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SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA] CAPITOLO XXVIII. I. Stato delle lettere in Sicilia dalla XXX sino alla LXXVIII olimpiade. — II. Dalla LXXVII sino alla XCIII. — III. Dalla XCIII sino al CIX. Dalla CIX sino al CXXVI. Dalla CXXVI sino al CXLII. — IV. Sotto la dominazione di Roma. — V. Sotto i Saracini. Sotto i re normanni. — VI. Sforzi di Federigo per lo risorgimento delle lettere. — VII. Origine del dialetto siciliano. — VIII. Primi poeti in lingua volgare siciliana. — IX. Origine della poesia volgare in Sicilia. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I. — Dopo dì avere considerato re Federigo imperadore come persona storica e come legislatore, resta ad esaminare uno de’ migliori vanti di lui; quello cioè di avere egli dato valida opera al risorgimento delle lettere in Sicilia, e quindi in Italia. Per bene stimare il merito di questo principe intorno a ciò, non è fuor di luogo di fare un cenno delle vicende della letteratura siciliana nei tempi antichi; onde conoscere in quali epoche e per quali ragioni essa fu fiorente, come e quando decadde, in quale stato la trovò Federigo, quali circostanze favorivano la sua impresa.
Non prima della XXX olimpiade le lettere, le scienze e le arti cominciarono generalmente a fiorire in Sicilia; ma da quell’epoca sino alla LXXVIII olimpiade, molte circostanze contribuirono al loro inalzamento. I primi coloni, che dalla Grecia vennero a stanziare in Sicilia, portarono con essi la civiltà de’ paesi ond’eran venuti; le forme libere di reggimento in ogni città, comechè molta autorità vi avessero avuto i tiranni, tenevano svegliati gli spiriti; e le continue relazioni tra la Grecia, la Sicilia e le greche città della bassa Italia, per cui rapidamente si comunicavano i lumi, facea che i tre paesi progredissero a piè pari nell’incivilimento. Venute poi popolose e potenti le città siciliane, la famosa battaglia d’Imera elevò lo spirito pubblico; l’immenso spoglio e la straordinaria copia di schiavi indi tratti fecero imprendere magnificentissime opere, per cui valida spinta ebbero le arti e le scienze fisiche; e finalmente la somma ricchezza e civiltà, alla quale giunsero in quell’età Agrigento e Siracusa, largo campo d’onore e di fortune offrivano agli scienziati ed agli artisti. Ma ciò che veramente fece allora prosperare le scienze e le lettere in Sicilia, fu la vicina scuola di Pitagora. Viaggiavano in Sicilia i suoi discepoli; egli stesso visitò le principali città dell’isola, per diffondere da per tutto l’amor del sapere e della libertà. Affluivano i Siciliani a Turio e vi apparavano aritmetica ed i morali e politici precetti che si predicavano in quella scuola. Tutte quelle discipline ebbero straordinario incremento, quando il catanese Caronda, caldissimo seguace di Pitagora, diede leggi a Catana, ad Agrigento, ad Imera, a Tauromenio, alle città calcidiche Nasso, Callipoli, Leonzio, Eubea, Mile, Zancla ed a molte città della Magna Grecia, nelle quali fece stanziare, che nelle città fossero fondate pubbliche scuole con professori stipendiati per lo insegnamento dei cittadini.
La poesia, non più rude, com’è stata sempre nell’infanzia della società, venne acquistando forme più regolari, ed espresse più nobili sentimenti. Levaron grido di buoni poeti Teognide da Megara, Alemano ed Ibico da Zancla, Aristosseno da Selinunte, Acheo e Formo da Siracusa; ma sopra tutti si distinsero Stesicoro da Imera ed Epicarmo da Megara o da Siracusa. Al primo, morto in Catania nell’anno I della LVI olimpiade, i Catanesi eressero un sontuoso monumento presso una delle porte della città, che stesicorea fu detta, ed i suoi concittadini una statua di bronzo. Epicarmo, discepolo di Pitagora, chiaro per avere aggiunto due lettere all’alfabeto e per avere, se non inventato, certo dato più nobili forme alla commedia, fu anche più chiaro per le opere sue filosofiche. Degli scritti di lui si vuole di essersi assai giovato Platone; Plinio confessa d’essere stato Epicarmo uno degli scrittori, da’ quali attinse quanto scrisse di medicina nel XX libro e ne’ seguenti; Columella dice di avere, fra gli altri, tratto dal filosofo megarese il suo trattato della medicina del bestiame.
In questa stessa età Iceta da Siracusa stabiliva il moto della terra intorno al sole; Petrone d’Imera sosteneva la pluralità de’ mondi, e 133 ne contava; e Mamertino della stessa città, fratello di Stesicoro, leggeva in Grecia geometria, quando Talete ne avea dato appena i rudimenti. Gran nome acquistò il medico Policleto da Zancla, per avere guarito da perniciosa malattia il tiranno Falaride; di che non si seppero grado gli Agrigentini, che desideravano la morte, non la guarigione del tiranno. Tra gli storici si distinguevano Polizzelo da Zancla ed Archetimo da Siracusa; e fra i legislatori Elianatte da Imera e Caronda da Catana.
Tra i dotti siciliani di quell’età è da annoverare il tiranno Gerone, comechè affatto lontano da’ dolci costumi del gran Gelone suo maggior fratello, non solo per avere avuto nome di sapiente, ma per lo favore da lui dato alle lettere. Le porte del suo ricco e magnifico palazzo, al dire di Pindaro, erano sempre aperte alle muse; intantochè non solo i Siciliani distinti pel sapere, ma gli stranieri vi trovavano onorata stanza. Pindaro, Simonide, Bachilide ed Eschilo viveano alla sua corte, Senofane, vecchio com’era, veniva in Siracusa a declamare le sue poesie.
Pari ai progressi delle scienze e delle lettere fu in quell’età il progresso delle arti belle, compagne inseparabili del sapere, della ricchezza e della civiltà de’ popoli. Catana ergeva un sontuoso sepolcro a Stesicoro, Imera a lui innalzava un simulacro; ma il gusto generale per le opere pubbliche venne ad accrescersi in Sicilia dopo la battaglia d’Imera, come s’accrebbe in Grecia al tempo stesso dopo le gloriose giornate delle Termopoli e di Salamina. Mentre lì si costruivano i tempî di Teseo, di Minerva ed i Propilei, qui Gelone costruiva in Siracusa i tempî di Cerere e di Proserpina, in Roma quello di Cerere, ed un tripode d’oro del peso di sedici talenti facea lavorare, per dedicarlo al delfico Apollo. Al tempo stesso sorgevano i tempî famosi di Selinunte e di Agrigento. Maggiore incremento ebbero poi le arti dalle magnificenze di Gerone. Ed è ben da dolere che fra tanti artisti, ch’ebbero a fiorire in quell’età, la storia abbia a noi tramandati i soli nomi dello scultore Pitagora da Leonzio, che al dir di Plinio vinceva il greco Mirone, e si diceva d’essere stato il primo che avesse ben’espresso ne’ suoi simulacri i capelli, i nervi ed i muscoli; del pittore Demofilo da Imera, maestro di Zeusi; e dell’architetto Feace da Agrigento, da cui ebbero nome i famosi acquidotti costrutti in quella città.
