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SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA] CAPITOLO XXIV. I. Stato del regno alla morte di Guglielmo II. — II. Elezione di Tancredi. — III. Venuta in Sicilia dei re di Francia e d’Inghilterra. Briga tra Riccardo I e Tancredi. — IV. Matrimonio e coronazione di Rugiero II. — V. Arrivo in Puglia dello Svevo. — VI. Prigionia e liberazione della regina Costanza. — VII. Morte di Rugiero II e di Tancredi. — VIII. Ingresso in Palermo e coronazione d’Arrigo. Sue crudeltà contro la famiglia di Tancredi. — IX. Stragi di Catania e di Palermo. Morte d’Arrigo. — X. Brighe con papa Innocenzo III. — XI. Morte della regina Costanza. Stato della Sicilia sotto i re normanni. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I. — Ugone Falcando, che scrisse la storia delle cose accadute nel regno di Guglielmo I e nella minorità di Guglielmo II, premette all’opera una epistola a Pietro, tesoriere della chiesa di Palermo, sulle calamità, alle quali era per soggiacere la Sicilia nel cadere sotto la dominazione dello Svevo. «Parmi di vedere» egli dice «le opulenti città ed i luoghi per lunga pace fiorenti, oppressi, desolati, contaminati dalla violenza, dalla rapacità, dalla libidine delle barbare coorti. Qui veggo i cittadini o trucidati, se resistono, o ridotti in servitù, se cedono; lì le vergini stuprate sotto gli occhi stessi de’ genitori, e le venerande matrone, alle quali sono stati rapiti i preziosi ornamenti, con gli occhi dimessi piangere a calde lagrime la forzata violazione della fede conjugale. Dimmi, ti prego, a qual partito s’appiglieranno in tale strettezza i Siciliani. Vorranno eglino eleggere un re e con tutte le forze loro combattere i barbari; o, sopraffatti dalla difficoltà dell’impresa ameranno meglio piegarsi alla dura servitù, che difendere il nome, la dignità loro e la libertà della patria? Certo se essi sceglieranno un re veramente prode; se i cristiani saranno d’accordo co’ Saracini; se il re eletto saprà cattar l’amore de’ soldati con più larghi stipendî, e del popolo co’ beneficii; se munirà le città marittime e disporrà in Calabria presidî ne’ luoghi opportuni, potrà impedire che vengano in potere de’ barbari la Sicilia e la Calabria. Ma nulla appo me è da contare sui Pugliesi, i quali, vaghi di novità, si legano di leggieri in capo, ma se li meni in campo, prima di darsi il segno della battaglia, si danno alla fuga. Voglia Dio che il popolo, ed i magiorenti de’ cristiani e dei Saracini, scegliendo con unanime volere un proprio re, faccino i massimi sforzi per respingere i barbari (294).»
II. — Mentre il Falcando tali cose scriveva, non sapea che i Siciliani avean recato ad effetto quanto egli proponea. Il vice-cancelliere Matteo, seguita appena la morte del re, avea fatto riunire il parlamento, il quale dissensiente solo l’arcivescovo di Palermo Gualtiero, promosse al regno Tancredi conte di Lecce. Era costui, comechè di non retto ed occulto matrimonio, nato da Rugiero duca di Puglia, figliuolo primogenito di re Rugiero I. Prode, sagace, prudente, contro l’uso dei tempi, amava le scienze e le arti, proteggea coloro che le professavano; ed egli stesso nelle matematiche, nell’astronomia, nella musica molto avanti sentiva. Venuto in sospetto a Guglielmo I, era stato nella sua gioventù arrestato nel real palazzo; cacciato poi dal regno cogli altri baroni, si era rifuggito in Costantinopoli; richiamato e restituitigli i beni da Guglielmo II, lo avea fedelmente servito, e nell’ultima guerra d’oriente avea dato buon saggio di sè.
Ricevuta appena la notizia della sua promozione, si recò Tancredi in Palermo sul finire del 1189: e nel gennaro 1190 vi fu solennemente coronato. Prima cura del nuovo re fu quella di comporre le dissidie ch’erano sorte alla morte di Guglielmo tra cristiani e saracini, per cui questi malmenati da quelli, lasciato Palermo, s’erano ritirati nel paese entro terra. Re Tancredi mandò ordine a cinque de’ loro capi di ritornare in Palermo, facendoli cauti d’ogni sopruso. Volse poi l’animo a sottomettere quei baroni d’oltremare, che si negavano ancora a riconoscerlo; ed in ciò molto gli giovarono i tesori trovati negli scrigni del morto re. Il solo a non lasciarsi piegare fu Rugiero conte d’Andria, cui Guglielmo avea dato la carica di gran giustiziere del regno e ’l comando di tutta la Puglia. Non tenendosi costui da meno di un conte di Lecce, mal comportava il tornar vassallo d’un suo pari; levatosi in armi, chiamò lo svevo Arrigo a venire con armata mano all’acquisto del regno, a lui pel dritto della moglie dovuto, che il conte di Lecce avea usurpato. Quello mandò un’esercito, comandato da un Arrigo Testa maniscalco dell’impero, il quale, fatta una correria in Puglia, saccheggiato alcune città, disertone le campagne, venendo ogni giorno meno le sue forze per le malattie, pel disagio e pel clima, fece ritorno in Germania.
