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SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA] CAPITOLO XXIX. I. Prime operazioni di Manfredi. — II. Venuta di Corrado in Italia Sua morte. — III. Stato del regno. Innocenzio IV occupa il regno. — IV. Nuove brighe tra lui e Manfredi. — V. Si ripiglian le armi. Battaglia di Foggia. — VI. Morte d’Innocenzio IV. — VII. Nuova invasione de’ pontificii. Battaglia di Siponto. — VIII. Parlamento di Barletta. Avvenimenti in Sicilia. — IX. Coronazione di Manfredi. Parlamento di Foggia. Finto Federigo. — X. Maritaggio della principessa Costanza con Pietro d’Aragona. — XI. Concessione del regno di Sicilia al re d’Inghilterra. Urbano IV lo concede a Carlo d’Angiò. — XII. Arrivo in Roma di Carlo e sua coronazione. Battaglia di Benevento e morte di Manfredi. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I. — Manfredi, che Federigo avea lasciato bailo del regno, durante la dimora in Germania di re Corrado, suo primo figliuolo, era nato da Bianca Lanza, donzella d’alto legnaggio, che a Federigo gran tempo avea fatto copia di se. Presso a morire, avuto a se il re imperadore, che allora era vedovo, s’era data a pregarlo a calde lacrime a sposarla, per risarcire il suo nome e tergere la sua colpa; e Federigo la fece contenta in ciò (470). Tal maritaggio potè saldare in parte l’onore della donzella, ma non poteva render legittimo il figliuolo, nato da un adulterio (471). Per tal ragione Federigo lo avea nel suo testamento chiamato alla successione al regno, solo nel caso che fossero morti senza legittima discendenza Corrado ed Arrigo, il secondo dei quali era assai più giovane di Manfredi.
Pur se illegittimo era il natale di questo principe, fra tutti i figliuoli di Federigo era quello che più degli altri lo somigliava e per la bellezza della persona, e per le grandi qualità dello spirito; intantochè l’Anonimo, che ne scrive le gesta, ne imprende sul principio l’elogio strano, ch’egli si diceva Manfredi, cioè Manus Friderici, e potea chiamarsi Menfredi, ossia Mens Friderici, o Minfredi, cioè Minor Friderico, o Monfredi quasi Mons Friderici, o finalmente Munfredi, cioè Munitio Friderici; e perciò tutte le vocali concorrevano a mostrare d’essere egli in tutto degno dì Federigo. Certo che se la storia non somministrasse fatti da render palesi le grandi qualità di Manfredi, tal misero elogio servirebbe solo a farle mettere in forse.
Morto il re imperadore, prima cura di Manfredi fu di eseguirne la volontà con farne trasportare in Palermo il cadavere. Era questo portato in una lettiga, coperta da un panno di seta scarlato; vi stavano intorno la sua guardia del corpo di dugento fanti saracini e sei compagnie di cavalli; lo seguivano alcuni baroni vestiti di gramaglia. In ogni terra o città, in cui la scorta entrava, con gran corrotto proclamava il nome del trapassato monarca. Imbarcato a Taranto, venne il cadavere a Palermo, e fu deposto nel duomo, in uno degli avelli di porfido, che re Rugiero I avea donati alla chiesa di Cefalù, e Federigo ne li avea tratti, con dare alla chiesa un feudo in cambio.
Adempito questo primo atto della sovrana volontà del principe, Manfredi destinò il suo minor fratello Arrigo, come suo vicario, a governare per lui il regno di Sicilia, tenendo per se il governo della provincia di Puglia e Terra di Lavoro; e, perchè Arrigo era fanciullo, a lui accompagnò, per governare in nome di lui. Pietro Ruffo, ch’era stato uno de’ più fidati ministri del morto re imperadore.
In questo, papa Innocenzio IV, che credeva dì aver vinto del tutto la prova per la morte di Federigo, avea tosto spedito suoi brevi a Napoli ed in tutte le città e castella de’ baroni, pei quali ordinava che non prestassero obbedienza a verun altro, che da lui non fosse spedito, per essere il regno già devoluto alla Chiesa.
Per lo che, quando venne in Napoli il conte di Caserta, speditovi dal principe Manfredi, per ricevere l’omaggio della città, i Napolitani a lettere d’appigionasi dichiararono: se essere stanchi di soffrire scomuniche ed interdetti, però non volere riconoscere alcun sovrano, che non fosse dal papa investito. Lo stesso dissero i Capuani (472): ed ambe le città si prepararono alla difesa. Il loro esempio fu seguito da Andria, Foggia, Barletta, Avellino ed altre città; anzi que’ di Foggia dando libero sfogo a quegli umori, che Federigo con tanto studio avea cercato di reprimere, tolti via i magistrati regî, elessero un consiglio municipale, al quale diedero il governo della terra ed ogni facoltà di giudicare tanto nel criminale, che nel civile. Anche molti dei baroni, per mal animo contro i Tedeschi e particolarmente contro Bertoldo marchese di Bembourgh, che n’era il supremo comandante, ritrattisi dalla corte, o palesamente o di soppiatto, favorivano la parte papale.
Nè il regno era più tranquillo della provincia. Grandi erano i ricorsi, che tuttodì giungevano al principe Manfredi contro di Pietro Ruffo, per la violenza e le concussioni, che si faceva lecite. Il principe, per darvi rimedio, da una mano chiamò a se il Ruffo, fingendo d’aver mestieri del suo consiglio; dall’altra spedì in Sicilia il conte Galvano Lanza, fratello di sua madre, in apparenza per venire al possesso della contea di Butera e delle baronie di Paternò e di Agira, che a lui avea concesso, in fatto per assumere il governo del regno, allontanando Ruffo. Ma questi, venuto in sospetto della cosa, non solo si negò a dilungarsi dal regno, ma impedì che il Lanza fosse entrato in possesso dei suoi feudi, e venne spargendo la voce d’esser egli venuto, per mettere a morte il principe Arrigo, per favorire l’ambizione del nipote. Tanto credito ebbe quella calunnia, che essendosi il Lanza recato a Messina, il popolo si levò in armi contro di lui, ed egli colla fuga ebbe a cansar la morte. Per aver poi in ogni caso di aperta rottura col principe Manfredi un’appoggio, cominciò a dare ascolto agli emissarî di papa Innocenzio ed a favorire secretamente le loro mene, per indurre i Siciliani a darsi al papa.