II. — Vuolsi che i tiranni avessero interdetto al popolo l’uso della parola in pubblico; per che gli uomini si comunicavano scambievolmente i pensieri co’ gesti e co’ salti onde ebbero origine la mimica e ’l ballo. Favola è questa; ma favola, che come tutte le altre, adombra una verità. L’arte del dire è l’ultimo raffinamento della civiltà. L’uomo col solo sforzo del suo ingegno può arrivare a conoscere le più grandi verità, basta la sola immaginazione per creare la poesia; ma è necessario lungo studio per trovare il modo di render gradevoli i propri pensieri senza il prestigio del verso, e saper disporre in modo la idea, che l’una derivi dall’altra, e tutte soccorrano a fare altrui convinti del proprio pensiero. Indi è che nella prima epoca si vedono poeti e filosofi; ma non s’incontra alcun’oratore; e ciò diede origine a quella favola. Cacciati poi da per tutto i tiranni e sostituitovi governi affato repubblicani, la necessità di persuadere la moltitudine fece nascere l’arte oratoria, che dalla Sicilia passò in Grecia.
Corace da Siracusa fu il primo rettore di cui faccia menzione la storia; ma la sua rettorica consistea nell’arte di trovare sofismi più presto che argomenti, per invaghire avanti che persuadere. È celebre il dilemma, proposto dal suo discepolo Tisia da Siracusa, per ischivare il pagamento della pattuita mercede (456). Pure sommo grido levò la nuova scuola, non che in Sicilia, ma in Atene, ove il retore siracusano venne a dimorare alcun tempo. Fra i numerosi discepoli di lui fu Gorgia da Leonzio, che di gran lunga lo sorpassò. Seppe costui unire alla sottigliezza di Corace, la copia e la solidità delle idee, che trasse dal sommo Empedocle, di cui era grande amico e discepolo. Egli fu il primo che studiò a chiudere più idee in un periodo, a divedere il periodo in più pezzi, a disporre le parole in modo, che ne risultasse un suono armonioso, e ad inzeppare l’orazione di arditissime figure.
Comechè tale eloquenza avesse più del gonfio che del sublime, pure era ben atta a sedurre la moltitudine; intantochè, quando l’oratore leontino fu da’ suoi concittadini spedito in Atene a chieder soccorso contro Siracusa, gli Ateniesi furono inebbriati a segno della eloquenza di lui, che non valse sano ragionare a distorli dal malaurato proponimento di muover guerra a Siracusa. Non permisero il ritorno in Sicilia dell’oratore, lo colmarono di doni; tutti correvano a lui per apprendere con larghe mercedi l’arte oratoria, di cui nell’età posteriori fu tenuto inventore. Somme lodi riportò, quando recitò lo elogio de’ cittadini morti per la patria; quando salito sul teatro, si dichiarò pronto ad orare su qualunque materia; e quando pronunziò il discorso per riunire contro i barbari tutte le forze della Grecia. Nè l’infelice esito della guerra da lui provocata fece venir meno l’amore e l’ammirazione degli Ateniesi per lui. Una statua gli fu decretata dal popolo riunito ne’ giuochi pitici, che gli fu eretta nel tempio d’Apollo. Ma il più gran trionfo dell’eloquenza di Gorgia fu quello di avere indutto a darsi al viver civile ed agli ameni studi i Tessali, che, prima di sentir la sua voce, dal commercio e dall’arte di domar cavalli in fuori, null’altro sapeano.
Nè Gorgia fu in quell’età il solo a distinguersi per l’eloquenza: famosi oratori furono Aristotele da Selinunte, Nicia da Siracusa, e più che tutti Lisia, di cui non è qui da far parola; perocchè venuto ancor fanciullo col padre in Atene, ivi studiò sotto Gorgia, venne in fama, visse e morì; per che da molti ateniese e non siracusano è tenuto; però tocca alla greca più che alla siciliana storia il dar conto delle opere di lui.
Pari a quelli dell’eloquenza furono in quella età i progressi della poesia. Ebbe nome allora di valente poeta tragico Agatone da Leonzio; e fra i comici si distinsero Teleste da Selinunte, il quale oltracciò era allora tanto abile, che Eschilo da lui volea rappresentate le sue tragedie; Sofrone e Senarco suo figliuolo da Siracusa; Dinoloco da Agrigento.
Prevalsi col cambiamento di governo i principî della filosofia pitagorica, tutte le altre branche maggiormente vi fiorirono. Tre medici ebbero gran nome, Acrone da Agrigento, Pausania da Gela, Erodio da Leonzio, fratello di Gorgia. Ecfanto da Siracusa si rendea chiaro per lo insegnare la filosofia di Pitagora; e Temistogene della stessa città scriveva storia con tanta lode, che la famosa ritirata de’ diecimila Greci, da lui e non da Senofonte, taluni tennero scritta.
Se in quell’età Diocle recò in pratica i principî di Pitagora intorno al reggimento de’ popoli, colle leggi da lui date alla repubblica; i Siracusani non furono egualmente docili ad adottare la frugalità nella mensa raccomandata dal filosofo di Samos; che anzi la ghiottornia fu allora ridotta quasi a scienza da Archestrato e da Miteco, che scrissero di gastronomia.
Ma nissuno fra quanti furono in quell’età o nelle anteriori in voce di dotti, e pochissimi fra coloro che sono stati d’allora in poi celebri al mondo pel loro sapere, uguagliarono mai la fama dell’agrigentino Empedocle, il quale segnalò propriamente il secolo, in cui visse. Nato costui da nobili e ricchi genitori, sin dall’infanzia si mostrò vago d’acquistare ogni maniera di utili cognizioni; e nella coltissima Agrigento non gli mancarono nè precettori, nè esempî per addirizzarlo alla sapienza. I filosofi in quell’età, sia che avessero creduta la prosa poco degna d’esprimere grandi e sublimi verità, sia che la verità posta a nudo poteano fare mal sentire ai governi, sia in fine che avessero voluto farla meglio assaporare ai popoli, mescendovi il dolce della poesia, solevano dettare in versi i loro filosofici precetti. Varcava Empedocle appena l’adolescenza, quando il vecchio Senofane veniva discorrendo le città siciliane, recitando per tutto le sue filosofiche poesie. Avido corse a lui il giovine agrigentino; ma poco potè giovarsi delle lezioni del vecchio vagabondo; per che si recò in Elea sulle rive dell’Etrasia, ove fioriva la scuola di Parmenide, discepolo di lui. In quella scuola innanzi ad ogni altro discepolo si distinse; pure fastidito dalla sottigliezza di quella filosofia, venne in cerca della dottrina di Pitagora e tutto se ne imbevve. Non sazio ancora d’acquistar sapienza, viaggiò in Egitto ed in Persia, per meglio approfondire le scienze naturali ed istruirsi nella teologia orientale, la quale per li sublimi e purissime idee, che dava della divinità, a gran pezza sorpassava la sozza religione de’ Greci; ma questa, col rendergli più dura la virtù, venne afforzando in lui il desiderio di recare in pratica i principî di Pitagora intorno al reggimento delle città, ch’egli tenea i più acconci a far che il governo fosse sempre affidato ai virtuosi e sapienti; perocchè appo i pitagorici la sapienza andar non poteva disgiunta dalla virtù.