Ciò non di manco il conte d’Andria tenne ancora alcun tempo la campagna. Il conte della Cerra, cognato del re e da lui preposto al comando di quella guerra, tornato vano ogni sforzo per espugnare Ascoli, ove quello s’era afforzato, finse di voler terminare all’amichevole ogni contesa: propose un abboccamento; il conte di Andria venne a lui senza sospetto; ma quello con vilissimo tradimento lo fece mettere in catena e poi morire. Tolto di mezzo quel conte, tutte le città che da lui tenevano, si sottomisero. Ma, mentre il re s’affaticava per saldare la sua autorità, poco mancò che un nemico più potente non avesse messo in pericolo il suo trono.
III. — Fra i principi di gran nome, che aveano allora prese le armi, per cacciar da Gerusalemme il sultano Saladino, erano Riccardo I re d’Inghilterra e Filippo re di Francia, i quali cogli eserciti, che seco menavano, si riunirono in Messina nel 1190. Filippo vi giunse il primo, ed ebbe alloggio con tutta la sua gente in città; Riccardo si era ridotto con parte della sua armata in Salerno: il resto de’ suoi legni soprappreso da una tempesta, era ito a riparare a Marsiglia, e quindi venne a Messina. Riccardo, saputo l’arrivo colà delle sue navi, mosse per terra, e varcato il faro (295), si fermò presso la torre, che sin d’allora era all’ingresso del faro, ed ivi pose gli alloggiamenti. Venne poi ad occupare dall’altro lato Mattagrifone, ov’era un monastero, e cacciato i monaci, vi s’afforzò. Tali atti violenti aombrarono i Messinesi; una briga nacque fra essi ed i soldati inglesi, che penetrarono in città di forza e furon per saccheggiarla; interpostisi il re di Francia ed i maggiorenti fra’ Siciliani e gl’Inglesi, l’affare s’acquetò.
Non fu ugualmente facile accordare le pretensioni di Riccardo contro Tancredi. Dolevasi il re inglese che la regina Giovanna, vedova di Guglielmo II e sorella di lui, fosse da re Tancredi custodita nel real palazzo di Palermo, forse perchè unitamente all’arcivescovo Gualtiero s’era opposta alla promozione di lui; e di ciò Tancredi lo fece contento, mandandogliela con orrevole accompagnamento in Messina. Oltracciò chiedea Riccardo, e minacciando lo chiedea, che non solo si desse alla vedova regina la contea di monte Santangelo ed i ricchissimi feudi assegnatile dal morto re in dotario, ma le si donasse un trono d’oro; e volea per lui una mensa d’oro lunga dodici piedi, larga uno e mezzo; due tripodi d’oro per sostenerla; una tenda di seta di tal grandezza, che potessero starvi a desco dugento persone; ventiquattro coppe ed altrettanti piatti d’argento; sessantamila salme di frumento, pari quantità di orzo e di vino, e cento galee armate coi viveri per due anni; dicendo d’essere stato tutto ciò promesso da Guglielmo II al re Arrigo II suo padre.
Rispondeva Tancredi di avere dato alla regina vedova, prima di partire da Palermo, per tutto ciò ch’essa avesse potuto pretendere, per le terre a lei assegnate, un milione, non si sà di che moneta; per le pretensioni di Riccardo avrebbe fatto ciò ch’era tenuto a fare, secondo le consuetudini del suo regno (296). Finalmente uomini sapienti dell’una e dell’altra parte fecero venire i due principi all’accordo; pagò re Tancredi a re Riccardo ventimila once per tutto ciò che potesse pretendere per dotario della regina vedova ed altro; lo sponsalizio fu conchiuso tra una figliuola di Tancredi ed Arturo, duca di Brettagna, nipote di Riccardo e suo successore nel regno d’Inghilterra, s’egli moriva senza figli; Tancredi pagò a Riccardo altre ventimila once in dote della futura sposa; e Riccardo s’obbligò a restituire tal danaro, nel caso che, venuti adulti gli sposi, il matrimonio non avesse luogo; finalmente Riccardo promise difendere durante la sua dimora in Sicilia, re Tancredi contro chiunque volesse spogliarlo del regno. Di tal convenzione fu fatta scrittura, ed i magnati delle due corti ne giurarono l’osservanza per parte dei due re.
L’inverno già inoltrato non permise ai re di Francia e d’Inghilterra di rimettersi in mare. Nel calen di marzo 1191 re Riccardo venne in Catania, per adorarvi le reliquie di Sant’Agata; Tancredi, che colà era, venne fuori ad incontrarlo; assieme andarono al tempio; assieme abitarono con gran dimestichezza tre dì e tre notti; il re siciliano regalò all’inglese arredi d’oro e d’argento, sete e cavalli; per soccorrerlo poi nella santa spedizione gli fece dono di quattro grandi navi, che si dicevano ursieri e quindici galee; nè altro volea in contraccambio che un piccolo anello d’oro in segno della scambievole amicizia; ma re Riccardo volle regalargli la famosa spada, che gl’inglesi chiamavano Caliburne, ed era stata di Arturo antico re dei Brettoni, modello di tutti i cavalieri erranti ed eroe di tutti i romanzi del medio evo.