Manfredi, raccolte quelle maggiori forze che potè, sottomise l’una dopo l’altra tutte le città, che s’erano dichiarate nemiche, da Napoli in fuori; perocchè avvicinatosi alla città, nè i cittadini s’attentarono di venir fuori ad attaccare le esercito regio, nè il principe avea forze tali da poter tentare l’assalto.
Mentre nel regno tali cose accadevano, la Germania era sconvolta dalle mene del papa Innocenzio, per fare eleggere un altro re de’ Romani, in luogo di re Corrado, già da gran tempo eletto, perchè questi non giungesse al trono imperiale. A tale oggetto veniva offerendo l’impero a parecchi principi; che tutti si negavano; finalmente Guglielmo conte d’Olanda, più ambizioso che consigliato, accettò la pericolosa offerta; ma disfatto in tutti gl’incontri da Corrado, invece d’acquistar l’impero, vi perdè lo stato suo.
Mancato un tale appoggio, papa Innocenzio gittò gli occhi sopra Acona re di Norvegia, e lo fece coronare re de’ Romani; ma costui, coronato appena, solennemente dichiarò ch’egli avrebbe sempre fatta la guerra ai nemici della Chiesa e mai ai nemici del papa (473).
II. — Fallite le sue speranze, saputo che re Corrado disfatto il conte d’Olanda, s’accingeva a venire con nuove forze in Italia, papa Innocenzio, lasciato Lione, venne in Italia, per dar cuore ai Guelfi; e perchè in Roma numerosi e potenti erano i Ghibellini, non s’attentò di entrarvi, e si fermò in Perugia. Re Corrado, fatto ogni appresto, nell’ottobre del 1252 giunse in Verona ed ivi a lui venne ad unirsi la gente di Cremona, Pavia e Piacenza città ghibelline. Imbarcatosi poi in Venezia, addì 26 d’agosto dello stesso anno pose a Siponto, quindi venne a Barletta; e tosto corse ad attaccare i conti d’Aquino e di Sora, che aveano levato lo stendardo pontificio. Disfattili, mise a ferro ed a fuoco Aquino, Sessa, Arpino, Sora, Sangermano e tutto lo sventurato paese soggetto a que’ due. Capua spaventata gli aprì le porte; non così Napoli, più confidente nei soccorsi del papa; intantochè re Corrado ne imprese l’assedio addì 1 dicembre del 1251, e non prima della fine di settembre dell’anno appresso la città s’arrese. Durante tale assedio, papa Innocenzio mandò messi al re per ammonirlo a non molestare più oltre le città; Corrado rispose a costoro, che il papa avrebbe fatto meglio a ben governare le persone della testa rasa (474).
Sin dal primo momento che re Corrado venne nel regno, si diede ad onorar grandemente il fratello Manfredi, e grato a lui si mostrava per la maniera, con cui avea governato il regno nell’anno scorso dopo la morte del comun padre. Ma tali amorevoli sentimenti non durarono a lungo: forse per le male arti di Pietro Ruffo, il quale, venuto da Sicilia col principe Arrigo, per complire il re, temendo non Manfredi avesse al maggior fratello palesate le suo inique mene col papa, si diede a screditarlo ed a stillare nell’animo del maggior fratello sospetti, che, attesi gli alteri spiriti del minore, di leggieri appigliarono (475).
Che che ne fosse, da quel momento Corrado non mostrò più la stessa confidenza nel fratello; anzi tenne verso di lui una condotta del tutto ostile. Lo spogliò della baronia di Brindisi e Monte-Santangelo e delle contee di Gravina, Tricarico e Montescaglioso, lasciatogli il solo principato di Taranto, sul quale gli tolse ogni giurisdizione feudale; e però, cacciatone il giustiziere scelto dal principe, un’altro ne destinò, ed una pesante colletta impose a tutti gli abitanti del principato, che fece rigorosamente esigere per conto suo. Nè a tutto ciò contento, ne bandì tutti i congiunti, e particolarmente il conte Galvano e Federigo Lanza, fratelli della madre di lui, comechè il primo eminenti servizî avesse reso al morto re imperadore, che lo avea destinato lungo tempo a governar la Toscana, come vicario di lui. E, perchè costoro cercaron ricovero in Costantinopoli, presso quell’imperatrice che era sorella a lui ed a Manfredi, Corrado ne fece gravi doglianze al cognato, il quale ebbe a cacciarli anche dall’impero.
Venne in questo a morire il piccolo principe Arrigo; poco appresso lo stesso Corrado, mentre si preparava a fare ritorno in Germania, dopo cinque giorni d’infermità, si morì in Lavello, addì 21 di maggio del 1254, lasciando bailo del figliuolo Corrado II, che per la tenera età sua fu detto Corradino, quasi ancor lattante, e del regno, il ricantato marchese di Bembourg (476).
Era costui un principe della stessa imperiale famiglia di Hohenstauffen; caro era stato a Federigo, e fu uno di que’ cortigiani, che come testimonî sottoscrissero il testamento di lui; ma poco era accetto alla nazione, per essere tedesco, perchè soppiattone e bistorto in cuore: per che i più de’ baroni, saputo di esser egli il nuovo bailo del regno, avanti che restar soggetti a straniero tale, cominciarono a gettarsi alla parte guelfa; e molte delle prime città apertamente si chiarirono papali. Non avendo forze da farsi temere (chè i soli mercenarî, senza i baroni, erano allora di lieve momento); nè qualità da farsi amare dal popolo, tentò di ottenere la pace dal papa; ma questi volendo usare la congiuntura, non diede ascolto ai messi di lui; per lo che pregò Manfredi a recarsi in presenza del papa, per far di piegarlo. Il principe Manfredi; comechè sin dal momento che il re suo fratello s’era cominciato a mostrare a lui avverso, non si fosse più tramesso ne’ pubblici affari ed avesse tollerato in pace ogni sopruso senza far motto; pure, per favorire, quant’era in lui, il nipote, si portò in Anagni, ove papa Innocenzio s’era ritratto, ed a lui si presentò. Ne fu accolto benignamente; ebbe speranza di venirsi all’accordo; partiti or si proponevano, or si rigettavano. Ma mentre così il papa lo teneva in pastura, faceva grandi leve di genti in Lombardia ed in tutte le città guelfe. Accortosi allora Manfredi che il papa lo giuntava, per non esser colto alla sprovveduta, senza far motto scantonò e venne a riferir tutto al marchese di Bembourg. Questi, inabile ad affrontar la piena di tante contrarietà, rinunziò il baliato e cominciò a pregar Manfredi ad accettarlo; alle sue si unirono le preghiere di tutti i baroni ghibellini, alle quali s’arrese.