A tale oggetto rivolse tutte le sue cure, tosto come, già maturo d’anni e di senno, rimpatriò. Comechè nobile e ricco egli stesso, si chiarì aperto nemico di mille nobili che reggeano per dritto di nascita la città e dal loro numero erano detti chiliarchi. Ne accusò e ne fece punire alcuni e smascherò le frodi di tutti. Al tempo stesso veniva spargendo nel popolo la cognizione de’ suoi naturali ed inalienabili dritti. La vastità del suo sapere, la purità de’ suoi costumi, la dignità dal suo contegno, la sua eloquenza, davano tal peso al suo dire, che movea a senno suo la moltitudine. I chiliarchi, discreditati e senza forza, furono abbattuti, ed in quella vece fu dato il governo ad un senato di cinquanta cittadini, tratti da tutte le classi, che si rinnovava ogni tre anni.
Glorioso divenne allora il nome d’Empedocle in Sicilia ed in Grecia; una statua gli fu eretta in Agrigento, che, per venerazione si teneva coperta; i ritratti di lui si tenevano in tutte le case e si menavano in trionfo di città in città; quando si recava ai giuochi olimpici (ed ogni anno solea recarvisi), tutti lo additavano come uomo straordinario. Pure le famiglie nobili di Agrigento, non potendo sgozzare l’onta d’essere state escluse dal governo, cominciarono a dargli mala voce, spargendo nel popolo, ch’egli faceva cose straordinarie coll’ajuto di genî malefici, che avea appreso ad evocare in Egitto ed in Persia. Indi avvenne che molti in quell’età lo dissero mago. Era Agrigento allora afflitta da frequenti epidemie; conobbe Empedocle esserne cagione un vento che spirava da ostro sopraccarico di maligni vapori, che facendosi strada per le gole di certi monti, veniva a corrompere l’atmosfera; fatta chiudere quella gola, le epidemie cessarono. Gravi malattie regnavano in Selinunte per le paludi, che di estate restavano nel vicino fiume; per consiglio d’Empedocle furono introdotte in quelle le acque di due vicini fiumi e d’altri rigagnoli; così non potendo più impaludare le acque, l’atmosfera venne purificata. Una donna caduta forse in asfissìa, era tenuta morta dai medici: Empedocle trovò argomenti che la richiamarono in vita. Tutto ciò fu attribuito a magìa.
Non contenti a discreditarlo così i suoi nemici, nè potendo trarne aperta vendetta, forse occultamente lo misero a morte e sparsero poi la voce d’essersi egli gittato a capo chino nel cratere dell’Etna, che ivi a pochi giorni eruttò uno dei suoi calzari di bronzo. La qual favola, accreditata dall’essere ignoto il luogo e il modo della sua morte, fu per secoli in voga. Delle tante opere che il grand’uomo scrisse, per lo più in versi, restano oggi solo i frammenti di due poemi sulle purgazioni e sulla natura.
III. — Ma le circostanze felici, che fecero venire in fama tali uomini, presto cambiarono. Selinunte ed Imera furono dai Cartaginesi distrutte; Agrigento saccheggiata e diserta; Siracusa tornò alla tirannide sotto Dionigi, che la tramandò al figliuolo; e sul loro esempio tutte le altre città, che non erano a Cartagine o ai Dionigi soggette, ebbero un’altra volta tiranni. Non però le lettere e le scienze vennero meno, che anzi favore ebbero dai due tiranni. Che che voglia dirsi del carattere del vecchio Dionigi, è fuor di dubbio d’essere egli stato uomo assai colto e vago di conversare coi dotti. La sua corte era frequente di filosofi e letterati illustri, siciliani e stranieri. La bramosia di riportare il premio per le sue poesie è prova evidente del suo amore per le lettere. Comechè perduto nei vizî e ne’ sozzi piaceri, non dissimile di lui si mostrò in questo il figliuolo. Se non fosse stato amante delle lettere, Dione non avrebbe potuto concepire la speranza di trarlo a migliori costumi col solo conversar con Platone. Nè il filosofo dopo la mala riuscita del primo viaggio avrebbe impreso il secondo, confortato da tutti i pitagorici. E l’essersi egli dato a fare il pedante per vivere, dopo la sua caduta, non è lieve argomento di esser egli stato nelle lettere colto. La grandiosa opera poi del primo Dionigi, gli straordinarii suoi apparecchi di armi e di navi sommo incremento ebbero a dare alle arti d’ogni maniera. E se la natura del governo non fece, come nell’epoca anteriore, fiorire la eloquenza; non mancarono, durante il regno di que’ due principi, poeti, medici, storici e filosofi insigni.
Nella poesia si distinsero Carcino da Agrigento scrittore di tragedie e di favole, assai caro al primo Dionigi; Pitone da Catana, insigne poeta ed eloquente sì che Demostene ne temea la rivalità; lo stesso Dionigi è da annoverarsi trai poeti che ebbero nome in quell’età; e Carmo da Siracusa, poeta faceto ed argutissimo nel rispondere di rimbecco a coloro che lo motteggiavano, per che era chiamato in tutti i conviti. Gran nome ebbero i due medici Filistione da Catana e Menecrate da Siracusa. Al primo si attribuisce da Galone l’opera «De victu salubri» che va sotto il nome di Ippocrate. L’altro era tenuto da tutti uomo valente; egli si tenea un Dio; ed a tanto giunse la sua follia, che curava gli ammalati senza mercede, a patto che, ristabiliti in salute, lo seguissero sempre; ed ei dava a tutti costoro i nomi di alcun dio; qual si diceva Mercurio, qual Ercole, quale Apollo; ed egli stesso volea esser chiamato Giove.
Storici di gran nome furono in quell’età, il ricantato Filisto da Siracusa, soprannominato il piccolo Tucidide, e Policrito da Mene che scrisse la biografia di Dionigi II ed un poema storico sulle cose di Sicilia. E certo numerosi esser doveano i filosofi in un paese, in cui tanto diffusa era la scuola di Pitagora, in cui Platone viaggiò tre volte, in cui i cortigiani stessi, per ingrazianarsi il giovane Dionigi, si mostravan vaghi di geometria e di filosofiche discettazioni; ma tutti vinceva Dione, che fu amato sopra tutti i suoi discepoli ed altamente onorato in tutte le città della Grecia.
