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SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA] CAPITOLO XXV. I. Disordini nella minorità di Federico. — II. Suo matrimonio. — III. Invasione dell’imperatore Ottone. Promozione del re all’impero. — IV. Origine delle scissure tra il papa e Federico: coronazione di lui. — V. Guerra coi Saraceni. — VI. Secondo maritaggio di Federico. — VII. Papa Gregorio. — VIII. Scomunica di Federico: manifesto di lui. — IX. Partenza di lui per la Palestina. Racquisto di Gerusalemme. Molestie sofferte da Federico in Palestina. — X. Invasione dell’esercito pontificio. — XI. Ritorno di Federico. Pace. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I. — Il regno di Sicilia e gli stati oltramare, turbati già pel cambiamento di signoria, furono sconvolti del tutto nella minorità di re Federico, comechè la morta regina, per dare al figliuolo un potente sostegno, ne avesse affidata la tutela al pontefice Innocenzio III, che dichiarò bailo del regno, e destinato avesse reggenti, per istare appresso al re e governare per lui, gli arcivescovi di Palermo, di Morreale e di Capua e ’l vescovo di Troja, ch’era gran cancelliere del regno. Da una tale disposizione nacquero le prime dissidie. Il Pontefice spedì in Sicilia un suo legato a far le sue veci; i reggenti, sia che non avessero voluto sottostare ad altra autorità, sia che avessero creduto, che nello spedir quel legato, il papa veniva ad esercitare un dritto che non avea, poco o nessun conto facevano di lui: perchè quel cardinale, che uomo pacifico era, per non entrare in brighe fece ritorno in Roma.
In questo, il ricantato Marcaldo di Kallindin, che in gran potenza era venuto durante la vita di re Arrigo imperatore, dal quale era stato fatto gran siniscalco dell’impero, duca di Ravenna e di Romagnola, marchese d’Ancona e conte di Molise, mal comportando l’essere stato bandito dalla regina Costanza, non sì tosto seguita la morte di lei, si accinse ad afferrare il supremo potere, dicendo di essere stato dal morto re nel suo testamento dichiarato bailo del regno; anzi cercò di sedurre occultamente il pontefice con generose offerte di denaro e con invenia, per non opporsi a quanto ei fosse per fare per salire al trono, cacciatone il pupillo re, ch’ei diceva d’essere figliuolo suppositizio.
Papa Innocenzio, che altronde avea posto l’animo a cacciar dall’Italia tutto lo sciame degli Alemanni, che da Federico Barba-rossa in poi eran venuti ad acquistarvi feudi, principati e signorie, non lasciò nè intimorirsi, nè indursi; scomunicò Marcaldo e tutti coloro, che lo favorivano; lo dichiarò nemico pubblico; ed ogni opera fece, perchè la impresa di lui andasse a voto. L’alemanno lasciato a sottomettere le provincie oltremare il conte Aropoldo ed altri baroni della stessa nazione, passò in Sicilia; al suo apparire i Saracini si levarono in armi ed a lui s’unirono. Con quella giunta di forza si diresse a Palermo, ove papa Innocenzio avea spedito il maresciallo della Chiesa con una schiera di militi, in difesa del re. Nei campi tra Palermo e Morreale seguì sanguinosissima battaglia, nella quale Marcaldo ebbe la peggio, e fuggì, lasciando sul campo il fiore della sua gente e tutte le bagaglie.
Mentre in Sicilia tali cose succedevano, giunse in Roma Gualtiero conte di Brenna marito di Altidia, prima figliuola di re Tancredi, ed in nome della moglie si die’ a dimandar la contea di Lecce, antico patrimonio della sua famiglia, e il principato di Taranto. solennemente concesso dal re Arrigo imperadore e Guglielmo III. Il pontefice non si lasciò scappare quel destro di acquistare un gran sostegno contro gli Alemanni, menò buona la dimanda del conte, fatto prestar giuramento a lui, alla moglie ed alle sorelle di lei di nulla imprendere mai contro la vita, l’onore e il regno di Federico; di fare ogni sforzo per cacciare dal regno Marcaldo e gli altri Alemanni; e di sostenere la balia del pontefice.
Giunte notizie di ciò in Sicilia, il gran cancelliere andò in fisima: non avere, diceva egli, il pontefice alcun dritto di conceder feudi e signorie nel regno del re pupillo; aver dovuto egli, come bailo del re per la sicurezza di lui respingere la domanda del conte di Brenna, per non dare alla contessa, che poteva mettere avanti pretensioni al trono, il mezzo di farle valere. Per tali ragioni indusse gli altri reggenti a non riconoscere la concessione fatta dal papa; e per opporre al conte Brenna un capo della stessa abilità e di forze per avventura maggiori, s’unì a Marcaldo, lo chiamò in Palermo, gli diede in mano la reggia, il re e la suprema autorità. Certo la vita di Federico avrebbe allora corso gran pericolo, se Marcaldo non fosse stato tenuto a freno dalla presenza del conte di Brenna, la cui moglie avrebbe acquistato un dritto incontrastabile al trono, per la morte del solo figliolo della regina Costanza.
Il gran cancelliere passò allora in Puglia, per afforzare le parti del conte Aropoldo, che stava a fronte del conte di Brenna, il quale, combattendo con gran valore, aveva già quasi interamente acquistato il paese a lui concesso, ed in molti e difficili incontri era uscito vittorioso; ma una volta attaccato con forze maggiori alla sprovveduta da Aropoldo ferito gravemente, vi restò prigione e poco dopo ne morì.
Morto era poco prima Marcaldo pel taglio del calcolo, cui s’era voluto sottoporre, ed un Guglielmo Capparone corse in Palermo ed usurpò il supremo dominio. Per frenare la tirannide di costui gli altri reggenti chiesero al papa l’assoluzione del gran cancelliere che da lui era stato scomunicato e deposto dalla sede di Troja, che occupava, e da quella di Palermo, in cui s’era intruso dopo la morte dell’arcivescovo; il papa il consentì; e quello ritornato in Palermo, riprese il suo posto frai reggenti; ma i disordini crebbero per l’inimicizia tra lui ed il Capparone. Il conte Aropoldo, che una cogli altri baroni d’oltremare s’era sottomesso al papa, fu da lui spedito in Palermo, per cercare di comporre l’inimicizia fra quei due: parve da prima esserne venuto a capo, ma poi per voce sparsasi di tradimento, fu dal Capparone preso e chiuso nel castello-a-mare, donde fuggì e fece ritorno in Puglia. Il governo ed il regno furono allora scissi da due fazioni, quella del Capparone e quella del gran cancelliere. Fra tanto disordine il re non aveva autorità, non avevan forza le leggi, non sicurezza i cittadini. I Saraceni, che s’erano ritirati nelle montagne, ne scendevano per saccheggiare le terre dei littorali; a loro venne fatto d’insignorirsi di Corleone. I Genovesi ed i Pisani combatterono per lo possedimento di Siracusa, che gli uni e gli altri dicevano di essere stata loro concessa, e gli altri dilaniavano.
Il pontefice, comecchè, per avere il re già compito il decimoterzo anno, fosse per cessare la sua balia, volle fare un’ultima prova per rimettere l’ordine pubblico; venne in Sangermano, ed ivi chiamò a parlamento i conti, i baroni ed i maggiorenti della città (306); ed ivi stanziò: che tutti con unanime valore dessero mano ai capitani preposti nelle provincie, per mantenere l’autorità del re e la pace del regno; che, se alcuno fosse offeso da un’altro, non ricorresse alle armi, ma all’autorità del capitano, dal quale, secondo le leggi del regno, gli sarebbe compartita giustizia; che chiunque si negasse a riconoscere o ad osservare tali regolamenti; come nemico pubblico fosse da tutti gli altri combattuto; che sarebbero spediti dugento militi, per tenere a freno i pertinaci e conservare la pace del regno, i quali vi resterebbero un’anno, mantenuti dai conti, dai baroni e dalle città, all’avvenente delle rispettive facoltà; e che oltracciò i conti, i baroni e le città tenessero sempre pronti un numero d’armati, per darne ai capitani la forza di che essi potrebbero aver mestieri. Dati quei provvedimenti, il pontefice fece ritorno in Roma (307). È questo il proprio esempio, che offre la moderna storia di Sicilia, di essere il popolo chiamato ad intervenire nei parlamenti, ma non perciò è da credere che sin d’allora avesse avuto luogo questa grande innovazione nel dritto pubblico siciliano. Fu quella un’adunanza straordinaria, come straordinarî erano i disordini, chiamata da un’autorità straniera. In un momento, in cui i baroni si dilaniavano fra essi, ed il popolo era vittima e strumento della violenza loro, il pontefice volle riunire tutti coloro ch’erano al tempo stesso oppressori ed oppressi, per dettar loro il riparo ai mali che tutti soffrivano, finchè il re avesse coi mezzi legali fatto valere la sua autorità.