Quando poi re Riccardo riprese la via di Messina, Tancredi l’accompagnò sino a Taormina. Prima di separarsi, a lui mostrò una lettera del re di Francia, recatagli dal duca di Borgogna, nella quale gli proponea d’assalire colle loro forze unite, alla sprovveduta l’esercito inglese e distruggerlo. Riccardo che com’era avventato, era pure generoso e leale, non potè indursi a dar fede a quel tradimento di Filippo «Io» disse a Tancredi «non sono mai stato, non sono, nè sarò traditore; non romperò mai, finchè viva, la pace con voi fatta; e non posso credere che il re di Francia v’abbia scritto tale lettera, essendo egli mio signore e mio consorto giurato nella santa impresa.» Rispose Tancredi «Io vi do la lettera ch’egli mi mandò pel duca di Borgogna; e se costui oserà negare d’avermela recata, son pronto a fargliene render ragione colla spada d’uno dei miei baroni (297).»
Non guari dopo il re di Francia abbandonò la Sicilia; il giorno stesso della sua mossa giunse in Messina la regina Eleonora, madre di Riccardo, menando seco la Berengaria di Navarra, ch’egli dovea sposare. Dopo quattro giorni la regina Eleonora ripartì per terra e prese la via di Roma. Verso la metà d’aprile lo stesso Riccardo si fu partito in compagnia della regina vedova di Sicilia sua sorella e della futura sua sposa.
Allontanati quegli ospiti, il re s’applicò a tranquillare le provincie oltremare, nelle quali restava alcun fomite di guerra, suscitato da un conte Rainaldo, che in Abruzzo s’era levato in armi. Recatosi Tancredi nel 1191 di là dal faro, adunò prima in Termoli il parlamento, per pigliare le opportune risoluzioni, onde sottomettere quel conte e resistere all’invasione, che minacciava lo Svevo. Direttosi poi contro il conte Rainaldo, non ebbe a stentare per farlo tornare alla sua obbedienza.
IV. — Avea re Tancredi, per assicurare la sua discendenza e raffermare il suo regno, contratto lo sponsalizio di Rugiero, suo figliuolo primogenito, con Irene, figliuola d’Isacco l’Angelo, imperadore di Costantinopoli. Avuta notizia che la sposa era per arrivare a Brindisi, vi si recò ad incontrarla. Giuntavi, celebrate le regie nozze, fatto ivi stesso coronare il figliuolo re di Sicilia, il re colla famiglia fece ritorno in Palermo.
Erano in questo venuti a morte Federico Barbarossa, imperadore di Germania e Clemente III sommo pontefice; Arrigo, re di Germania e d’Italia, era succeduto al padre; Celestino III era stato promosso al pontificato. Re Arrigo, per prepararsi all’impresa di Sicilia, che tanto gli stava a cuore, ed avere un’armata che potesse stare a fronte della siciliana, comandata dal valoroso Margaritone, grand’ammiraglio del regno (298), conchiuse un trattato, come avea già fatto l’imperadore suo padre, colla repubblica di Genova, dalla quale ebbe un’armata di trentadue galee; ed egli promise di dare alla repubblica, tostocchè sarebbe venuto signore di Sicilia, la città di Siracusa ed altre terre nel val di Noto. Ciò conchiuso s’accostò a Roma con numeroso esercito, e vi fu unitamente alla moglie coronato imperadore (299).
V. — Ottenuto ciò, re Arrigo imperadore, malgrado le insinuazioni ed anche i comandi di papa Celestino, nell’aprile del 1191 si diresse coll’esercito e la moglie in Puglia. Nulla potè da prima resistere alle sue armi; Rocca d’Arce, comandata da Matteo Borrello fu espugnata di forza, saccheggiata, data alle fiamme; Sorella, Atino, Celle, Sangermano, spaventati da quell’esempio, s’arresero di queto; lo stesso fecero in Terra-di-lavoro, Teano, Capua. Aversa ed altre città; i conti di Molise, di Fondi e di Caserta e Roffredo abate di Montecasino si sottomisero allo Svevo ed a lui s’unirono. Ma quella resistenza che Arrigo per tutto non avea incontrata, la trovò in Napoli, ove comandava il conte dell’Acerra col miglior nerbo delle regie forze. Fu vana ogni opera dei Tedeschi per espugnarla; nè aveano speranza che la città potesse finalmente esser vinta dalla fame; dachè l’ammiraglio Margaritone, malgrado le armate di Genova e di Pisa, entrava e venia fuori a posta sua dal porto di Napoli e v’introducea viveri, munizioni, armi soldati e quant’altro facea mestieri per la difesa della città.
Durante quell’assedio, Salerno aprì le porte allo Svevo, il quale vi venne a lasciare la regina Costanza e poi tornò a stringer Napoli, ove, lungi di fare alcun frutto, avea perduto, pei continui conflitti, pei calori della state già inoltrata, per l’aria malsana, il fiore della gente sua. Vi erano periti frai comandanti Filippo arcivescovo di Colonia e Otone duca di Boemia; Arrigo stesso ne ammalò; per lo che, desertati del tutto i dintorni della città, lasciato a custodir Capua Corrado Mosca-in-cervello, e Rocca d’Arce un Diopoldo, menando seco l’abate di Montecasino e molti dei maggiorenti di Sangermano, che tenne stadichi nelle città da lui espugnate, restando la regina in Salerno, coll’avanzo dello esercito si tornò in Germania.