III. — Tutta quasi la Terra-di-lavoro dichiarata in favore del papa; assai città della Puglia pronte ad aprirgli le porte; molti baroni volti già a quella fazione; molte città di Sicilia ribellate per opera del cardinale Ottaviano, di Pietro Ruffo e di Riccardo da Montenero; mal ferma la fede dei popoli, stanchi della guerra, costernati dai mandatarî di Roma, disgustati del governo dei Tedeschi, impoveriti dalle continue onerosissime tasse; poche e spogliate le truppe; l’erario vuoto; il papa, fatto già ogni appresto, sul punto di mettersi in cammino: tale era allora lo stato del regno.
Manfredi, avanti che perder tutto coll’opporre una inutile resistenza, tentò di trarre alcun vantaggio dalla volontaria sommessione. Con tal intendimento fece sapere a papa Innocenzio di non avere egli alcun pensiere di opporsi alla sua occupazione del regno; essere anzi egli pronto a darglielo in balìa; pregarlo solo a considerare di essere egli comun padre de’ fedeli e particolarmente difensore de’ pupilli; e però tenesse in considerazione i dritti del pupillo Corradino che mettea volontariamente se e il suo regno nelle sue mani; e però proponea, che il papa occupasse il regno e lo tenesse sino alla maggiorità di Corradino, senza nulla innovare e senza pregiudizio dei dritti rispettivi. Papa Innocenzio fu lieto di una proposizione, che lo metteva in possesso del regno senza contrasto; e sicuro che, quando che fosse, poteva rompere qualunque promessa, aderì al partito proposto e si mise in via per entrare nel regno. Manfredi venne a trovarlo in Ceperano, presso il confine gli baciò i piedi, e per maggiormente onorarlo, venne addestrando la sua mula sino al guado del Garigliano.
Addì 29 di giugno del 1253 papa Innocenzio entrò in Napoli, prese il possesso del regno in nome della Chiesa e spedì ordini a tutti i baroni e le città di venire a prestargli omaggio. Tale era l’odio di quel popolo contro i Tedeschi ed i Saracini, che la novità cagionò generale letizia in tutta la Puglia (477). Il papa mostrava di voler il maggior bene del mondo a Manfredi; gli restituì le contee e le baronie, che Corrado gli avea tolto, grandemente l’onorava. Ciò non però di manco il principe venne a cadere dall’opinione dei suoi stessi baroni ghibellini, i quali a malincorpo vedevano, che il pontefice, senza tenere alcun conto della convenzione, governava il regno da assoluto signore; concedeva contee, feudi e signorie; non volle che nel giuramento di omaggio, a lui prestato da’ baroni e dalle città, si fosse fatto alcun cenno dei dritti di Corradino e dello stesso principe. Tutto ciò eglino attribuivano alla debolezza di Manfredi; senzachè i baroni, ch’erano col papa rientrati nel regno, facevan tanto poco conto di lui, che nel parlargli pur non si degnavano scoprirsi il capo.
Pur comechè papa Innocenzio la facesse da padrone del regno, molto temea dei Tedeschi, che vi erano, i quali avrebbero potuto un giorno o l’altro far valere i dritti di Corradino e rannodare tutti i ghibellini, sopraffatti, ma non estinti. E però per avere il regno senza spargimento di sangue, ad insinuazion del cardinal Fieschi, suo nipote, cominciò a trattare con costoro di guadagnarli, colla promessa di larghi stipendî, dachè quella gente era usa a vendersi al miglior compradore. Ma il principe Manfredi, cui per contraria ragione ciò non andava a sangue, secretamente li distoglieva, con far loro considerare che poco era da contare sulle promesse di un papa travecchio (478).
IV. — Ma, mentre papa Innocenzio si tenea sicuro di avere di già esteso i confini dello stato romano sino alla spiaggia di Pachino e di Lilibeo, un caso accadde, che mandò in fumo tutti i mal concepiti disegni. Era in corte del papa un Borello d’Anglone, il quale, per essere assai caro ad Innocenzio, era più ardito degli altri baroni, e più degli altri tenea in dispregio Manfredi. A costui avea il papa concessa la contea di Alesina, che partenea al principato di Taranto; e, senza farne motto al principe, con armata mano corse ad insignorirsene. Manfredi, per averla restituita, ne offriva al d’Angione un equivalente: costui ricusò l’offerta, e rispose anzi minacciandolo; ricorse il principe al papa e non ebbe ascolto; però, piegandosi ai tempi, dissimulava le minacce dell’uno, l’ingiustizia dell’altro.
Giunse un di quei giorni in Icano, ove il papa era, e con esso il principe Manfredi, e ’l d’Anglone, la notizia che ivi era per arrivare il marchese di Bembourgh. Manfredi volle andargli incontro per complirlo; e chiestone prima congedo al papa, si mise in via con alquanti cavalieri. Cammin facendo, alcuni della comitiva di lui videro un drappello di gente schierato sopra una collina, sotto la quale era un angusto sentiero, per cui essi dovean passare. Conosciuto che fra costoro era il d’Anglone, sospettando che forse costui era posto lì al guado scesi dai ronzini, montarono i destrieri, per prepararsi allo attacco. Quelli, conosciuto da ciò, che non era più il caso coglierli alla sprovveduta, si volsero a fuggire; gli altri si diedero ad inseguirli; uno de’ cavalieri di Manfredi, sopraggiunto il d’Anglone, lo ferì da tergo. Così fuggendo gli uni, inseguendo gli altri giunsero in Teano. Quella fuga fece nascer la voce, che Anglone fuggiva ed era inseguito per aver ucciso Manfredi; molti, ai quali il principe era caro, infuriati corsero sopra a colui e l’uccisero.
Comechè in compagnia del principe Manfredi fosse stato allora un Tizio, milite del pontefice, il quale era stato testimone che Manfredi, contento per l’onor suo alla fuga del nemico, avesse cercato di tenere i cavalieri e donzelli suoi e non l’avea potuto (479), e forse ito costui in Teano ad esporre il fatto per giustificare Manfredi, papa Innocenzio incagnito per la morte di quel barone, ne volea in tutti conti reo Manfredi, ne lo volea punito e forse di morte.