II. — Conchiuso il parlamento, il pontefice scrisse al re già entrato nel XIV anno, d’esser finita la sua balìa; lo confortava a regger da sè gli stati suoi; lo consigliava di ammogliarsi; gli proponeva Costanza, figliuola di Alfonso II re d’Aragona. Seguì il re quel consigliò. Proposto e conchiuso quel maritaggio, la sposa, condotta dalle galee siciliane, accompagnata da Alfonso conte di Provenza suo fratello e da numeroso corteo di nobili Aragonesi, giunse in Palermo nel febbraio del 1209. Tutti gioivano allora in Palermo; ma la gioia tornò in lutto per una malattia endemica, che s’introdusse nella capitale, di cui molti morirono e fra gli altri il conte di Provenza. La corte, per fuggire il male, venne a stabilirsi in Catania. Cessata la moria, re Federico fece ritorno in Palermo, e, tutto giovane ch’era, cominciò a dare buon saggio di se nel reggimento del regno, e sin d’allora cominciò a mostrarsi amante delle lettere e dei letterati e promotore delle utili discipline. Ogni cosa in Sicilia era allora composta, non così oltremare.
Otone duca di Sassonia, elevato al trono imperiale dopo la morte di re Arrigo imperadore, venuto in Roma nel settembre del 1209, vi fu coronato, dopo d’aver prestato il giuramento di sostenere le papali prerogative, che si chiamavano reali di S. Pietro, e di non offendere Federico re di Sicilia (308). Erano in quell’età i romani pontefici combattuti da due contrarî sentimenti; volevano che gli eletti imperadori venissero in Roma per riavervi dalle loro mani la corona imperiale; ma, perchè molesta era per essi la dimora in quella città di principi ch’erano re d’Italia e il titolo aveano di re dei Romani e di romani imperatori, pretendevano, che, seguita appena la coronazione, sgombrassero. Ciò pretese papa Innocenzio; Otone differì la sua partenza; brighe nacquero (e sempre ne nascevano in tali casi) tra’ Romani ed i soldati alemanni; più d’uno dell’una e dell’altra parte fu morto; e forse di peggio sarebbe accaduto, se la mancanza di viveri non avesse obbligato Otone a levar le tende.
III. — Per quel contrattempo, forse non accaduto a caso, l’imperadore, posto dall’un dei lati la promessa ed il giuramento, dichiarò esser venuta l’ora di riunire al suo regno d’Italia le provincie che in altri tempi n’erano state divelte. Negò al pontefice la restituzione del paese, che si diceva donato già alla Chiesa dall’imperadore Ludovico il Pio, e che gli Alemanni aveano invaso; venuto in Toscana nel 1210, s’insignorì di parecchie città, che alla Chiesa appartenevano; e serbando forse a miglior tempo altri disegni, rivolse le armi all’acquisto del regno di Sicilia, che sconvolto da tante perturbazioni, poca o nessuna resistenza poteva opporre. Favorito dal ricantato conte Aropoldo, cui creò duca di Spoleto, dal conte di Celano gran giustiziero del regno e degli altri baroni tedeschi, che avversi erano al governo di Federigo prima di spirare l’anno 1211 si trovò padrone di tutta la Puglia, della Terra-di-lavoro e di parte della Calabria.
Papa Innocenzio tentò tutte le vie pacifiche d’indurre il Sassone a desister dall’impresa e dar pace a re Federigo; ma riuscita vana ogni opera, lo scomunicò e lo dichiarò decaduto dall’impero. Tale era lo stato delle cose in Germania, che quei fulmini della Chiesa furono fatali ad Otone. Era antica ed ereditaria nimistà tra la famiglia di Sassonia e quella di Hohenstauffen, di cui Federigo re di Sicilia e duca di Svevia era il capo. Le due potenti famiglie in ogni nuova elezione d’imperadore acremente pugnavano per giungere al trono. Ognuna delle due traeva appresso un gran codazzo di principi, di dottori e di baroni; però ogni imperadore avea sempre una fazione avversa e potente, che agguatava il destro di nuocergli. Le bolle di papa Innocenzio vennero così a suscitare un grande incendio in Germania. Il re di Boemia, il duca d’Austria, il duca di Baviera, il Langlavio di Turingia, gli arcivescovi di Magonza e di Treveri e tutti gli altri vescovi e principi, che allora concorrevano all’elezione degli imperadori riuniti in Bamberga promossero al trono imperiale il giovane Federigo re di Sicilia ed a lui spedirono Arrigo di Nofan ed Anselmo di Sunstigen, per invitarlo a recarsi in Germania, per ricevervi la corona (309).
A tanto mutamento di cose, Otone più che di pressa si ritrasse nel novembre del 1211. Re Federigo nel marzo seguente, lasciata in Palermo la regina col figliuolo già da lei avuto venne a Roma, ove fu con grandi onorificenze accolto dal papa, dai cardinali e dal popolo; indi passò in Genova; e poi coll’aiuto dei Pavesi, dei Cremonesi, e d’Azzo VI marchese di Este, viaggiando per aspri ed obbliqui sentieri, per ischivare gli agguati dei Milanesi, partigiani d’Otone, giunse a Costanza tre ore prima del rivale che correva a soprapprenderlo. In Valcolore s’accontò con Luigi, figliuolo primogenito di Filippo Augusto re di Francia, del pari nemico d’Otone, e vi concertarono il modo d’abbattere il comune nemico. Lung’ora con varia fortuna si battagliò fino a tanto che Otone perduta la battaglia di Bouvines a fronte dell’esercito francese, comandato dallo stesso re, disperato di potere riacquistar l’impero si ritirò in Sassonia, ove finì di vivere nel castello di Hartesbourg nel 1218, assoluto della scomunica da Sifrido vescovo di Hildeshaim dopo d’avere espiato la sua colpa colla penitenza d’essere scalpitato dai suoi guatteri.
IV. — Comechè Federico I, fra’ re di Sicilia, II fra’ gl’imperadori di Germania di tal nome, fosse già riconosciuto imperadore, pure finchè visse Otone, non potè mai ottenere da papa Innocenzio d’esser coronato, per quella funesta gelosia del potere, di cui antica era la cagione e lacrimevolissimi indi in poi furono gli effetti. I romani pontefici, più di qualunque altro principe italiano, avean da temere vicini potenti, erano stati, spesso palesamente e sempre in cuore avversi ai re di Sicilia della famiglia normanna; nè avean mai lasciato scappare il destro di dar loro alcuna briga. Indi nasceva la longanimità, colla quale la romana corte metteva avanti la pretensione di annullare, malgrado le tante conferme, il privilegio dell’apostolica legazione, che spuntava il corso ai fulmini del vaticano. Più grave ragione di temere ebbero poi i papi quando lo scettro di Sicilia passò nella famiglia di Hohenstauffen, che tenne oltre un secolo il trono imperiale; perciocchè gl’imperadori di Germania erano fra tutti i principi d’Europa i men docili a riconoscere la potestà temporale de’ papi e quel supremo potere ch’essi affettavano sui regni altrui. Rammentavano sempre i pontefici le lunghe ed aspre guerre avute a sostenere con Arrigo IV, con Federigo Barba-rossa; nè gl’imperadori dappresso avevano obbliato le indecore penitenze imposte a quei principi ed i sacrifizî della sovrana potestà. In tali circostanze fu elevato alla sedia pontificia Innocenzio III, uomo di non ordinaria capacità, il quale tanto elevò l’ecclesiastica sulla civile autorità, che i più potenti principi d’Europa ebbero a sentirne il peso. Punì coll’interdetto tutto il regno di Francia pel divorzio del re Filippo Augusto e la regina Ingelburga, scomunicò Giovanni re d’Inghilterra, lo dichiarò decaduto dal trono, sciolse i sudditi suoi dal giuramento di fedeltà, e quell’imbecille re ebbe a deporre la sua corona a piedi di un legato pontificio; lo stesso fece con Raimondo conte di Tolosa; Otone fu del pari da lui deposto dal trono imperiale; ed al tempo stesso aggiungeva ai dominî della chiesa la Romagna, l’Umbria, la Marca d’Ancona, Orbitello e Viterbo.