Non sì tosto s’era egli dilungato, che il conte dell’Acerra venuto fuori di Napoli, corse ad assediare Capua. Il Mosca-in-cervello, che difendeva la piazza, non potendo tenerla a lungo, per la scarsezza dei viveri, la rese, a patto di andarne libero col presiduo. Aversa, Teano e Sangermano tornarono all’ubbidienza del re. Lo stesso fece il conte di Molise, che fu dal re destinato al comando di Sangermano. Venne il conte dell’Acerra in Montecasino, per indurre alle buone il guerriero decano a darsi al re; ma vane furono le preghiere, vane le minacce di lui, vana l’autorità stessa di papa Celestino, che scomunicò quel monaco e sottopose all’interdetto il monastero.
VI. — I Salernitani in questo, ch’erano stati dei primi a darsi allo Svevo, visto prosperar di nuovo la sorte del re, per cattarne la grazia, presa la regina Costanza, che in Salerno, era, la menarono in Sicilia ed a lui diedero in mano. Arrovellava Arrigo, saputa la prigionia della moglie. Non era lieve, e poteva essere pericoloso per lei, l’imprendere a riaverla di forza; però tentò il solo mezzo, che poteva tentare d’indurre papa Celestino ad ottenere la libertà di lei. È veramente da maravigliare, che quel pontefice, che tanta burbanza avea mostrato nel coronare Arrigo e tanto avverso si era fatto vedere ai progressi delle armi alemanne nella bassa Italia, si sia poi indotto a pregare Tancredi a mettere in libertà quella sovrana; ma è anche più che da maravigliare che Tancredi, più generoso che consigliato, la rimandò libera. «Se i principi d’oggidì» dice, narrando tal fatto, il Muratori (300) «trovandosi in situazione tale, fossero per privarsi con tanta faciltà e senza alcuna propria utilità di una principessa, che seco portava il dritto sopra la Sicilia, lascerò io che i saggi lettori lo decidano.»
Il feroce decano di Montecasino intanto, spalleggiato dalle forze tedesche lasciate in alcune piazze, e poi fatto più forte dall’arrivo del suo abate Roffredo, menato prima di Arrigo in Germania e poi ritornato alla testa d’un’esercito, sosteneva oltremare le parti dello Svevo. A questi cocollati guerrieri venne ad unirsi il conte Bertoldo, generale d’Arrigo, che altra gente alemanna seco menava; e per essi tutte quelle provincie furono messe a ferro ed a foco (301). Re Tancredi vi si recò di persona con esercito a gran pezza superiore; e fu a fronte del nemico, che, vistosi inferiore di forze, temeva d’attaccar la battaglia; nè il re volle giovarsi del vantaggio; perchè i suoi baroni gli dissero di andarne dell’onor suo, nel venire alle mani con un esercito non comandato da un altro re. Il conte Bertoldo si ritirò senza molestia; il re, dato buon ordine alle cose di Puglia e di Terra-di-lavoro, fece ritorno in Sicilia.
Nella gran catena degli umani eventi, che il volgo ascrive al caso, spesso gli avvenimenti di maggior momento sono connessi a lievissime circostanze. Quella battaglia guadagnata avrebbe forse chiusa per sempre allo Svevo la via di Sicilia. Distrutto quell’esercito, non sarebbe stato facile ad Arrigo raccattarne un’altro da stare a fronte delle forze di Tancredi, che si sarebbero a più doppî accresciute; perchè tutti que’ baroni, che stavan dubbiosi aspettando l’evento, e tutti quelli, che militavano per lo Svevo, si sarebbero, come sempre accadeva in quell’età, gittati alla parte vittoriosa. Ma il contrario era scritto negli eterni decreti.
VII. — Tornato re Tancredi in Sicilia, ebbe a soffrire l’atroce dolore della perdita del re Rugiero II, suo maggior figliuolo, morto inaspettatamente sulla fine del 1193, che allora correva. Il vecchio re non potè durare tanta passione; ammalatosi anch’egli, finì di vivere addì 20 di febbrajo del 1194. Restò erede del regno il piccolo Guglielmo III, suo secondo figliuolo, che fu coronato in Palermo nel maggio di quell’anno. La vedova regina Sibilla, come tutrice di lui, pigliò le redini del governo.
La guerra, che sin’allora era stata condotta con poco vigore per l’età avanzata di Tancredi, venuto il regno in mano d’una donna e d’un pupillo, allentò del tutto. Le provincie oltremare restarono aperte allo Svevo. I baroni, più non rannodati sotto le bandiere di un capo vigoroso, cercarono l’un dopo l’altro d’acconciarsi coll’invasore, il quale, venuto con nuovo esercito in Italia, senza trar la spada s’insignorì di tutta quella provincia; ned ebbe ivi altro tempo a perdere, che quello di devastare e saccheggiare Salerno, per punizione della presura della moglie. Venuto a Reggio, valicò il faro. I Messinesi, sopraffatti dal prepotente esercito e dalle due armate di Genova e di Pisa, che seco menava, gli aprirono le porte. Pronti del pari erano a sottomettersi i Catanesi; ma erano tenuti in soggezione da un corpo di Saracini, che v’era di presidio; a loro richiesta Arrigo vi mandò una mano de’ suoi Alemanni, che ne li cacciarono. Siracusa, che volle resistere, fu espugnata dall’ammiraglio genovese Otone Del Carretto. Avute quelle tre città, si diresse Arrigo a Palermo.
