Niccolò Palmeri
Somma della storia di Sicilia

SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA]

CAPITOLO XXVII. I. Oggetto delle costituzioni di Federigo. — II. Nuovi statuti. — III. Magistrati di giustizia. Bajuli; Giustizieri; Camerari. — IV. Gran Corte. Alta corte de’ pari. — V. Giurisdizione criminale tolta ai baroni. — VI..  Abolizione dei giudizî di Dio. — VII. Modo di procedere nei giudizî. — VIII. Corti provinciali di sindacatura. — IX. Magistrati d’economia. Segreti. Maestro Segreto ed altri uffiziali d’economia. Gran Corte dei conti. — X. Geografia politica del regno. — XI. Difetti e pregi delle costituzioni di Federigo. — XII. Partecipazione del parlamento alla formazione delle leggi. — XIII. Ammissione de’ comuni in parlamento. — XIV. Pubbliche imposte. — XV. Modo di esigerle. — XVI. Rendita privata del principe. — XVII. Commercio. Agricoltura.

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CAPITOLO XXVII.

I. Oggetto delle costituzioni di Federigo. — II. Nuovi statuti. — III. Magistrati di giustizia. Bajuli; Giustizieri; Camerari. — IV. Gran Corte. Alta corte de’ pari. — V. Giurisdizione criminale tolta ai baroni. — VI..  Abolizione dei giudizî di Dio. — VII. Modo di procedere nei giudizî. — VIII. Corti provinciali di sindacatura. — IX. Magistrati d’economia. Segreti. Maestro Segreto ed altri uffiziali d’economia. Gran Corte dei conti. — X. Geografia politica del regno. — XI. Difetti e pregi delle costituzioni di Federigo. — XII. Partecipazione del parlamento alla formazione delle leggi. — XIII. Ammissione de’ comuni in parlamento. — XIV. Pubbliche imposte. — XV. Modo di esigerle. — XVI. Rendita privata del principe. — XVII. Commercio. Agricoltura.

I. — L’esaltazione di Tancredi al trono, contro il patto giurato del parlamento; gli straordinarî sforzi, ch’egli ebbe a fare per sostenervisi; il cambiamento di signoria dopo la sua morte; gli atti violenti dello svevo Arrigo; l’ambizione dei grandi di usurpare il governo nella minorità di Federigo, aveano sconvolto gli ordini pubblici, sì che Federigo, come cominciò a regnare da se, trovò la podestà sovrana senza rispetto, i magistrati senza autorità, le leggi senza vigore, i grandi senza freno, i cittadini senza sicurezza, il regno senza pace. Ben conobbe egli il solo rimedio, che si conveniva a tanti mali esser quello di rinverdire la costituzione con tanta sapienza composta da re Rugiero I, ed arrecarvi quei miglioramenti ch’erano necessari per reprimere la forza privata e dare tal vigore alla pubblica autorità, che tutti i sudditi, qual che si fosse la rispettiva condizione, fossero protetti del pari e del pari colpiti dalla legge. Questo salutare principio tenne sempre presente; e tutte le sue leggi, anche quelle bandite prima delle costituzioni, tendono a questo nobilissimo scopo. Già in un parlamento convocato in Capua nel 1220 era stata sancita la legge di demolirsi le castella, che i baroni, senza sovrana concessione, aveano eretto ne’ loro feudi dalla morte del re Guglielmo II in poi; altri provvedimenti per la conservazione dell’ordine pubblico furono stanziati l’anno appresso, nel parlamento di Messina. Ma la guerra coi Saracini di Sicilia, la malaugurata spedizione d’oltremare, l’invasione delle truppe pontificie, le fazioni suscitate dal papa accrebbero a più doppi il disordine; le aspre guerre, che indi seguirono, agio al re imperadore di recare a compimento i suoi alti disegni; ma non sì tosto fu conchiusa la pace con papa Gregorio nel 1230, che egli pose l’animo a recare ad effetto la grand’opra. Pietro delle Vigne per suo incarico compilò tutte le leggi dei re normanni e quelle pubblicate o che intendea pubblicare lo stesso Federigo. Il nuovo codice fu dato a discutere al parlamento convocato in Melfi. Nel giugno del 1231 cominciò la discussione; addì 22 del seguente agosto il codice fu pubblicato363.

II. — A frenare la licenza nei disordini pubblici introdotta, ed ogni violenza contro le cose e le persone, con legge espressa fu minacciata la pena della perdita della vita e di tutti i beni a chiunque osava ricorrere all’armi e muover guerre private nelle private contese364. Per prevenire poi tali delitti, si vietava a tutti il portare spade, pugnali, lance, scudi, corazze, mazze ferrate ed ogni maniera d’armi, eccetto i cortigiani e coloro ch’erano impiegati nel servizio del principe. Si permetteva solo portar la spada ai militi e loro figli, ed ai borgesi, quando doveano per loro faccende recarsi a cavallo fuori della città; pena cinque once al conte, quattro al barone, tre al milite, due al borgese, una al rustico365. E, perchè ognuno, inerme come era, avesse una pronta difesa, bastava all’assalito intimar l’aggressore in nome del re a desistere, perchè quello si facesse reo di sprezzata difesa, non rimanendosene366. La pena di morte era inflitta, non che ai rapitori delle sacre vergini367, ma di qualunque donna onesta, abrogata l’antica legge, per la quale bastava al rapitore lo sposare la donna rapita, per ricattarsi della pena capitale368. Colla stessa severità si volean puniti coloro che usavan violenza anche alle meretrici369. E, perchè le cose fossero, come le persone, al coverto dell’altrui violenza, chiunque toglieva di forza la cosa altrui era condannato a restituirla colla metà del suo valore, se stabile; col quadruplo, se mobile370. Di morte erano puniti i devastatori dei campi e gl’incenditori delle case, se colti sul fatto od altronde convinti; ed in ogni caso che il reo di tali malfatti restava ignoto, tutti gli abitanti del luogo eran tenuti a rifare il danno. Pegli omicidi clandestini poi, de’ quali il magistrato non potea venire a capo di scoprir l’autore, tutti gli abitatori delle terre eran sottoposti alla multa di cento augustali, se l’ucciso era un cristiano; di cinquanta, se ebreo o saracino371. Leggi salutarissime in quell’età, in cui il devastare i campi, l’incendiar case, le uccisioni e simili ribalderie erano opera di pubbliche associazioni, più che di private nimistà.

Cotali severissime leggi, le quali portano tutte il nome di Federigo, fanno chiaramente conoscere quanto il pubblico costume era cambiato in meno di mezzo secolo, dopo la morte del buon Guglielmo II, nel cui regno erano affatto ignote le violenze d’ogni maniera. E ciò, non che dall’uniforme asserzione degli scrittori di quell’età, è provato dall’avere lo stesso re imperadore nel 1228 prima di recarsi in Soria, nella solenne adunanza di Barletta, raccomandato a tutti i sudditi di vivere nella stessa pace, in cui si viveano sotto Guglielmo II372. Ma quelle leggi stesse vane sarebbero state senza l’opera de’ magistrati, che l’avessero fatte eseguire; per lo che il parlamento di Melfi dieopera a rinvigorire l’ordine dei magistrati, stabilito nella costituzione sancita da re Rugiero I, con quelle giunte ed innovazioni che i tempi aveano reso necessarie.

III. — Cominciando dai magistrati inferiori, fu confermata ai bajuli la giurisdizione assegnata loro dalla costituzione normanna373; ma si volle che in ogni città e terra non fossero più di tre bajuli, che questi fossero nati in luoghi del demanio374; che i cherici ed i giudici non potessero avere una tal carica o tramettersi nell’amministrazione della baglia, Sia che fosse in credenza, od in estaglio375; e che l’amministrazione suddetta avesse principio dal cader di settembre. Ai bajuli finalmente appartenea il fissare la mercede de’ vendemmiatori, mietitori ed operai d’ogni maniera. Ed è degno di nota che il parlamento all’insania di questa legge volle aggiungere l’estremo rigore della pena. Il mietitore che voleva di più della mercede fissata, oltre alla perdita di essa, era punito colla multa del quadruplo376.

Il bajulo nell’esercizio della sua facoltà giudiziaria era assistito dai giudici e dal notajo degli atti; ma i giudici, separatamente da lui non aveano altro incarico che il validare con la loro sottoscrizione i contratti che dai notaj si stipulavano. In ogni città del demanio erano tre giudici e sei notai, eccetto Napoli, Salerno e Capua, città allora tutte e tre più popolose delle altre, nelle quali si vede che fossero cinque giudici ed otto notai377.

Restarono i bajuli, come lo erano stati, soggetti ai magistrati provinciali; e perchè doppio era lo incarico, l’esercizio della giurisdizione e la riscossione de’ tributi, furono per la prima parte soggetti ai giustizieri, ai camerarî per la seconda. Fu conservata ai giustizieri la giurisdizione criminale in tutti quei casi, in cui era da infliggersi la pena di morte e del troncamento d’alcun membro; e, perchè tra questi erano i grandi furti, fu definito, tali essere quelli, che oltrepassavano i venti agustali378, ossia once due e tarì quindici d’oggidì. È questa una delle prove dell’alto valore della moneta in quell’età.