Pontefice tale non poteva certo sgozzare, che re Arrigo imperadore, venuto al trono di Sicilia, non s’era mai voluto piegare a prestare l’omaggio e pagare il tributo per le provincie dipendenti dal regno di Sicilia; e però s’era con tanta ostinazione negato a riconoscere Federigo, se prima la regina sua madre in nome del figliuolo non avesse rinunziato all’antico privileggio dell’apostolica legazione e giurato di recarsi in Roma a prestare personalmente omaggio pel regno e dichiarar di tenerlo per pontificia concessione. Per la ragione stessa, dopo la morte dell’imperadore Filippo di Svevia: quel pontefice avea fatto ogni opera per fare eleggere Otone di Sassonia, suo nemico, ed escludere re Federigo, comecchè eletto da gran tempo re dei Romani: se l’impero si unisse alla Sicilia, scriveva egli, la Chiesa ne sarebbe sconvolta: perocchè, per tacere degli altri pericoli, egli si negherebbe a prestar omaggio pel regno, come si negò suo padre (310).
Ciò che papa Innocenzio volea schivare, era per accadere, e forse con maggior suo danno, quando Otone fu per conquistare il regno di Sicilia, senza che Federigo avesse potuto opporgli resistenza; ma quell’attacco, inteso a distruggere la potenza papale, fu quello appunto, che maggiormente lo esaltò. Una bolla desta una rivoluzione in Germania; Otone perde l’impero; Federigo l’acquista, ma prima di acquistarlo, l’astuto pontefice estorse da lui quelle concessioni, che per l’immatura morte della regina Costanza non avea potuto ottenere; Federigo stretto dal timore di perdere il regno, e dalla speranza di acquistar l’impero, ebbe a piegarsi a prestare il richiesto omaggio ad un legato pontificio spedito a bella posta in Sicilia, e con diploma del mese di febbrajo 1211 promise l’annuale pagamento di mille schifati per la Puglia, per la Calabria e per la Marca; rinunziò al dritto di scegliere i vescovi ed i prelati del suo regno; tolse il divieto degli appelli delle cause ecclesiastiche alla romana corte; in somma cancellò il privilegio dell’apostolica legazione. Non contento a tali concessioni, papa Innocenzio, nel concilio da lui convocato nel 1215 nel laterano, dichiarò che il nuovo imperadore non potesse essere al tempo stesso re di Sicilia, però prima d’esser coronato dovesse farne rinunzia al figliuolo, il quale dovesse poi dichiarare di tenerlo per pontificia concessione. Non era allora nè morto, nè vinto del tutto Otone; Federigo, visto il temporeggiarsi del papa a coronarlo, avea gran ragione di temere che egli non si rappacificasse con quello; gli fu forza dichiarare nel concilio, per mezzo dell’arcivescovo di Palermo suo ambasciatore, re di Sicilia il figliuolo, colle condizioni che si volevano.
Fu questo il più gran trionfo della sacerdotale potenza sulla sovrana potestà. Di due potenti principi, che lottavano per l’impero, l’uno fu ridotto a farsi pestare dai guatteri, l’altro ebbe a rinunziare un regno avito dopo d’averlo spogliato delle più nobili prerogative, e prima fra tutte l’indipendenza; ma fu breve il trionfo.
I pontefici, tenendo dritti incontrastabili da estorte concessioni, vollero comandare da padroni orgogliosi; Federigo, che per astuzia ed elevatezza d’animo non la cedeva ad alcuno, libero per la morte di papa Innocenzio III e di Otone di qualunque riguardo o timore, mentre continuava a mostrarsi condiscendente e rispettoso verso il capo della chiesa, sdegnava di obbedire da servo abbietto e governava nel fatto gli stati suoi come se integre fossero le prerogative della sua corona e nulla non avesse rinunziato. Già vennero a cozzare il sacerdozio e l’impero; il cozzo fu in tanto più veemente, in quanto gli animi vennero esacerbati dall’armamento delle fazioni, che allora sursero e gran tempo lacerarono l’Italia.
Le due fazioni, che aveano scissa la Germania, per le gare tra la casa di Sassonia e quella di Svevia, vennero allora ad allignare in Italia, perchè delle città italiane alcune parteggiavan per Otone, altre per Federigo; ma nel cambiar suolo cambiarono nome ed oggetto. Guelfi cominciarono a dirsi gli uni, Ghibellini gli altri (311); nè si trattava più delle ereditarie nimicizie tra due tra due famiglie sovrane, che lottavano per l’impero, ma della guerra tra l’ecclesiastica e la civil podestà. I romani pontefici, capi dei Guelfi, dopo d’aver fatto ogni sforzo per sottomettere in tutto e per tutto l’autorità sovrana alla loro, s’accinsero a cacciar dall’Italia gl’imperadori, e questi voleano ristretto il ministero de’ papi alle sole spirituali attribuzioni. I papi che mettevano avanti le solenni parole di Chiesa e d’indipendenza italiana, avean per essi il popolo e le città libere, la cui libertà era, come i dritti pontificii, mal sicura, finchè gl’imperiali avessero potenza in Italia; ma i baroni e tutti i piccoli principi che colla caduta dell’autorità imperiale temevan di perdere le loro signorie, erano per lo più ghibellini.
Un’infinita moltitudine poi seguiva l’una e l’altra parte senza scopo, senza interesse, senza ragione, o per seguire l’amico ch’era dell’una, o per avversare il nemico, ch’era dall’altra parte.
Nissun paese è mai stato tanto e per tanto tempo travagliato dalle interne scissure, quanto lo fu allora l’Italia. Sì videro per tre secoli combattere precisamente principi contro principi, città contro città, famiglie contro famiglie; nè si combatteva se non per lo totale esterminio della parte avversa. Spente le più forti voci della natura, sciolti tutti i vincoli della società, si videro padri inveire contro i figli, fratelli contro fratelli; e nella città stessa i cittadini combattere fra essi, finchè una delle due partì restava padrona del campo; gli avversi erano allora banditi, i loro beni o dati o appropriati o sperperati, le case loro dalle fondamenta spianate; si videro i più atroci delitti, i più vili tradimenti riportare il plauso generale; si videro infine i ministri di un Dio di pace, per cupidigia di autorità temporale portar esca a tanto incendio, esserne il primo mantice, bandire una crociata di cristiani contro un principe cristiano, ridurlo a perdere il trono e la vita, negar sepoltura al suo cadavere, dare il suo regno a gente straniera, che non conobbe misura nelle oppressioni, intantocchè i popoli, spinti all’estremo, non ebbero altro mezzo di ricondurre al trono la legittima famiglia, che un atto atrocissimo, di cui nè le antiche, nè le moderne storie danno altro esempio.
Finchè visse Innocenzio, le cose eran ben lontane di giungere a tali estremi; Federigo mal fermo allora sul trono, piegandosi ai tempi, dovea tutto emendare; e perchè la manìa del secolo portava le genti alla guerra d’oriente, il nuovo imperadore, per ingrazianarsi di più quel pontefice, aveva anch’egli presa la croce. Morti poi nel 1216 papa Innocenzio, e l’anno appresso Otone, Onorio III, venuto al pontificato cominciò ad insistere, che Federigo imprendesse tosto, come promesso avea, la crociata; questo dall’altro lato insistea per essere coronato; ed intanto si maneggiava in Germania per fare eleggere il piccolo Arrigo suo figliuolo a re dei Romani, per aprirgli la strada al trono imperiale. Venutone a fine scrivea sommessamente al papa, che ne avrebbe sospesa l’esecuzione, se ciò non era di suo grado. Sceso poi con valide forze in Italia, rinnovò con più efficacia la dimanda della coronazione. Papa Onorio, che per trambusti accaduti in Roma, si era rifugiato in Velletri, posto com’era tra due fuochi, non potè negarsi più oltre; accompagnato da Federigo entrò in Roma, fece stare a segno quel senato e quel popolo, e addì 22 di novembre del 1220 seguì la coronazione di Federigo e della moglie, la quale una col suo figliuolo si era alcun tempo prima recata in Germania. Re Federigo, coronato imperadore, pigliò nuovamente la croce e promise di mandare validi soccorsi ai crocesegnati, i quali si erano giù insignoriti di Damiata.