VIII. — La regina Sibilla, non tenendosi sicura in Palermo, accompagnata dal re Guglielmo III, suo figliuolo, dalla vedova nuora e dalle tre principesse sue figliuole; menando seco l’arcivescovo di Salerno, l’ammiraglio Margaritone e tutti i baroni a lei fidi, venne a chiudersi nel forte castello di Caltabellotta, che provvide di viveri. Ivi riunì le sue truppe e trasportò ivi i tesori ch’erano nel real palazzo di Palermo. Avvicinatosi Arrigo alla capitale nel novembre nel 1194, per un’araldo intimò alla città d’arrendersi. I Palermitani, inabili a difendersi, risposero: essere pronti a riceverlo. Egli fatto precedere alcune schiere, entrò in città, circondato da molti baroni alemanni, avendo alla destra Filippo duca di Svevia, suo fratello. Non ebbero sulle prime i Siciliani ragione di dolersi di lui. La florida età sua e la bellezza della sua persona lo rendevano a tutti gradito; ed egli, mascherando i suoi veri sentimenti, si mostrava a tutti piacevole, nè facea travedere alcun mal’animo contro coloro, che avean parteggiato per Tancredi. Convocato il parlamento, vi fu riconosciuto re di Sicilia; poi nel duomo fu coronato dall’arcivescovo Bartolomeo Offamill, che era succeduto al fratello Gualtiero.
Pur comechè avesse re Arrigo ottenuto con tanta facilità il regno, che da lung’ora affettava, non teneva sicuro il suo dominio in Sicilia, nè lo era, finchè non fosse nelle sue mani il piccolo Guglielmo III ed ogni avanzo della famiglia di Tancredi. Non era lieve il trarli di forza da Caltabellotta, sito tanto forte e ben munito; era anzi ben da temere che, mentre egli sprecava le sue forze sotto quelle mura, una conflagrazione generale divampasse nel regno. Per averli a man salva ricorse al tradimento. Già sin da che era entrato in Palermo, era venuto dicendo: sè non avere alcun rancore contro la famiglia di Tancredi; non avere impreso la conquista del regno per voglia d’offendere alcuno; ma per far valere i dritti incontrastabili della moglie. Dopo la sua coronazione, mandò ad offerire alla regina Sibilla, non solo di restituire al figliuolo la contea di Lecce, ch’era il suo patrimonio paterno, ma di concedergli inoltre il principato di Taranto, se di queto rendea Caltabellotta. Nella dura circostanza, in cui quella famiglia era ridotta, ingannata dalla condotta mansueta tenuta fino allora da re Arrigo, accettò il partito e venne in Palermo.
Il perfido svevo gittò allora la maschera: avuta a se la vedova regina, in tuono minaccevole si diede a rimproverarle l’usurpazione del marito ed ordinò la carcerazione di lei, de’ figli, de’ suoi. Convocato poi il parlamento, vi fece al conte di Celano proporre: che, essendo stata la regina Costanza riconosciuta dal parlamento del regno erede del trono, eran da tenersi felloni coloro che avevano eletto in re il conte di Lecce; lui stesso, che aveva accettato l’offerto regno; la regina vedova, che dopo la sua morte avea fatto coronare il figliuolo; ciò non di manco, il re, perdonando a tutti gli altri, si contentava della carcerazione e punizione della regina Sibilla, di Guglielmo suo figliuolo, delle costui tre sorelle, dell’arcivescovo di Salerno, del fratello di lui vescovo di Trani e di Riccardo conte d’Ajello, figliuolo del ricantato Matteo gran protonotajo e vice-cancelliere del regno. Il parlamento, cogliendo il primo amaro frutto della straniera dominazione, ebbe ad aderire all’iniqua sentenza. Nè meno scandaloso fu il tradimento fatto da lui ai Genovesi. Presa Palermo, chiesero essi la città di Siracusa e le terre loro promesse «Provatemi che siete liberi» rispose egli «e tenuti come vassalli a darmi soccorso, ed io adempirò la promessa.» Nè contento a tal manco di fede, li spogliò de’ privilegî concessi loro da Rugiero I, dei quali aveano sempre goduto.
Ottenuto così quanto bramava, re Arrigo, menando seco la famiglia detronizzata e gli altri prigioni, unitamente ai tesori ed a tutti i preziosi arredi da lui rinvenuti nel real palazzo di Palermo, lasciò la Sicilia per recarsi in Germania, ove lo chiamava l’ambizione d’assicurar l’impero al figliuolo Federigo, già natogli dalla regina Costanza in Jesi, città della Marca, addì 26 di dicembre 1194; e ben gli venne fatto. Gli elettori, guadagnati dall’oro menato a some da Sicilia, scelsero in re dei Romani il neonato principe.