Restarono soggetti al giustiziero della provincia tutti i magistrati locali, e fin lo stratigoto di Messina, al quale, per ispecial privilegio, competea la giurisdizione criminale. La corte del giustiziero fu composta da un giudice assessore e dal notaio che stipulava l’atto del giudicato; ma restò l’antica consuetudine d’intervenire nei giudizî una giunta d’uomini probi379.

Furono conservati ai camerarî gli stessi dritti che dava loro la costituzione normanna. Ricevevano essi la carica o a credenza od in estaglio; potevano costituire il bajulo, ove mancava; e se alcuno de’ giudici della corte bajulare era impedito, potevano sostituirvene un’altro di quelli destinati ai contratti; ricevevano le appellazioni delle sentenze de’ bajuli nelle civili, e giudicavano in prima istanza in que’ casi che eccedevano la competenza di quelli; ad essi apparteneva il dirimere le contese tra’ bajuli e i gabellieri; essi rivedevano i conti de’ bajuli, e, spirata la costoro carica, li tenevano a sindacatura per cinquanta giorni; erano giudici nelle cause civili de’ castellani; erano essi finalmente nelle rispettive provincie i soprantendenti generali, dei portulani, dei gabellieri, de’ massai, de’ guardiani delle foreste e degli armenti reali, insomma di tutti coloro che amministravano fondi fiscali. La sola innovazione che fu fatta alla carica de’ camerarî fu quella di non potersi dalle loro decisioni appellare a’ giustizieri, ma alla gran corte380.

IV. — La gran corte con tanto senno composta da re Rugiero I, ebbe dal parlamento di Melfi forma più stabile e più ampie facoltà, come si addiceva a quell’eminente magistrato, che era tenuto fonte suprema di giustizia (381). Venne composta da quattro giudici e preseduta dal gran giustiziere del regno. Decideva essa tutte le contese civili e criminali e particolarmente le cause delle contee, delle baronie e di tutti i feudi; riceveva gli appelli di tutte le cause decise, non che dai giustizieri, ma dagli stessi magistrati delegati dal principe; alla sua giurisdizione ne andavan soggetti i cortigiani, le persone vestite di qual si fosse dignità, i conti, i baroni; potevano ad essa dirigersi i pupilli, le vedove, i poveri e tutti coloro, ai quali, per non essere oppressi dai prepotenti, la legge dava il dritto di scegliere il foro; chiamava a se e puniva i magistrati inferiori, contro i quali veniva portata causa di denegata giustizia (382).

Tutti i ricorsi al principe di qualunque natura, erano presentati al gran giustiziero, il quale, col consiglio dei suoi giudici provvedeva alle cose di giustizia e rimandava al gran cancelliere gli affari di grazia. Quindi fu disposto che egli avesse il suggello di giustizia, come da gran tempo il gran cancelliere avea quello di grazia. Comechè la gran corte si supponesse sempre a fianco del principe, in cui nome spediva gli ordini, pure era essa nel dovere di visitare ogni anno tutte le provincie del regno, per sorvegliare la condotta de’ magistrati locali; ovunque essa giungeva, l’autorità degli altri magistrati taceva; ordinava talvolta ai giustizieri provinciali ed ai camerarî decidere in sua presenza le cause pendenti; ma pedelitti commessi durante la sua dimora nel luogo, o poco prima, essa sola procedea; i condannati da essa a pene corporali, potevano appellarsi al principe, qualora si trovava nel regno, ma s’era fuori, si negava l’appello. sopra i soli magistrati di giustizia si estendeva la giurisdizione della gran corte, quando visitava la provincia; dovea essa esaminare la condotta de’ secreti, dei castellani e di tutti coloro, che avevano l’amministrazione o la cura di cose appartenenti al fisco o al demanio (383).

Certo non poteva trovarsi modo più efficace di tenere a segno i magistrati tutti e far che le leggi avessero pronta e severa esecuzione, che il dare così ampia facoltà a quel supremo tribunale; ed alle facoltà che ad esso dava la legge, si univa l’alta dignità delle persone ond’era composto. La carica di giudice della gran corte era allora una delle più eminenti dell’ordine pubblico; v’eran promossi uomini distinti per nobiltà, per sapere, per capacità; erano essi intimi familiari del principe; giudici della corte troviamo allora destinati a trattare i più importanti affari ed alle più alte ambascerie; quali essi erano, possiamo argomentarlo dal vedere che giudici della gran corte eran Pietro delle Vigne e Taddeo di Sessa che in grandissimo stato furono appo Federigo, il primo dei quali fu suo segretario e gran cancelliere, e stese ed ordinò tutta la legislazione sottoposta all’esame del parlamento di Melfi, ed ambi furono, una col conte di Tolosa, destinati ambasciadori al concilio convocato in Lione, per trattar la pace con papa Innocenzio IV. Lo stesso gran giustiziere del regno, che la legge chiamava specchio di giustizia, e maggior luminare dei magistrati, nulla poteva, separato da’ suoi giudici; essi conservavano il gran suggello e gli atti dei magistrati inferiori, contro i quali era proposto richiamo; esaminavano e decidevano essi tutte le contese; ma nessuno di essi poteva dalla tortura in fuori, fare alcun atto giudiziario, senza l’autorità del gran giustiziere; e tutti assieme non potevano profferire giudizio, se non uniti in corte e preseduti da quello: Che se nelle corti dei giustizieri, dei camerarî, de’ bajuli i giudici intervenivano da semplici assessori, ma il giudizio era proferito dal solo magistrato e da lui solo sottoscritto; i giudici della gran corte aveano facoltà propria di giudicare, i loro giudizî erano profferiti in nome di tutta la corte e da tutta la corte sottoscritti. Di che è chiaro argomento un giudicato dell’anno 1250, pubblicato dal Pirri (384). Era allora gran giustiziere Riccardo da Montenero, e giudici Giovanni Martorana, Andrea di Capua, Roberto di Palermo e Durando di Brindisi; la sentenza è profferita in nome di tutti cinque e da tutti sottoscritta.

Non accade qui far parola dell’alta corte dei pari; ciò sarebbe una vana ripetizione di quanto altrove si è detto; imperocchè gli scrittori dell’epoca normanna fanno bensì conoscere l’esistenza di questo eminente tribunale, col riferirne i giudicati; ma noi ne ignoreremmo le attribuzioni, senza la legge bandita dal parlamento di Melfi, la quale conservò ai conti, ai baroni, ai militi ed a tutti coloro che tenevano feudi in capite, il dritto, che loro dava la costituzione del regno, di essere giudicati da’ loro pari (385).

V. — Tali erano i magistrati costituiti in tutti i dominî del demanio; ma imperfetto sarebbe stato l’ordine tutto, avrebbe potuto conseguire il grande oggetto di frenare ogni privata violenza, se si lasciavano le corti baronali nello stato, in cui erano. Per la costituzione stessa del governo feudale i baroni erano annoverati fra’ magistrati del regno; perocchè la concessione del feudo dava loro il dritto di esigere tutti i proventi di esso e di esercitarvi giurisdizione; e per che costituivano magistrati, che amministravano le rendite ed esercitavano in loro nome le funzioni giudiziarie. Ma la legge avea ristretti i confini di tali pericolose prerogative. Essi non potevano gravare gli abitatori del feudo di nuovi tributi oltre a quelli nella concessione descritti; e re Rugiero avea espressamente dichiarato di essere l’esercizio del mero impero, o sia della giustizia criminale, dritto di regalia, appartenente al solo principe; e però ne erano stati spogliati tutti coloro che lo godevano anche per concessione del conquistatore. Poco efficace fu quel provvedimento. Non guari andò che i baroni più potenti cominciarono a riprendere il perduto dritto; e lo stesso Guglielmo II, per privilegiare l’arcivescovado di Morreale, concesse a quell’arcivescovo il giustizierato perpetuo nella sua diocesi. Crebbe l’abuso nei tempi licenziosi, che seguirono; intantochè Federigo, quando cominciò a regnare, trovò in tutte le grandi signorie stratigoti e giustizieri costituitivi dai baroni.

Federigo venne da prima togliendo l’un dopo l’altro quella giurisdizione a coloro che l’esercitavano; e cominciò dagli ecclesiastici, o perchè a lui più infesti, o perchè l’esempio fosse di maggior peso. Reduce da Germania nel 1220, venuto a Sangermano volle dall’abate di Montecasino resignato il jus sanguinis, malgrado l’espressa concessione fattane da re Arrigo imperadore al suo diletto abate Roffredo nel 1195 (386), tolse del pari al vescovo di Catania il dritto di destinare uno stratigoto ad esercitare per lui la giustizia criminale nella stessa città e nelle terre di Aci, Santanastasia e Mascali; ed è perciò che i papi predicavano l’empietà di Federigo sull’avere spogliato de’ dritti loro le chiese di Catania, di Cefalù e di Morreale.

Non contento a questi parziali rimedî, che non facevano pel grande scopo della sua legislazione, re Federigo imperadore foce al parlamento di Melfi stanziare; essere la giustizia criminale e ’l mero impero singolar pregio della sovrana potestà; e però nessun prelato, conte, barone o milite, fondato sopra illecite presunzioni, osasse quindi innanzi, pena la perdita della signoria, esercitare o commettere ad altri il giustizierato; e che nelle cause criminali non si avesse ad altri ricorso che ai giustizieri delle provincie, destinati immediatamente dal principe (387). Indi in poi le memorie de’ tempi non fanno più menzione degli stratigoti di Catania, di Lipari, di Noto, di Ragusa, di Butera e di tante altre signorie feudali. Solo fu conservato lo stratigoto di Messina; ciò fu propriamente un’eccezione. Messina era una città regia, la quale restò, come sin da tempi antichissimi era stata, soggetta a quel magistrato eletto dal re.

solo venne tolto a’ baroni l’esercizio della giurisdizione criminale; ma gli stessi bajuli, che per parte de’ baroni rendevano ragion civile, vennero sottoposti all’autorità de’ giustizieri delle provincie; i quali potevano obbligarli a profferir la sentenza nel termine dalle leggi prescritto: ed a se avocavano le liti, nel caso che quelli negavan giustizia (388).