Pure se alcun favore ebbero dai due Dionigi le lettere; i pubblici sconvolgimenti che seguirono dopo la morte di Dione; la desolazione in cui era ridotta la Sicilia, quando Timoleonte venne a cacciare Dionigi e gli altri tiranni; i modi violenti usati da Agatocle per giungere al trono e sostenere la sua arditissima impresa; la venuta ostili che no, di Pirro: erano ben atte a spegnerle del tutto. Ma le lettere sono una pianta, che può intristire, quando è mal coltivata, ma non di leggieri può essere svelta, quando ha messe profonde radici; e basta a farla rinverdire un favore passeggiero, anche quando mostra voler perire; e certo i sedici anni di prosperità, che godè la Sicilia, finchè furono in vigore i regolamenti di Timoleonte, valsero a svegliare gli spiriti, sì che, ad onta delle ree vicende, che seguirono sino alla partenza di Pirro, la storia fa onorato cenno di molti che nelle lettere e nelle scienze si distinsero.
Erano i teatri così inerenti ai pubblici costumi degli antichi, che i più tristi avvenimenti potevano spegnere la poesia lirica, filosofica, epica, non mai la drammatica. E noi possiamo argomentare il poco favore, ch’ebbero le lettere in quell’età dal vedere che di soli poeti drammatici il nome sia giunto a noi. Poeti comici furono Apollodoro da Gela, Eudosso, Filemone, Rintone da Siracusa; e tragico Sosicle della stessa città.
I filosofi, ove non si dian pensiero di politica, sono in alcun modo al coverto della rea influenza delle circostanze. Le pubbliche ed anche le private calamità difficilmente distolgono il matematico da’ suoi calcoli, il naturalista dalle sue osservazioni, il fisico dalle sue esperienze; ed il filosofo speculativo è il più tenace di tutti nei suoi sillogismi. Però anche sotto Agatocle e fra tante pubblice vicende professava filosofia Timagora da Gela, Aristocle ed Evemero da Messina, Simmia ed il cinico Monimo da Siracusa.
Ma le stesse vicende che arrestano il progresso delle altre facoltà, offrono larga materia allo storico. E gli avvenimenti di Sicilia dalla CIX alla CXXVI olimpiade furono di tal momento, che meritavano d’essere registrati da storici di gran polso; e tali furono Dicearco, storico e filosofo, e Lico da Messina, Callia da Siracusa, Timeo da Tauromenio, che furono le fonti dalle quali attinsero le loro notizie sulle cose di Sicilia Diodoro e Plutarco.
Pur se un breve periodo di prosperità sul principio di quest’epoca valse a tener viva la face della scienza, anche nelle avversità che seguirono; è facile il pensare quanto ebbero le lettere a fiorire in mezzo secolo di pace e di prosperità, che godè la Sicilia sotto Gerone II. Fu questa l’epoca d’Archimede; nè accade dir altro per provare d’essere allora le scienze giunte alla più alta meta. Gli Archimedi, i Newton, i Cartesî, i Galilei non possono venire tra gl’Iloti; uomini tali è impossibile che non siano primi tra molti buoni. Che così sia ita la cosa, è manifesto dall’osservare che contemporaneamente ad Archimede vivevano i due valenti matematici Scopa da Siracusa e Filea da Tauromenio; Teodoro, profondo interprete delle leggi siracusane, ed i poeti Moschione, Mosco, Sositeo, Teocrito, che onorano il parnasso siciliano. E qui cade in acconcio il considerare, che le due più fortunate epoche dell’antica storia di Sicilia furono quella, in cui, dopo cacciati i tiranni, le città siciliane goderono oltre a cinquant’anni di pace, di ricchezza e di libertà; e quella, in cui regnò Gerone II modello degl’ottimi principi. Nella prima fiorì Empedocle; nella seconda Archimede. E se non si fosse tanto presto perduto il frutto delle grandi imprese di Timoleonte, altri Empedocli ed altri Archimcdi sarebbero surti in Sicilia.
È poi degno di nota, che tutti coloro, che si distinsero nella seconda epoca, appartenevano al regno siracusano; perchè tutte le altre parti di Sicilia erano già cadute sotto la straniera dominazione. Tanto le pubbliche molestie vagliono a sterilire gli spiriti. E ciò anche più manifesto si vede nell’epoche d’appresso.
IV. — Non è da dubitare che le lettere continuarono a fiorire in Sicilia, anche dopo che l’isola divenne provincia romana. Cicerone fa onorata menzione di Sofocle da Agrigento, di Filino da Erbita, di Antemone da Centuripe, di Diodoro Trimarchide da Siracusa, di Enea da Alesa, dì Stenio da Terma, di Furio da Eraclea, uomini colti e facondi, vittime delle nequizie dì Verre. In tutto il periodo della romana dominazione, finchè la sede dell’impero fu Roma, fiorirono i poeti bucolici Bione da Siracusa e Tito Giulio Calpurnio, forse da Panormo; i retori Cecilio da Calatta, Claudio Mamertino da Messina, Sosto Claudio da Panormo e Tito Manlio Soside da Catana; i medici Filonide da Catana, Apuleo Celso da Centuripe; i filosofi Probo da Lilibeo, Tito Aufidio, Nicone da Agrigento, Giulio Firmico Materno, Sesto Giulio Frontino, e gli storici Lupo da Messina, Ninfodoro e Flavio Vopisco, ambi da Siracusa, e sopra tutti splende come luminosissima face il sommo Diodoro da Agira.
La fiamma delle lettere non può spegnersi in un fiato; ma ove manchi d’alimento, vien grado grado perdendo luce e calore. Fra tutti coloro, de’ quali s’è fatto cenno, alcuni nulla scrissero, e la prova del loro sapere sta nell’asserto di Cicerone, il quale potea esagerare i loro meriti, per dar più peso all’accusa contro Verre; gli altri vissero e fiorirono in Roma; ciò mostra che la pianta cominciava ad istellire nelle radici. Nelle precedenti epoche era tra la Greca e la Sicilia uno scambio continuo di lumi. Si recavano in Grecia i filosofi siciliani, in Sicilia venivano i Greci; perchè i dotti sono sempre stati cupidi del consorzio e dell’ammirazione de’ dotti. Ma caduta la Sicilia sotto la dominazione romana, nessun romano, da Cicerone in fuori, venne in Sicilia, se non per trar sangue e denaro da’ Siciliani, ed i siciliani erano stretti a recarsi a Roma per cattarvi quel nome e quella fortuna, che non potevan più trovare nella terra natale. Per tal ragione le lettere in Sicilia venivano estinguendosi, a misura che i disordini e la corruzione. di Roma negavano ogni ricompensa al merito; e si spensero del tutto, quando la sede dello impero fu tramutata in Bizantino, se non si vuol tener conto di alcuni miserabili, che nel periodo del dominio bizantino scrissero sulle tante religiose controversie, alle quali die’ luogo l’innesto che fecero i Greci della metafisica platonica sui precetti purissimi di G. Cristo (457).