Venuto in Puglia, privò delle baronie loro e bandì que’ baroni, che avean favorito Otone, comechè alcuno fra essi fosse stato ecclesiastico; convocò in Capua il parlamento di quelle provincie, e molti regolamenti vi furono stanziati per la tranquillità e buon reggimento di esse, tra’ quali è degno di nota quello di demolirsi tutte le castella e le fortezze da’ baroni edificate ne’ loro feudi senza il regio assenso, contro le leggi. Ciò fatto, venne rassettando tutte quelle città, castella e baronie, che ne’ passati trambusti erano state al demanio usurpate. Passato poi in Messina, vi chiamò il parlamento del regno (312), ed anche ivi leggi furono bandite. Per adempire poi la promessa fatta al pontefice di mandare sollecito soccorso in oriente, levò un balzello del venti per cento sui beni de’ secolari, e del dieci su quelli degli ecclesiastici; e col danaro indi tratto apprestò una armata di sessanta galee, che sotto il comando di Gualtiero della Pagliaia, gran cancelliere, e del grand’ammiraglio Arrigo conte di Malta spedì in soccorso di Damiata, che i cristiani aveano preso ed i musulmani assediavano.
Infelice fu l’esito della spedizione. Per l’imprudente ostinazione del cardinal Pelagio, legato pontificio, e gli errori de’ principi, la città ebbe ad aprir le porte, senza che l’armata siciliana avesse potuto ritardar d’un sol giorno la resa; tanta era l’angustia, cui erano ridotti gli assediati. E fu generosità del vincitore, se ebbero salva la ritirata, prima di restarvi morti di fame e di stento. Dei due comandanti siciliani, il gran cancelliere temendo lo sdegno di Federigo, fuggì a Venezia, ove ivi a poco si morì; il grand’ammiraglio, sicuro della sua innocenza, ritornò coll’armata nel regno; ne riportò dal re imperadore severo rabbuffo; fu imprigionato, spogliato de’ beni; ma per quanto appare, lo sdegno di Federigo non era sincero, nè guari andò che quel conte riebbe i beni e la libertà.
In questo, re Federigo imperadore, cui, più che della incerta e lontana conquista di Gerusalemme, di riordinare il suo regno calea, ogni studio ponea a raccattare quanto a lui era stato usurpato nella minorità. I Genovesi s’erano resi padroni di Siracusa: ciò era stato promesso loro da re Arrigo, che, mancando alla promessa, avea loro negato il possedimento della città; solo avea loro permesso di stabilirvi i loro fondachi ed essere esenti di qualunque peso. I Pisani nel 1202 ne li avean cacciati; essi, ripresa di viva forza la città: vi esercitavano pieno dominio: Federigo ne li cacciò, nè valse allegare la concessione del padre, l’accoglienza a lui stesso fatta in Genova, i servizî prestati; solo poterono ottenere d’esser messi del pari alle altre nazioni che mercantavano in Sicilia. Nè più pieghevole si mostrò Federigo allo stesso pontefice.
Erano fra’ baroni di Puglia, che il re avea spogliati de’ loro feudi, Riccardo conte di Sora e il conte d’Anagni suo fratello, i quali furono inoltre arrestati e mandati nelle carceri di Sicilia, nulla giovando loro d’esser fratelli di papa Innocenzio III. Costoro fecero giungere le loro querele a papa Onorio, ed alle loro s’accordavano quelle degli altri baroni, massime degli ecclesiastici, ch’erano stati puniti, e quelle di tutti i chierici del regno, che dicevano lesa la loro immunità per la tassa loro imposta, comechè diretta a far le spese d’una guerra, ch’eglino stessi predicavano santa, e per essere sottoposti alla giurisdizione de’ tribunali ordinarî. Il papa prese le parti loro; perchè gli stava fitta in mente l’idea di quella guerra, spedì un suo nunzio in Sicilia, per esporre al re le sue lagnanze pe’ gastighi inflitti ai baroni di Puglia, per le tasse imposte agli ecclesiastici e per invitarlo al tempo stesso a recarsi in Verona, ove doveano anche convenire Giovanni di Brenna, già re di Gerusalemme, ed il cardinal Pelagio, per pensare al modo di ripigliare con vantaggio le armi. Rispose Federigo al pontificio messo: sè avere gastigati a buon dritto i suoi ribelli baroni; nè altri, da lui in fuori, esserne giudice competente; promise al pontefice ed ordinò, che quindi innanzi i chierici godessero le stesse franchigie, che godevano nel regno di Guglielmo II; e con ciò diede a conoscere di essere suo intendimento considerare come non avvenute tutte le innovazioni fatte nel dritto pubblico ecclesiastico dì Sicilia dopo la morte di quel re; promise finalmente di recarsi al congresso dal pontefice proposto nel tempo assegnato.
V. — Quel congresso per varî incidenti non ebbe allora luogo: però Federigo rivolse tutte le sue cure a sottomettere i Saracini di Sicilia. Costoro, affezionati ai re normanni, dai quali assai erano stati favoriti, mal patirono la dominazione dei principi svevi, dai quali erano mistrattati; e però non lasciavano mai scappare il destro di nuocere al nuovo governo; s’erano uniti a Marcaldo ed agli altri, dei quali avean favorita l’usurpazione, ed ultimamente capitanati da un Mirabbatto, si erano levati in armi. Ritrattisi nell’interno dell’isola, altri abitavano il paese piano, ed altri occupavano luoghi muniti sulle montagne: numerosi e nelle armi valenti, eran perniciosi al governo, non che pei mali interni, che recavano, ma per lo favore che potean dare all’esterno aggressore.
Nel 1221 re Federigo imperadore venne ad assediare Aci, ove molti di essi stanziavano, e gli venne fatto di espugnar la terra ed aver nelle mani Ben Avath loro capo coi suoi figliuoli che fece appiccare in Palermo (313). Ma quella guerra fu interrotta, prima della morte della regina imperatrice Costanza accaduta in Catania nel dì 23 giugno 1222, e poi dalla gita di Federigo nel continente per abboccarsi col pontefice. S’unirono in Veroli e discussero il modo da tenere per riportare le armi cristiane in oriente. Propose Federigo di chiamare al congresso stabilito in Verona anche i due gran maestri degli Ospedalieri e dei Tempieri, i quali per lo lungo soggiorno loro in Gerusalemme potevano dare le migliori direzioni per quell’impresa, della quale si mostrava sempre voglioso.
Non più in Verona, ma in Ferentino quel congresso ebbe luogo. Si stabilì di non dare alcun passo durante la tregua conchiusa col Soldano alla resa di Damiata; Federigo chiese ed ottenne due anni di tempo per adempiere alla promessa da gran tempo fatta; e papa Onorio, per maggiormente indurvelo, fece che il re di Gerusalemme a lui fidanzasse la Isabella, che alcuni chiamano Giolanda, sua figliuola, nella quale, per esser morta la regina Maria di Monferrato madre di lei, che avea recato in dote quel regno, si era trasfuso il dritto alla corona. E per essere la fidanzata impuba, fu pattuito di aver luogo il maritaggio ivi a quattr’anni.
Fatto ritorno in Sicilia, Federigo riprese la guerra contro i Saracini. Coloro che abitavano il paese piano spaventati dalla prigionia e dal gastigo inflitto a Mirabatt loro capo, promisero sottomettersi ed essere quindi innanzi fedeli ai re; nè ebbero altro gastigo, che d’esser tutti (erano ventimila) mandati a stanziare in Nocera città di Puglia, che indi in poi venne detta Nocera dei pagani, ed ivi molto valsero in appresso a sostenere l’autorità del re, sempre minacciata da que’ turbulenti baroni, dei quali alcuni de’ più potenti, chiamati in Palermo per prestare il loro servizio contro i Saracini delle montagne, venutivi senza sospetto, furono ad esempio de’ compagni imprigionati, e confiscati vennero i loro beni. Ad intercessione di papa Onorio ebbero libertà l’anno appresso, a patto d’andar banditi dal regno e lasciare stadichi i figli ed i nipoti (314).
La guerra contro i saracini delle montagne continuò; ma non potè venir fatto a Federigo, nè allora, nè appresso, di sottometterli od estirparli del tutto; intantochè in tutto il corso della vita di quel principe le memorie de’ tempi accennano a quando a quando alcuna di tali guerricciuole, che bastarono finchè quella mal’avventurata genìa non più favorita dal governo, non protetta dalla legge, non gradita agli altri abitanti, venne in quel tempo estinguendosi.