VI. — Non accade mostrare quanto vigore venne per tutto ciò ad acquistare la pubblica autorità; ma valse a quest’oggetto anche di più l’avere stabilite forme più regolari nell’amministrazione della giustizia. Comechè re Rugiero, nel comporre l’ordine giudiziario, avesse mitigato in parte l’uso insano de’ giudizi di Dio, che si chiamavano prove paribili, perchè si credeva che la verità così apparisce, pure o non potè o non seppe estirpar del tutto la rea consuetudine; Federigo lo seppe, lo volle, ne venne a capo. Ricisamente vietò che nelle corti di giustizia tali prove fossero ammesse; e con tanta filosofia è concepita la legge, che basta solo ciò a mostrare quanto egli fosse stato superiore al secolo in cui visse (389). Con pari filosofia fu vietato il duello, ch’era una delle prove paribili, introdotta in Sicilia dai Normanni e conservata dal genio del secolo e dall’orgoglio de’ baroni e de’ nobili, che si recavano a vanto l’origine francese e le usanze de’ Franchi seguivano; e però ai baroni fu espressamente interdetto il duello, che potea considerarsi come una divinazione, più presto che prova certa (390).

Si gran lode al santo re Luigi IX, per avere abolito in Francia il duello giudiziario; ma il principe siciliano lo precesse almeno di trenta anni (391); estese il divieto a tutte le corti dei giustizieri del regno; le ragioni che ne adduce recano sommo onore al suo intendimento; ovechè il santo re enumera semplicemente i casi, nei quali, non più il duello, ma le scritture ed i testimoni servissero di prove. Ciò non però di manco lo stesso Federigo ebbe in certo modo a piegarsi ai tempi, con permettere il duello negli omicidî, pei quali l’accusatore e il magistrato fossero disperati d’aver prova legale (392), e nei delitti di lesa maestà. Nei quali casi fu prescritto: che quello de’ due campioni, che restava vinto, non potesse più in avvenire essere ammesso a combattere per altri, potesse bensì combattere per se, ma per discolparsi, non per accusare (393); che i due campioni doveano giurare di difendere una causa giusta, e, se succombea il campione dell’accusato, perdeva la vita, se quello dell’accusatore, era, come spergiuro dannato al troncamento della destra (394); che l’accusante dovea adottar le armi ed il modo di combattere convenienti alla condizione dell’accusato; però se questi era nobile, l’altro, comechè non uso a ciò dovea combattere a cavallo con armi da cavaliere ma se l’accusato era plebeo, dovea l’accusatore, benchè nobile, combattere a piedi col mazzero; per la ragione stessa, se lo sfidato era monocolo o difettoso in alcun membro, il giudice ed uomini probi a ciò destinati, alquanti giorni prima della battaglia, doveano bendare al campione accusatore l’occhio che mancava all’altro, sì che restasse come affatto cieco, e far modo ch’ei non potesse far uso del membro, in cui l’altro difettava; ma qual che si fosse la condizione fisica dall’accusante, l’accusato non era tenuto a nulla (395).

Non è da maravigliare che Federigo nel XIII secolo fosse stato da alcun modo condiscendente per un’antica consuetudine, tanto in armonia coi costumi del suo secolo, alla quale altronde pose tali limitazioni, che equivaleano quasi ad un divieto; è da maravigliare bensì che in questo secolo, in uno de’ più colti paesi della terra, nella patria di Bentham, in Inghilterra, il duello giudiziario, anche introdotto dai conquistatori normanni, sia tuttora ammesso dalla legge (396). Perchè dunque dal principio del XVII secolo in poi nessuno Inglese è più ricorso alle armi per provare la sua innocenza, il suo dritto? Perchè il pubblico costume spesso svelena le cattive leggi ed anche più spesso pervertisce le buone. Ed a ciò dovrebbero por mente coloro che credono di migliorare la condizione dei popoli solo coll’adottare straniere istituzioni o coll’architettare nuove forme di reggimento, senza calcolare la somma di tutti gli svariati elementi, che informano ed addirizzano il costume pubblico.

VII. — Federigo si sarebbe tanto distinto fra tutti i re dell’età sua, se si fosse fermato alla sola abolizione del duello e delle altre prove di simil genere, senza sostituirvi altre forme da seguire ne’ giudizii, le quali definissero i confini tra l’uso legittimo e l’abuso dell’autorità, e quindi allontanassero il caso della disubbidienza, per lo più nata dall’abuso. Base di tutte le leggi del re imperadore intorno a ciò sancite fu il principio che ne’ giudizii ogni cosa fosse scritto. Scritta si volea la dimanda, scritta la citazione, scritte le deposizioni dei testimonî, scritta la sentenza. Per tal ragione fu vietato l’uso di una certa scrittura intralciata, che si usava in Napoli, nel ducato d’Amalfi ed in Sorrento; e fu prescritto che gli atti pubblici fossero scritti in pergamena e non in carta bambagina (397); ch’essi dovessero essere sottoscritti, oltre il notajo ed il giudice, da due testimonî, se il valore della cosa, di cui l’atto trattava, era meno di una libra d’oro, da tre, se fosse di più; e che nissun chierico potesse essere notajo o giudice (398).

Dalle qualità delle scritture passando a quelle che sì volean petestimoni, fu disposto ch’essi fossero di nobile ed onesta nazione; però fu vietato ai rustici, che si dicevano anche angarii, ed ai villani d’intervenire ne’ giudizî come testimoni. Si volevano due testimoni per deporre contro un loro pari; ma il numero di essi si addoppiava traendoli dalle classi inferiori; così contro un conte valeva la deposizione di due conti o di quattro baroni o d’otto militi o di sedici borgesi; contro un barone dovean deporre due baroni o quattro militi od otto borgesi: e per un milite esser doveano o due militi o quattro borgesi (399). Dai Diplomi de’ tempi apparisce, che i testimoni erano ricevuti da un giudice e dal notajo della corte, e vi si voleano presenti altre persone che sapeano leggere e scrivere, e perciò chiamati testimoni letterati. Il notajo stendeva l’atto, il giudice ed i testimoni letterati lo sottoscrivevano.

Si volle che gli appelli si facessero nello spazio di cinquanta giorni, dopo profferita la prima sentenza: che la parte appellante stesse di presenza ad insistere per la spedizione della seconda sentenza e se si allontanava, senza congedo del magistrato, il giudizio d’appello non avesse più luogo, meno che nel caso che il giudice superiore conoscesse che nulla in se stessa era stata la sentenza dell’inferiore (400).

A tali provvedimenti fu aggiunto, che in presenza del magistrato, nella discussione della causa, tutti stessero in rispettoso silenzio; nissuno osasse parlare senza averne il permesso dal magistrato, e molto meno romper la parola di chi orava; e se, dopo tre ammonizioni non faceva silenzio, era multato, se rustico in un agostale, se borgese in due, se milite in quattro, se barone in otto, se conte in sedici; ed alla stessa multa era dannato il giudice, se per condiscendenza non la infligea l’offensore; che i giudici dovessero prima spedire le cause delle chiese, poi quelle del fisco, poi quelle delle vedove, de’ pupilli, degli orfani, ed in ultimo le altre; che alle vedove, ai pupilli, agli orfani, a’ poveri e ad altre persone deboli, particolarmente quando piativano contro potenti, fossero dati avvocati, e se era il caso, campioni, e che non solo nulla pagassero per le spese del litigio, ma il fisco provvedesse al loro mantenimento durante il piato (401); che le cause civili fossero spedite in due mesi (402), le criminali tre (403); che nessun accusato, anche di delitti capitali, fosse carcerato, se dava idonea fidejussione, eccetto il caso che avesse già confessato il delitto o fosse stato colto sul fatto o il fatto fosse stato tanto notorio che la difesa non avrebbe avuto altro scopo che il ritardare la punizione (404); che per ammettersi un’accusa bisognava che l’accusatore desse cauzione di soffrire la pena dovuta allo accusato, se non fosse provato il delitto; ed una tal pena a lui era con effetto inflitta, se calunniosa era l’accusa (405); che se, dopo ammessa l’accusa, nel giorno designato dal giudice si presentasse l’accusato per mostrare la sua discolpa, e l’accusatore non venisse a mostrar le prove, fosse questo multato nella sesta parte dei suoi beni e condannato a rifar delle spese l’accusato (406); e se, citato la seconda volta. si negasse comparire, pagasse di più cento augustali (407); e finalmente, se colludendosi, l’accusatore, l’accusato comparisse, fossero tuttaddue multati in cento augustali ciascuno (408).