V. — Nè le lettere poteron risorgere in Sicilia colla dominazione de’ Saracini, comechè molti de’ Saracini siciliani si fossero, come quelli di altre parti, distinti pel loro sapere. Ahmed ben-Abi-al-Aglab dettava con lode e prosa e versi; Mohammed-ben-Issa-ben Almumen-abu-abd-Allah si distingueva nella geometria e nell’astronomia; Abu-abd-Allah-Mohammed-ben-Hajun faceva in un poema la parafrasi del corano; Abu-al-Hassan-Ali-ben-Abd-Anahaman, detto volgarmente Albabuni, poetava; Esserif-Essachali o sia il siculo, da Mazzara, famoso medico, filosofo, astronomo, cosmografo, compilava una minutissima descrizione di tutte le parti del mondo; Abu-al-Kasem-ebn-al-Kattaa stendea un vocabolario filologico della lingua araba; Abi-al-Kasam-Ali-ben-Giaber, detto volgarmente Eba-Catana scrivea sull’arte poetica; Abn-Hasem-Mohammed-ebn-Djaffer ab-Mikki, tra tante opere una ne dettava «sul conforto dell’uomo obbediente» Mohammed-ben-Abi-Mohemmed-ben-Zefir scrivea: «La consolidazione nelle sciaure» ed un anonimo, in un lungo dialogo tra Ben-Sabin ed un principe cristiano, trattava «dello stato dell’anima.» Tali opere sperse oggi nelle biblioteche dell’Escuriale, di Parigi e di Leyden, e che sono forse un solo avanzo della letteratura arabo-sicula, mostrano che i Saracini in Sicilia non eran men colti che altrove. Ciò non però di manco la diversità della lingua ed assai più quella della religione mettevano un ostacolo insuperabile alla diffusione delle lettere, che restarono patrimonio esclusivo de’ musulmani; intantochè sotto a quella scorza di civiltà la nazione siciliana marciva in tanta ignoranza, che mentre i monaci di altri paesi conservavano nel bujo dei bassi tempi qualche scintilla di sapere, e quasi ogni monastero scrivea la cronaca della chiesa ed anche tal volta dello stato, tanto oppressi e deserti divennero sotto il saracino dominio, i pochi monasteri che restarono in Sicilia, e tanto tapini erano i monaci, che l’abitavano, che pur uno non seppe registrare gli avvenimenti di quell’età (458).
Se i principi normanni non avessero avuto il nobilissimo orgoglio di chiamare dagli altri paesi gli uomini più colti di quell’età, alcuni dei quali d’ordine loro ne scrissero le gesta, non si sarebbe trovato in Sicilia chi avrebbe saputo farlo. Ma un de’ grandi vantaggi, che la Sicilia trasse dalla conquista, fu che i re Normanni prepararono gli elementi al risorgimento dalle lettere. Guglielmo di Puglia, Goffredo Malaterra, l’abate di Telesa, Ugone Falcando, Romualdo arcivescovo di Salerno, che scrissero la storia di quell’epoca, comechè nessuno fra essi fosse stato siciliano, vissero tutti in corte, ed in corte vissero gl’inglesi Roberto Rosert, Riccardo Palmeri, Gualtiero e Bartolomeo Hoffamill, ed i franchi Pietro e Guglielmo de Blois, fratelli. A tali uomini, tutti chiarissimi per lo sapere, per quanto in quell’età lo si poteva essere, venivano affidate l’educazione o l’istruzione dei principi, le principali cariche dello stato, le più cospicue prelature del regno; per tal modo doveano di necessità diffondere nella nazione i loro lumi. A tanto incitamento veniva ad aggiungersi la famosa scuola di medicina di Salerno, la quale, non più ristretta ne’ soli Saracini, divenne una sorgente di sapere, in tanto più copiosa, in quanto la medicina non era allora un’arte venale, ma i personaggi più illustri si recavano ad onore esercitarla. Si sa che l’arcivescovo Romualdo era medico valente, e da lui erano curati i re, i principi, i magnati di Sicilia. Tante ragioni validamente contribuirono a snighittire gl’ingegni, a preparare il risorgimento delle lettere.
VI. — Fu gran ventura per la Sicilia che lo scettro fosse allora venuto nelle mani di re Federigo imperadore, il quale seppe cogliere il frutto di tali preparamenti. Sin dall’adolescenza si mostrò questo principe vago di poetare, ch’è stato sempre il primo gradino della civiltà degli uomini e delle nazioni. Venuto adulto, imparò, oltre la lingua italiana, nascente com’era, e la tedesca, che potevano dirsi lingue sue natie, la francese, la latina, la greca e l’araba; ed in ognuna di esse parlava e scrivea francamente. Fu versato negli studî filosofici, che allora si conoscevano, e procurò di diffonderli in tutto il regno. In Sicilia aprì scuole, e vi chiamò a leggere distinti scienziati stranieri; fondò l’università di Napoli; e perchè, per le perturbazioni nate nel regno nel suo passaggio oltre mare, era stato presso che spenta, rimesso per tutto l’ordine, al suo ritorno, la ristabilì (459), e tanto la fece prosperare che presto divenne l’emula di quella di Bologna; lo stesso studio mise a migliorare la antica scuola di Salerno; fece tradurre dal greco e dall’arabo molte opere filosofiche, fra le quali quelle di Aristostile, ed ordinò che fossero lette non che nelle scuole del regno, ma in quelle di Lombardia; la sua corte era il ritruovo dei poeti, dei suonatori, degli oratori e degli uomini valenti in tutte le arti; stabilì in Palermo un’accademia di poesia e si recava ad onore d’esservi ammesso assieme co’ suoi due figli Enzio e Manfredi.
La storia naturale era uno degli studî, di cui Federigo pigliava maggior piacere. Resta ancora una sua opera sull’uccellagione, nella quale tratta di tutte le specie di uccelli, acquatici, terrestri, quelli ch’e’ chiama medî e di que’ di passo; parla del nutrimento particolare di ogni specie e del modo come se lo procacciano; descrive le parti del loro corpo, il colore delle loro penne, la struttura delle loro ali, i loro mezzi di difesa e d’attacco. Nella seconda parte insegna il modo di scegliere gli uccelli di rapina, di nutrirli e di addestrarli, sì che facciano servire ai piaceri dell’uomo, più vorace di loro, l’istinto di voracità ch’ebbero dalla natura. Quest’opera (De arte venandi cum avibus) non è arrivata integra sino a noi, comechè re Manfredi ne avesse supplito alcuna parte e qualche intero capitolo. Monca com’era, su di un’antichissimo esemplare fu pubblicata in Ausbourg nel 1596 (460).
Caro era a quel sovrano chiunque si distinguea nella scienza. Di tal numero fu Alcadino da Siracusa, il quale, venuto in Salerno per imparar filosofia e medicina, tanto in quelle scienze progredì che le cominciò leggere in quella stessa scuola. Grandi ricompense riportò da re Arrigo imperadore, per averlo guarito di una sua malattia. Morto Arrigo, assai caro divenne a Federigo, a cui richiesta scrisse un’opera in versi latini sui bagni di Pozzuoli. Avea anche scritto: De Triumphis Enrici imperatoris; e De his quae a Friderico II imp. praeclare et fortiter gesta sunt; ma queste due opere son perdute.
