancore ai sudditi, dai quali nulla oltre la legge esasse mai; e però i Siciliani, stanchi delle illegali prestazioni nei tempi posteriori introdotte, cacciati gli Angioini, gridavano di rimettersi il regno nello stato, in cui era sotto Guglielmo il buono.





271 Di Blasi (tom. V, lib. VII, sez. III. cap. VI) dice: Noi ignoriamo dagli scrittori che abbiamo per le mani, che sorta di dazio fosse codesto, e perchè fosse così chiamato. Ugone Falcando, che ne fa motto, non istimò di dircelo, e Pietro Giannone non seppe altro dirci che ciò che rapporta il Falcando, Monsignor Francesco Testa, dietro la scorta del chiarissimo Ludovico Antonio Muratori, ci avvisa, che codesta era un’imposizione, che costumavano i popoli settentrionali, di mettere come un compenso ai delitti. Se costoro avessero posto mente alle parole del Falcando (Ivi, Tomo I, pag. 414) avrebbero trovato, che lo storico, nel descrivere l’ultima rivolta di Puglia, dice che re Guglielmo alle città che avean partegiato pel conte di Lorotello e si arrendevan di queto: certam pecuniae quantitatem redemptionis nomine sibi pendere costituit.... justum existimans ut qui domos et possessiones suas, hostibus se dedendo, debuerant rigore juris amittere, levi saltem eas precio redimere cogerentur. Ecco dunque che sorta di dazio era, e perchè così chiamato.



272 Gibbon, Hist. of the decl. and fall of the R. E. chap XLIX, not. 142.



273 Questo quartiere era presso il real palazzo, dal lato meridionale; si diceva Kemonia, che in lingua araba suona torrente, dal fiume Oreto che vi scorrea, ed andava a metter foce nel porto meridionale della città, che si estendeva fin quasi al Ponticello.



274 Il Falcando dice che il fatto accadde: Cum ad palatium Episcopi comites, aliique familiares curiae convenissent; ma non saprebbe dirsi perchè quella riunione ebbe luogo nel palazzo dell’arcivescovo di Palermo, di cui dovrebbe intendersi, perchè gli altri vescovi non avean palazzo in Palermo.



275 Ille tametsi non ambigeret, hos adversum se machinationum rivulos de Majonicis fontibus emanasse..... Falcand., ivi, pag. 455.



276 Lo stesso, ivi pag. 457.



277 Quem..... rex Navarrorum numquam filium suum vel esse credidit, vel dici voluit; indignum existimans eum, quem mater multorum patens libidini vulgo concepisset, regis filium appellari. Falcand., ivi pag. 457. Convien credere che costui fosse stato figliuolo naturale del re di Navarra, altrimenti uno scrittore contemporaneo non avrebbe osato dir tanto d’una regina di Navarra, madre della regina di Sicilia.



278 Convien credere che l’avere Roberto riedificata a sua spesa la moschea, onde si avrebbe potuto provare la sua apostasìa, non sia stato legalmente provato, perocchè l’apostasia avrebbe dovuto essere di competenza della corte ecclesiastica.



279 Falcand., ivi pag. 470.



280 Il Falcando (Ivi pag. 473) nel narrare questi fatti va errato nel nominare i magistrati. Dice che Rugiero di Tours era Magister comestabulus; il gran contestabile si sa d’essere allora il conte di Molise; e chiama magistri justiziarii i due giudici della gran corte, ch’erano semplici giustizieri, forse perchè eran superiori ai giustizieri della provincia. Tal manco di esattezza si osserva spesso in questo scrittore, forse perchè straniero.



281 Quibus verbis Boamundus comes prohibuit curiae respondere, dicens injuriam hanc non in eos, qui judicaverant, sed in caput regium principaliter redundare. Dehinc injunctum est Archiepiscopis et Episcopis, qui aderant, ut in auctorem tantae contumeliae quod aequm esset de juris severitate decernerent. At illi juxta costitutiones regum Siciliae, decreverunt, Richardum Comitem non solum de terra sua, verum etiam de membris et corpore Regis misericordiae subjacere, eo quod judicium curiae falsum dicere praesumpsisset. Falcand. ivi pag. 474.



282 Ciò non era del tutto falso. Mably (Observ. sur lHist. de France, Liv. III, ch. 1) dice che quando cominciò a regnare Ugo Capeto, la Francia era quasi intieramente popolata di servi; che la differenza tra servi, villani e borgesi era nominale, per le oppressioni, cui tutti erano soggetti. Ciò bastò sino al regno di S. Luigi.