Tutto nelle costituzioni di Federigo mostra la sua imperiosa volontà ed il suo studio a far che le leggi fossero rigorosamente eseguite e tutti i cittadini fossero indistintamente soggetti all’autorità de’ magistrati. Ma dall’altro lato, per prevenire gli abusi che i magistrati potessero fare della loro autorità, fu prescritto che i giudici fossero uomini illustri, fedeli e giurisperiti; e se più di uno pretendesse la carica, il voto dei loro concittadini ed un rigoroso esame determinassero la scelta; che i giudici ed i notai fossero di onesti natali e non potessero essere ammessi ad esercitar tali cariche i villani, gli angarî e coloro che non erano nati da legittimo matrimonio; e, perchè la validità dei contratti, oltre la sottoscrizione del notajo, era necessaria quella del giudice, in caso di falsità, ad entrambi fu imposta la pena del troncamento, non già della destra. come era disposto nelle antiche leggi, ma della testa (409); che il giudice, il quale a ragion veduta profferisse un giudizio contro la legge, fosse dannato alla perpetua infamia ed alla perdita detta carica e di tutti i suoi beni (410); ma della vita ne andava a quel giudice, che per venalità, prevaricazione, od altro reo intendimento, dannasse alcuno alla morte (411). Fu rigorosamente vietato ai giustizieri, ai camerarî, ai loro giudici e notai ed a tutte le persone della loro corte di ricevere a mutuo alcun che, acquistar case o poderi e contrarre matrimonî nella provincia loro assegnata, durante la loro carica (412). Fu confermata la legge che i giustizieri ed i camerarî co’ loro uffiziali, spirata la carica, stessero cinquanta giorni presso i loro successori, per discolparsi delle accuse, che contro di essi potevano esser proposte (413). Fu stanziato che il giustiziere e qual si fosse altro magistrato, convinto di avere accettato alcun dono dalle parti, fosse, come ladro, dichiarato infame e, rimosso dalla carica, pagasse il quadruplo della cosa ricevuta in dono (414). Fu finalmente dichiarato essere delitto pubblico la corruzione de’ magistrati, e però essere chiunque in dritto di accusarneli (415).

VIII. — Perchè poi un tal savissimo divisamento avesse avuto luogo in fatto e le querele contro i magistrati fossero proposte in modo più solenne, Federigo, venuto in Sicilia due anni dopo la conchiusione del parlamento di Melfi, nei gennajo del 1233 chiamò un nuovo parlamento in Messina; nel quale fu stabilito che due volte l’anno, cioè nelle calende di maggio e di novembre, in certi luoghi designati in ogni provincia, si riunissero i prelati, i conti, i baroni. quattro buoni uomini de’ più distinti d’ogni città cospicua e due d’ogni castello o terra di minor nome; vi venissero il gran giustiziere con tutti i giustizieri, il gran camerario cocamerarî, i bajuli e tutti i magistrati ed officiali regî. Presedea in tali adunanze un regio messo, ed in esse ognuno metteva avanti le sue querele contro il gran giustiziere, i giustizieri e qualunque altra persona vestita di pubblica autorità. Le querele, ridotte in iscritto, suggellate da’ quattro più eminenti prelati, ch’erano presenti, venivano consegnate al regio messo, per farle presenti al re (416).

Fra tante antiche istituzioni; che le posteriori vicissitudini fecero andare i disuso, la perdita di tali corti di sindacatura è una di quelle, di cui la Sicilia deve maggiormente rammaricarsi; perocchè era questo il solo efficace mezzo di tenere a segno i magistrati e conservare illibato l’onore di essi. L’uomo ha sempre uno stimolo al malo oprare, nella speranza che le sue colpe fossero ignote; e tale speranza nel magistrato è in tanto più forte, in quanto la sua corruzione è difficile a provarsi legalmente; ma non v’ha uomo, perverso che si voglia, al quale non fosse spaventevole il rischio di essere rimproverato de’ suoi malfatti due volte l’anno, in una pubblica adunanza, composta di quanto v’ha di più illustre nella nazione; era mestieri che al rimprovero seguisse la punizione; perocchè la querela stessa portava seco il più severo di tutti i gastighi, la pubblica disistima, la quale, anche senza prove legali, facilissimamente si appicca.

Tali furono i regolamenti del parlamento di Melfi per l’amministrazione della giustizia; ma qui Federigo non si tenne. Colla stessa intelligenza, colla quale avea provveduto alla retta amministrazione della giustizia venne a stabilire i magistrati, ai quali era affidata l’amministrazione economica. Ed una nuova geografia politica della monarchia disegnò, per istabilire i confini della giurisdizione di ogni magistrato.

IX. — Tutta l’amministrazione della rendita fiscale era sotto i re normanni compresa in un officio, che si diceva dogana. Federigo destinò a governarla i segreti, i quali, non solo esigevano le gabelle che si pagavano sulle derrate che andavano o venivan fuori del regno; ma riscuotevano le bajulazioni; ciò che veniva a comprendere tutti i dazî che si pagavano nei luoghi del demanio; e però dal segreto erano dipendenti; per questa parte, i camerarî ed i bajuli. Oltracciò amministrava il segreto i beni delle chiese vacanti e quelli dei rei, che il giustiziero della provincia avea confiscati; avea cura de’ regî palazzi e de’ luoghi di delizia del principe; somministrava i soldi e le provigioni ai reali castelli; esigeva le decime delle chiese reali; ed a lui venne affidata l’esazione e la riscossione delle prestazioni di alcuni feudi in legname e marinari, che nei tempi andati costituivano un fondo addetto al provvedimento della reale armata, al quale si dava il nome di Galea di Messina. La corte d’ogni segreto era composta da un giudice e più notai (417).

Stava sopra i segreti il maestro segreto, il quale avea anch’esso la sua corte di un giudice e due notai. Fu stabilito oltracciò in ogni provincia un maestro procuratore, il cui incarico era il fare ricerca di tutti i beni fiscali alienati, accertar le denunzie, ed intese le parti, avutone ordine dalla corte; incorporarli; sopravvedere l’amministrazione dei fondi del demanio che potea dare a fitto per cinque anni, potendo solo dare ad enfiteusi le paludi e que’ luoghi silvestri, che non erano addetti ai reali usi ed ai pubblici pascoli; amministrare i granai, le pesche, i pascoli, le masserie, gli armenti reali e tutti i beni che ricadevano al fisco, eccetto i beni feudali di ogni maniera ed i fondi che appartenevano ai castelli ed ai sollazzi del principe.

Le memorie de’ tempi fanno anche menzione del maestro portulano, che soprantendea al commercio marittimo; del maestro fondachiero, che avea in custodia i fondachi, nei quali si riponeano le derrate che doveano gabellarsi; del raccoglitore del denaro, che al real tesoro dovea pervenire; e d’altri simili officiali; ma questi e tutti gli altri, di cui sopra si è detto, erano soggetti ad una corte suprema, detta Magna Curia Ratiorum composta da’ maestri ragionieri, che si dicevano rationales magnae curiae, e da più ragionieri.

Questa corte suprema, la quale, comechè per la prima volta apparisca nel regno di Federigo I, non è improbabile che avesse avuto più antica origine, fu ne’ tempi d’appresso detta tribunale del real patrimonio: a’ suoi membri fu dato il nome latino di maestri razionali; ed esercitò più ampie facoltà giudiziarie ed amministrative; ma nella sua origine non ebbe altra facoltà che quella di rivedere i conti di tutti coloro, che esercitavano offici di amministrazione e decidere in appello le cause decise da’ segreti, ed a tale oggetto era stato ai maestri ragionieri aggiunto un giudice assessore che si diceva judex officii rationum.

X. — Per evitare poi i conflitti delle giurisdizioni rispettive di tutti i magistrati, Federigo divise tutta la monarchia in due parti; l’una comprendea la Sicilia e la Calabria sino a Roseto, che fu il dominio primitivo de’ conti di Sicilia e costituiva propriamente il regno; il ducato di Puglia, con tutto ciò che possedea la famiglia del Guiscardo ed il paese acquistato da re Rugiero I formarono l’altra provincia, che si estendea da Roseto al Tronto. Al governo di ognuna di tali provincie fu preposto un gran giustiziero, che in questi tempi comincia ad esser detto maestro giustiziero; ma nessuna prova abbiamo che ognun di essi avesse avuto particolari giudici, onde in ogni provincia fosse una gran corte; è certo anzi che in tutte le costituzioni di Federigo si parla sempre in singolare della gran corte ed in plurale degli altri magistrati, dei quali più d’uno era nel regno. Per l’amministrazione della giustizia il regno di Sicilia fu diviso in quattro minori provincie, le quali, per essere ognuna di esse governata da un giustiziere, furono dette giustizierati. Due ve n’erano nel continente; uno in Calabria, l’altro in Terra Giordana e val di Crati; ed in Sicilia, seguendo l’antica e naturale divisione dell’isola fatta da’ due fiumi Imera, furono costituiti due giustizierati; l’uno di qua, l’altro di da que’ fiumi. Per l’amministrazione economica due segreti v’erano; uno, che risiedea in Palermo, la cui giurisdizione si estendea per tutto il giustizierato di qua dai fiumi, ed avea sotto di le isole di Ustica, Marettimo, Pantelleria, Favignana e Lampedusa; l’altro, che risedeva in Messina, governava gli altri tre giustizierati e le isole di Lipari. In ognuna di tali provincie assegnate ai segreti era un collettore del denaro fiscale; quello, che si raccoglieva nel giustizierato di Palermo, era riposto nel real palazzo, l’altro nel castello di Neocastro in Calabria. Vi aveano al modo stesso un maestro portolano ed un provveditor di castelli. Più ristrette provincie erano assegnate ai camerarii, il numero dei quali variava a bel diletto dei segreti. Nel giustizierato di dai fiumi era stato solito costituirsi tre camerarî, oltre a quelli di Calabria, Terra Giordana e Val di Crati; avendone ordinato solamente uno il segreto di Messina, volle il re imperadore che ne costituisse almeno un’altro; e nel giustizierato di qua da’ fiumi le memorie dei tempi fanno menzione di un camerario per tutto il paese che comprendea il contado di Geraci e le parti di Cefalù e di Termini, e del camerario del val d’Agrigento; dunque almeno un altro esser ve ne dovea in tutto il resto del giustizierato (418).