Soddisfatta l’ambizione, restavagli ad appagare la crudeltà e la vendetta contro l’infelice famiglia di Tancredi. Lo sciacurato re Guglielmo III fu chiuso nella fortezza d’Omburgo, ove fu accecato e castrato; l’infelice ragazzo non sopravvisse a lungo ai tormenti. La regina Irene, vedova del re Rugiero II, ebbe la sorte di piacere a Filippo duca di Svevia, che la menò in moglie. La regina Sibilla e le figliuole furono chiuse in un monastero della stessa città (302); altre carceri ebbero gli altri. Fu perdonato al solo grand’ammiraglio Margaritone, del cui servizio Arrigo avea mestieri; per che, non solo lo lasciò nella carica, ma gli concesse il principato di Taranto, col titolo di duca di Durazzo.
Non guari andò che re Arrigo ebbe a fare ritorno in Sicilia. Il suo tradimento e la crudeltà sua verso l’innocente avanzo d’una famiglia, cara ai Siciliani; la ferocia e l’insaziabile rapacità del vescovo d’Hildessein, lasciato a governar la Sicilia; l’odio che sempre accompagna la nuova signoria, accresciuto dalla brutale licenza degli Alemanni; e soprattutto l’amore della propria indipendenza, forte in tutti i popoli, fortissimo ne’ Siciliani, sempre memori della passata loro grandezza, aveano reso detestabile il nome stesso d’Arrigo. Allontanatosi egli appena, una cospirazione cominciò ad ordirsi, per cacciarlo dal trono e mettervi in sua vece un Giordano, attenente alla famiglia normanna. L’arrivo in Sicilia della regina Costanza, principessa amata da’ Siciliani, e ben diversa di costume dagli Alemanni, acquetò per alcun tempo gli spiriti; ma come essa nulla contava nel governo, la pubblica indignazione venne ad accrescersi, la trama a stringersi.
IX. — Re Arrigo, avuto lingua di ciò, mentre ragunava un grand’esercito per portar la guerra in Sorìa, con parte di esso prese la via di Sicilia. Giunto in Capua, vi trovò lo sventurato conte di Acerra, il quale, mentre travestito cercava di fuggire, tradito da un monaco, di cui s’era fidato, era stato preso. Arrigo, fattolo prima trascinare alla coda d’un cavallo per le strade della città, lo fece appiccare per un piede alla forca. Languì così due giorni; il buffone di corte, per fare una facezia, gli legò una grossa pietra al collo con un cappio scorritojo e così lo trasse di vita, ma il suo cadavere restò colà appeso miserando spettacolo alla gente, finchè visse Arrigo. Venuto poi quel re a Messina, spedì con una forte schiera il suo gran siniscalco Arrigo Marcaldo di Kallindin a sottomettere Catania. Inutile fu la resistenza de’ Catanesi; la città fu espugnata; il vescovo, ch’era uno dei capi della cospirazione e molti nobili furono presi; molti de’ cittadini furono messi a fil di spada; molti fuggirono; molti si ricoverarono nel tempio di Sant’Agata, sulla speranza che la santità del luogo sarebbe rispettata; ma il feroce alemanno, dato foco al tempio, ve li fece tutti miseramente perire; la città stessa fu data alle fiamme. Ottenuto quel barbaro trionfo, Marcaldo venne in Messina menando seco i prigioni. Re Arrigo si diresse allora a Palermo. Come vi giunse, diede libero sfogo alla ferocia del suo carattere sulle prime repressa.
Il duca di Durazzo, grand’ammiraglio del regno, ed un conte Riccardo, che contava fra gli scienziati di quell’età, ebbero cavati gli occhi; un’altro fu scorticato; il misero Giordano fu messo a morte calcandogli sul capo una corona di ferro, armata internamente di lunghi chiodi appuntati; alcuni furono bruciati vivi; ed altri furono inchiodati al suolo bocconi con un palo di ferro, che li passava fuor fuori della schiena al ventre (303). Creduto il regno composto per tali atroci punizioni; re Arrigo si disponeva lasciar la Sicilia per portar le armi in Terra-santa, quando Guglielmo lo Monaco castellano di Castrogiovanni levò lo stendardo della rivolta. Corse egli coll’esercito ad espugnar quell’ertissima rocca; ma non potè venirne a capo; anzi tante fatiche ebbe a durare che ne ammalò; ritiratosi a Messina, il male ingagliardito lo trasse al sepolcro addì 28 di novembre del 1197, nel 32 anno dell’età sua. Il suo cadavere mandato in Palermo, vi fu seppellito nell’avello di porfido, in cui ora giace.
La regina Costanza, il cui cuore era stato tanto alieno dalle crudeltà del marito, che alcuni scrittori sgozzarono la ciancia d’avergli mosso guerra e d’averlo avvelenato, non sì tosto ebbe sola il governo del regno avìto, cacciò da Sicilia tutti i Tedeschi, che tanto e con tanta ragione erano odiati dai Siciliani. Ciò forte rincrebbe a tutti, e particolarmente al ricantato Marcaldo di Kallindin, il quale era stato tanto caro al morto re che lo avea fatto duca di Ravenna, marchese d’Ancona, lo avea investito della contea di Molise e d’altri amplissimi feudi. Sperava costui che per la morte di Arrigo sarebbe egli stato arbitro del regno. Fallitagli tale speranza, passato oltremare si levò in armi contro la regina; cercò di ribellare quei baroni; e ben trovò compagni negli altri Tedeschi. Per lo che la regina, non tenendo sicuro in mezzo a tale conflagrazione il figliuolo Federigo, che avea lasciato in consegna del duca di Spoleto, lo fece venire in Sicilia. Era egli allora dell’età di quattro anni, ed era stato poco prima colà battezzato da quindici vescovi. E, perchè allora ogni re di Sicilia che veniva al trono, chiedea l’investitura di quelle provincie oltremare che si teneano feudi della Chiesa, la regina spedì in Roma l’arcivescovo di Messina a farne la richiesta.