Prima di spirare il termine di due anni, entro i quali Federigo avea giurato di recarsi in Terra-Santa, volle egli nel 1225 chiedere una nuova proroga al papa, per essere pericoloso per lui il dilungarsi dal regno, mentre ancora ardeva la guerra co’ Saracini; e per ottenerla mediò il re Giovanni di Brenna suo suocero e ’l patriarca di Gerusalemme, non guari prima venuti da quella città. Costoro si recarono a Tivoli, ove Papa Onorio s’era allora ritratto. Il re in questo, che in Amalfi era, chiamò colà tutti i prelati del regno, forse per consultare sulla condotta da tenere, nel caso che il pontefice si fosse negato; ma il caso non ebbe luogo; Onorio travagliato allora da una sedizione de’ Romani, per cui era stato costretto a fuggir da Roma, condiscese alla richiesta; due cardinali furono da lui spediti a Sangermano, ove re Federigo imperadore s’era trasferito con tutti i vescovi, ed ivi in presenza di questi e de’ cardinali giurò di recarsi ivi a due anni nel mese d’agosto in Soria, menando seco mille militi, cento legni, che si dicevano Malandri, e cinquanta galee ben armate; di dare a sue spese il passaggio a duemila altri militi colle loro famiglie, contando tre persone per ogni milite; di dare cinquanta marche d’argento per ogni milite che avesse condotto di meno; di consegnare centomila once d’oro al re Giovanni di Brenna, al patriarca di Gerusalemme ed al gran maestro de’ Teutonici, per farne le spese della guerra; e, nel caso ch’ei fosse morto prima di recare a fine l’impresa, il suo successore nel regno di Sicilia fosse tenuto a farlo; consentì finalmente ad essere scomunicato e sottoposto all’interdetto il suo regno, ove egli fosse per mancare a tal giuramento (315). I due cardinali allora lo sciolsero dai giuramenti prima prestati in Veroli ed in Ferendino.
Ad onta di tal giuramento, Federigo, per quanto appare tutt’altro avea in animo che il dilungarsi dagli stati suoi, e ne avea ben d’onde, che la sovrana sua autorità era a que’ dì minacciata da papa Onorio, che voleva esercitare nel regno un supremo potere, altamente offensivo de’ diritti incontrastabili della sua corona, e delle città guelfe di Lombardia, che miravano a ridursi all’atto indipendenti. Vacavano allora cinque sedie vescovili nel regno; il papa di sua sola autorità, senza consenso o notizia del re, ne destinò i vescovi. Federigo ordinò, che que’ nuovi prelati non fossero riconosciuti ed ammessi nelle chiese loro assegnate (316). Più difficile era il ridurre all’obbedienza i guelfi di Lombardia, e questa impresa fu alcun tempo sospesa per lo maritaggio del re.
VI. — Era già da marito la nuova sposa. Federigo spedì a lei in Siria l’arcivescovo di Capua con 14 galee. Ricevuta la corona del regno in Tiro, si mise in mare e nel novembre del 1227 giunse a Brindisi, ove seguirono le nozze nacque la ministà tra Federigo e ’l suocero. Il primo si fece tosto riconoscere dai nuovi sudditi re di Gerusalemme, e persone sue mandò in Siria a governar per lui le poche città che restavano in quel regno non sottomesse dai musulmani; e ben altra onta fu Federigo per fare al suocero. Era fra gli altri baroni di Siria, venuti a cortear la regina, Gualtiero conte di Brenna, nipote del già re Giovanni, figliuolo di quel Gualtiero che da papa Innocenzio III era stato investito della contea di Lecce e del principato di Taranto pe’ dritti della moglie, figliuola del re Tancredi; però s’era in lui trasfuso il dritto che il padre potea vantare sul regno di Sicilia. Federigo, entrato in sospetto che il re suo suocero dava mano alle mene di suo nipote per farsi un partito e far valere i dritti suoi, ordinò la carcerazione d’entrambi; ma quelli camparono. Il nipote andò in Francia, lo zio venne in Roma ad aggiungere esca all’incendio, che ivi a poco divampò.
Quetate le domestiche brighe, Federigo tutto si volse alla guerra di Lombardia.
Le città guelfe Milano, Verona, Piacenza, Vercelli, Lodi, Alessandria, Trevigi, Padova, Vicenza, Turino, Novara, Mantova, Brescia, Bologna, Faenza, per difendere la loro libertà, e forse estenderla, s’erano strette in lega contro Federigo, che ne affettava l’assoluta dominazione. Per venire a capo d’un tal disegno, chiamò il servizio militare de’ baroni di Puglia e degli altri stati d’Italia a lui soggetti; assegnò Pescara per luogo di riunione di tutta la sua forza; ed al tempo stesso ordinò al figlio Arrigo di scendere con quel maggiore esercito, che potesse, in Italia, e dirigersi a Cremona, ove avea convocata una dieta de’ principi e baroni di Alemagna.
Se è da credere alla cronica del monaco Gottifredo, papa Onorio sottomano era il principal motore della lega delle città guelfe. Ciò sembra confermato dal detto dell’abate di Usperga, che il convegno di Cremona non ebbe luogo per opera della romana corte (317) e dell’essersi i baroni del ducato di Spoleto negati a seguir Federigo, dicendo che, per essere vassalli immediati del papa, da lui doveano ricever l’ordine di pigliar le armi. Re Arrigo era sceso in Italia colla gente alemanna; ma in Verona fu dai Guelfi respinto e non potè unirsi col padre; questi, mancatogli quel soccorso, non avendo più forza da riuscir vittorioso, chiese la mediazione del papa per la pace; e per farselo amico, ammise nelle loro sedi i vescovi da quello eletti. La pace fu presto conchiusa a tal partito: perdonasse l’imperatore ogni offesa delle città guelfe; e queste dessero a lui per due anni quattrocent’uomini d’armi, per l’impresa di Terra-Santa. Composte le cose, re Federigo imperadore venne in Sicilia colla sposa. Non guari sopravvisse a tali avvenimenti papa Onorio, venuto a morte addì 18 di marzo del 1227.
VII. — Le gare tra la pontificia e la sovrana potestà, che fino a quel punto erano state od occulte o velate dell’esterno decoro conveniente alle due supreme autorità della chiesa e dello stato, indi in poi divamparono così furiosamente che ne fu sconvolta l’Europa e parte dell’Asia, per la disposizione degli animi e la incostanza de’ due capi. Gregorio IX assunto al pontificato dopo la morte di Onorio III, era nipote di Innocenzio III, quanto lui, e forse più di lui ambizioso d’estendere la pontificia potestà, e meglio di lui credeva di poterne venire a capo; perocchè teneva già cancellate dallo zio le prerogative della corona di Sicilia: e l’esempio di Otone gli faceva credere di potere colla stessa faciltà deporre dall’impero Federigo, se osasse resistere.
Dall’altro lato Federigo, re ed imperatore, avea senno, cuore e forza di difendere le prerogative del regno, la dignità dell’impero, e se nella sua infanzia era venuto fatto ad Innocenzio III di estorcere da lui concessioni offensive de’ dritti suoi, nel pontificato di Onorio avea destreggiato per non venire ad aperta guerra con quel pontefice, ed intanto avea messo tal ordine alle cose sue da non temere quando che fosse il conflitto; con leggi sapientissime, dirette a reprimere la licenzia de’ sudditi ed afforzare la pubblica autorità, colla severa amministrazione della giustizia, colla rigida esazione de’ tributi avea composto in modo il reame siciliano, ch’egli era amato e temuto dai sudditi, e l’erario s’era rifatto delle immense perdite della sua minorità; ed in Germania, spente del tutto le antiche fazioni, la sua autorità era da tutti riconosciuta, il suo nome era da tutti temuto.
S’era allora già cominciato a freddare la mania degli Europei di correre a torrente al conquisto di Gerusalemme; ma non s’era freddato già ne’ romani pontefici lo zelo di spingere a tali lontane imprese i principi, massime quelli, dei quali aveano a temere la vicinanza e l’ambizione, e però Federigo sin dal 1215 avea dovuto giurare di recarsi con esercito poderoso in Palestina; ma in dodici anni avea rinnovato spesso e non adempito mai il giuramento, del quale si valea per trar denaro dai sudditi. Oltre alla decima imposta nel 1221 sui beni dei secolari, ed alla vigesima su quelli degli ecclesiastici, e le straordinarie imposte del 1223 e del 1224 per la guerra co’ Saracini, un mutuo esasse da tutto il regno dopo il giuramento prestato nel 1224 ed una colletta nel 1227; e ben possiamo argomentare la gravezza di tali tributi dal fatto, che il monastero di Montecasino pagò pel mutuo del 1224 once milletrecento e per la colletta del 1227 once quattro centocinquanta (318); tassa esorbitante, atteso l’alto valore delle monete in quell’età.