Il principe, saputa l’ostinazione del papa, era ito a ricoverarsi presso il conte di Ficarra suo cognato, e quindi spedì al papa in Capua, ove era passato, il conte Galvano Lanza, suo zio, e Riccardo Filangeri, per isgannarlo; ma s’affaticarono invano. Innocenzio rispondeva sempre: Venga qui per essere sottoposto al giudizio. Rispondevan coloro: essere il principe pronto a venire a sottoporsi ad un giudizio, purchè il giudizio procedesse o giusta le leggi romane, o giusta le costituzioni del regno; e il papa gli desse un salvacondotto per la sicurezza della persona. A ciò papa Innocenzio costantemente si negò. Il conte Lanza allora fece secretamente avvertito il nipote delle male intenzioni del papa contro di lui; e perchè sapea che molta gente era stata armata a soprapprenderlo e menarlo nelle carceri di Capua, lo consigliava a fuggire subito e cercar ricovero in Nocera, ove da’ Saracini sarebbe stato difeso.
Manfredi, seguendo quel consiglio, si mise tosto in via; camminava per incogniti sentieri, per ischivare la gente, che ne andava in traccia, e i luoghi, in cui poteva essere soprappreso. Prima di giungere a Nocera scrisse al moro Giovanni, che comandava la città, chiedendogli ricovero e difesa; ed al tempo stesso persone travestite mandò per esplorare qual era l’animo del popolo saracino verso di lui. Di ritorno, costoro riferirono che tutti que’ Saracini si mostravano a lui affezionati.
Era quel Giovanni figliuolo di una schiava africana, che serviva nel real palazzo di Palermo; nella prima età fu anch’egli destinato a quei bassi servizî, che convenivano alla sua manuale condizione; ma, perchè in tutto si mostrava solerte, Federigo, che facea sempre tesoro di begl’ingegni, ove che ne avesse trovati, lo istruì, e malgrado la deformità del volto, lo tenne tanto caro che cominciò a dargli più elevati incarichi, ne’ quali mostrò sempre non ordinaria capacità; e però grado a grado lo promosse finalmente alle distinte cariche di gran camerario e di maestro secreto. Morto Federigo, Corrado gli diede il comando di Nocera. Costui, con perfidia affricana, da una mano rispose al principe, promettendogli ricovero e favore, e dall’altra corse ad avvertire il papa dello arrivo di lui, a pattuire la vendita della città. Lasciò a comandare in sua vece un Marchesio, al quale diede ordine severo d’impedire ad ogni patto l’ingresso del principe in città. Manfredi, perchè la sua numerosa comitiva non desse ombra ai Saracini, lasciati gli altri nel castello di Bibiano, poco discosto, con soli tre scudieri s’accostò a Nocera. Trovatone chiuse le porte, uno de’ suoi scudieri, che parlava la lingua araba, avvicinatosi alla porta disse a coloro che da entro ne stavano a guardia: È qui il vostro signore, il principe figliuolo dell’imperadore, che diceste d’esser pronti a ricevere in città, apritegli. Coloro sapendo l’ordine lasciato dal moro, per cui il Marchesio si arebbe negato a dar le chiavi, con unanime sforzo sconficcarono la porta, e quindi il principe entrò. Sparsasi in un attimo per la città la notizia di esser giunto il principe Manfredi, tutto il popolo a numerose torme trasse intorno a lui. Se lo recarono sulle braccia, ed in trionfo lo menavano verso il real palazzo, gridando di esser tutti pronti a morir per lui.
Il Marchesio scosso da quel tafferuglio, saputane la ragione, armatosi, venne fuori del real palazzo colle schiere che lo custodivano; ma questi, avvicinatosi il principe, si unirono agli altri per acclamarlo. Fu forza al Marchesio far lo stesso, dargli in balia la città e il palazzo. Erano in quel palazzo, come in luogo sicurissimo riposti il danaro, argenti, preziosi arredi, armi del difonto Federigo, che con un nome collettivo si dicevano allora camera; onde nacque il titolo di gran camerario a colui che avea in cura la roba e quanto appartenea al sovrano. E, per essere quel moro gran camerario, tutto ciò era in poter suo. V’era altresì la camera di re Corrado; quella del marchese Otone di Bembourgh fratello del marchese Bertoldo, e quella dello stesso moro, assai più doviziosa delle altre. Tutto venne in potere di Manfredi, il quale ebbe di bazza denaro, armi e soldati in gran copia; imperocchè oltre le numerose schiere di Saracini a lui devoti, tutti i Tedeschi, ch’erano sparsi per la Puglia, corsero al suo soldo; e coloro stessi, che militavano sotto le bandiere papali, disertarono ed a lui vennero ad unirsi.
V. — I pontificî in questo avevano riunito parte delle forze loro in Foggia sotto il comando del marchese Otone di Bembourg, e parte in Troja sotto gli ordini del cardinale legato e del marchese Bertoldo. Ambi costoro, comechè della stessa famiglia imperiale ed altronde congiunti di Manfredi, per essere affini della madre di lui, in apparenza facevano le viste d’essergli amici, sotto mano erano stati quelli (particolarmente il marchese Bertoldo) che avevano adizzato l’animo di papa Innocenzio contro di lui; ed ora apertamente comandavano le armi papali.
Manfredi, saputo che il marchese Otone tenea dietro a meglio fortificare Foggia, colà si diresse con animo di cacciarnelo, prima che le nuove bastite fossero recate a compimento. Cammin facendo, il suo antiguardo scorse una schiera nemica, che andava a foraggio, però le corse sopra, mescolaron le mani, la mise per la peggio. Accorse Otone in sostegno de’ suoi; accorse dall’altro lato Manfredi con tutta la sua forza. La gente papale non potè tener l’impeto dei soldati agguerriti, incuorati dalla presenza e dal valore del principe. Cominciaron da prima ad arretrare; ma, perchè innumerevoli ne cadevano sotto le scimitarre saracine, messi in iscompiglio si diedero a fuggire in rotta verso Foggia, ove solo un avanzo di essi, con Manfredi alle spalle, potè a malo stento salvarsi. Coloro ch’erano entro la città cominciarono d’in sulle mura e con dardi e con bricche e con altri argomenti di guerra a tener lontano l’esercito vincitore, il quale ciò non di manco faceva ogni opera di assaltar la città. Mentre così si combatteva da un lato, una mano di arcieri saracini corsero alla parte opposta, e trovate mal difese e più basse le mura, quasi senza resistenza le scalarono e penetrarono in città. Lasciate allora le difese tutti coloro che tenean dal papa corsero a chiudersi nel real palazzo, e restò la città aperta al vincitore.