XI. — Tale fu l’ordine pubblico fissato dalle costituzioni di re Fedenigo imperadore. È ben da dolerci che questo codice prezioso sia a noi giunto guasto ed alterato, sì che in molti luoghi il senso della legge riesce inintelligibile. Ciò è da attribuirsi all’uso di quei tempi di non apporre negli scritti punti, virgole; al frequente abbreviar delle parole; ed al non avere i primi editori usata la debita attenzione nel compartire e deciferar le parole; per lo che il testo venne scorretto, a segno che in quasi tutte le edizioni si trova in fine delle costituzioni apposta la data dal 1221, ovechè è indubitato che il parlamento di Melfi fu convocato nel 1231. Aggiungasi a ciò che alcune leggi, che altronde è noto di essere state sancite da un sovrano, vengono attribuite ad un’altro; ed alcune sono fra esse contradittorie (419). Ciò fu forse anche effetto della strana pretensione di papa Gregorio IX di vietare a Federigo il sancire le sue costituzioni; perchè da ciò dovea necessariamente venire di esser detto persecutore della Chiesa e distruttore della pubblica libertà (420). Il parlamento, che sin dal giugno del 1231 dava opera a ciò, conosciuta in luglio l’epistola pontificia, ebbe a studiare il passo a scanso che l’opera non fosse frastornata, prima di essere recata a compimento, e nel seguente agosto le costituzioni furono pubblicate, senza essersi potuto esaminare con animo posato la compilazione già preparata da Pier delle Vigne.

Ciò non però di manco quelle costituzioni sono un monumento di gloria per re Federigo imperadore. Mentre era egli distolto da tante cure e da gravissime imprese; mentre il regno era sconvolto dalle aperte guerre e dalle occulte mene dei papi; mentre per tutto altrove in Europa erano contemporaneamente in vigore leggi longobardiche e romane, privilegi di classi e di città, consuetudini civili e feudali; intantochè in ogni stato, in ogni provincia, in ogni città, in ogni famiglia era un continuo conflitto di leggi barbare e privilegi insensati, di dritti mali fondati e doveri mal conosciuti, per cui era quasi necessario che la spada al fin de’ fini dirimesse ogni contesa; il concepire e con somma perseveranza recare ad effetto la grand’opera di dare al regno una legislazione, in ogni sua parte compita, dettata tutta da sana filosofia e tutta diretta al lodevolissimo scopo di far che la forza privata cedesse sempre all’autorità dei magistrati, e l’autorità dei magistrati fosse sempre circoscritta dalla legge, è prova della straordinaria solidità e dell’altissimo ingegno del legislatore.

XII. — Ma le leggi di Federigo, oltre al loro merito proprio, servono oggi ad illustrare un articolo di gran momento nel dritto pubblico siciliano, cioè le parti ch’esercitava allora il parlamento del regno nella formazione delle leggi. Tutte le leggi de’ re siciliani, dalla fondazione della monarchia sino al regno di Martino I nel principio del XV secolo, appariscono come atti di sovrana volontà; ed è altronde evidente che la legislazione di Federigo non potea essere l’opera d’un’adunanza, e molto meno d’un’adunanza di baroni del XIII secolo. Era necessario rimuginare gli archivi per trarne le leggi de’ re normanni; scerre quelle che facevano al caso; sfiorare le leggi romane e longobardiche; esaminare le consuetudini antiche; aggiungervi nuove leggi per lo compimento dell’opera; tutto ciò potea farsi senza unità di fatica, di disegno, di locuzione. Dall’altro lato alcune leggi di un’epoca posteriore, intese a prescrivere assai angusti confini alla sovrana autorità, non è presumibile che fossero state dettate da libera volontà del principe. Pure è fuor d’ogni dubbio che, finchè la Sicilia ebbe proprii re, le leggi erano atti de’ parlamenti. Per le costituzioni di Federigo, che comprendono le leggi di tutti i re normanni, ciò è chiaro per l’autorità di Riccardo da Sangermano e per la data apposta in fine: Actum in solemni concistorio Melfiensi, Anno Dominicae incarnationis MCCXXXI (1231) alias XXII mense angusti, indictionis quartae. E tutte le leggi de’ re posteriori, sino all’estinzione della famiglia de’ re aragonesi, altro non sono che atti di parlamenti, ai quali si dava il nome di capitoli del regno.

Da tutto ciò è manifesto che da prima le leggi erano proposte dal principe e validate dall’assenso del parlamento; e che dopo le grandi perturbazioni che ebbero luogo sul cader del secolo, i primi principi aragonesi ebbero eglino stessi, per la sicurezza loro, a proporre quella garantia, che i tempi chiedevano. Venuto poi al trono Martino I, dopo che l’anarchia baronale avea tutto sconvolto e tutto usurpato, i comuni, che già da due secoli erano stati ammessi ne’ parlamenti invitati dallo stesso re, cominciarono a chiedere que’ provvedimenti, che credevano necessarii per riordinare il regno; e però dal principio del XV secolo in poi, i capitoli del regno cominciarono ad esser proposti dal parlamento e validati dall’assenso regio; al quale cambiamento Federigo, forse senza volerlo, diede la prima pinta col dar sede ne’ parlamenti ai rappresentanti de’ comuni.

XIII. — I governi d’Europa, informati tutto allo stesso conio e tutti manchevoli di forza propria per reprimere la potenza dei baroni; aveano nel XIII secolo cominciato a chiamare i rappresentanti dei comuni alle pubbliche adunanze, per aver nel popolo un freno ed un contrappeso alla prepotente forza del corpo feudale. I re d’Aragona furono i primi a darne l’esempio ed a sperimentare gli effetti. Nel 1133 i rappresentanti delle città furono ammessi nelle corti del regno, che indi in poi cominciò ad aver più larga forma di reggimento. Nel 1250 già diciotto città avean sede nelle corti di Castiglia. In Inghilterra il conte di Leicester, mentre tenea prigione il re Arrigo III, adunò un parlamento in Londra nel gennajo del 1265, in cui, per farsi un partito nel popolo, chiamò due rappresentanti di ogni distretto ed uno d’ogni città; e tale esempio fu di allora in poi seguito regolarmente. Nel 1293 le città imperiali cominciarono a far parte della dieta del corpo germanico. Nel 1303 Filippo il Bello chiamò per la prima volta rappresentanti delle città di Francia a sedere negli stati generali del regno (421).

Federigo fu uno de’ primi a ricorrere a quel salutare ripiego; e con sagace intendimento venne da prima dando alcun particolare incarico ai comuni. Nel 1222 ordinò che in tutti i borghi, castelli e città del regno si spendessero i danari nuovi di Brindisi e non avessero più corso le monete d’Amalfi, e diede l’incarico dell’esecuzione a due buoni uomini scelti in ogni luogo (422); altri ne furono scelti nel 1226 a far eseguire alcuni statuti, che oggi si direbbero di polizia, contro i forbanditi, i giuocatori, i bettolieri e coloro che andavano attorno di notte (423); per essere nel 1231 le campagne di Puglia devastate da una immensa copia di locuste, fu ordinato, che ognuno delle sue terre prima del levar del sole raccogliesse quattro tumoli di tali pestiferi animali e li recasse a quattro borgesi destinati in ogni terra a farli abbruciare (424); e finalmente nell’anno appresso, per eseguirsi presto le fortificazioni di Sangermano, sei borgesi furono designati ad assistere il contestabile di Capua, che ne avea avuto l’incarico (425). Nel 1232 poi Federigo costituì uno stabile magistrato municipale in ogni comune. Prescrisse che in ogni città o terra fossero due cittadini, i quali doveano curare che il popolo non soffrisse inganno o frode dagli artieri e dai venditori di grasce. Erano essi scelti dai bajuli, i quali doveano, per lettere suggellate e sottoscritte da essi e da coloro che aveano consigliata la scelta, far noti i nomi degli eletti al re, se si trattava di luoghi del demanio, al barone nei feudi, per essere approvati e scritti ne’ pubblici registri (426).

È ben degno di nota che mentre ne’ regni di oltramonti (le città d’Italia si governavano tutte a popolo) il dritto di costituirsi a comune ed aver proprî magistrati veniva concedendosi, come special privilegio, a tale o tale altra città, Federigo ne fece di colpo un regolamento generale; e così venne a dar più peso alla classe non feudale; guari di tempo andò che ne accrebbe l’importanza con dare ai comuni una rappresentanza politica, dopo d’aver loro affidate funzioni municipali.

Già nel 1132 avea chiamato due de’ maggioringhi di ogni città e terra, pel bene generale e la utilità del regno, in un parlamento, che in quell’anno volle convocato in Foggia (427); l’anno appresso fu dato ai comuni il dritto di mandare loro rappresentanti alle corti di sindacatura, stabilite nel parlamento di Messina; finalmente nel 1240 fu data ai comuni del demanio sede stabile nel parlamento del regno.