Ciò non però di manco, da che ebbe il regno di Gerusalemme, pare che Federigo abbia seriamente pensato a portar le armi in oriente, se non per raccattare il perduto, per conservare quelle città, che a lui ancora restavano di quel regno; e però ne’ primi giorni del pontificato di Gregorio vi avea già spedito parte del suo esercito (319); ed anche prima avea già chiamati per riunirsi a Brindisi nell’agosto del 1227, tempo in cui avea promesso di far mossa, tutti i principi che avean presa la croce. Papa Gregorio insistea per l’adempimento di tale promessa, Federigo, che s’era recato colla moglie ad Otranto, quando l’esercito fu tutto riunito, lasciata la moglie in quella città, venne anche egli a Brindisi; ma trovò che per gli eccessivi calori della state e per l’aria malsana di quelle montagne, gravi malattie s’erano introdotte nel campo, delle quali, non che i gregarî, perirono i vescovi di Angiò ed Ausbourg ed il Langravio di Turingia. Pure Federigo col resto dell’esercito s’imbarcò; ma, ammalatosi anch’egli, non potendo reggere al disagio della navigazione, dopo tre giorni tornò al lido, onde era mosso.
Papa Gregorio, saputo il suo ritorno, avventatamente lo dichiarò incorso nella scomunica; ed una lunga lettera pastorale diresse a tutti i vescovi, nella quale enumerava i benefizî dalla chiesa romana compartiti a Federigo sia dalla sua infanzia; diceva ch’essa lo avea allattato, sostenuto, difeso ed educato con grave fatica e dispendio, e finalmente lo avea promosso prima al regno e poi all’impero (320); senza fare alcun cenno del dritto ereditario e dell’elezione de’ principi di Germania, ponendo anzi il fatal principio d’essere i papi facitori e disfacitori de’ re. Rammentava il giuramento da lui fatto nel 1215, e le tante procrastinazioni; e finalmente dava a lui colpa della morte di coloro ch’erano periti in Brindisi per lo disagio del lungo stare in luoghi malsani, cagionato dal non avere egli apprestato quel numero di navi che avea promesso; e di esser tornato indietro a godere la delizia del suo regno, col frivolo pretesto della malattia (321). Per le quali colpe lo dichiarava scomunicato, ordinava a tutti di schivarne il consorzio; minacciava altre pene, se mostravasi contumace; ma conchiudeva colla speranza che quest’ecclesiastico collirio fosse sufficiente ad aprir gli occhi del traviato, e questi ricorresse al rimedio di mostrarsi indi in poi più umile e rassegnato alla santa chiesa (322).
Quell’ecclesiastico collirio più presto che ad aprire, era inteso a far chiudere gli occhi di Federigo; ma e’ gli avea già da lung’ora aperti, per sentire altamente di se, conoscere i dritti suoi, volere, sapere e potere difenderli; però era ben lontano di ricorrere alla medicina, che il papa gli offriva. Saputo quel subito procedere di papa Gregorio, a lui spedì gli arcivescovi di Reggio e di Bari, il duca di Spoleto e ’l conte di Malta, per esporgli le sue giustificazioni; ma non poterono costoro scaponire il pontefice, il quale anzi, chiamati quanto vescovi potè, in loro presenza con più solenne apparato iterò la scomunica. Non restava allora a Federico altro partito, che, o stendere il collo al giogo, o combattere; non fu dubbia la scelta.
Per valersi delle armi stesse, colle quali papa Gregorio cercava di sopraffarlo, mentre quello assoldava contro di lui Giovanni già re di Gerusalemme, ed aizzava i baroni di Toscana e di Lombardia, egli avuti a se alcuni dei più potenti fra i baroni romani, li trasse alla sua, e per renderli da lui affatto dipendenti, comprò tutti i beni loro, e poi a loro stessi li concesse in feudo, e così vennero suoi vassalli. Per costoro mezzo un tumulto fu destato in Roma contro il papa, il quale ebbe a rifuggirsi a Perugia (323). Al tempo stesso un manifesto dirigeva a tutti i principi d’Europa per giustificar se e rispondere di rimbecco al papa. In quello diretto ad Errigo III re d’Inghilterra, che lo storico inglese di quell’età Matteo Paris riferisce, dichiara esser menzogna ch’egli per frivoli pretesti avesse sospesa la sua gita in Siria; chiama Dio in testimonio della verità della sua malattia, ed assicura che il più presto che potrebbe, come fosse rimesso in salute, avrebbe ripigliata la santa impresa. I papi, soggiungea, per cupidigia di denaro volevano rendere tutti i regni tributari in Roma; ed in prova adduceva gli esempi del re d’Inghilterra Giovanni, che fu scomunicato e vi stette finchè non si sottopose ad un tributo, e del conte di Tolosa, i cui stati furono sottoposti all’interdetto, per ridurli alla stessa servitù; e qui soggiungeva altre virulenti querele contro la romana corte (324). Ecco, diceva, i costumi dei prelati romani, ecco i lacci, che tendono per ismunger denaro, soggiogare i liberi, inquietare i pacifici; pecore all’esterno, lupi rapaci in cuore, che mandano per tutto legati con facoltà di scomunicare, sospendere, punire, non per seminare la parola di Dio, ma per estorcer danaro, raccogliere e mietere ciò che non han seminato (325). Sulla povertà e la semplicità era fondata la primitiva chiesa, quando feconda partoriva i santi; nè può essa avere altro fondamento che quello datole da Gesù Cristo; e se gli ecclesiastici sono oggi tanto cupidi di ricchezza, è ben da temere, che per la ricchezza l’edifizio della chiesa ruini (326).
A tale violento manifesto tenne dietro nel 1228 una bolla di papa Gregorio forse non meno violenta, colla quale fulminava contro Federigo una terza scomunica e dichiarava sciolti dal giuramento di fedeltà tutti i sudditi suoi, particolarmente quelli di Sicilia e di Puglia. Ma quest’arme che avea gran forze contro i principi deboli od odiosi, nulla valse contro Federigo, il quale in quell’anno stesso chiamò a parlamento in Capua tutti i conti del regno; ed ivi impose per l’impresa di Terra-santa la gravosissima tassa di ott’once d’oro per ogni feudo, ed un milite per ogni otto feudi, da esser presto nel maggio che era per sopravvenire, ed all’oggetto stesso intimò una dieta di vassalli dello impero da riunirsi nel marzo di quell’anno in Ravenna (327). Ma tale dieta non potè aver luogo, perchè il papa ed i guelfi di Lombardia tenevano il passo, non che a coloro, che colà si recavano, ma a tutti i crocesignati d’oltremonti, che venivano ad aver parte alla spedizione (328). Nè contento a ciò papa Gregorio, ordinava a tutti gli ecclesiastici del regno di non pagare i tributi loro imposti per quella spedizione; ma, buono o mal grado, e’ li pagavano. Federigo in questo, ad onta di tutte le difficoltà, sollecitava gli appresti; già nell’aprile di quell’anno avea spedito in Siria cinquecento militi sotto il comando del suo maliscalco Riccardo Filingeri (329). Poco appresso, per far conoscere ai sudditi in modo legale e solenne l’ultima sua volontà, convocò a parlamento in Barletta tutti i conti, i baroni ed prelati del regno. Tanto salda era l’autorità di quel principe, malgrado le bolle di papa Gregorio, che alla sua voce corsero i sudditi in sì gran numero, che l’adunanza ebbe luogo a cielo aperto. Ivi da una bigoncia a bella posta eretta dichiarò: essere suo volere che durante la sua assenza si vivesse da tutti con quella pace e tranquillità che si godea sotto il re Guglielmo II; lasciava bailo a governare per lui Rinaldo duca di Spoleto; disponeva che nel caso di sua morte a lui succedesse nello impero e nel regno Arrigo suo figliuolo; e morendo costui senza figli legittimi, l’altro figliuolo Corrado, e mancato questi, gli altri suoi figli legittimi; ordinò finalmente che i sudditi non fossero gravati di tributi, se non per causa d’utilità pubblica. La osservanza di tali disposizioni fu giurata dal duca di Spoleto, dal conte Arrigo di Morra, gran giustiziere di Puglia e da altri distinti personaggi.
VIII. — Non guari dopo la conchiusione di quel parlamento ebbe il re imperadore a soffrire la perdita della sua seconda moglie, dalla quale avea avuto il figliuolo Corrado. Nel giugno del 1228 ogni cosa era presto; Federigo si mise in mare. Gli scrittori guelfi gli appongono di non avere altra forza che venti galee e cento militi; ma, lasciando stare che forze assai più numerose avea fatto procedere, egli, più che nelle armi, confidava nella politica. Già sin da che era venuto in possesso del regno di Gerusalemme, avea spedito l’arcivescovo di Palermo ad offrire pace ed amicizia al soldano d’Egitto, il quale con lieto animo avea ricevuta la proposizione, ed in segno di amicizia e di pace per lo stesso arcivescovo gli avea mandato un elefante, muli ed altri ricchi presenti; e quell’arcivescovo nel gennajo di quell’anno era già di ritorno (330).
