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SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA] CAPITOLO XXVI. I. Sedizione in Sicilia. Carcerazione di re Arrigo. — II. Terzo maritaggio di Federigo. — III. Nuove brighe con Gregorio IX. — IV. Discolpe di Federigo. — V. Crociata bandita contro di lui. — VI. Falsa colpa d’eresia a lui data. — VII. Inutili mene del papa. Tentativo di Federigo d’occupare Roma. — VIII. Convocazione del concilio. Opposizione di Federigo. Presa de’ prelati, che si recavano al concilio. — IX. Morte di Gregorio IX ed esaltazione d’Innocenzo IV. — X. Fuga del pontefice. — XI. Concilio di Lione. Resistenza di Federigo. — XII. Sua morte. Sue qualità. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I. — Libero d’ogni molestia, re Federigo imperadore tutto l’animo pose a riordinare e migliorare la primitiva costituzione del regno, con quelle leggi e quelle riforme del dritto pubblico siciliano delle quali saremo per far parola. Mentre stavasi in Puglia nell’agosto del 1232 per recare ad effetto un tal pensiere, Messina e secondo alcuni anche Catania, Siracusa, Centorbi, Nicosia e qualche altra città tumultuarono contro il gran giustiziere Riccardo di Montenegro; Federigo spedì da Foggia ordini a’ magistrati di vegliare alla conservazione della pubblica tranquillità; e poi nell’aprile del 1233 venne egli stesso in Messina, ove fece pagar la pena ad un Martino Mallone, capo della sommossa, ed ai suoi complici, de’ quali altri furono impiccati ed altri arsi. Centorbi osò resistere; presa di viva forza, fu dalle fondamenta spianata, e gli abitanti furono mandati a stanziare in una nuova città, da Federigo edificata nel chersoneso poco discosta dall’antica Megara, la quale per essere stata fabbricata dal re, che imperadore era, fu detta Augusta (340).
Venuto poi a Siragusa, vi chiamò il parlamento, ove fu stanziato, che nessuna persona dell’uno e dell’altro sesso possa, pena la perdita de’ beni, contrarre nozze cogli stranieri. Un parlamento convocò poi in Messina nel gennaro 1234, in cui furono assegnati i tempi ed i luoghi dei pubblici mercati; e furono istituite le adunanze dei rappresentanti di tutte le città e terre del regno, da riunirsi due volte l’anno, nelle quali ognuno dovea proporre la sua querela contro il gran giustiziere, i giustizieri e qualunque altro magistrato.
Mentre il re imperadore dava opera a punire i sediziosi del regno, e migliorarne il governo, una sedizione di assai più grave momento si preparava in Germania. I Milanesi e tutti i guelfi d’Italia, sicuri che Federigo, dato sesto alle cose del regno avrebbe impreso a sottometterli, per divertirne la forza indussero alcuni de’ principi e dei baroni di Germania a levarsi in armi contro di lui. Lo stesso suo figliuolo Arrigo entrò nella cospirazione. Non è facile il conoscere onde il mal consigliato giovane si sia mosso. Si vuole da alcuni, che ciò sia stato per la gelosia del minor fratello Corrado, cui il padre mostrava di prediligere; ma gli scrittori ghibellini ne accagionano papa Gregorio che, a dire loro, era secreto motore di tali mene.
Federigo, avuto lingua di ciò mentre era in Sicilia, venne prima in Puglia, indi dopo la Pasqua del 1235 si recò in Germania senz’altro accompagnamento che il suo figliuolo Corrado. L’arrivo suo inaspettato scompose la trama; i principi, i baroni; le città fecero a gara per mostrarglisi divoti. L’infelice Arrigo, abbandonato da tutti, venne a trovare il padre in Vormazia e gli si gittò ai piedi; ma il padre lo respinse, lo fece carcerare e lo mandò con buona scorta nel castello di Martorana in Puglia. ove in capo a sei anni si morì.
II. — Forse quel caso fece nascere a Federigo l’idea di passare a terze nozze; perocchè; tenendo già come non più vivente quel figlio, a lui restava solo Corrado. Con tale intendimento mentre era in Germania contrasse nel 1235 le terze nozze con Isabella, figliuola di Arrigo III re d’Inghilterra. Ma il maritagio non gli fece nè abbandonare l’idea, nè allentare gli appresti della guerra che muover volea alle città guelfe di Lombardia e particolarmente a Milano. E perchè la religione serviva a tutti di pretesto per coprire gli ambiziosi disegni loro mentre volea spogliare i Milanesi e gli altri guelfi della loro libertà e delle franchigie da essi godute, veniva predicando di muover guerra a quelle città per estirpare i paterini, i luciferani, i publicani, gli albigesi e gli usurai che in esse fornicavano. Dall’altro lato il papa, cui non andava a pelo l’ingrandimento di Federigo in Italia, per distorlo da quell’impresa, volea ch’egli dirigesse tutte le sue forze ad una seconda crociata.
A tal’intimazioni rispondeva il re imperadore. «È noto a tutto il mondo che l’Italia è mia eredità; sarebbe strano il lasciare il proprio, per correre dietro a straniere conquiste.... La crociata non può imprendersi senza grandi tesori, ed a ciò non intendo destinare le ricchezze d’Italia (341)». Senz’altro aspettare, sceso in Italia con grosso esercito, venne ad assediar Milano. Il papa allora e tutti i guelfi gli suscitarono contro il duca d’Austria, che invase gli stati imperiali. Fu forza a Federigo levar l’assedio e tornar di volo in Germania.
La fortuna arrise a Federigo; il duca d’Austria, della vita in fuori, tutto perdè; Corrado, suo secondo figliuolo, fu senza contraddizione salutato re dei Romani; nell’agosto del 1237 egli stesso fu in Italia; chiamati diecimila Saracini dalla Puglia, tornò all’assedio di Milano; i guelfi vennero fuori in gran numero ad incontrarlo; addì 27 di novembre del 1237 ebbe luogo una sanguinosissima battaglia, nella quale più migliaja di guelfi perirono, ed i Milanesi perderono il loro Carroccio (342), che Federigo mandò in Roma, per situarsi nel campidoglio in memoria del suo trionfo.