X. — Era allora morto il vecchio Celestino III, ed era stato eletto Innocenzio III dell’età di 37 anni, il quale, tosto come giunse al papato, coll’ardore proprio dell’età, s’era dato a ricuperare tutte le provincie e tutti i dritti, ch’ei diceva di essere stati usurpati a suoi predecessori. Per tal ragione quando l’arcivescovo di Messina richiese l’investitura, rispose, che non sarebbe mai per accordarla, se prima la regina non rinunziava al trattato conchiuso nel 1156 in Benevento tra papa Adriano IV e re Guglielmo I, nel quale si dilucidava il privilegio dell’apostolica legazione concesso da Urbano II al conte Rugiero. Noi non sappiamo quali apparenti ragioni metteva avanti papa Innocenzio per giustificare quell’ingiusta pretensione; ma il Baronio (304) si fa forte con dire che quel trattato fu estorto della necessità; e però era nullo. Ma è da considerare che sei pontefici erano saliti sulla cattedra di S. Pietro dopo Adriano IV, fra i quali Alessandro III, Lucio III e Clemente III, ch’erano stati i tre cardinali, che per parte di papa Adriano aveano conchiuso il trattato. Nissun di costoro avea messo in forse la validità di quella convenzione; tutti anzi l’aveano tenuta salda, e tutti eran vissi in grande amicizia col I e col II Guglielmo. Dopo un mezzo secolo che il trattato era in pieno vigore, come poteva papa Innocenzio III romperlo, per essere stato estorto dalla necessità? Ammesso tale scandaloso principio, sarebbe bandita la fede di tutti i trattati fra’ principi, che tutti sono sempre dettati dalla necessità. Non pensa il Baronio che, mentre quel pontefice voleva giovarsi dell’angustie di una vedova e d’un pupillo, circondati da molti e potenti nemici, per estorquere da essi rinunzia di un privilegio, che i re di Sicilia aveano sempre goduto, la sua ragione sarebbe stata più valevole a dichiarar nulla la renunzia, che nol sarebbe a dichiarar nullo il trattato.
La regina Costanza, conosciuta l’ostinazione del papa, da una mano mandò in Roma suoi ambasciatori Anselmo arcivescovo di Napoli, Almerign arcidiacono di Siracusa e Tommaso gran giustiziero del regno, per cercare di persuaderlo; dall’altra fece solennemente coronare il figliuolo nel duomo di Palermo nel 1198. Fu vana l’opera degli ambasciatori, papa Innocenzio non volle lasciarsi scappare quel destro di spogliare senza rischio i monarchi di Sicilia dell’antico dritto; gli ambasciatori ebbero a piegarsi. Fu spedito legato in Sicilia il cardinale Ottaviano vescovo d’Ostia. Recava egli parecchie bolle ponteficie; nella prima era la concessione del regno di Sicilia, coll’espressa condizione, che la regina giurasse in presenza del legato di portarsi essa stessa, tostochè potrebbe, ed il re suo figliuolo, come fosse giunto ad età maggiore, in Roma a prestare personalmente l’omaggio; ed entrambi pagassero il tributo di mille schifati; secento per la Puglia e quattrocento per la Marca. Colle altre bolle si stabilivano i regolamenti per l’elezione de’ vescovi, gli appelli in Roma e gli altri articoli controversi. Dichiarava finalmente papa Innocenzio, che quando ne avrebbe egli conosciuta la necessità, avrebbe spediti suoi legati nel regno, e voi dovete loro ubbidire, nè giovarvi potrà alcun privilegio o bolla richiesta alla Santa Sede.
XI. — Ma quando quel pontefice credeva già di esser venuto a capo del suo disegno, le sue speranze andarono del tutto fallite. Il cardinal legato, giunto in Sicilia, vi trovò il piccolo re già coronato, e la regina Costanza già morta alcun giorno prima; e però le bolle pontificie non furono nè presentate, nè accettate e molto meno eseguite; e tutto restò nel vano desiderio di papa Innocenzio (305).