L’adunanza del parlamento e l’intervenirvi non erano prerogative particolari di alcun paese o di alcuna persona; ma era questo uno de’ servizî, che doveano rendere al principe tutti i suoi baroni, i quali erano tenuti di recarsi all’esercito o al parlamento, ove al loro signore fosse piaciuto l’adunare l’uno o l’altro: e però, comechè per l’interna amministrazione distinto fosse il regno di Sicilia dalla provincia di da Roseto, un solo parlamento era in tutta la monarchia, che si riuniva ora in Puglia, ora in Calabria ed ora in Sicilia. Il parlamento, in cui furono per la priva volta chiamati i rappresentanti delle città e terre demaniali fu convocato nel 1240 in Foggia pel delle palme. Federigo vi chiamò tutti i giustizieri del regno, ed ordinò loro di portar con essi due nunzî di ogni città ed uno d’ogni castello, compresi nella rispettiva provincia, e di ricapitare le lettere che loro mandava, dirette alle città di Palermo, Nicosia, Trapani, Castrogovanni, Piazza, Caltagirone, Lentini, Agosta, Siracusa, Catania e Messina in Sicilia, ed altre di Calabria e di Puglia, che per ispecial onorificenza volle direttamente chiamare (428). Con ciò venne ad alterarsi la costituzione del parlamento, che d’allora in poi non fu più interamente feudale.

Ciò non però di manco è da credere che Federigo a ciò si sia indotto per allargare i dritti e l’influenza del popolo; chè anzi ebbe nel far ciò in mira il principio, che regolava tutta la sua legislazione, cioè di rendere men contrastata la sovrana potestà, col contrapporre l’influenza popolare alla potenza feudale. Ma nel dare al popolo tale influenza andò assai cauto, perchè la sua autorità non potesse per altra parte pericolare ed i comuni siciliani non seguissero lo esempio delle città italiane, che allargando bel bello il governo municipale, s’erano finalmente costituite in repubbliche. questo era un vano timore. Cominciava già a sorgere nelle città siciliane l’uzzolo di novità, sì che alcune di esse a voce di popolo sceglievano potestà, consoli, rettori, ad esempio delle città italiane. A togliere tale abuso, già introdotto, fu bandita legge severissima, colla quale si vietava la scelta di simili magistrati popolari, pena la desolazione alle città, la perpetua servitù ai cittadini, la vita a coloro che esercitavano alcun officio conferito dal popolo (429).

Per tal ragione nell’istituire i giurati Federigo non diede loro veruna giurisdizione, altre facoltà ebbero che lo scoprire le frodi degli artieri e de’ venditori e denunziarle, senza potere infligger la pena. E se chiamava in parlamento i rappresentanti de’ luoghi del demanio, non ai giurati, ma al bajulo, ai giudici, al popolo eran dirette le lettere di convocazione, nelle quali si dicea: Mandatemi due vostri nunzî, che per parte vostra veggano la serenità del nostro volto, ed a voi riferiscano la nostra volontà (430). Un tal linguaggio sente tutto il vigore della sovrana potenza, che volea imbrigliare il popolo, nell’atto stesso che lo elevava a maggior dignità.

XIV. — Dal fin qui detto è manifesto che Federigo, e per l’ordine giudiziario e pel politico, non informò un governo del tutto nuovo; ma volle con altre giunte e modificazioni consolidare la costituzione stabilita da Rugiero I. Lo stesso rispetto mostrò sulle prime di avere pei regolamenti di pubblica economia; e sempre dichiarava di non volere che i sudditi fossero gravati di pesi, oltre a quelli, ch’eran soliti pagarsi nel regno del buon Guglielmo II. E veramente sino al suo passaggio in Soria le sue promesse non andaron fallite. Ma dal suo ritorno d’oltremare, obbligato finchè visse dall’odio implacabile dei papi ad esser sempre in guerra, o per sottomettere i nemici interni, o per restringere gli esterni aggressori, posti da canto gli antichi statuti e le sue dichiarazioni, si diede a gravare i sudditi d’imposizioni straordinarie, come straordinarî erano gli sforzi che dovea fare. Sappiamo primieramente che nell’agosto del 1231 vietò che si vendesse seta cruda, sale, rame e ferro altrove che dalla regia dogana; e nel seguente settembre appropriò tutte le tintorie del regno (431). È probabile che tali novità avessero destato alcun mal umore. Il cronista da Sangermano nel narrare la appropriazione delle tintorie, dice d’esser venuti in Sangermano due giudici, per mettersi in possesso di quella tintoria, che forse aveano tolta a fitto; l’arcivescovo di Reggio ne li vietò per esser propria del monastero di Montecasino. Che oltracciò si fossero accresciute allora le antiche imposte, è manifesto dagli statuti che furono pubblicati nell’ottobre del 1232; nei quali fu prescritto che la gabella sull’immissione ed esportazione delle derrate da ogni terra, sulle mele, le castagne, le noci ed altre frutta, sulla concia delle cuoja, sul vino, sull’erbaggio e la vendita degli animali, sulla percezione, sulla misura delle vettovaglie, sulla tonnina e sardella, sul lino, sulle cannamele, sulla lana di Siria, sul cotone, fossero ridotte alla forma antica; e diminuiti vennero i dazii sul cacio e sul macello (432).

Ma nei tempi d’appresso, in ragione che si accrescevano i suoi bisogni, Federigo, veniva imponendo nuove tasse, che, a distinguerle dalle antiche si dicevano dritti nuovi. Andrea d’Isernia giureconsulto napolitano di quell’età, nei suoi comenti alle costituzioni del regno, descrive quali erano i nuovi e quali gli antichi pesi (433), e dalla somma enorme de’ pesi da lui descritti ben possiamo argomentare quanto infelice era la condizione del regno in quell’età; intantochè lo stesso Isernia, che scrisse sotto Carlo I d’Angiò, ne infamò per questo la memoria, dicendo che, per avere gravato smodatamente i sudditi, l’anima sua riposava in pice e non in pace, e per castigo di Dio, la sua razza era spenta (434).

contento a ciò Federigo, convertì in dazio ordinario ed esasse in quantità arbitraria la colletta, che per legge i principi aveano dritto di imporre solo in casi straordinarî, fissati dalla legge, e nella somma che la legge stessa stabiliva. valse ch’egli nel suo testamento avesse dichiarato illegali tali nuove esazioni da lui introdotte, ed ordinato al suo successore di rimettere i pesi pubblici nello stato, in cui erano sotto Guglielmo II. Corrado, Manfredi, ambi più di lui travagliati dall’ira pontificia, poteano recare ciò ad effetto; e gli Angioini, che indi seguirono, fecero peggio: intantochè la sola sanguinosissima rivoluzione del 1282 potè restituire la cosa all’antico stato.

XV. — All’eccesso dei tributi andava congiunto estremo rigore nell’esazione. Una volta Federigo fu per gittar dai merli del real palazzo il giustiziero Bernardo Caracciolo, perchè nella provincia sua non avea raccolto oltre a settecentonce; valse il dire in sua discolpa, che le terre erano tutte povere. Si minacciava talvolta la galea a coloro che nel tempo prescritto non avessero pagato la colletta; e tal’altra fiata si mandavano masnade di Saracini e di Tedeschi ad alloggiare nelle terre, che indugiavano a pagare (435). Quanto Federigo fosse sempre instante per la riscossione de’ tributi, possiamo argomentarlo dal vedere che nelle lettere stesse, nelle quali ordinava ai giustizieri di recarsi al parlamento, e portar con essi i sindaci delle città, soggiungea di aver cura di portare altresì interamente esatta la colletta del giustizierato; e se alcun piccolo residuo era ad esigere, destinassero istantissimi esattori, che instantissimamente lo esigessero (436). Si tenea allora registro pel numero dei fuochi, o sia delle famiglie e delle case ch’esse abitavano in ogni città, terra o villaggio. La legge stabiliva la pena di mezzo augustale per foco alle terre morose a pagar la colletta (437), la quale pena si ripartiva poi fra’ cittadini in ragione degli averi d’ognuno. Perchè più pronta ne fosse l’esazione, non ai bajuli, ma ai giustizieri se ne dava lo incarico. La tassa totale veniva ripartita pel numero dei fuochi compresi in ogni giustizierato; il giustiziere poi, col consenso di uomini probi scelti in ogni comune; la ripartiva fra’ cittadini in ragione delle rispettive facoltà (438).

XVI. — Oltre alla rendita, che veniva dalle pubbliche imposte, aveano allora i sovrani amplissimi poderi. Il registro delle lettere di re Federigo imperadore, mostra, ch’egli tanto si assottigliava nell’amministrarli, che appena avrebbe potuto far di più un gretto massajo. Non permettea che un suo vigneto nel territorio di Siracusa fosse dato a fitto; per la ragione, che il fittajuoio, inteso a trarne quel maggior profitto che potea durante il fitto, avrebbe malmenata per l’avvenire la vigna (439). Volle una volta che la coltivazione di un palmeto, ch’era nelle contrade della Favara, presso Palermo, fosse affidata ad alcuni ebrei di recente venuti; e che v’introducessero la produzione dell’indaco, dell’alcana e di altre simili droghe (440). Le mandre di pecore solevano darsi in fitto, per lo più ai Saracini (441), i quali erano allora forse i soli, che tenevano dietro alle campestri faccende; e però ai Saracini di Nocera furono altra volta dati mille bovi de’ reali armenti, per destinarli all’aratro e dare al principe parte del guadagno, come soleva praticarsi da Gugliemo II (442). Numerose erano le marescialle, ossia gli armenti di cavalle, e re Federigo imperadore ordinava sempre ai segreti, ai camerari, al maestro delle marescialle, di aver cura che nulla mancasse alle cavalle, agli stalloni, ai puledri; e stalloni facea venire da fuori e particolarmente dalla Barberia (443).