Spaventate di tale disfatta, molte delle città guelfe si sottomisero al vincitore. Gli stessi Milanesi, ai quali non restava altro appoggio, che quello di Brescia, Piacenza e Bologna e ’l favore del papa, spedirono loro messi al re imperadore, proponendogli di riconoscere il suo dominio, di mettere in sua balìa quanto aveano, di brugiare a piedi suoi tutti i loro vessilli e di dargli per la spedizione di Terra-santa diecimila armati per un anno; a patto che fossero conservate le franchigie della città, e non fossero molestati i cittadini. Federigo, tronfio della passata vittoria, rispose: non volere venire a patti; si rendessero a discrezione. Avuta la dura risposta, i Milanesi giurarono di morire combattendo, avanti che sottomettersi.
III. — Federigo, recatosi prima in Germania a raccorre nuova gente, nell’aprile del 1238 fece ritorno in Italia, lasciato ordine a re Corrado suo figliuolo di venirlo a raggiungere colla nuova leva. Mentre trovavasi in Verona, la Sardegna o alcun distretto di essa a lui si diede, di che forte increbbe a papa Gregorio, che dicea, quell’isola far parte del patrimonio di San Pietro; e però ammonì Federigo a guardarsi dal mettervi mano; ma quello rispose, che l’isola apparteneva all’impero e soggiunse: io ho giurato come è già noto al mondo, di raccattare tutte le provincie divelte dall’impero, e spero presto venirne a capo (343).
Non è a dimandare se quella dichiarazione e quel giuramento, venuti per soprassello dell’ostinazione di Federigo in volere sottomettere l’Italia, ch’e’ chiamava sua eredità, abbiano dato che pensare a papa Gregorio, il quale, che che egli ed i suoi predecessori avessero detto in pubblico, nel suo se non ignorava quali provincie, quali città, quali dritti erano appartenuti all’impero. Per tal ragione accampò tutti i mezzi di difesa; e primo fra gli altri fu la scomunica. Nella domenica delle palme del 1239 dichiarò re Federigo imperadore scomunicato ed anatematizzato perchè, diceva la bolla, mirava a cacciar dalle sedi loro il papa ed i cardinali, e conculcava i privileggi, le dignità, le persone, la libertà della Chiesa; perchè avea vietato il passo al vescovo di Preneste, legato pontificio, spedito contro gli albigesi, nemici della fede cristiana; perchè non permetteva che fossero provvedute le chiese vacanti del regno di Sicilia; perciò in quel regno i chierici erano presi, carcerati, proscritti ed uccisi; perchè ivi le chiese erano distrutte e profanate; perchè non permettea la riedificazione della chiesa di Sora; perchè avea impedito la venuta in Roma del nipote del re di Tunisi, che volea esser battezzato; perchè avea carcerato Pietro Saracino nobile romano, che si recava a Roma, speditovi dal re di Inghilterra; perchè avea occupato Ferrara, Bologna, la Sardegna appartenenti alla Chiesa; perchè avea spogliati dei loro beni le chiese di Morreale, di Cefalù, di Squillaci ed i monasteri di Mileto, di S. Eufemia, di Terramaggiore, di San Giovanni in Lamis; perchè non avea restituito ai Tempieri ed agli Ospedalieri i loro beni; perchè nel regno i prelati erano obbligati a pagare un tributo per la costruzione dei castelli; perchè, contra l’ultima convenzione, coloro che aveano aderito alla Chiesa erano spogliati de’ beni loro e proscritti. Dopo tutti quei perchè, conchiudea la pontificia bolla: Perciò dichiariamo sciolti dal dovere di fedeltà a lui giurata tutti coloro che a lui sono legati da tal giuramento; proibendo loro strettamente di serbarsi a lui fedeli (344).
Posta anche la verità di tutti quei perchè, la somma di essi sarebbe stata a gran pezza più lieve del fare un precetto di cristiana obbedienza della rivolta de’ sudditi contro il sovrano. Nè re Federigo imperadore si tacque; un manifesto pubblicò in Europa, nel quale dopo di enumerare dal canto suo i torti del papa, conchiudea: Giudichi Dio tra me suo campione e ’l papa suo vicario; sa Gesù Cristo, sa il mondo, che io dico il vero (345). Al tempo stesso una lettera scrisse al senato ed al popolo di Roma, nella quale diceva, che, per esser Roma la capitale dello impero, e da Roma dirsi egli imperadore romano, altamente maravigliava come il vescovo dì Roma avesse osato in quella città (nè altrove osato l’avrebbe) di calunniare un imperadore romano e maledirne il nome senza che una sola voce si fosse levata in suo favore; però gli ammoniva a levarsi con unanime volere, per vendicare la sua e la loro ingiuria. Scriveva al collegio de’ cardinali: Gesù Cristo dal nome di San Pietro, da lui destinato capo della Chiesa, dichiarò d’aver fondata la sua Chiesa sopra salda pietra, e destinò voi successori degli altri apostoli, ministri di lui; però siete voi in dovere di pigliar parte in tutto ciò che il presidente della sede di S. Pietro propone; è dunque da stupire ch’egli, sedendo in soglio (e fosse giudice giusto!) messa da parte la congregazione di tanti venerabili padri, dai quali la Chiesa è composta, inveisca contro il principe romano, avvocato della Chiesa, destinato a predicare il vangelo, ed ingiustamente tragga contro di lui la spada spirituale, per favorire i Lombardi ribelli. Altamente ci duole che, avendoci il padre apostolico tanto gravemente offesi, siamo astretti a trarne quella vendetta che i Cesari son soliti trarne. Ci duole inoltre che, per difenderci siamo nella necessità d’offendere anche più gravemente, salva in tutto la santità della Chiesa, che altamente veneriamo. Indi è che preghiamo il vostro venerabile ceto a frenare gl’impeti non giusti, ma volontarî del sommo pontefice, e tranquillare le menti de’ popoli ed impedire gli scandali (346).