Dolentissimi furono i Siciliani per la morte della regina Costanza, ultimo rampollo d’una famiglia, ch’essi amavano e ne aveano ben donde. La Sicilia già grande, ricca, popolosa, colta, avea tenuto un posto distinto fra le nazioni; caduta poi sotto la dominazione romana, avea perduto coll’indipendenza ogni vanto; depauperata affatto dal governo bizantino, le era stato dai Saracini soprapposto un manto musulmano, che coprì per secoli la religione, la lingua, le leggi, i costumi e quant’era siciliano; le città stesse, ch’erano state l’ornamento e la gloria della nazione o caddero o perderono il nome. La spada del conte Rugiero spogliò la Sicilia di quella sopravveste; ma sotto a quella non un solo popolo si trovò, ma una congrega di genti l’una all’altra straniera. Fondere quei diversi elementi e farne senza violenza, un sol popolo, ridestare lo spirito pubblico, presso che spento, addrizzarlo a grandi imprese, fu opera dei principi normanni. I parlamenti di Salerno e di Palermo rilevarono dopo dodici secoli il trono di Gerone, e quel trono più luminoso ne venne. Certo non è da paragonare la condizione, in cui erano stati i siciliani sotto Gerone, a quella in cui furono sotto i re normanni; ma se nella prima epoca la Sicilia fu colta, ricca e potente, colta del pari era la Grecia, del pari ricca Cartagine, Roma potente del pari; ovechè nella seconda età pochi stati vincevano il regno di Sicilia in potenza, nessuno in ricchezza e civiltà; ne fan prova gli stranieri di gran nome che da tutte le provincie di Francia, dalla Spagna, dall’Inghilterra accorrevano in Sicilia, e vi trovarono onorevole stanza. Se allora il mondo fu stupito dalla temeraria impresa d’Agatocle di portar le armi in Affrica, i principi normanni, non che sottomisero le stesse provincie, ma portarono più volte gloriosamente la guerra in oriente; nè le armate siciliane furono meno numerose e men temute nella seconda che nella prima epoca. Noi ammiriamo ora con compiacenza gli avanzi delle opere erette in Sicilia nell’epoca greca, alle quali con tutta ragione diamo la preferenza sopra quelle dell’età posteriori; ma questa preferenza torna a lode, non di coloro dai quali furono erette, ma del secolo in cui vissero; ai principi si appartiene la gloria d’esser magnifici nelle opere loro, e tale gloria è dovuta ai principi normanni quanto ai greci; grandiosi modelli delle greche arti sono i tempî di Selinunte e d’Agrigento; modelli delle arti del medio evo sono i tempî di Cefalù e di Morreale. Nè, per quanto l’età il comportava, le scienze ebbero meno onorevole stanza in Palermo nel XII secolo, di quella che avevano avuta nei tempi andati in Siracusa; re Rugiero ed i suoi successori si recavano a gloria di chiamare alla loro corte da tutte le parti uomini insigni per sapere; tali furono Gualtiero Offamill, Pietro di Blois, Ugone Falcando. Indi nacque la moltitudine degli storici che impresero a narrare le azioni di quei principi; Goffredo Malaterra. Guglielmo di Puglia, l’abate Telesino, Lupo Protospata, Romualdo arcivescovo di Salerno, il Falcando stesso, Falcone da Benevento, oltre un gran numero di anonimi.
Ma il bene veramente grande fatto dai principi normanni alla Sicilia, per cui la memoria loro sarà sempre cara ai Siciliani, fu l’aver dato al regno una forma stabile di governo. Vero è che la costituzione di re Rugiero potrebbe oggi essere difettata di essere stati i pubblici consessi affatto feudali e niente nazionali; ma ciò forse non era difetto in quell’età, in cui il popolo, rude e senza proprietà, poteva fare più presto male che bene. Non era allora la forza pubblica affidata a mani mercenarie, nè gli uomini correvano alle armi, come una volta, in difesa della patria libertà; il dritto di portar le armi era addetto al possedimento di alcuni fondi; e quei pochi, nelle cui mani questi erano, costituivano nel fatto la nazione. Ma ognuno di quei pochi traeva appresso uno sterminato codazzo di dipendenze; per lo che le loro idee, i pregiudizi loro, il privato loro modo di vivere vennero a formare il carattere della nazione. I Siciliani divennero allora prodi, impazienti di giogo, spesso feroci, anche più spesso sediziosi. Indi venne, che quando i baroni erano strettamente legati al re, la nazione acquistava una forza straordinaria. Nei tempi andati le principali città dell’isola erano capitali di piccoli stati indipendenti, spesso nemici e sempre rivali; la loro emulazione esaltava lo spirito pubblico e dava luogo a grandi azioni; ma la nimicizia loro apriva sempre il varco allo straniero; Atene e Cartagine poco mancò che non avessero sottomessa l’isola intera, e ciò che esse non poterono, Roma finalmente lo potè. Ma sotto i principi normanni la nazione siciliana, rannodata dai suoi re e dai suoi baroni, ben seppe difendere l’indipendenza che avea riacquistata. Finchè visse Tancredi lo svevo Arrigo, malgrado i dritti suoi e le prepotenti sue forze, non potè mai metter piede stabile nel regno; e tale unanimità di sforzi die’ luogo nel secolo d’appresso ad azioni anche più gloriose; come poi la scissura frai baroni portò gl’interni sconvolgimenti e la straniera dominazione. Ed i tempi meno remoti, le vergognose gare tra le principali città, suscitate ad arte dal dominatore straniero ed alimentate da miserabili scrittori, produssero l’avvilimento e l’oppressione di tutte.
Pessimus Alboinus, Landulfus, servus
Aquinus.
Petrus,
Rogerius, Philippus valde severus,
Simon, ac
Andreas, Adenulfus ut alter Egaeas;
Sunt hi
rectores per quos servantur honores;
Hi dictant
bella, caedes, immensa flagella,
Dantes
edictum. Venerantur ne Benedictum?