Manfredi, ottenuta quella vittoria, temendo non l’altro esercito fosse venuto a soprapprenderlo mal preparato alla difesa, nulla curando quel racimolo di gente chiusa nel palazzo di Foggia, fece ritorno in Nocera, con animo di correre il domani sopra Troja; ma il domani fatto appena giorno, vennero in sua presenza due messi spediti dai Trojani, i quali riferirono che, giunta appena in Troja la notizia della vittoria di Foggia, il legato pontificio s’era dato a fuggire con tanta pressa e paura, che raggiunse sulla via di Napoli il marchese di Bembourgh, partito il giorno avanti; e con tanta precipitanza era fuggito l’esercito papale che molti de’ cavalieri, per non perder tempo a sellare i cavalli, fuggirono a bardosso; molti non curarono pur di sciorli dalle mangiatoje e via a piedi; coloro stessi che aveano pensato a portar seco la roba sopra asini o muli, abbandonavano poi que’ somieri anche alle donne ed a’ fanciulli, che scontravano lungo la via, che nell’oscurità della notte, la paura faceva loro apparire soldati di Manfredi. Libera Troja della presenza del legato, mandava quei due messi a giurar fedeltà al re Corrado II ed al principe. Poco stante venne l’avviso che, coloro che la sera innante s’eran chiusi nel palazzo di Foggia, la notte si eran fuggiti, lasciate ivi tutte le bagaglie. Così Manfredi con una sola battaglia disfece del tutto due eserciti e ricuperò due città. Nè qui la sua fortuna si tenne; Bari, Venosa, Acerenza, Rampolla, Melfi, Trani, Barletta, in somma tutta la Puglia, da Otranto in fuori, tornò in poco d’ora alla sua obbedienza.
VI. — Tanto fu lo spavento che sparse in Napoli l’arrivo del cardinal legato e degli altri fuggiaschi, che il papa e tutti i cardinali a gran fatica poterono essere indotti dal marchese di Bembourgh a rimanere in quella città; ove papa Innocenzio IV, sopraffatto dagli anni e dalla paura, arrovellato per lo sguizzargli dalle mani un regno, che già teneva annesso al patrimonio di San Pietro, accuorato del vedersi venire addosso minaccioso e potente un principe che testè sfatava, a segno di volerlo far morire sul patibolo come un malfattore infame, venne a morire addì 7 di dicembre del 1254. Tosto dopo fu promosso il vescovo d’Ostia, che prese il nome d’Alessandro IV.
In quel tempo stesso il perfido moro Giovanni s’era ritirato in Acerenza con quei Saracini, che avea seco menato; ma questi, venuti a giorno del tradimento di lui, lo misero a morte, lo fecero in brani, ne mandarono la testa a Nocera, che a pubblico esempio fu appesa alla porta detta di Foggia. Nè contenti a ciò, per mostrare di non esser da meno dei loro compagni di Nocera nel pigliar le parti di Manfredi, fattisi padroni della stessa città di Acerenza, la misero in mano del conte Galvano Lanza, per tenerla a nome del nipote.
In questo, vennero a trovare il principe il conte di Acona suo cognato e Riccardo Filangeri, conte di Martino, dicendogli: essere scandaloso che, mentre tutti i principi della terra mandavano loro messi al nuovo pontefice, egli solo nol volesse fare. Manfredi, che non volea che il papa potesse ascrivere il suo messaggio a debolezza e timore, rispose loro: se non avere altro messaggio da mandare al papa, che quello di sgombrar tosto il regno e non molestare più oltre i dritti di re Corrado II suo nipote e’ suoi. Ciò non però di manco il maestro (480) Giordano da Terracina, notajo della santa sede, il quale in grande stato era presso la romana corte e benevolo si mostrava a Manfredi, fece a lui conoscere che dal mandarne suoi messi al papa non poteva a lui venire altro che bene: per che il principe spedì in Napoli i suoi due secretarii Gervasio di Martina e Goffredo di Cosenza, ai quali diede facoltà di venire a quei patti, che potessero tornare a vantaggio del re e del regno, senza restarne leso l’onor suo.
Cominciatosi a ventilare le proposizioni dell’una e dell’altra parte, sursero difficoltà che sol la volontà del principe poteva torre; il perchè i due messi proposero, che alcuno dei cardinali, munito di pieni poteri dal pontefice si recasse dal principe, per concertare le cose. Si rispose a ciò che ne andava della dignità della romana corte se un cardinale, senza richiesta, fosse ito dal principe. Era perciò necessario o che il principe direttamente o che i due messi in suo nome lo dimandassero. Risposero i messi, non potere far simile richiesta, non avendone avuto incarico.
Mentre tale puntiglio si discuteva, il principe venne ad occupare la terra di Guardia-lombarda, compresa nella contea d’Andria, che facea parte del principato di Taranto, la quale terra in quelle perturbazioni s’era sottratta al suo dominio. Alta querela ne fecero il papa ed i cardinali, dicendo: esser manifesto ch’egli non volea la pace, da ciò che durante il trattato egli continuava la guerra. Rispondeva Manfredi: non aver che fare il trattato per la pacificazione generale del regno, col ricuperare una terra divelta dal suo patrimonio, che ben potea fare, anche in piena pace, senza offendere i diritti di alcuno. Ciò non di manco coloro, che volevano la pace, indussero i due messi del principe a scrivergli di ritirar le sue truppe da Guardia-lombarda; ed eglino da una mano così a lui scrivevano nelle lettere patenti, ma secretamente lo avvertivano a non lasciare Guardia-lombarda, anzi avanzarsi coll’esercito in Terra-di-lavoro; perocchè tale era il timore del papa e dei cardinali, che al solo suo muoversi avrebbero lasciato Napoli; e tutto il paese dal papa tenuto sarebbe tornato all’obbedienza del re. E se non era della stagione, che già sinistrava, per cui erano zeppi di neve i monti, che dovea traversare per entrare in Terra-di-lavoro, Manfredi si sarebbe di presente approfittato dello avviso.