IV. — Sedeva allora sul trono di Francia il santo re Luigi IX al quale, come ad ogni buon cristiano, era grave la dissidia tra ’l re imperadore e il pontefice; per che da una mano insinuò a Federigo di spedire in Roma alcuni vescovi, che presentassero al papa le sue discolpe, dall’altra mandò egli suoi ambasciatori al pontefice per piegarlo. Seguendo le insinuazioni del santo re, Federigo fece che i vescovi di Erbipoli, di Vormazia, di Vercelli e di Parma, che erano i nunzî apostolici destinati dal papa ad intimargli la scomunica, a lui scrivessero: che nell’eseguire l’incarico avuto temevano di essere o respinti o mal ricevuti dal re imperadore; ma, contro la loro aspettazione, egli tutto umile e mansueto li ammise alla sua presenza, ascoltò pazientemente la pontificia bolla, ed essendovi presenti gli arcivescovi di Palermo e di Messina, i vescovi di Cremona, di Lodi, di Novara e di Modena, oltre l’abate di S. Vincenzo, e molti de’ frati domenicani e minori a bella posta chiamati, venne d’uno in uno rispondendo agli articoli della pontificia bolla, in questi termini:
Disse ch’egli non sapea di avere recato alcun danno alla chiesa di Morreale, meno che volesse a lui apporsi il danno recatole da’ Saracini, i quali non rispettavano nè i beni di quella chiesa, nè quelli dello stesso sovrano, per cui era stato obbligato a far loro lunga ed aspra guerra, per espellerli. Disse che nulla era stato da lui tolto al vescovo di Cefalù, se non voleva intendersi del castello posto sul lido, il quale è sempre appartenuto ai re di Sicilia; tanto che il suo tutore papa Innocenzio III, nella minorità di lui, avea ordinato al suo legato, che allora era in Sicilia, di farsi restituire quel castello dal vescovo, che nelle pubbliche perturbazioni l’avea usurpato; però non poterglisi ora restituire per non avervi dritto e non doverglisi, se dritto vi avesse, per esser egli, per pubblico testimonio dichiarato falsario, omicida, traditore, scismatico. Disse che lo stesso valea pel vescovo di Catania, al quale nulla avea tolto; avea bensì richiamato quegli abitatori delle terre e città del demanio, che s’erano trasferiti sul tenere della sua chiesa; dritto che la costituzione del regno di Sicilia dava, non che a lui come sovrano, ma ad ogni barone, ed allo stesso vescovo, se gli abitatori delle sue terre fossero passati nel demanio. Disse che ai tempieri ed agli ospedalieri erano stati di vero tolti que’ beni feudali e burgensatici, che loro erano stati concessi dagl’invasori, ai quali aveano sempre aderito; ma non quelli che possedeano prima della morte di re Guglielmo II; tolti anche a buon dritto erano loro stati que’ beni burgensatici da essi comprati contro la costituzione del regno, che prescrive che gli ordini religiosi non possano senza consenso del principe acquistare beni burgensatici, ed acquistandone, ne fossero spogliati, se infra un anno, un mese, una settimana ed un giorno, non li rivendevano o ad altri concedevano; senza la qual legge tutta la Sicilia col volger degli anni sarebbe venuta in loro potere. Disse ch’egli non avea vietato al nipote del re di Tunisi di recarsi in Roma per battezzarsi; che quel principe era venuto nel suo regno per campar la morte, minacciatagli da suo zio; e richiesto se volea convertirsi alla religione cristiana, s’era costantemente negato; del resto dimorava egli libero in Puglia, e se volesse ricevere il battesimo, non impedimento o divieto, ma conforto e favore ne avrebbe. Disse che quel Pietro Saracino era stato a buon dritto carcerato, per esser suo nemico; ch’egli era mandato dal re d’Inghilterra in Roma, ma portava seco una lettera di quel re a lui diretta, nella quale lo pregava a perdonarlo, e ch’egli non ne tenne conto, perchè il re Arrigo ignorava le colpe, delle quali costui era reo. Disse di esser pronto a provvedere le chiese vescovili vacanti, e desiderarlo ardentemente, purchè saldi restassero i privilegi e le prerogative godute dai re suoi predecessori, di cui egli avea usato con più moderazione. Disse che le taglie e le collette erano state imposte ai chierici, non pe’ beni ecclesiastici da essi posseduti, ma pe’ feudali e patrimoniali, giusta il dritto comune. Disse che pei chierici che si dicevano carcerati, proscritti ed uccisi, sapea che alcuni erano stati carcerati dai magistrati, per consegnarli ai tribunali ecclesiastici; che alcuni erano proscritti, perchè rei di lesa maestà, ed alcuni ne erano stati uccisi a causa dell’immunità ecclesiastica, per cui il vescovo di Venosa era stato ucciso da un monaco; e nella chiesa di S. Vincenzo un monaco ne avea ucciso un’altro, senza che i rei di tali atroci delitti avessero riportato alcuna pena dai tribunali ecclesiastici. Disse che nè anche in sogno avea ordinato l’arresto del vescovo di Preneste, comechè avesse potuto e dovuto farlo a buon dritto, perchè quel vescovo, apparentemente legato pontificio, contro gli albigesi, per secreto incarico del papa, com’e’ stesso dicea, adizzava ed incuorava i Lombardi. Disse che la guerra contro i Lombardi non era stata da lui impresa per non recarsi alla crociata, ma che il papa suscitava quella fazione a lui avversa, e poi avea preteso che al suo arbitrio fosse rimessa la contesa, per far così trionfare i suoi nemici. Disse finalmente e conchiuse, che per esser egli stato gran tempo assente dal regno, era probabile che alcun abuso si fosse introdotto in danno delle chiese, ch’egli era pronto a correggere, e pronto era a far tutto ciò, che fosse conveniente alla Chiesa ed all’impero, per ottenere l’unione fra essi, l’esaltazione della fede cristiana e promovere l’onore e la libertà della Chiesa (347)
V. — Questa epistola dettata in un consesso di rispettabili prelati, scritta dagli stessi nunzî del pontefice, produsse l’effetto contrario a quello che se ne sperava. Era quello il primo caso di costante resistenza che trovavano i papi; assai recenti erario gli esempi di Otone deposto dall’impero, di Giovanni senza terra dichiarato vassallo, e d’altri principi potenti sottomessi al solo pubblicar d’una bolla; quella stessa epistola era poco onorevole al pontefice, perchè metteva in piena luce l’insussistenza delle colpe che da lui s’apponevano al re imperadore; ed a tutto ciò è da aggiungere l’accecamento dello studio di parte. Per tali ragioni papa Gregorio al primo avventato procedimento della scomunica, ne aggiunse un secondo anche più violento. Bandì una crociata contro Federigo, chiamò all’armi contro di lui tutti i principi d’Europa; impose alle chiese il dazio della decima delle rendite loro, per trarne le spese di quella guerra. Ma l’Europa fu sorda al suo invito; perchè Federigo sapea ben difendersi e colla spada e colla penna.
Una lunga lettera diresse egli allora a tutti i sovrani d’Europa, nella quale esponeva che il papa in tutta la sua condotta verso lui non avea avuto altro in mira che d’ingannarlo, di opprimerlo; lo accusava di venalità nel dispensare alle leggi canoniche (348); dichiarava se essere rispettoso, quanto ogni buon cristiano lo deve, verso la santa Chiesa cattolica, ma far guerra alla persona indegna d’esserne capo; s’appellava ad un concilio libero, in cui egli potesse essere ammesso per dar prove evidenti delle colpe del papa e della sua innocenza; dicea che la prima causa della nimicizia di papa Gregorio con lui era l’essersi egli negato alle nozze di una nipote di esso con Enzio re di Sardegna, ch’egli reputava indecorose per la maestà imperiale; e conchiudea con dire che ciò dovea fare aprir gli occhi a tutti i sovrani d’Europa, perchè tornava a disonore di tutti il vilipendio di ognuno di essi.