Con quanto studio avesse voluto re Federigo imperadore favorire le lettere, è manifesto dallo avere egli sancito espressamente un corpo di leggi per la sicurezza degli agricoltori, de’ naviganti, studenti e de’ letterati in Italia (461). Ben conosceva egli che ogni premio è vano a far fiorire l’industria e gli studî, ove manca la sicurezza personale.
Come per le cure di questo principe e di Manfredi suo figliuolo le lettere siano venute in fiore nella corte di Palermo, lo mostra l’Alighieri «Primieramcnte esaminiamo (dic’egli) il volgare siciliano, perocchè pare che esso volgare abbia avuto fama sopra gli altri; conciossiacchè tutti i poemi, che fanno gl’Italici, si chiamano siciliani; e troviamo molti dottori di quel regno avere gravemente cantato, come in quella canzone.
Amor, che l’acqua per lo foco lassi,
«e l’altra
Amor, che lungamente m’hai menato.
«Ora questa fama della terra di Sicilia, se drittamente guardiamo, appare che solamente per obbrobrio degl’Italiani principi sia rimasa: i quali, non più al modo degli eroi, ma alla guisa della plebe, seguono la superbia. Ma Federigo Cesare ed il ben nato suo figliuolo Manfredi, illustri eroi, dimostrando la nobiltà e drittezza della sua forma, mentrechè fu loro favorevole la fortuna seguirono le cose umane e disdegnarono le bestiali. Il perchè coloro, che erano di alto cuore e di grazie dotati, si sforzarono d’aderirsi alla maestà di sì grandi principi; talmente che in quel tempo tutto ciò che gli eccellenti Italiani componevano, tutto primamente usciva alla corte di sì alti monarchi. E perchè la regale loro sede era in Sicilia, accade che tutto quello che i precessori nostri composero, si chiama siciliano; il che ritenemo ancor noi, ed i posteri non lo potranno mutare.»
Da quelle parole di Dante, e dal detto di tutti gli scrittori di quell’età, che la lingua italiana si disse ne’ primi secoli lingua siciliana, e che i Siciliani furono i primi a poetare in lingua volgare, nacque l’errore di credere che il linguaggio volgare, o sia il dialetto che si parlava in Sicilia, era quello in cui scrissero quegli antichi poeti, di cui si conserva memoria; che di tal dialetto ingentilito venne a formarsi la più sonora, la più ricca, la più nobile delle lingue moderne; e dalla corruzione di esso venne il presente dialetto siciliano. Ora è facile il mostrare che il dialetto, che allora si parlava in Sicilia, era diverso dal volgare, in cui scrissero i primi poeti; e che esso, lungi d’essere una corruzione di quello, ha una origine assai più antica di quanto comunemente si crede.
VII. — Roma, ovunque portò le sue armi vincitrici, diede ai popoli vinti le sue leggi e la sua lingua. Ma questa lingua non si poteva parlare come in Roma, per essere le altre nazioni use a parlarne un’altra; e però molto ebbero a ritenere dell’antica e molto ad alterar della nuova lingua.
Le parole, come le monete, si logorano coll’uso, tanto che a lungo andare perdono la forma ed il valore. Il popolo comincia ad elidere le consonanti più aspre, e prima delle altre le finali, poi altera il suono delle vocali, aggiunge, toglie, o cambia sillabe, e finalmente dà alle parole suono tutto diverso, e cambia del tutto la costruzione e l’indole del linguaggio primitivo. Così è accaduto sempre, e così per necessità ebbe ad accadere in Sicilia.
Col solo elidere le consonanti finali da bonus, caput, malignus, malus, manus, magisterium, maritus, masculus, matrimonium, modus, morus, mutus, natus, nanus, nudus, numerus, obesus, periculum, taurus, tempus, unus, e da mille altre, che in latino terminano in us, um o ut nacquero le corrispondenti parole Siciliane, che terminano in u. Come i Latini trassero alcuni nomi da’ genitivi degl’imparisillabi greci; così gl’Italiani dai genitivi degl’imparisillabi latini formarono alcune voci: perciò si dice onore, pudore, dolore, Cicerone, Varrone, Scipione, ecc. Al modo stesso i Siciliani, elisa la s finale da un grandissimo numero di genitivi latini, fecero notti, nuci, virgini, patri, matri, caritati, vuluntati, pedi, paci, luci, pici, ponti, simplici, singulari, siti, ecc. E questa (nè altra può essere) l’origine della desinenza in u ed in i di quelle parole che nella lingua italiana terminano in o ed in e, che costituisce la differenza essenziale tra ’l dialetto siciliano e la lingua comune d’Italia. Ognuno poi s’avvede quanto poco vi volle a fare da coruscus, surruscu, da diruptus, sdirrupu, da glomer, ghiommaru, da vidi vidisti vidit vidimus vidistis viderunt, vitti vidisti vitti vittimu vidisti-vu vittiru; da dixi dixisti dixit diximus dixistis dixerunt, dissi dicisti dissi dissimu dicistivu dissiru; da feci fecisti fecit fecimus fecistis fecerunt, fici facisti fici ficimu facisti-vu ficiru, e così in tutte le conjugazioni dei verbi, che dall’una passarono all’altra lingua, e di migliaja d’altre voci che sarebbe fastidiosissimo l’enumerare. Aggiungansi a ciò i latinismi che tuttora usa la plebe siciliana; come il dire marmura per marmi; usare la voce magnu, nello stesso significato dell’avverbio latino magnum, dicendosi: magnu nn’avi; magnu nni vitti, per dire assai ne ha; assai ne vidi; e chiamare frangiri e rifrangiri il primo ed il secondo lavorio della terra.
Comechè lievi fossero stati per la pronunzia tali alterazioni, vennero a cambiar del tutto la natura della lingua latina; perocchè, tolte le desinenze primitive, non fu più differenza di casi, di generi e spesso anche di numeri; e però la lingua non avrebbe potuto più servire ad esprimere le idee. I pronomi vi furono sostituiti, e si cominciò a dire illa notti, ista nuci, istu pedi, illi manu, isti omini, e per aferisi la, sta, stu, li, sti.
Tali cambiamenti non avrebbero prodotto l’intero dialetto siciliano, se il popolo non avesse parlata prima la lingua greca, la quale venne a piegarsi alla desinenza ed alle modificazioni della nuova. Indi nasce la gran quantità di voci manifestamente di greca origine, di cui abbonda il dialetto siciliano (462); indi il cambiamento della b in v, per cui da bibere, brachium, bos, bucca, etc. si fece viviri, vrazzu, vo’ e voi, dal genit. bovis, e vucca; indi i tanti composti dalla preposizione κατα come catamiari, catacogghiri, cataminari, catanannu, ecc. Dai Greci presero i Siciliani a formare alcuni verbi, de’ nomi, per esprimere con più forza certi atti delle persone; dal grillo che tien le ali e le cosce strette al busto, si disse ’ngriddiri e ’ngriddutu a chi pel gran freddo tutto si stringe in stesso; dal subito scappare dello stesso animale nacque sgriddari; dalle lepade, che si dice potedda, venne impatiddiri, divenire stupido ed immobile per la sorpresa.