Mentre era in pendente intorno a ciò, gli giunse avviso, che il conte Federigo Lanza suo zio, da lui destinato a sottomettere la provincia di Terra-d’Otranto, era stato cacciato dalla terra di Nerito, che era stata presa, arsa e spianata dai Brindisini; e però lasciata Guardia-lombarda, colà corse di volo coll’esercito. Trovò Brindisi, Otranto, Lone, Oria, Misagno tanto tenaci nel seguire le parti papali, che nè per lo farne crollar le mura, nè per lo sperperarne le campagne, potè farvi altro frutto che il sottomettere all’obbedienza la sola città di Lone.
VII. — Papa Alessandro, mentre avea tenuto in pastura i messi di Manfredi col mettere avanti quel vano puntiglio, era venuto levando un nuovo e più poderoso esercito; e quando questo fu in ordine, ruppe ogni trattato, destinò suo legato il cardinale Ottaviano, il quale con quello esercito comandato dal marchese Bertoldo di Bembourg entrò in Puglia. Fu forza allora a Manfredi tornare indietro, per far fronte alla nuova invasione. Venuto in Nocera, accrebbe con nuova leva il suo esercito, e corse ad affrontare il legato. Era costui accampato sul monte, che da prima fu detto Fornicoso e poi re Federigo imperadore gli avea dato il nome di Montesano, e vi si era afforzato in modo che il tentar di cacciarnelo sarebbe stato imprudentissimo. In quella vece Manfredi venne a porsi colla sua gente di fronte ai pontificî, per trarli a battaglia in campo; ma coloro, malgrado il loro numero a gran pezza maggiore, non s’attentarono di farlo.
Stettero così lung’ora i due eserciti, aspettando gli uni d’essere assaliti ne’ loro ripari, e gli altri di trarneli fuori, quando giunse nel campo del principe il maniscalco del duca di Baviera, zio di re Corrado II, il quale dallo stesso duca e dalla regina Elisabetta madre del re era stato spedito al principe ed al papa, per trattare alcun accomodamento. Il legato ed il marchese Bertoldo, saputo il costui arrivo, proposero al principe una sosta, e ’l principe vi aderì. Fu convenuto, che durante la dimora presso il pontefice di quell’ambasciadore e degli altri messi, che per parte sua il principe vi avrebbe spediti, e per cinque giorni dopo di essere ripartito, si cessasse dall’una parte e dall’altra da qualunque ostilità. La quale convenzione fu giurata dai personaggi più distinti delle due parti.
Manfredi, sicuro che quel trattamento, secondo il solito, era per andare in lungo; nè credendo il cardinale legato capace di rompere un giuramento tanto solenne, volle far coll’esercito una gita nella bassa Puglia, per dare alcun riposo alla sua gente in quel paese abbondevole di tutto e far cuore agli abitanti, la cui fede per la nuova invasione potea vacillare; ma, giunto in Bari, ebbe avviso che il cardinale, appena s’era egli dilungato, avanzando coll’esercito in Capitanata, era venuto a soprapprendere Foggia e s’era messo ad oste nella città e nei dintorni con animo o di espugnare Nocera, mentre il principe n’era lontano, o di combattere il principe, se s’attentava di soccorrer Nocera. Ottimo divisamento, se quell’esercito non fosse stato papale; perocchè, come il principe corse a grandi giornate per ridursi in Nocera, nissuno ebbe cuore di venir fuori, per tenergli il passo. Provveduto alla difesa di Nocera, venne Manfredi ad occuparsi dall’altro lato di Foggia. Per tal modo l’esercito pontificio si trovò chiuso tra’ Saracini di Nocera, che lo guardavan da un lato, e l’esercito del principe, che lo chiudeva dall’altro; ed il cardinale che tanto sicuro era di dovere senza molestia assediar Nocera, che, sin dal suo arrivo in Foggia, mettea nelle sue lettere la data: Dall’assedio di Nocera, si trovò in quella vece strettamente assediato egli stesso.
Il marchese Bertoldo sempre doppio ed infido sempre, volendo in quella lotta tenersi a due capi, era venuto fuori da Foggia con ottocento cavalli prima che il principe fosse giunto in Nocera. La ragion di tale sua mossa, che disse al cardinale, era di richiamare all’obbedienza del pontefice Bari e le altre città della bassa Puglia e trarne quei soccorsi di gente e di derrate, di che l’esercito di Foggia avea mestieri. Di soppiatto poi, giunto in Trani, ove stanziava la Isalda sua donna, figliuola del marchese Lanza, e però stretta congiunta del principe per ragione di sua madre, per lo mezzo di lei aprì una corrispondenza con Manfredi, mostrandosi bramoso di rappacificarsi con lui. Intanto palesamente raccogliea viveri, denaro e gente per l’esercito pontificio. Fatta una sufficiente raccolta, accresciuta la sua schiera, venne a Siponto; ma l’esercito del principe gli chiudeva il passo, per recarsi in Foggia; cercò farsi strada colla giunteria, scrivendo al principe, che egli dovea recarsi in Foggia, per concertar le cose in modo che tornassero in suo bene; però lo pregava a lasciargli libero il passo. Manfredi non se la fece accoccare. Rispose, che non avrebbe mai consentito il suo passaggio; e quello promise di levarsene dal pensiere.
Dopo alquanti giorni, quando parve al marchese Bertoldo che Manfredi, fidando sulla sua promessa non guardava più il passo, sul far della sera si mise in via con tutta la sua gente e le carra. Ma il principe che avea avuto sempre gli occhi addosso a quel perfido, saputa per suoi esploratori la mossa di lui, mise in guato una schiera cappata dei suoi, per soprapprenderlo. Era già nel cuor della notte, quando la gente del marchese giunse a quel passo. Assalita, quando men lo pensava, non ebbe scampo; di duemilatrecento cavalli e millecinquecento fanti, ne furono uccisi millequattrocento e presi quattrocentocinquanta; il resto dispersi.