VI. — Con più veemenza e men pudore scrisse papa Gregorio una seconda lunghissima epistola, che diresse a tutti i principi e prelati d’Europa, nella quale per denigrare il nome del re imperadore lo dichiarava eretico, perchè negava al papa il dritto di scomunicare qualunque cristiano, e sostenea che Moisè, Gesù Cristo e Maometto erano stati tre barattieri che avevano ingannato il mondo; e solo i fatui potevano credere d’essere Gesù Cristo nato da una vergine (349). Calunnie atroci, che servono a far conoscere quanto gli uomini più eminenti e per dignità e per virtù, possono essere accecati dalle umani passioni. In veruna delle epistole di Federigo, comechè in alcune con molta virulenza si fosse querelato degli abusi dell’autorità pontificia, giunge egli a negare al pontefice il dritto della scomunica. Negava bensì (ed egli solo il negava) il dritto di scomunicare alla babbalà, senza le forme prescritte dai sacri canoni e per motivi puramente mondani. Si sa poi che l’opera «De tribus impostoribus» che i nemici del re imperadore dicevano di essere stata da lui scritta, è una favola; e che quel libro, che in tempi di appresso fu ad altri attribuito, non è mai stato al mondo. I fatti poi narrati dagli storici di quell’età e le leggi emanate da quel principe, mostrano ch’egli, sia per ischivare la taccia di miscredente, che i guelfi voleano dargli, sia per la severità del suo carattere e per non essere del tutto spoglio della crudeltà del padre, lungi di negare le verità fondamentali della religione, fu un’acerrimo persecutore dei novatori, che allora erano. Lo stesso papa Gregorio nella bolla colla quale fulminò l’anatema contro di lui, enumerando minutamente le ragioni, per cui veniva a scomunicarlo, per lo più o false o lievi, non fa alcuno motto di tali empietà da lui sostenute, mentre sarebbe stata questa la sola ragione per cui a buon dritto avrebbe dovuto essere scomunicato.
Ma tali guerre colla penna erano un nonnulla appo quella che si facea colla spada. L’esercito guelfo, guidato da un legato pontificio soprapprese Ferrara ed altre città ghibelline; i miseri abitanti imploravano la clemenza del legato, offrendo le città e quanto aveano, purchè avessero salva la vita; e la vita fu loro negata (350). Una lega strinse il pontefice coi Veneziani, per invadere colle loro armate la Sicilia; ma tale invasione si ridusse poi ad una correria sulle coste di Puglia.
Re Federigo imperadore dal canto suo bandì nel 1239 che tutti i frati predicatori e minori di Lombarda nazione fossero cacciati dal regno, e quelli che restavano e tutti gli altri religiosi dessero cauzione di non offendere il governo; che tutti i baroni, che nella prima contesa avean parteggiato pel papa, si recassero con armi e cavalli all’esercito di Lombardia; che tutti coloro che erano in Roma, tranne quelli mandati dal governo o banditi, ne ritornassero, altrimenti si confiscassero tutte le rendite loro; che si confiscassero le rendite di tutti i chierici stranieri; che nessuno potesse recarsi in Roma senza licenza del gran giustiziere; che qualunque persona colta con addosso lettera e brevi pontifici, fosse di presente impiccata (351). Cacciati poi i monaci dal monastero di Montecasino, lo guernì di milizia, lasciatovi solo otto monaci pel culto divino.
VII. — Sentiva paga Gregorio quanto pericolosa era la sua situazione a fronte d’un tale avversario; e però per lettere e per messi sollecitava i principi d’Europa ad armarsi in sua difesa; ma per lo bandir crociate ed offerir lo impero, nessuno si mosse; che i popoli ed i principi transalpini più presto per Federigo che per lui tenevano. Dicevano gl’Inglesi, avere il papa promosso Federigo all’impero, non per benevolenza, ma per opporre un potente nemico ad Otone, cui facea guerra per avere egli impreso a recuperare le provincie staccate dallo impero, e per la ragione stessa fare oggi la guerra a Federigo; essere stata l’Inghilterra spesso molestata dal papa, mai dall’imperadore; avere il papa testè apposto all’imperadore; d’essere seguace di Maometto e non di Cristo, come ora gli appone di credere Cristo e Maometto ciurmadori? L’imperadore allo incontro nelle sue lettere si mostra sempre cristiano cattolico, se non che nell’ultima inveisce contro la persona, non l’officio del pontefice, nè ha egli mai dichiarato eretico alcuno, nè mandato qui usurai e rapitori di rendite (352).
Nè miglior frutto fece papa Gregorio in Francia, ove mandò suoi messi ad offrir l’impero a Roberto soprannominato il valente, fratello del santo re Luigi IX. Tutti quei prodi baroni chiamati a consesso, risposero: Come osa il pontefice dichiarare decaduto dal trono un principe, di cui non è maggiore, anzi uguale frai cristiani, senza essere nè convinto, nè confesso de’ delitti che gli appone? se fosse degno di tal punizione, solo un concilio generale dovrebbe giudicarlo. Delle sue colpe non si dee prestar fede a’ suoi nemici, fra’ quali il papa è il primo. Per noi è stato sempre innocente, anzi buon vicino; nè mai lo abbiam visto vacillare nella fede cattolica. Sappiamo d’aver egli militato per Gesù Cristo signor nostro, esponendosi a tutti pericoli di mare e tante battaglie; nè possiam dire lo stesso del papa, il quale lungi di proteggerlo nella santa impresa, volle avvantaggiarsi della sua assenza per opprimerlo. Non cura il papa il sangue nostro, perchè serve alla vendetta; e se verrà a capo di conculcare un tanto principe col nostro braccio e col sangue nostro, conculcherà poi tutti gli altri. Del resto per non parere di tenere in dispregio l’offerta del papa, si spediscano alcuni dei nostri ad indagar l’animo e conoscere i sentimenti dello imperadore intorno la religione, e se costoro lo troveranno miscredente, come il papa dice, piglieremo le armi contro di lui colla stessa alacrità con cui le piglieremo contro il papa stesso e qualunque altro, se ne sostenesse principî contrarî alla purità della fede.