Tale era la masserizia di quel principe, che fino scendeva alle più piccole minuzie. Scriveva una volta al segreto di Messina di curare che le serve addette al real palazzo di quella città, quando non aveano altro a fare, filassero o facessero altro lavoro, per non mangiare il pane ozioso (444): ordinò altra fiata al segreto di Palermo e di far costruire sotto il real palazzo, un sito detto la Minsa, un colombajo a nutrirvi le colombe (445). «Informati» scriveva allo stesso segreto d’ordine di Federigo Pier dalle Vigne «della quantità del frumento seminato dai massai, e del raccolto, per vedere se la produzione franca le spese; se essi ripongono il vino in botti pulite ed acconcie; se hanno sufficiente quantità di oche, galline, colombe, anitre, capponi e pavoni; se raccolgono le penne di tutto quel pollame, per farne coltrici (446).»

Dei fondi con tanta attenzione amministrati traeva quel principe straordinaria quantità di derrate e particolarmente di frumento. Sappiamo che un vasto tenimento dato a terratico (447) a que’ d’Eraclea, gli dava il profitto di seimila salme di frumento l’anno; un’altro podere presso Siracusa fu dato a censo per piantarvi un vigneto, dal quale traeva secento tarì d’oro e la decima parte del mosto; si parla nelle sue lettere di molini dati a fitto per frumento o denaro; in natura si pagava la gabella sull’asportazione del frumento, la quale era da prima la terza parte del frumento che si asportava; Federigo la ridusse alla quinta per la Sicilia e la Puglia, alla settima per la Calabria, la Terra di-lavoro, il principato di Capua e d’Abruzzo, perchè meno frumento vi si producea (448).

XVII. — Collo stesso studio, con cui cercava di accrescere la produzione de’ suoi campi, procurava di avere vantaggioso spaccio delle sue derrate, per la via del commercio; e, perchè in quell’età tutto il commercio d’Europa era ristretto nel Mediterraneo, Federigo si era sempre mantenuto in pace core d’Affrica e coi soldani d’oriente, co’ quali avea conchiusi più trattati, e di continuo andavano e venivano dall’una all’altra parte ambasciatori e ricchi presenti. Uno scrittore coevo dice che prima della sua morte avea Federigo ricevuti dodici cameli carichi d’oro e d’argento; il che fu cosa da credere, perciocchè ei trafficava con tutti i soldani d’oriente, e con le sue merci i suoi negozianti correvano a conto di lui sino alle Indie per terra e per mare (449). lasciava egli scappare alcun destro per vender con vantaggio le sue derrate. Scriveva una volta al maestro portulano di qua del fiume Salso che spedisse in Ispagna od in Barbaria il frumento che era in suo potere, ove si sarebbe venduto a miglior mercato (450); ed al segreto di Palermo altra volta ordinava di caricare una nave grande e due barche minori di frumento, e se non ne avea quantità sufficiente ne comprasse e lo spedisse in quei luoghi ove se ne potea avere miglior prezzo (451). Di tali disposizioni assai altre se ne trovano nel registro delle sue lettere; ma le lettere stesse ci fanno conoscere, che il commercio che si faceva allora in Sicilia era commercio del re, non del regno. La sola imposta del quinto sull’asportazione delle derrate era sufficiente ad impedire che il privato negoziante potesse mandarne fuori. Non era questo il solo vincolo del commercio. Non altronde che da luoghi determinati si potevano asportar le derrate; in tutto il giustizierato di dal fiume Salso, le navi non potevano caricare che nei porti d’Agosta e di Milazzo (452). ciò era tutto. Avea una volta Federigo dato l’ordine del grand’ammiraglio Niccolino Spinola di portare in Tunisi cinquantamila salme di frumento, ordinò al tempo stesso a tutti i portulani di Sicilia di non permettere che si asportasse frumento da veruna spiaggia del regno, se prima non si spedivano quelle cinquantamila salme (453).

Questi fatti bastano a farci conoscere che nullo era allora il commercio della nazione; e in quale stato esser dovea l’agricoltura, possiamo argomentarlo dalla difficoltà quasi insuperabile di mandar fuori i prodotti della terra, e dalla legge che le mercedi degli operai fossero fissate dal magistrato, che prova quanto scarso era il numero di coloro che liberamente si davano ai campestri lavori. Ed infatti le terre coltivate erano tanto poche, che nel 1239 il giustiziero di qua del fiume Salso espose al re imperadore, che gli agricoltori delle contrade di Sciacca, Girgenti e Licata non avean legno da far un aratro, per la grand’estensione delle tenute e delle foreste riserbate al principe, che si dicevano difese, nelle quali era severamente vietato tagliar legname d’ogni maniera; e proponeva di permettersi in qualche sito il taglio del legname a quell’uso. Federigo rispose che lo avrebbe permesso, se il giustiziero gli avesse additato il sito opportuno (454). Se quel principe si fosse allora sovvenuto di avere altrove dichiarato che la ricchezza dei sudditi accresceva la sua (455), avrebbe ordinato che in ogni parte della sua difesa gli agricoltori potessero fare gli aratri; ma quella gran verità, conosciuta in astratto, confermata dall’esperienza, è poi nel fatto messa sempre in non cale.





363 Mense junio... Constitutiones novae, quae Augustales dicuntur, apud Melfiam, Augusto mandante, conduntur. Mense Augusto.... Constitutiones imperiales Melfiae pubblicantur. Riccard. de S. German. Chron., ivi, pag. 602. Alla fine poi delle costituzioni è scritto: Actum in solemni consistorio Melfiensi, anno Dominicae incarnationis MCCXXXI (1231) alias mense augusti.



364 Constitut. Regn. Sic. Lib. I, tit. 8, 9, edit. Neap. 1773.



365 Ivi, tit. 10.



366 Ivi, tit. 16.



367 Ivi, tit. 20.



368 Ivi tit. 22.



369 Ivi tit. 21.



370 Ivi, tit. 25.



371 Ivi, tit. 27 28. L’augustale era una moneta, così detta per aver da un lato improntata l’aquila imperiale; e valea l’ottava parte d’un’oncia.



372 Imperator regni praelatis, et magnatibus coram se apud Barolum congregatis, parato sibi tribunali sub. divo propter gentis multitudinem, quae copiosa erat, proponi fecit, et legi subscripta capitula in modum testamenti, ut videlicet omnes de regno, tam praelati, quam domini et eorum subditi, omnes in ea pace et tranquillitate viverent, et manerent, quia esse et vivere soliti erant tempore regis Guillelmi secundi. Riccard. de Sangerm., Chron., ivi, pag. 581.



373 Const. libr. I, tit. 65.



374 Ivi, tit. 71.



375 Ivi, tit. 72. Si tenga presente quanto si disse nel cap. XXI della presente opera.



376 Ivi, lib. III, tit. 49.



377 Ivi, tit. 81.



378 Ivi, tit. 44.



379 Ciò si rileva da un atto di giudicato riferito dal Gregor. (Consider. sulla stor. di Sic. nota 18, al cap. II, libr. III,) nel quale si dice; Nos vero qui supra dominus justitiarius..... de consilio praedicti judicis et assessoris nostri per Regiam Curiam nobis dati, et aliorum proborum virorum jurisperitorum, etc. Tale espressione si osserva in tutti gli atti di giudicato di quel tempo.



380 Lib. I, tit. 61.



381 Curiae nostrae providimus ordinare justitiam, a qua, velut a fonte rivuli, per regnum undique norma justitiae derivatur. Ivi tit. 38.



382 Ivi, tit. 38, constit. Statuimus.



383 Ivi, tit. 41, 42, 43.



384 Pirri, Sic. Sacr. Tom. II, pag. 777.



385 Ut universis et singulis regni nostri nobilibus honor debitus integre conservetur... Ivi, tit. 47.



386 Richard. de Sangerm., chron. ivi, pag. 568.



387 Constit. Libr. I, tit. 4.



388 Ivi tit. 44.



389 Leges, quae a quibusdam simplicibus sunt dictae paribiles, quae nec rerum naturam respiciunt, nec veritatem attendunt, nos qui veram legum scientiam perscrutamur, et inspicimus, errores a nostris judiciis separamus, praesentis nostri nominis sanctionis edicto in perpetuum inhibentes omnibus regni nostri judicibus, ut nullus ipsas leges paribiles, quae absconsae a veritate deberent potius nuncupari, aliquibus fidelibus nostris indicat; sed communibus probationibus sint contenti, tam antiquis legibus, quam nostris constitutionibus introductis. Eorum etiam sensum, non tam corrigendum duximus, quam decidendum, qui naturalem candentis ferri calorem tepescere immo (quod est stultius) frigiscere, nulla justa causa superveniente, confidunt, aut qui reum criminis constitutum ob conscientiam laesam tantum asserunt ab aquae frigidae elemento non recipi, quam submergi potius aeris competentis retentio non permittit. Constit. Libr. II, tit. 31. Non saprebbe vedersi il senso di quell’aeris competentis retentio; forse è questa una delle tante alterazioni del testo; e forse dovrà dire aeris contenti.