283 Romualdo arcivescovo di Salerno, tace tutti i particolari della cospirazione; molto meno accenna d’esserne stato egli uno de’ capi. Dice solo che Stefano si mostrò da prima umile e benigno con tutti; ma poi levato in superbia, cominciò ad avere in odio ed in sospetto tutti i Siciliani; che, venuto in Messina, d’accordo col conte di Gravina, fece carcerare il conte di Montescaglioso ed altri baroni, apponendo loro d’aver cospirato per ucciderlo; venuto in Palermo, fece anche carcerare il gran protonotajo; i Messinesi tumultuando liberarono i conti di Montescaglioso e di Molise, ed uccisero il Quarrel; saputolo i Palermitani fecero lo stesso, assalirono il campanile, in cui s’era ritirato Stefano, il quale di ordine del re e della regina andò via. Non accade addurre argomenti per provare che tale narrazione sia dettata da studio di parte.



284 Petr. Blesens. Epist. presso Caruso, Tom. I. pag. 492 e seguenti.



285 ..... asserebbat in eo statu Romanam esse curiam, ut voluntati procerum Siciliae non audeat obviare, neque censeat immensam pecuniam ob firmandam electionem sibi oblatam in eo necessitatis articulo contemnandum. Falcand., ivi pag. 185.



286 Non solamente il Falcando descrive tal terremoto, ma Romualdo di Salerno anche contemporaneo, e particolarmente Pietro di Blois nella lettera citata di sopra dice: cum episcopus ille damnatissimus, frater Matthaei Notarii, qui sicut scitis sibi sumpsit honorem, non vocatus a Domino tanquam Aaron, et qui ad sedem illam, non electione canonica, sed Giezitica venalitate intravit, cum, iniquam, abominationis offerent incensum, intonuit de coelo dominus, et ecce terremotus magnus factum est. Angelus enim Domini percuziens Episcopum in furore Domini, cum populo et universa civitate subvertit.



287 Onde potè venire al Di-Blasi la strana idea che costei era unica figliuola ed erede dell’impero? L’imperadore Emmanuele dal suo primo matrimonio con Berta di Germania ebbe una figliuola, che fu destinata sposa di Bela principe d’Ungheria, che fu educato alla corte di Costantinopoli, ove era detto Alessio; dalla bella Maria, figliuola di Raimondo di Poitou principe d’Antiochia, nacque Alessio II. Gibon, Hist. of the decl. and fall of the R. E. ch. XLVIII.



288 Forse costui, perduta la speranza di ottenere l’arcivescovado di Palermo e di elevarsi ad altre cariche, s’era già fatto consecrare, ciò s’argomenta dal vederlo sottoscrittoRichardus Syracusanus Epicopus — nel diploma della costituzione del dotario della regina Giovanna, ovechè sin allora si era sottoscritto ed era stato dettoSyracusanus electus.



289 Tot et tanta accensa sunt luminaria, ut civitas penitus crederetur comburi, et stellarum radii pro fulgore tantorum luminum nullatenus possent comparere. De nocte enim intraverant Panormum. Ducta est ergo predicta regis Angliae filia super equum regium, vestibus regalibus insignita, in quoddam palatium, ut ubidem desponsationis suae diem gratius posset espectare. Hoved. annal. angl. Pars poster. presso Caruso, Tom. II, pag. 956. Ivi stesso è trascritto il diploma della costituzione del dotario.



290 Non saprebbe dirsi qual differenza allora correa tra la pace temporale e la tregua; ma essendo il convegno espresso in tali termini dall’arcivescovo di Salerno, che era uno dei plenipotenziari del re, bisogna credere d’esser una espressione diplomatica di que’ tempi.



291 Alcuni storici posteriori hanno scritto che Costanza quando andò a marito era dell’età di quarant’anni monaca già professa nel monastero di basiliane, detto del Salvatore, di Palermo, che papa Clemente III o Celestino III la sciolse dai voti. Queste ed altre simili ciarle, sono smentite, non che dal silenzio de’ contemporanei, ma dalla cronologia. Essa era nata dopo la morte di Rugiero, che accadde nel febbraro del 1154, fu conchiuso lo sponsalizio nel 1185, dunque non poteva avere oltre a 31 anno. Nel 1185 non erano pontefici Clemente, Celestino; Urbano III, che allora regnava fu tanto avverso a quel matrimonio, che sospese dalle loro funzioni i vescovi che vi assistettero; avrebbe egli mai sciolto i voti della principessa?



292 Romuald. Salern. presso Caruso tom. II p. 818.



293 Riccard. da S. German. chronic., ivi pag. 455.



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