Tale s’era formato il dialetto siciliano per la mischianza della latina e della greca lingua, quando gli Arabi vennero ad aggiungervi le voci bagaredda, dugana, favara, funnacu, garifu, garraffa, gebbia, giarra, giummara, maramma, margia, scilba, sciarra, zabbara, zagara. zibibbu ecc. e dagli Arabi altresì appresero i Siciliani a cambiare le ll in dd pronunziati come li pronunziano gl’Inglesi, onde venne idda, iddu, iddi, e tutte le desinenze de’ diminutivi.
È dunque evidente, che un tal dialetto, che forse cominciò ad esser parlato sin da’ tempi della romana dominazione, nell’età di Federigo esser dovea il linguaggio generale del popolo siciliano, mancante solo delle non poche voci avute dai Francesi, dagli Spagnuoli e da tutti gli stranieri che sventuratamente ne’ tempi di appresso ebbero il dominio dell’isola. Bella prova di ciò è un fatto riferito da Riccardo da Sangermano. Nel 1233 un uomo vestito di rustico sajo, come i frati minori, venne a Sangermano, convocava il popolo suonando un corno, e poi gridava: Benedictu, laudatu et glorificatu lu Patri; Benedictu, laudatu et glorificatu lu Filiu; Benedictu et glorificatu lu Spiritu Santu. E tutti i ragazzi ch’eran presenti rispondeano colle stesse parole (463). Era questo adunque il linguaggio della plebe, non che in Sicilia, ma nelle provincie oltremare; ed è evidente che non poteva essere un linguaggio di fresco introdotto, ma dovea già da lunghi secoli parlarsi. Di che fan prova evidentissima i diplomi di concessioni di feudi de’ re normanni, ne’ quali, additandosi i confini del feudo, che si concedeva, si veggon dati alle contrade nomi siciliani, come: La serpi, la piscaria, la ficu fatua. Il Gregorio (464) pubblicò alcuni diplomi del 1249 e del 1262, nei quali sono descritte le opere che i villani di certi luoghi doveano al loro signore, in essi si legge: personae decem habentes boves, qui reddunt curiae annuatim cum pariclis eorum... in seminando, zappuliando, maisando..... tempore zappandi vineas..... È manifesto dunque che nel XIII secolo si dicea siminari, ammaisari, zappuliari, zappari, e perciò maisi, zappa, zappudda, e si chiamavan paricchia due buoi appajati; in somma che si parlava da’ villici come oggidì; e leggendo que’ diplomi ti par di leggere alcuno degli atti che fin vie ier l’altro si scrivevan da’ nostri notai.
È fuor d’ogni dubbio adunque che il dialetto siciliano si formò indipendentemente dalla lingua italiana, come indipendentemente l’uno dall’altro si formarono tutti i dialetti delle altre provincie italiane, comechè abbian tra essi una generale somiglianza per la comune origine dalla latina. Se Dante dice che il volgare siciliano era tanto in onore all’età di Federigo che tutti i poemi che fanno gl’Italici si chiamano siciliani, non intendea dire, del volgare che si parlava in Sicilia, ma di quello in cui si scrivea nella corte de’ re di Sicilia Federigo e Manfredi. In quella corte fiorivano i più belli ingegni di tante città d’Italia, i quali, presi da nobile emulazione co’ Siciliani, che furono i primi a poetare nel linguaggio loro, che cercavan d’ingentilire, cominciarono a far lo stesso ne’ rispettivi dialetti; l’uno imitava l’altro; le nuove voci si rendevano generali; e così venne a formarsi la lingua lodata dall’Alighieri ed imitata da tutti coloro che scrivevano allora in Italia (465).
Ciò è conforme dallo stesso Dante, il quale nell’opera De vulgari eloquio dice da una mano che i primi Siciliani dettarono quelle loro canzoni nel volgare, che non era in nulla differente da quello ch’era laudabilissimo (466); e dall’altra nell’esaminare tutti i dialetti d’Italia, per mostrare di non doversi dare la preferenza ad alcuno, dice che volendo giudicare del volgare siciliano, come si parla dagli idioti di quella terra, non è da preferirsi agli altri, perchè difficile a pronunziarsi; ed in prova ne adduce la canzone di Ciullo d’Alcamo «Trageme deste focora» Se teste a bolontate etc. (467). Nel primo caso parla l’Alighieri della lingua nella quale scrissero Rugerone, Ranieri, Inghilfredi da Palermo, Guido ed Oddo delle Colonne, Stefano protonotaio, Mazzeo Ricco e Tommaso da Messina, Arrigo Testa e Jacopo da Lentini, oltre allo stesso imperadore, a’ suoi figliuoli Enzio e Manfredi, e Pier delle Vigne e tutti i poeti che dalle altre provincie italiane affluivano in quella nobilissima corte, e quindi sparsero in tutta Italia il gusto di poetare in lingua volgare; in che tosto dopo si distinsero Guittone d’Arezzo, Bonagiunta da Lucca, Folcacchiero dei Folcacchieri e Mino Moccato da Siena, Gallo da Pisa, Cino da Pistoja, il B. Jacopone e Francesco Barberino da Todi, Guido Cavalcanti, Brunetto Latini, Guido Lapi, Farinata degli Uberti, Dino Frescobaldi ed altri molte da Firenze, Guido Guinizzello, Guido Ghisolieri, Fabrizio, Onesto, Semprebene, Bernardo, Jacopo della Lana da Bologna.
Ove poi l’Alighieri riprova la lingua de’ Siciliani, parla del loro dialetto, ed adduce appunto l’esempio della canzone di Ciullo d’Alcamo; perchè, per essere stato costui il più antico di tutti, sì ch’è dubbio se fosse giunto all’età di Federigo (468), la sua lingua maggiormente si avvicina al dialetto; e certamente quel focora, quel bolontate quel non aio abento, che tosto segue, sono idiotismi, che mal doveano suonare alle orecchie di Dante.