Scene più calamitose in questo avean luogo entro Foggia. Per lo straordinario numero dei soldati pontificî, i viveri erano ridotti tanto scarsi che per una gallina si dava un cavallo, e di rado si trovava; e per essere gli stessi affastellati nelle case, gravi malattie nacquero; morivano i sani per la fame, morivano gli ammalati per la mancanza di medicine e di ogni altro conforto all’arsura della calda stagione, che correa. Il numero degli infermi era tale che fra le bagaglie del marchese di Bembourgh, che tutte vennero in potere del vincitore, furono trovati più carri carichi di polli, ed uno carico di medicine e di vittuaglie. Lo stesso cardinale non andò esente delle correnti malattie. In tale strettezza propose al principe una pacificazione che tosto venne conchiusa a tal patto: restasse tutto il regno in libera balìa del re Corrado II e per lui del principe Manfredi, tranne la sola provincia di Terra-di-lavoro, che riteneva il pontefice; con questo che, se il papa si fosse negato a ratificare la convenzione, era lecito al principe ripigliar colla forza la provincia.
Conchiusa la pace, il cardinale pregò il principe perdonare e restituire la grazia sua a tutti che sin dai tempi di Federigo imperadore erano stati banditi. Manfredi li graziò tutti del libero ritorno in patria, e loro restituì i feudi e le baronie, che per bando avean perduto; nella quale grazia furono espressamente compresi il marchese Bertoldo di Bembourgh e’ suoi fratelli, a patto che tutti indi in poi si tenessero fedeli al proprio principe. Il solo uso, che fece quel marchese di tale grazia, fu di cominciare ad ordire con altri baroni una cospirazione contro del principe. Manfredi n’ebbe lingua per mezzo di un conte di Guaserbuch, che si trovava nella corte del pontefice, quando vi giunsero i messi del principe a chiedere la ratifica della pace conchiusa col cardinale Ottaviano, legato pontificio. Venuto così Manfredi in cognizione dell’invincibile malvagità del Bembourgh, lo fece imprigionare una coi suoi fratelli.
VIII. — Manfredi, cui poco calea della ratifica del papa, non essendo nel regno esercito nemico da combattere, venne in Barletta: e per dare alcun ordine alle provincie sconvolte da tante perturbazioni, vi chiamò il parlamento del regno, nel febbraro del 1256. Ivi l’alta corte dei pari dannò a morte come felloni il marchese di Bembourgh ed i suoi fratelli. Manfredi, cui era grave spargere il sangue di que’ principi, a lui tanto stretti di sangue, commutò la pena in perpetuo carcere; ed ivi finirono miseramente i giorni loro. Dalla corte stessa fu condannato Pietro Ruffo, conte di Catanzaro alla perdita di quella contea e della carica di gran siniscalco (481). Nel parlamento stesso, Manfredi, per rimunerare gli alti servizî dei suoi due zii, i conti Galvano e Federico Lanza, conferì al primo la contea di Salerno e la carica, di cui era stato privato il Ruffo; ed all’altro la contea di Squillaci.
Mentre tali cose accadevano nella provincia, non meno sconvolto era stato il regno. Il ricantato Pietro Ruffo conte di Catanzaro, sottrattosi a qualunque dipendenza del principe, non da vicario di lui, ma da assoluto signore governava il regno; intantochè quando Manfredi, venuto la prima volta in Nocera, raccattava genti da tutte le parti e spedì a lui messi, per mandargli que’ maggiori soccorsi che poteva dalla Sicilia e dalla Calabria, quel conte pretese di fare intorno a ciò un trattato d’alleanza come se fosse un sovrano indipendente; ed il principe, a scanso di maggior danno, ebbe ad acconsentirvi. Nè contento a questo, senza farne alcun cenno al principe, fece coniare in Messina molta moneta, in nome di re Corrado II bensì, ma di qualità tanto cattiva che ne crebbe la pubblica indignazione contro di lui.
Palermo fu la prima a levarsi in capo, e sullo esempio di Palermo, Patti, Argirò, Caltagirone, Terranova, Vizzini, Avila, Piazza, Mistretta, Polizzi, Cefalù, Castrogiovanni, Asaro, Nicosia e le terre vicine ribellarono. Venne fuori con armata mano da Messina il Conte di Catanzaro, per sotttometterle; ma mentre correva ad assediarne una, se ne ribellava un’altra; il perchè senza frutto fece ritorno in Messina; ma come vi giunse anche quel popolo si levò a sommossa, accerchiò il palazzo in cui albergava, e male gliene sarebbe incolto, se non avesse pattuito co’ Messinesi di abbandonar la città e l’isola, e recarsi nelle sue terre di Calabria, consegnato i castelli di Milazzo, Monforte, Calatabiano, Francavilla, Castiglione, Rametta, Scaletta e Taormina. Venuto in Calabria, unito a’ suoi nipoti Giordano e Federigo avea cominciato a ribellare le città, che al principe eran fedeli; e quasi tutta la provincia s’era voltata alla parte papale.
Sapute tali novità, Manfredi, mentre cercava di ridurre all’obbedienza Oria e le altre città di Terra-d’Otranto, destinò suoi capitani in Calabria Gervasio la Martina e Corrado Truide, con buon nervo di fanti e di cavalli. Venne fatta a costoro di espellere dal regno il conte, che rifuggì in Napoli presso papa Alessandro IV. Dei suoi nipoti, Giordano fu preso, Federico si ritirò nei suoi castelli di Santacristina e Bersalino, ove per l’inaccessibilità dei luoghi si difese gran tempo.
In questo mezzo tempo, uno sciame di fratri, mandati dal papa in Sicilia; eran venuti predicando in tutte le città una crociata contra Manfredi, spargendo a zeppo indulgenze, per indurre gli uomini a guerra civile. Nell’anarchia, in cui restò il regno, dopo la partenza di Ruffo, venne facile a costoro guadagnare la plebe, che ne’ pubblici disordini è sempre la più forte, a soffogare la voce del popolo, che, ove manchi di capo, è nullo. E però tutte le città di Sicilia riconobbero l’autorità del papa, ed erano governate da un fra Roscio francescano, che col carattere di legato apostolico risedeva in Palermo. Solo i Messinesi non vollero sentir verbo nè di papa nè di re; cominciarono a reggersi a popolo; scelsero un potestà ed altri magistrati repubblicani; e per estendere il dominio loro nel continente, spedirono una torma di altra plebaglia che, valicato il faro, venne ad unirsi alla gente di Ruffo, per far fronte ai due capitani, ed assalì e mise a sacco Seminara. Ma soprappresi dai due capitani e dalla stessa gente di Seminara, che loro corsero sopra, alcuni furono presi, assai più ne perirono, od uccisi o precipitando dai monti, mentre erano inseguiti.