390 Monomachiam, quae vulgariter duellum dicitur paucis quisbusdam casibus exceptis, inter barones regni nostrae ditioni subjectos, in perpetuum volumus locum non habere, quae non tam vera probatio, quam quaedam divinatio dici potest, quae naturae non consonat, a jure comuni deviat, aequitatis rationibus non consentit. Vix enim aut nunquam duo pugiles inveniri poterunt sic aequales, ut vel in totum non sit alter altero fortior, vel in aliqua parte sui vigore majori et potiori virtute, vel saltem ingeniis alter alterum non excedat. Ivi, tit. 33.



391 Mably, Observations sur lhistoire de France (Libr. III, chap. VII, not. 7), riferisce tutta lordinanza di S. Luigi, e dice: Cette ordonnance de S. Louis est sans date: quelques savans croient qui elle est de lan 1260.



392 Nec mirum si lesae majestatis reos, homicidas furtivos, atque veneficos pugnae subjicimus, non tam judicio, quam terrori, non quod in ipsis nostra serenitas justum aestimat, quod injustum in aliis reputavit, sed quod in eorum poenam, et aliorum exemplum, publice in cospectibus hominum sub tremenda probationis specie tales constitui volumus homicidas, qui occultas atque furtivas insidias vitae hominum (quos sola potest creare divina potentia) parare minime timuerunt. Ivi, Libr. II, tit. 33.



393 Ivi, tit. 37. Blackstone (Commet. on the law of Engl. Libr. III, cap. XVII, n. 342, e Libro IV, cap. XXVII, n. 348) dice che in Inghilterra il campione che si dava vinto con proferire la parola craven, era dannato ad amittere liberam legem, e non era più liber et legalis homo, poteva intervenire più ne’ giudizii, come giurato, come testimone.



394 Ivi, tit. 39.



395 Ivi tit. 40.



396 Blackstone, ivi libr. III, cap. XXII, num. 341 e Libr. IV, cap. XXVII, n, 346.



397 Libr. I, tit. 82.



398 Libr. I, tit. 84.



399 Libr. II, tit. 32.



400 Libr. II, tit. 48.



401 Libr. I, tit. 32, 33, e 34.



402 Libr. I, tit. 78.



403 Ivi, tit. 52, cost. Causas alias.



404 Libr. II, tit. 10.



405 Ivi, tit. 14.



406 Ivi, tit. 12.



407 Ivi, tit. 13.



408 Ivi, tit. 15.



409 Libr. I, tit. 97, cost. Indices, et libr. 3, tit. 80.



410 Libr. II, tit. 50.



411 Ivi, const. Iudex.



412 Libr. I, tit. 99.



413 Libr. I, tit. 9 cost. Volumus.



414 Ivi, tit. 55.



415 Libr. II, tit. 50, cost. Corruptelae.



416 Ricard. de Sangerm. chron. presso Caruso, Tom. II, pag. 608. Vedi Gregorio, Consideraz. sopra la Stor. di Sic. Tom. I, Libr. I, cap. 4, nota 14, 15, il quale dice, che ciò fu stabilito nel parlamento di Lentini; ma Riccardo da Sangermano, da lui citato, dice: MCCXXXIII mense januario apud Messanam ipse imperator regens curiam generalem statuit... È falso poi che quel parlamento non altro stabilimento prescrisse: furono ivi stabilite le fiere in Sulmona, Capua, Lucera, Bari, Taranto, Cosenza e Reggio.



417 Gregorio, Consid. sulla stor. di Sic. Lib. III, cap. 2.



418 Gregorio, ivi, Libr. I, cap. 3.



419 Gregorio, Introduz. allo studio del dritto pub. di Sic. Ragionam. del codice delle leggi normanne e sveve, ossia del libro delle Costituzioni.



420 Intelliximus siquidem quod, vel proprio motu, vel seductus inconsultis consiliis perversorum, novas edere constitutiones intendis, ex quibus necessarie sequitur, ut diceris Ecclesiae persecutor, et obrectator publicae libertatis. Gregorii papae epist. die 5 julii ann. 1231 apud Raynald. Annal. Tom. XXI, pag. 37.



421 Robertson, Hist. of Char. V. Introd. not. XVIII, XIX, XXXI.



422 Richard. de Sangerm. presso Caruso Tom. II pag. 571. Per buoni uomini s’intendevano allora i cittadini più distinti d’ogni luogo. Ducange, voce boni homines.



423 Lo stesso, ivi pag. 577.



424 Lo stesso, pag. 601.



425 Lo stesso, ivi, pag. 603.



426 Vedi in fine la nota XXIX.



427 Mense septemb. (MCCXXXII) Imperator a Melfia venit Fogiam, et generales per totum regnum litteras dirigit, ut de qualibet civitate vel castro duo de melioribus accedant ad ipsum, pro utilitate regni, et commodo generali, ad quem pro terra S. Germani ivit Roffridus de Monte mites. Richard. de S. Germ. Chron. presso Caruso, tom. II, pag. 605.



428 Vedi in fine la nota XXX.



429 Usurpationem illicitam, quae in quibusdam partibus regni nostri invaluit, abolentes, praecipimus ut amodo potestantes, consules, seu rectores in locis aliquibus non creentur, nec aliquis sibi auctoritate consuetudinis alicujus, vel ex collatione populi officium aliquod aut jurisdictionem usurpet... Quaecumque autem universitas in posterum tales ordinaverit, desolationem perpetuam patiatur, et omnes homines ejusdem civitatis angarii in perpetuum habeantur. Eum vero, qui aliquod de officiis supradictis susceperit, capite puniri censemus. Constit. Libr. I, tit. 50.



430 Vedi in fine la nota XXXI.



431 Richard. de Sangerm. cron. ivi, pag. 602.



432 Lo stesso, ivi, pag. 605.



433 Vetera sunt haec, videlicet: Dohana, Anchoragium, Scalaticum, Portus et Piscaria, jus affidaturae, Herbagium, Pascua, Glandium, et similium, jus tumuli, Bacharia, Passagium vetus; jus casei et olei non est ubique per regnum.Nova sunt haec, videlicet: jus fundici, ferri, azarii, picis, salis, jus staterae seu calandrae, Ponderaturae, jus mensuraturae, Rine de novo, jus setae; jus cambii, saponis, obbolendini, Bechariae novae, Imbarcatura, jus sepis, jus portus, et piscariae, jus exiturae, jus devini, Tentoriae; jus marchium, jus balistarum, jus gallae; jus lignaminum non est ubique; jus gabellae auripellis non est ubique per regnum; jus retinae, jus reficae majoris et minoris non est ubique, sed Neapoli. Isern. coment. ad librum I, tit. 7.



434 .... per quod videtur ille Fredericus quiescere in pice et non in pace. Multum debent cavere principes mundani in hoc: quia etiam hoc Deus retribuit sicut patet in illo Frederico, cujus heredes non sunt hodie. Dicitur enim Isaiae 10: Vae qui condunt leges iniquas. Isern. ivi. Quel minacciare in generale l’ira di Dio a tutti i principi, che smungevano i sudditi, mentre l’angioino, non solo nulla avea rimesso delle imposte di Federigo, ma vi avea aggiunto bene altre vessazioni, può far credere, che il giureeonsulto, accortamente avesse finto di parlar del morto, per rimproverare il principe vivente.



435 Giornali di Matteo Spinelli da Giovenazzo, presso Muratori S. R. I. Tom. VII, pag. 1067, 1071 e 1091.



436 Attentissime curaturus quod infra terminum supradictum collectam de justitieratu tuo integre recollectam ad praesentiam nostram feras, et si quid modicum residuum fuerit colligendum statuas instantissimos exactores, qui, te ad nostram praesentiam veniente, illud istantissime colligant, et ad praesentiam nostram deferre procurent. Gregorio, Consid. Libr. III, capitolo 5, not. 11.



437 Constit. lib. I, tit. 109.



438 Gregorio, Consid. Libr. III, cap. 6.



439 Regestum pag. 336.



440 Ivi, pag. 280 e 290.



441 Ivi pag. 268.



442 Ivi, pag. 370, 371 e 372.



443 Ivi, pag. 257 e 384.



444 Ivi, pag. 337 e 338.



445 Ivi, pag. 421.



446 Epist. Petri de Fineis. Tom. I, Libr. III, pagina 489.



447 Dare a terratico si dice in Sicilia il dar la terra a fitto, od a censo per una convenuta quantità di frumento o altro prodotto della stessa. Da ciò si vede che questa maniera di concessione, ch’è la più naturale, è antichissima.



448 Regest., pag. 309, 386, 270 e 417.



449 Mathaei Paris, Hist Angl. ann. 1251, pag. 514.



450 Regest. pag. 309.



451 Ivi, pag. 290.



452 Ivi, pag. 243.



453 Ivi, pag. 356.



454 Ivi, pag. 266.



455 De tertia extractione vietalium... quintam tantum recipias: in hoc enim utilitati fidelium nostrorum benigne providimus, quorum commodo nostris accrescere commoditatibus reputamus. Ivi, pag. 309.



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