Posto piede a Tolemaide, Federigo, cui si unirono tutti i crocesignati, che colà stavano ad aspettarlo, s’avanzò sino a Gaffa, per ristaurarne le bastite. Già sin dal suo arrivo il soldano di Egitto avea a lui mandato suoi ambasciatori per ossequiarlo ed aprir trattative di accordo; nè accadde lungo trattare. Quel soldano stretto da molte guerre domestiche, non volea tenzonare coi cristiani per lo possedimento dello sterile paese di Gerusalemme. Una tregua di dieci anni fu conchiusa, durante la quale furono cedute a Federigo le città di Gerusalemme, Betlem, Nazaret, Tiro, Sidone coi rispettivi territorî e con tutto il paese frapposto all’una e all’altra città; in guisa che dalla spiaggia di Tolemaide sino a Gerusalemme, tutta la provincia fu dominio cristiano. Ma perchè i musulmani veneravano il tempio di Gerusalemme, come i cristiani il santo sepolcro di G. C., fu convenuto che potessero senza molestia recarvisi a far loro preci, ma in quel numero che piacerebbe a Federigo, disarmati, e tosto fatta l’adorazione, dovessero ripartire, non potendo albergare entro le mura della città. Liberati furono tutti gli schiavi cristiani. Comechè tale convenzione avesse avuto nome di tregua, pure chiaramente si vedea di avere il soldano perpetuamente rinunziato il paese ceduto, per la condizione che fosse lecito a Federigo riedificare ed accrescere le fortificazioni delle città cedute, senza che il soldano potesse far lo stesso nelle città del suo dominio.
Se il cruccio di papa Gregorio contro di Federigo fosse stato in verità cagionato da carità cristiana, per non essersi egli accinto prima alla santa impresa, la notizia della felice riuscita di essa avrebbe dovuto spegnere in lui ogni rancore; ma tutto al contrario andò la bisogna. Non contento all’avere impedito, che i crocesignati d’oltremonti avessero raggiunto l’esercito, ed all’avere scomunicato tutti coloro che accompagnavano il re imperatore, mentre gli dava poi colpa d’esser partito con poco accompagnamento; non pago d’avere bandita una crociata contro quel principe, ed aver sottoposto i regni d’Europa, quelli, cioè, quali era a lui ed ai suoi predecessori venuto fatto di estendere la temporale autorità, a gravoso tributo per le spese di quella guerra; avea spedito ordine al patriarca di Gerusalemme, a tutti i vescovi di Siria ed ai cristiani di quelle parti, di non riconoscere l’autorità di Federigo, non comunicare con lui, non prestargli obbedienza e favore; ed uno sciame di frati francescani erano stati da lui mandati in quelle parti, per predicare tali massime.
In tale disposizione trovò quelle genti Federico. Tutti furono lieti del suo arrivo, pochi osavano salutarlo re. Egli adunati tutti i crocesegnati che colà erano ad aspettarlo, con lunga orazione mostrò la sua innocenza e l’ingiustizia della scomunica, e perchè il divieto del papa di prestare a lui obbedienza non nocesse alla riuscita dell’impresa, propose che gli ordini non in suo nome, ma di Dio e della cristianità fossero emanati. Conchiuso poi il trattato, venne a Gerusalemme, entrò nella chiesa del santo sepolcro, adorò il monimento; ma l’arcivescovo di Cesarea, d’ordine del patriarca di Gerusalemme, ch’era legato del papa, per impedire ch’egli vi fosse coronato, avea posto l’interdetto a quella chiesa; per che nessuno dei vescovi v’intervenne. Federigo tolse le difficoltà con levare egli stesso la corona dell’altare e porsela in capo colle sue mani. Comedia chiama questa il Di Blasi; non pensa il buon monaco, che Federigo volle in quell’atto far conoscere; che un re non ha mestieri, che altri gli mettesse lo corona sul capo, per esercitare la sua autorità, e che il suo stesso braccio, che lo coronava, sapea ben difendere la sua corona.
Nè quì ebbero fine le lagne date a quel principe dagli emissarî di Roma. I frati francescani predicavano come precetto di cristiana obbedienza il levarsi in capo contro un principe scomunicato, che il pontefice avea dichiarato decaduto dal trono. Federigo ne fece balzare alcuni dal pergamo alla prigione; più di uno ne fece scudisciare; gli altri ammutirono. Pure (tanto lo studio di parte avea allora pervertite le idee) papa Gregorio e il patriarca di Gerusalemme, nei loro manifesti sparsi allora in Europa, alto gridavano per tale punizione ch’ei chiamavano sacrilegio (331); come se il pergamo fosse fatto per predicare la rivolta, ed ogni sovrano non fosse in dritto d’infligere a’ sediziosi, quale che fosse l’abito che indossano, gastighi in tanto più severi e clamorosi, in quanto è più grave l’abuso del sacro loro ministero.
Federigo durante la sua dimora in Gerusalemme, ebbe assai più a temere dei tradimenti dei cristiani, che delle nimicizie dei musulmani. I cavalieri tempieri e gli ospedalieri, istigati forse da Roma (332), saputo che il re imperatore volea un di quei giorni recarsi inerme a piedi con pochi compagni a venerare il Giordano, nelle cui acque G. C. ebbe il battesimo, ne diedero per lettera avviso al soldano d’Egitto, proponendogli di mettersi in agguato per soprapprenderlo e cattivarlo. Il musulmano ebbe orrore del tradimento; non che romper fede allo amico re, a lui mandò la lettera ricevuta. Per quell’atto vennero a stringersi maggiormente i legami dell’amicizia tra quei due principi (333). Pure costoro stessi, che tanto vilmente cospiravano contro la libertà e la vita del loro sovrano, indussero il patriarca di Gerusalemme a pubblicare un manifesto, pieno di calunnie e di invettive contro di lui per denigrarne il nome.
IX. — Mentre in oriente tali cose accadevano, le provincie del regno di Sicilia erano sperperate da un esercito pontificio, comandato in nome del papa da Giovanni già re di Gerusalemme, al quale il pontefice avea promesso l’impero, e dal Cardinal Colonna, legato pontificio. Non sì tosto il re imperadore s’era messo in mare, che tale esercito, al quale si dava il nome di milizia di Cristo, portando nei vessilli le chiavi di S. Pietro, entrò in Puglia; e comechè il duca di Spoleto, lasciato a governare il regno, non fosse mancato a se stesso e gli altri baroni gagliarda resistenza avessero opposto, pure per la prevalenza del numero i pontificî progredivano, mettendo ogni cosa a foco ed a ruba (334). Di ciò diede avviso a Federigo il conte dell’Auria «Gregorio pontefice romano» scriveva egli «nemico pubblico della magnificenza vostra, raccolto un numeroso esercito per mezzo di Giovanni di Brenna già re di Gerusalemme e d’altri uomini valenti, ai quali ne diede il comando, entrato ostilmente nella terra vostra e dei vostri vassalli, contro la legge cristiana vuole vincervi colla spada materiale, non avendo potuto farlo colla spada, ch’e’ dice spirituale. Giovanni e gli altri capitani delle papali milizie metton foco alle case e alle campagne; portan via le robe e gli armenti; tormentano in mille modi gli uomini che prendono, per trar da loro gravosissimo ricatto; non perdonano ad alcun sesso; non rispettano nè le chiese nè i cimiteri; prendono le terre e le castella senza alcun riguardo all’esser voi in servizio di Gesù Cristo; e se alcuno fa menzione dell’imperadore, Giovanni di Brenna risponde non esservi altro imperadore che lui. Maravigliano gli amici vostri, e particolarmente il clero del vostro impero, con che mente, con che coscienza possa il romano pontefice muover le armi contro i cristiani, avendo il Signore detto a S. Pietro: riponi la spada nel fodero (335).» Ma papa Gregorio non volle riporre nel fodero la spada sua, comechè Federigo avesse già tolto ogni apparente ragione di querela col riacquisto di Gerusalemme; anzi da ciò trasse nuovi pretesti per fargli guerra.