Avuta quella risposta, i messi del papa, avanti scornati che no, fecero ritorno in Roma; gli altri spediti dalla Francia, venuti in presenza del re imperadore, a lui narrarono l’offerta fatta dal papa al principe Roberto, la risposta datagli, l’oggetto della loro missione. Udite le quali cose, Federigo protestò d’essere cristiano cattolico, esclamando: Iddio mi liberi dallo allontanarmi mai dalla fede de’ miei antenati: giudichi Dio tra me e colui che tanto iniquamente mi diffama pel mondo. Poi, levando le mani al cielo, piangendo disse: Il Dio delle vendette gliene renda merito. I messi francesi assicuratolo che la Francia non sarebbe mai per pigliar le armi contro di lui, si furono partiti (353).
Adizzato da tante provocazioni, il re imperadore volle tentare un colpo, che avrebbe posto fine alla contesa; entrare cioè in Roma e cogliervi il papa alla sprovveduta. Con tale intendimento fece nel 1240 al re Enzio suo figliuolo con grosso esercito invadere la Marca, per divertire le forze papali e della fazione guelfa; egli poi si diresse a Roma pel ducato di Spoleto. Viterbo ed altre città prossime a Roma lo accolsero con giubilo; tutti i cardinali ghibellini ed i baroni romani della stessa parte a lui vennero ad unirsi. Papa Gregorio, comechè abbandonato quasi da tutti, non si perdè d’animo. Tratte dai santuari le teste dei santi Pietro e Paolo, le menò con solenne processione per la città, predicò al popolo in folla adunato che l’eretico Federigo s’avvicinava con armata mano, per sovvertire la religione cristiana e disperdere le sante reliquie; e tornatolo a maledire e scomunicare, bandì contro di lui la crociata; il popolo, creduto da vero in pericolo la religione, corse all’armi. Fallitogli così il colpo, Federigo fece ritorno in Puglia.
VIII. — In questo il re imperadore veniva sempre dicendo: sè essere pronto a rimettere la decisione delle contese tra lui e il papa alla decisione di un concilio generale. Ciò cadea bene in acconcio coi disegni di papa Gregorio; e però avutone l’assenso del re imperadore, convocò quel concilio pel giorno di Pasqua del 1241. Ma questo mezzo di conciliazione servì a render più fiera la dissidia. Federigo volea un concilio libero ed imparziale; ne voleva esclusi i prelati di Lombardia suoi dichiarati nemici. Il papa all’incontro volea che i vescovi lombardi vi avessero sede, ed a tale oggetto pretendea che Federigo desse tregua ai Lombardi ed a tutta la fazione guelfa sino alla conclusione del concilio, per aver libero il passo i prelati di quella parte. Da ciò Federigo venne in sospetto che il papa lo volesse irretire, per dar tempo ai guelfi di ristorare le forze loro, ed assalirlo poi a man salva, afforzati dalla decisione di un concilio, in cui il maggior numero dei prelati sarebbero stati a lui avversi e ligî del papa. Tale suo sospetto era fondato, non che nella pretensione del pontefice di farvi intervenire tutti i prelati guelfi, ma nell’avere egli nella lettera di convocazione scritto di doversi adunare il concilio per gli scabrosi affari della Chiesa, ovechè s’era convenuto chiamarsi per trattare la pace tra ’l re imperadore e il papa.
Federigo chiamati a consiglio i suoi ministri ed i grandi della sua corte, propose il dubbio in cui era di essere ingannato dal papa; e tutti furono d’avviso che, malgrado l’assenso prima dato, era da impedire la riunione del concilio. Per lo che scrisse ai principi d’Europa, e particolarmente ai re d’Inghilterra e di Francia, per far loro note le ragioni, per cui si movea a non volere che un concilio così convocato avesse luogo. Nella lettera al re di Francia aggiunse «Ammiriamo la prudenza dei francesi che più sottilmente degli altri guardate le astuzie del papa, la cui insaziabile cupidigia ambisce di sottomettere al suo dominio tutti i regni cristiani, fatto ardito dallo esempio della conculcata corona d’Inghilterra (354).» Ed era ad un santo re che questa lode si dava. Al tempo stesso proibiva a tutti i vescovi dei suoi stati di recarsi al concilio; e dichiarava che avrebbe fatto tenere il passo a tutti gli altri. Dall’altro lato il papa sotto il precetto d’obbedienza, comandava a tutti di recarsi in Roma, senza curare le minacce di lui.
Gran numero di vescovi ed abati s’erano ridotti in Genova, assieme con due cardinali, che il papa avea spediti, per ordinar loro di venire a qualunque costo, ed agli ambasciatori di Milano, di Brescia e di Piacenza, per condursi a Roma per mare. Federigo avea preparate molte galee ne’ porti del regno, alle quali avea unita l’armata di Pisa, e ne avea dato il comando al re Enzio suo figliuolo, al quale avea ordinato di batter sempre quel mare, per intraprendere qualunque legno, che portava prelati al concilio. I Pisani aveano fatto sapere ai Genovesi di non partire; dachè se li avessero incontrati, non avrebbero potuto negarsi ad assalirli. Tale avviso servì più presto a mettere al punto quei fieri guelfi, che confidando nel loro valore sciolsero le vele. Addì 3 di maggio del 1242 le due armate furono a fronte. I Genovesi ebbero grande ragione di pentirsi dal loro ardire; duemila di loro vi perirono; quattro galee furono affondate; ventidue furono prese; tutti i vescovi, gli abati, i cardinali, gli ambasciatori, coi tesori, che seco menavano, vennero in potere del vincitore. Federigo, saputa la vittoria, ordinò che tutti i prelati fossero condotti in Napoli (355).
Quella vittoria ebbe conseguenza di gran momento. La fazione ghibellina fece cuore; i guelfi addoppiarono i loro clamori contro di Federigo, il concilio non ebbe più luogo; il re imperadore fu più temuto, ma anche più odiato da papa Gregorio e dai suoi successori e finchè visse non ebbe più pace; con maggiore rabbia fu perseguitato il figlio in vita, e, perduto la vita e il regno, s’inveì fin contro il cadavere; il sangue del nipote non ispense l’odio, che si tramandò per secoli a tutti coloro, che tennero la corona di Sicilia, cagione primaria e forse unica della contesa; nè fu assopito se non dal progresso generale dei lumi e dalla maggior consistenza dei governi d’Europa.