VIII. — Che poi i Siciliani siano stati i primi a poetare nella lingua volgare, è un fatto, sul quale non può cader dubbio; tanto sono concordi nell’asserirlo tutti gli scrittori di quell’età; e se le gare municipali hanno fatto divenire ciò oggetto di disputa, e s’è creduto trovare alcun poeta anteriore ai Siciliani, posto ancora che una tale anteriorità fosse incontrastabile, ciò non proverebbe che Dante, Petrarca e gli altri non dissero il vero; ma che altri poeti ebbero ad esser in Sicilia, anteriori a quelli, che noi conosciamo. E ciò sembra confermato dal detto di Petrarca, il quale nella dedicazione delle sue epistole familiari dice d’avere scritte parte delle opere sue in prosa o in versi latini, e parte intesa a dilettare gli orecchi del volgo, usando le leggi proprie de’ volgari; il qual genere, come è fama, non son molti secoli rinacque fra’ Siciliani, e quindi in breve si sparse per tutta Italia (469). Ora questa lettera fu da Petrarca scritta verso il 1360, Ciullo d’Alcamo fiorì sulla fine del XII e principio del XIII secolo però fu appena un secolo e mezzo anteriore al Petrarca; pare adunque che l’espressione: Non multis ante seculis, se si riferisse a Ciullo ch’è il più antico di quanti se ne conoscano, sarebbe molto mal conveniente. È dunque assai probabile che i Siciliani, i quali già da gran tempo usavano il loro dialetto, avessero in questo cominciato a poetare assai prima di Ciullo, tratti dall’esempio dei poeti arabi, coi quali conviveano.
IX. — Il dottissimo Ginguenè impiega quattro capitoli della sua erudita e sensatissima storia letteraria d’Italia a far conoscere la letteratura degli Arabi, e particolarmente di quelli di Spagna, e ad esaminare le loro poesie, per far conoscere quanta somiglianza sia, e pel soggetto, che per lo più si cantava, e pel metro, per la disposizione delle rime, tra le poesie degli Arabi e quelle dei Provenzali, che per essere stati i primi a poetare nella lingua, che parlavano, la quale si diceva romanza o sia romana, perchè formata dal linguaggio che si parlava in Roma, furono detti trubadori o trovatori, che suona inventori di questa maniera di poesia. E perchè costoro dall’XI secolo in poi si sparsero per l’Italia ed ivan per le corti cantando d’armi e d’amori, e tanto diffusero quel gusto che i più potenti signori ed i principi stessi furono trovatori, e molti fra gl’Italiani ne imitarono la maniera di poetare, pensa il Ginguenè (ned egli solo il pensa) che il prototipo delle antiche poesie degli Italiani fosse stata quella degli Arabi i quali furono imitati da’ Provenzali, e questi dagl’Italiani. Ma ciò sembra smentito dall’essere stati contemporanei, e forse più antichi de’ provenzali i poeti di Normandia, che nulla aveano avuto a fare cogli Arabi, e che anche colà si dicevano trouveurs, ed ancor colà cantavano le imprese de’ prodi e gli amori delle belle. Ned era guerriero, che s’accingeva ad un’impresa, senza avere a fianchi il suo trouveur, come il suo scudiere. E forse indi venne che ogni re di Sicilia della famiglia normanna volle avere il suo biografo. Il più antico di tutti, il poeta storico Guglielmo di Puglia fu trouveur di Roberto il Guiscardo e de’ suoi fratelli; ed il Malaterra spesso rompe la prosa per continuare in versi la narrazione delle gesta del Conte Rugiero.
È poi certo che prima di Federigo non furono trovatori in Sicilia. La prima menzione, che si fa di costoro in Sicilia, è quella dello scrittore delle cento novelle, il quale, parlando di Federigo, dice: La gente, che avea bontade veniva a lui da tutte le parti: e l’uomo donava molto volentieri o mostrava belli sembianti: e chi avea alcuna bontà a lui venivano: trovatori e belli parlatori. I primi trovatori provenzali vennero in Italia verso il 1100: come mai i Siciliani avrebbero potuto essere i primi a poetare in lingua volgare, se tal maniera di poesia fosse stata introdotta in Italia da’ Povenzali, che i Siciliani furono gli ultimi a conoscere? Se, come vuole il Ginguenè, i trovatori furono quelli che diedero agl’Italiani la maniera di poetare degli Arabi, qual mestieri aveano i Siciliani del costoro tramezzo, se per quattro secoli ebbero gli Arabi a casa loro?
I Siciliani, fervidi nell’immaginare, vivaci nel concepire, caldi nel desiderare, avendo già un dialetto armonioso ed altamente espressivo, ben poterono, col solo esempio degli Arabi, cominciare ad esprimere in versi il primo ed il più forte sentimento dell’uomo; l’amore. Quanto ciò sia stato facile ad accadere può argomentarsi dal vedere da per tutto in Sicilia contadini, paltonieri ed altre persone minuali, che, senza conoscere pure l’A, senza sapere che sia al mondo cosa che si dice poesia, schiccherano all’improvviso ottave e canzoni, nelle quali i versi sono sempre giusti, le rime naturali ed i pensieri per lo più spiritosi. Nè ad altri poeti appartengono le canzoni amorose, che da per tutto in Sicilia vanno cantando le foresi, i pastori, i bifolchi ed i mulattieri. E quando vedi il giovane contadino siciliano la sera d’estate andar per le strade col cembalo, e con musica tutta particolare cantar versi d’amore sotto la finestra della fidanzata, non puoi fare che non ti torni in mente quanto narra Matteo Spinello sotto l’anno 1258 di re Manfredi, cioè: che spesso la notte esciva per Barletta, cantando strambotti e canzoni: ed iva pigliando il fresco: e con esso ivano due musici siciliani, ch’erano grandi romanzatori. E dello stesso Federigo si narra che una sera poco mancò che non assagiasse il mazzero d’un barbiere di Palermo, che abitava presso il real palazzo, sotto la cui finestra veniva il re imperadore travestito a cantar versi d’amore, per vagheggiarne la moglie.
Da ciò può conoscersi quanto un tal costume sia antico in Sicilia; e dal vedere che un tale uso sia comune alla Spagna ed alla Sicilia, potrebbe con qualche fondamento credersi, ch’esso sia retaggio degli Arabi, forse perchè, vietando la legge musulmana ogni diritta corrispondenza fra’ due sessi, era necessario che l’amante facesse conoscere i suoi sentimenti alla sua donna da lontano, col canto. E forse ancora è retaggio degli Arabi la stranissima modulazione con cui il volgo canta tali canzoni, che consiste nel prolungare a voce altissima, sino a perdere il fiato, le vocali cantilene, che non può aver avuto ad esempio nè la musica sacra, nè la musica profana.
In ogni modo poi non è da dubitare che, sia che i Siciliani avessero avute dagli Arabi o dai trovatori la prima pinta a poetare nell’idioma volgare, que’ loro primi saggi poetici ebbero ad essere più radi de’ radissimi di Ciullo d’Alcamo; che le costui poesie furono un primo passo verso il miglioramento; e che per la protezione di Federigo ed il concorso di tutti i bell’ingegni di Italia alla sua corte, la poesia e la lingua s’accostarono alla perfezione. Ma di tanta luce nata in Sicilia altre più fortunate regioni d’Italia vennero a cogliere il frutto. Per la Sicilia fu un lampo fugace. La letteratura siciliana, che, dopo secoli d’oscurità, rinasceva per le cure di Federigo e di Manfredi suo figliuolo, tosto ricadde nel bujo onde cominciava ad emergere, per la morte immatura del primo, e le ree vicende e la tragica fine dell’altro. Di che dopo lunga digressione siamo per far parola.