Avea il re imperadore, dopo il suo ingresso in Gerusalemme, dato conto al pontefice stesso ed a tutti i principi d’Europa del buon successo della sua impresa. Lo storico inglese Paris ci ha conservato la lettera diretta ad Arrigo III re d’Inghilterra (336), nella quale Federigo espone il trattato conchiuso col suldano e tutte le condizioni di esso. Il papa non volle pur leggere la lettera a lui diretta; anzi spedì in Inghilterra un suo nunzio a raccorre la decima, da lui imposta a quel regno, per sostenere la guerra da lui impresa. Per costui mezzo fece pubblicare in Inghilterra, come avea fatto per tutta Europa, un manifesto, in cui enumerava le colpe di Federigo. Gli apponea principalmente d’essersi coronato da se stesso e d’avere concionato al popolo, per mostrare d’esser egli innocente ed accusare il pontefice d’ingiustizia, di simonia, di avarizia; d’aver conchiuso da se solo, senza intervento e scienza d’altri, il trattato col soldano, del quale trattato, per essere stato steso in lingua araba, s’ignoravano le condizioni, ma era da presumere che fossero favorevoli ai musulmani, dachè egli inclinava più alla fede di Maometto, che a quella di Cristo. Lo accusava di avere avuto oscene tresche con alcuna ballerina cristiana in Tolemaide ed anche con donne saracine; d’avere spogliato de’ loro beni persone ecclesiastiche, d’avere con viltà e violenza cacciati dal pulpito, scudisciati e maltrattati i predicatori (337). Per tali ragioni dichiarava di tenere per nullo tutto ciò ch’ egli avea fatto in Terra Santa, e gli facea guerra; essendo giusto e necessario alla fede cristiana, che fosse deposto dall’impero un così valido persecutore della Chiesa (338).
Per una strana confusione di parole e d’idee si parlava di fede cristiana, ove non avea luogo; si chiamavano persecutori della Chiesa que’ principi, che difendevano le prerogative della loro corona e non pativano la giurisdizione da altri usurpata; all’usurpazione stessa si dava il titolo di libertà della Chiesa e Chiesa e papa si volea che suonassero lo stesso. Quel garbuglio di parole e d’idee giovava allora ai papi, perchè i creduli accorrevano più facilmente alle loro bandiere; ma l’abuso di confonder Chiesa e papa tornò poi in grave danno della religione; perchè fece credere ad alcuni o che la Chiesa andava, come l’uomo, soggetta ad errore, o che l’uomo promosso al papato non era più uomo. Ricevuto l’avviso dell’invasione dell’esercito pontificio, re Federigo imperadore non istette a badare. Nel maggio del 1229 fu di ritorno, quando i suoi nemici men lo aspettavano e facevano correr voce della sua morte. Sua prima cura fu di spedire al papa gli arcivescovi di Reggio e di Bari e il gran maestro de’ Teutonici, per chiedere in suo nome colle più rispettose espressioni l’assoluzione della scomunica. Papa Gregorio, che per li progressi dell’esercito suo in Puglia, credeva già arrivato il momento di veder quel principe affatto umiliato deporre le corone a’ suoi piedi, non volle dare ascolto agli ambasciatori. Ma Federigo non torpeva. Alla sua voce accorrevano li baroni di Sicilia e di Calabria; chiamava un corpo di Saracini da Aversa; ed in quel punto soprarrivarono le schiere alemanne, che seco menate avea in Palestina. Con queste forze, unite a quelle che tenevan la campagna sotto il comando del duca di Spoleto e degli altri baroni, fu a fronte dell’esercito pontificio, che cominciò ad indietreggiare. Giovanni di Brenna, all’avvicinarsi dell’esercito di Federigo, sciolto l’assedio di Capua, che impreso avea, dato foco alle macchine più che di pressa si ritirò in Sangermano. Il cardinale Colonna, col pretesto d’andar per danaro, lasciò l’esercito e venne a Roma. Mentre la fortuna di papa Gregorio dava la volta da questo lato, sì che il re imperadore veniva rapidamente riacquistando il paese perduto, danni più gravi gli erano minacciati dai ghibellini romani, suscitati da Federigo, il quale mentre combatteva, vinceva, tramava, veniva predicando se non aver colpa alla guerra; volerla ostinatamente il papa; aver egli mandato a lui suoi ambasciatori chieder pace, che, malgrado la dignità delle persone, non aveano avuto ascolto; esser lui sempre pronto a posar le armi e rimetter le sue contese col papa al giudizio del patriarca d’Aquilea, dell’arcivescovo di Salisburgo, del vescovo di Ratisbona e de’ duchi d’Austria, di Dalmazia e di Istria.
Papa Gregorio, cui la fortuna più non arridea, cominciò a dare ascolto alle proposizioni di pace; e la pace dopo lungo dibatto fu conchiusa il dì 23 aprile 1230 in Sangermano per opera di quei mediatori che Federigo proponea. Voleva il pontefice ritenere le due città, Gaeta, e Santagata, che a lui erano restate fedeli; si ostinava Federigo a non volerle cedere a verun patto; finalmente si convenne che arbitri scelti dall’una e dall’altra parte, nel termine di un anno avrebbero trovato modo di far tornare le due città all’obbedienza del re imperadore. Fu convenuto il perdono e la restituzione de’ beni di tutti coloro che avean parteggiato pel papa, e la restituzione di tutto il paese occupato.
Sottoscritta la convenzione e giuratane l’osservanza, due cardinali ch’erano colà venuti per parte del papa ammonirono il re imperadore a restituire tutti i beni che avea confiscati alla Chiesa, a’ monasteri, a’ tempieri, agli ospedalieri ed a tutti i partigiani di Roma; a rimettere nelle loro sedi i vescovi espulsi; ad impedire che i chierici fossero convenuti innanzi a’ tribunali secolari; a non esiger da essi taglia o colletta; ed a fare che l’elezione dei prelati del regno fossero fatte secondo gli statuti del concilio.
Nel seguente agosto poi Federigo venne ad accamparsi presso Ceperano, ove dal vescovo di Sabina fu assoluto della scomunica, e quindi si diresse ad Anagni per accontarsi col papa, che colà era e lo avea invitato. Vi venne accompagnato dai cardinali e da’ maggiorenti della città; il papa lo tenne a mensa con lui; a lungo si trattennero da solo a solo; il domani fece ritorno al campo (339).
Ecco le parole del Leo: «Rainaldo, vicario di Federico in Sicilia, come ebbe oppresso la ribellione dei signori di Poplito, cagionata a quel che pare, dagli editti del papa, insieme col fratello e con numeroso esercito, composto la più parte di Saracini, entrava nella marca di Spoleto, nè i fulmini del Vaticano gli tolsero di saccheggiare le terre del papa fino a Macerata e perseguitare a morte i partigiani che Gregorio avea nel clero e nel popolo.
«Giovanni, re di Gerusalemme, il quale allora era vicario temporale del pontefice nelle provincie della Chiesa, ed il cardinale Giovanni Colonna ebbero commissione da Gregorio di arrestare con forti provvedimenti i progressi di Rainaldo. E poichè vedeva, che la loro operosità non raggiungeva con sufficiente prestezza lo scopo, un’altro esercito fece levare dal suo cappellano Pandolfo dei Savelli d’Anagni e dai conti Tommaso di Celano e Rugiero dell’Aquila, fuorusciti di Sicilia, e lo drizzò verso Puglia. Pandolfo andava contro Rocca d’Arce e Fondi, ed era costretto indietreggiare innanzi al gran giustiziere di Sicilia, Arrigo de Morra. Ma presto la sorte mostravasi più favorevole alle armi pontificie ec.
«In pari tempo il re Giovanni, respinto il duca Rainaldo dal territorio papale, lo avea inseguito fino alla Puglia e costrettolo a chiudersi in Sulmona, lo veniva in tutti i modi vivamente stringendo.» Leo, Storia d’Italia nel medio evo, Lib. IV, c. VII, § 11.
E che il primo a romper la guerra fosse stato il vicario imperiale e non il papa, si deduce chiaro da quello, che operò Federico al suo ritorno dalla Palestina riguardo a Rainaldo, che io vo’ riferire colle parole dello stesso Leo (Luogo citato L. IV. c. VIII, § 1. «In questo mentre l’imperatore Federico, per la via del mare, da Aquilea era tornato nella Puglia. Già prima aveva egli punito Rainaldo della mal pensata invasione fatta di suo capo negli stati del papa, la quale avea aperta l’occasione alla guerra con Gregorio. Pare che per sottrarsi da questo castigo, Rainaldo avesse allora concepito criminosi disegni. Federico lo fece imprigionare.