IX. — Tra tante angoscie addì 21 d’agosto del 1241 venne a morte papa Gregorio nell’età di presso a cent’anni; e la sua morte, avanti che spegnere, servì ad accrescere le dissidie. Non era facile la scelta del nuovo pontefice; il conclave era diviso tra le due fazioni, che stavano in bilico; e nessuno ambiva il trono pontificio in tempi così tempestosi. I cardinali forse per uscir d’impaccio scelsero da prima un travecchio ed infermiccio porporato, che fece chiamarsi Celestino IV, ma costui visse pochi giorni. Non fu possibile venire alla scelta; Federigo pregava, minacciava, rimettea in libertà i due cardinali, che tenea prigioni; invano. Finalmente nel giugno del 1243 fu eletto il cardinal Sinibaldo dei Fieschi da Genova, che si fece chiamare Innocenzio IV. Era Federigo allora in Melfi; si vuole che, giunta colà la notizia dell’esaltazione d’Innocenzio, tutti i cortigiani ne furono lieti, per appartenere il nuovo pontefice ad una famiglia ghibellina. Solo Federigo ne fu dolente; dicea d’aver perduto un cardinale amico ed avere acquistato un papa nemico; e ben s’appose.
Ciò non però di manco sulle prime parea che la pace da ambe le parti fosse sinceramente desiderata. Saputa la promozione di papa Innocenzio, il re imperadore a lui spedì l’arcivescovo di Palermo, il suo gran cancelliere Pietro delle Vigne ed il presidente della gran corte Taddeo di Sessa, per complire in suo nome il pontefice ed aprir trattative di pace. Furono costoro bene accolti dal papa, il quale mandò per parte sua tre nunzî a Federigo per pregarlo a mettere in libertà i prelati, che tenea prigioni; ma al tempo stesso spediva secretamente una mano dei suoi soldati ad assalire Viterbo: e venne loro facile cacciarne gl’imperiali, che v’eran di guarnigione e tutt’altro che tale assalto s’aspettavano. Per le quali cose Federigo si negò ad aderire alla dimanda del papa.
La guerra divampò allora più fiera e le stesse calamità le davano maggiore alimento. Un’orda sterminata di Tartari avea invasa l’Europa, e dopo d’avere devastata la Russia, la Polonia e la Boemia, minacciava di progredire in Germania. In oriente, spirata la tregua, conchiusa da re Federigo imperadore, il soldano d’Egitto si era insignorito di Gerusalemme e minacciava Tolemaide. Tali disastri larga materia d’invettive e d’accuse davano alle due fazioni, che laceravano l’Italia. Apponevano i guelfi a Federigo d’aver chiamati i Tartari in Europa e di essere d’accordo coi musulmani in Asia. Dicevano i ghibellini che il papa, invece di destinare alla difesa dei cristiani di oriente i tesori, che con quel pretesto traeva dalle chiese, l’impiegava a sostenere la guerra in occidente.
Per ismentire tali rimproveri, or Innocenzio or Federigo proponevano la pace, ma a nulla poi montava. Nel 1244 papa Innocenzio fu il primo a farne la proposizione. Il re imperadore mandò tosto a lui il conte di Tolosa e i due ricantati ministri Pietro delle Vigne e Taddeo di Sessa, ai quali diede ampia facoltà di giurare sull’anima sua qualunque patto. Di ciò al solito diede parte a tutti i sovrani di Europa, ai quali mandava copia delle istruzioni da lui date ai suoi messi spediti al papa. Si obbligava in esse a restituire tutto il paese occupato dopo la scomunica; a perdonare tutti coloro che avean parteggiato pel papa; a mettere in libertà tutti i prelati prigioni; a restituir loro tutto ciò che con essi era stato preso; a riconoscere la scomunica a lui fulminata dal morto Gregorio e farne quelle penitenze di digiuni, elemosine, fondazioni di ospedali e di chiese, che al papa fosse piaciuto imporre; salvi sempre i dritti e gli onori, che senza alcuna diminuzione dovea continuare a godere nell’impero e nei suoi regni (356).
Papa Innocenzio si mostrava contento di tali proposte; ma pretendea, che prima Federigo adempisse quanto promettea e poi lo avrebbe assoluto della scomunica; questi all’incontro volea che, prestato da suoi ambasciatori il giuramento d’osservare la convenzione, fosse assoluto. Erano in ciò del pari ostinati, perchè diffidavan del pari l’uno dell’altro; e però la trattativa tornò come le altre volte inutile.
X. — Mentre messaggi andavano e venivano dall’una all’altra parte, papa Innocenzio venne a Civita Castellana, dicendo che ivi meglio poteva trattarsi la pace, per essere quella città più vicina al luogo, in cui Federigo si trovava. Avuta da costui l’ultima ricisa risposta di volere essere assoluto della scomunica, prima di venire all’adempimento de’ patti, una notte, travestito con pochi compagni, campò ed a spron battuto si ridusse a Civitavecchia, ove stavano ad aspettare ventitrè galee genovesi. Salito sopra una di esse, venne a Genova; e quindi si ridusse a Lione in Francia, città allora indipendente, perchè soggetta alla giurisdizione del suo arcivescovo.
La subita sparizione del pontefice diede luogo a contrarî parlari; dicevano i guelfi: esser egli repentinamente fuggito per l’avviso avuto che la notte stessa trecento cavalieri toscani eran per venire a sopprapprenderlo. I ghibellini allo incontro dicevano, non sopravvennero, come avrebbero dovuto, essendo ignari della fuga del papa; l’aver egli trovata a Civitavecchia l’armata genovese, che stava ad aspettarlo, rendea manifesto che la cosa era da gran tempo preparata; essere piuttosto da credere ch’egli si fosse recato in Francia, non perchè era inseguito, ma per trarre dalle chiese di oltremonti quel denaro, che per essere il paese intermedio occupato dal re imperadore, non poteva a lui esser portato. Gli uni e gli altri andavano errati
Mentre potente era in Italia la fazione ghibellina; molte delle città dello stato romano erano occupate dalle armi di Federigo e molte per lui si erano dichiarate; e numerosi erano i ghibellini in Roma e fra’ cardinali (357); papa Innocenzio finchè stava in Roma, non potea menare contro il re imperadore quei grandi colpi, che digrumava; e però, da una mano lo menava per parole, mostrandosi inchinevole a venire all’accordo, dall’altra secretamente spediva un frate minore ad Obizzo dei Fieschi suo fratello, per chiedergli l’armata genovese che venisse a levarlo. Avuto l’avviso che quell’armata era già a Civitavecchia, rotte le trattative, colà di soppiatto si recò.
XI. — Giunto appena in Lione convocò un concilio al quale chiamò i prelati d’Europa: ma nel fatto vi si recarono i soli nemici di Federigo. Il santo re di Francia, conoscendo a quali scandali avrebbe dato luogo il procedimento del papa, si recò egli stesso in Lione per pregarlo a desistere; alla sua si unirono le istanze, che per loro messi facevano i re d’Inghilterra e di Aragona; ma non poterono torlo giù; stizzito anzi delle toro istanze, rispose minacciando; che al fin dei fini si sarebbe pacificato col dragone per ischiacciar poi i serpenti minori. Nè miglior frutto fecero il patriarca di Antiochia, l’arcivescovo di Palermo, Taddeo di Sessa e Pietro delle Vigne, spediti colà dal re imperadore per discolparlo. Adunati tutti i prelati, i quali eran colà chiamati, non per discutere, ma per validare colla loro presenza i decreti papali, il pontefice con solenne apparato pubblicò in nome del concilio, che certo non merita tal nome, la bolla per la quale dichiarava Federigo eretico, nemico della Chiesa, scomunicato, e conchiudea: «Dichiariamo spogliato da Dio di ogni onore e dignità il sopradetto principe, il quale si è reso tanto indegno di onori, di dignità, di regno, d’impero e che pei suoi peccati e per la sua iniquità è stato da Dio dannato a non regnare, nè imperare. Assolviamo e dichiariamo sciolti del loro giuramento tutti coloro che a lui hanno giurato fedeltà; strettamente vietando a tutti, di obbedire quindi innanzi a lui come re e come imperadore. Dichiariamo essofatto scomunicato chiunque a lui desse consiglio e favore. Coloro ai quali spetta l’eleggere l’imperadore, eleggano un’altro a suo successore. Del regno di Sicilia poi cureremo di disporre come conviene col consenso dei nostri fratelli cardinali (358).»
Giunta al re imperadore la notizia di tale sentenza, ordinò di raccogliersi gli scrigni, nei quali era riposto il suo tesoro portatile; trattone la sua corona, se la pose in capo e levatosi gridò «Vedete se per la sentenza del papa e del suo concilio ho perduto la corona; nè la perderò, senza correr fiumi di sangue.» Nè qui si tenne. Scrisse secondo il solito un’epistola a tutti i sovrani d’Europa, per mostrare quanto illegale era la sentenza contro di lui proferita. «Comechè» fra le altre cose in essa diceva «la nostra cattolica fede ci obblighi a confessare di essere stata data da Dio al capo della chiesa romana piena facoltà nelle cose spirituali, per quanto esser possa, Dio liberi, peccatore; e che chiunque egli sciogliesse o legasse in terra, sia sciolto e legato in cielo; pure non mai si legge d’essere stato dato a lui dalle leggi umane e divine il dritto di condannare i re, di punirli temporalmente col privarli dei regni loro e di disporre a senno suo degl’imperi. E se a lui e per legge e per consuetudine compete il coronarci, non per questo ha egli il dritto di privarci della corona, più che non l’abbia ogni altro vescovo al quale appartenga il coronare e consacrare altri re (359).»
Comechè per l’ignoranza dei tempi queste verità evidentissime non fossero state generalmente conosciute in Europa, in quella vece il sentimento della sicurezza propria facea pendere i principi ed i maggiori prelati in favore di Federigo più presto che del papa: sia, dicevano eglino, quanto si voglia Federigo degno d’esser privato d’ogni autorità: se il papa giungerà a deporlo affatto, la Corte romana, abusando di una tal facoltà, potrà in appresso per ogni lieve cagione cacciar dal suo trono o dalla sua sede ogni altro principe o prelato, anche innocente e giusto; e fino i plebei romani quindi innanzi potranno dire: noi abbiamo deposto lo stesso Federigo potentissimo principe: chi sei tu che temerario osi a noi resistere (360)?
Vano fu il timore. Papa Innocenzio null’altro potè ottenere che il destare una conflagrazione generale in Germania ed in Italia. Città furono da per tutto prese, riprese, arse, saccheggiate, demolite; le campagne venivano dall’una e dall’altra parte con pari ferocia devastate; il re Enzio, caduto in mano dei Bolognesi, vi restò prigione finchè visse; lo stesso re imperadore fu ad un pelo di esser preso da’ Cremonesi; sciolti i più sacri vincoli, rotto il pubblico costume, perduto ogni pudore, i più eminenti personaggi tradivano gli amici, si gettavano ai nemici, secondo che tornava lor pro; il cardinale Giovanni Colonna, rinnegato il papa, consegnò a Federigo le città e le castella che avea avute in custodia; i marchesi di Monteferrato e di Malaspina ed i signori di Vercelli e d’Alessandria da ghibellini, ch’erano, tornarono guelfi; lo stesso Pietro delle Vigne, ministro confidente, amico del re imperadore, corrotto, come si disse allora, da’ doni e dalle larghe promesse del papa (361), cercò di avvelenare il suo signore, il quale, avvertito della trama, ordinò al medico, che con Pietro gli presentava come medicina la mortifera pozione, di berne prima una metà; confuso colui finse di cadere e versò in terra tutto il beveraggio; il poco che restò fu fatto bere ad alcuni dannati a morte, i quali dopo spirarono; il medico fu di presente impiccato, Pietro delle Vigne, accecato prima, fu condotto di una in altra prigione per l’Italia, finchè temendo di esser dato in mano de’ Pisani che l’odiavano, come Federigo diceva di voler fare, si uccise, dando del capo nella colonna, alla quale stava incatenato.
Nell’urto violentissimo dell’ecclesiastica e della civile potestà, i due capi facevano il più violento abuso dell’autorità e della forza. Ne abusava Federigo con imporre ai sudditi pesantissimi tributi contro le leggi e farli esigere con estremo rigore; con gravare particolarmente gli ecclesiastici, con ispogliare le chiese delle cose più preziose, per sovvenire all’enormi spese di quella guerra; con punire crudelissimamente, non che gli stranieri a lui nemici, che cadevano nelle sue mani, ma gli stessi sudditi, della cui fede sospettava. Se è da credere al Fazzello, i tre fratelli Teobaldo, Francesco e Guglielmo di Sanseverino, che parteggiavano pel papa, presi, furono d’ordine di Federigo fatti morire con atroci tormenti, e le mogli coi piccoli figli mandate nelle carceri di Palermo, vi perirono. Assicura egli che nel 1514 furono rinvenuti nei sotterranei del real palazzo di Palermo due cadaveri di quelle matrone, integri, con tutte le vesti, ed egli stesso li osservò. Ma non adduce veruna prova dì essere stati quelli i cadaveri delle mogli dei Sanseverino.
Abusava anche più il pontefice dell’ecclesiastica potestà con dichiarare decaduto dal trono anche Corrado re di Germania, solo per esser figlio di Federigo; con bandire una crociata contro di lui; con dare indulgenze a giumelle a coloro, che pigliavano le armi in questa impresa, che si osava chiamar santa; con sottoporre a gravissime tasse tutte le chiese della cristianità, per sostenere una guerra tutta profana.
XII. — Ardevano in tale incendio la Germania e l’Italia, quando re Federigo imperadore, venuto in Sicilia nel novembre del 1249 col piccolo Arrigo suo figliuolo, nato da Elisabetta di Inghilterra sua terza moglie, avuto dal parlamento nuovi sussidi per la guerra, chiamati dall’Affrica altri cinquantamila Saracini, ritornò in Puglia. Fermatosi nel castello di Fiorentino, colto ivi da fiera dissenterìa, si morì addì 13 di dicembre 1250, dopo di avere ricevuta l’assoluzione della scomunica dall’arcivescovo di Palermo. Prima di morire scrisse il suo testamento, nel quale dichiarò suo successore nell’impero e nel regno di Sicilia, Corrado re di Germania suo primo figliuolo, al quale, nel caso che fosse morto senza figli, volle che succedesse Arrigo; e morto costui senza prole, Manfredi, al quale confermò la concessione prima fattagli del principato di Taranto, della contea di Montescaglioso Tricarico e Gravina e la città di Monte Santangelo e tutte le concessioni fattegli in Germania, a patto di riconoscerle dal primogenito Corrado. Legò allo stesso Manfredi diecimila once. Ordinò che lo stesso restasse bailo del regno di Sicilia, nel caso che il maggior fratello stesse in Germania od altrove. Lasciò ad Arrigo il regno d’Arli o quello di Gerusalemme a scelta di Corrado e centomila once. Ordinò che si spendessero centomila once per una crociata; che si restituissero i beni e coi beni la libertà alle chiese; che i Siciliani di qualunque condizione fossero liberi ed esenti dalle collette, come lo erano stati nel regno di Guglielmo II; che fossero in tutto reintegrati i dritti e le franchigie, che i conti ed i baroni godevano ai tempi di quel buon re; che si pagasse quanto egli avea tolto in presto; che fosse restituito quanto era stato tolto alla chiesa romana, purchè essa restituisse i dritti dell’impero. Ordinò finalmente che il suo cadavere fosse tumulato nel duomo di Palermo, cui lasciò cinquecent’once, invece delle quali il suo successore concesse a quella Chiesa i feudi di Grattieri e d’Isnello (362).
Non accade spender parole per definire le grandi qualità di questo principe; i fatti sinora narrati, e quanto siam per esporre, mostrano ch’egli si distinse fra le tenebre del medio evo, come una gran face nell’oscurità della notte. Non però è da pensare d’essere egli stato esente di difetti. Senza contare la falsa accusa di miscredenza a lui fatta dai suoi nemici, e quella di aver concubine musulmane, pecca da opporsi all’uomo, non al principe, non è da negare che la sua cupidigia di denaro lo trasse ad estorcere dai sudditi tributi oltre la legge, ed a sottoporli a servizi illegali, malgrado le franchigie da essi sotto i precedenti principi godute; e di ciò fece ammenda nel suo testamento, col dichiarare illegale qualunque contribuzione esatta dai sudditi al di là di ciò ch’era uso nel regno del buon Guglielmo II. A ciò son da aggiungere la sua severità, che spesso potea meritare il nome di crudeltà, ed i procedimenti avventati contro i suoi nemici. Ma tali difetti, più che alla sua natura son da ascriversi al secolo, ed anche più alle circostanze, in cui visse. Gli ostacoli e le grandi contrarietà esaltano lo spirito umano nel bene e nel male, e fanno nascere virtù e vizi grandi, il cui germe sarebbe restato affatto sterile nel corso ordinario della vita, come tanti semi di buona e di cattiva erba che restano nascosti nel seno della terra, se una circostanza straordinaria non li fa germinare. Ma quelle stesse contrarietà danno a re Federigo imperadore un gran dritto alla riconoscenza dei posteri. Gli abusi dell’autorità temporale, che i papi si credevano in dritto di esercitare sui regni della terra, erano giunti a tale, che, senza una straordinaria resistenza tutti i sovrani d’Europa sarebbero divenuti vicerè amovibili a senno dei papi. Federigo ebbe senno e cuore d’opporre tale resistenza. «La mia causa è vostra» scriveva egli sempre a tutti i principi d’Europa, e ben s’apponea. Papa Innocenzio IV avea ridotto le cose in tali estremi, ch’era mestieri vincere o perder tutto. Nè saprebbe dirsi come sarebbe finita la gran contesa, se morte immatura non avesse troncato i giorni di Federigo. La sua morte non diè fine alla contesa. I papi trascinati dal movimento generale, al quale aveano dato la prima pinta, non potevano, anche volendo, tantosto arrestarsi; ma la contesa agitò d’allora in poi il solo regno di Sicilia, nè in alcun’altra parte si parlò più di scomuniche mal pensate, di deposizioni di sovrani. E quando poi le cose vennero ad acquetarsi anche in Sicilia, tranne la famosa partizione del nuovo mondo, i papi non misero più avanti pretensioni a disporre dei regni altrui. E di ciò devono saper grado a Federigo, non che la civile, l’ecclesiastica potestà; perocchè più liberi ne vennero i principi, per regolare l’interno reggimento dei loro sudditi, ed i pontefici posteriori sono stati più rispettati per le loro virtù e per la moderazione loro, che non lo furono i Gregori e gl’Innocenzi per le pretensioni di universale dominio. E se tanto deve la posterità essere riconoscente a Federigo per questa ragione, assai più esser lo deve per quei beni che recò alla Sicilia ed all’Europa in generale, dei quali siamo per far parola.
Fata docens, stellaeque monent,
aviumque volatus:
Totius mundi
malleus unus erit.
Roma diu titubans, variis erroribus acta,
Totius mundi
desinet esse caput.
Il papa fece correre in risposta questi altri due versi:
Fama refert, scriptura docet, peccata loquuntur,
Quod tua vita
brevis, poena perennis erit.
Omnes praelati, papa mandante, vocati,
Et tres
legati, veniant huc usque ligati.