Breve ebbero vita in Sicilia la repubblica di Messina ed il dominio del papa. Manfredi destinò suo vicario in Calabria ed in Sicilia il Conte di Squillaci suo zio, il quale trovò la Calabria già tornata all’obbedienza del principe, tranne quei due castelli tenuti da Fulcone Ruffo. Mentre stava a governare quelle provincie, il vicario per suoi messi, secretamente spediti in Sicilia, veniva incuorando il partito reale, che era in quei dì oppresso dalla fazione papale; e tanto fece, che levò la testa. I Palermitani carcerato fra Roscio, cacciati tutti i mandatarî di Roma, si dichiararono in favore del principe; moltissime altre città fecero lo stesso; ed accozzando le forze rispettive, vennero a formare un esercito, discorrendo l’isola, cacciava da per tutto i papeschi, capo dei quali era un Ruggiero Fimato, che tenea Lentini. Era stato costui bandito da re Federigo imperatore; richiamato da Pietro Ruffo, riuniva intorno a sè tutti i nemici del principe, e fattone numerosa schiera, venne contro l’esercito siciliano presso Favara, ove quella gente fu del tutto sconfitta.
Ottenuta quella vittoria, l’esercito siciliano si diresse a Messina. Al suo avvicinarsi, i maggiorenti della città si dichiararono pel principe; il podestà, conosciuto che in tale disparità di voleri non potea sperare di potersi a lungo la città difendere, imboscatosi andò via. I Messinesi, mancato il capo, spedirono alcuni dei loro in Calabria al conte di Squillaci, per pregarlo a venire a ricevere in nome del principe la città. Il conte passato il faro entrò in Messina e, ricompostone il governo, tornò in Calabria ad assediare i due castelli di Fulcone Ruffo; ma costui, mancatogli l’appoggio dei Messinesi, visto che per tutto altrove la fortuna arrideva a Manfredi, cesse i due castelli e lasciò il paese.
Restituita la calma in tutta la Calabria, il conte di Squillaci passò in Sicilia per ridurre all’obbedienza Piazza, Castrogiovanni ed Aidone, che fidate nella fortezza del sito, non aveano ancora voluto piegarsi a riconoscere l’autorità del re e del principe; solo con Piazza fu mestieri usar la forza; le altre due, spaventate della gagliardia non che fu espugnata quella, s’arresero di queto.
Il principe Manfredi in questo, tenendo affatto lieve il riccattare la Terra-di-lavoro, venne in Capitanata, per espugnare Brindisi e le altre poche città che in quelle parti erano state ostinate nella ribellione. Cinta d’assedio Brindisi, il principe venne a Taranto, per passar quindi in Sicilia. Ivi a lui venne l’avviso che per opera di un Airoldo di Ripa-alta il popolo di Brindisi avea carcerato un Tommaso D’Oria e gli altri capi della ribellione, ed avea aperto le porte alle truppe regie. Otranto ed Oria fecero lo stesso. Ariano, inespugnabile pel sito, fu dal conte Federigo Maletto presa a tradimento.
IX. — Ridotto all’obbedienza da un’estremo all’altro il regno tutto, dalla Terra-di-lavoro in fuori, Manfredi, imbarcatosi a Taranto venne a Messina, e quindi, traversando l’interno dell’isola, si recò in Palermo. Qui giunse allora la notizia di esser venuto a morte il giovane re Corrado II; per lo che il parlamento, riunito in Palermo, stanziò che il principe, senza por tempo in mezzo, ascendesse il trono già vuoto (482); e però addì 11 di agosto del 1258 Manfredi fu coronato, come i re suoi antecessori, nel duomo di Palermo.
Passato re Manfredi nel continente tosto dopo la sua coronazione, veniva da per tutto spargendo grazie e ricompense. Fermatosi in Salerno, spedì ne’ primi giorni d’ottobre suoi messi in Napoli, per intimar la città a darsi a lui. I Napolitani risposero ch’erano ridotti a tale miseria da non potere pagar più gli stipendi ai soldati, che il papa agiva con freddezza, e che non volevano, per una vana speranza, devastati una seconda volta i campi loro, come era accaduto a tempi di papa Innocenzio; per tali ragioni con lieto animo sì diedero al re. Tutta la provincia ne seguì l’esempio; e la gente papale sulla fine dello stesso ottobre sgombrò (483). Venuto in Napoli, si mostrò re Manfredi con tutti benigno ed alla mano, creò trentatrè cavalieri. Ricordatosi dell’arciprete Caracciolo, che era stato suo precettore, dimandò se fosse vivente alcuno della famiglia di lui; e dettogli di esservi Anselmo e Riccardo suoi nipoti, avutili a se, li armò cavalieri e loro assegnò cinquant’onze.
Venuto poi in Foggia, vi convocò il parlamento del regno (484). Ivi furono sanciti molti provvedimenti per la retta amministrazione della giustizia, per rimetter l’ordine del regno e bandire quegli abusi che nelle precedenti perturbazioni s’erano introdotti. A ciò tennero dietro gazarre, baldorie, giostre, tornei, luminarie ed altri argomenti di pubblica gioja, che venne accresciuta da un indulto generale pubblicato dal nuovo re, nel quale si dava il permesso a tutti i banditi di rimpatriare.
Composto così il regno tutto, volse l’animo re Manfredi a fare spalla a’ ghibellini di Lombardia, di Toscana e della Romagna. A tale oggetto destinò suoi vicarî, il marchese Pallavicino, suo congiunto, in Lombardia; Giordano d’Anglone, conte di Sanseverino, in Toscana; e Percivalle Doria, nella Marca di Ancona; ai quali assegnò soldati e stipendî convenevoli. Per opera di costoro i guelfi furono da per tutto messi per la peggio. Venne fatto al marchese Pallavicino riportare una segnalata vittoria contro i Parmigiani, in quel campo stesso, in cui era stata data un gran disfatta a re Federigo imperatore, per cui Cremona, Pavia, Piacenza e Brescia si sottomisero a re Manfredi. Il conte di Sanseverino colle schiere tedesche ed i Senesi affrontò presso Montacino i fiorentini, venuti fuori ad assediar Siena e ne fece grande strage, oltre un gran numero di prigioni.
In questo era già arrivata in Germania la notizia d’essere stato Manfredi coronato in Palermo per la voce corsa d’esser morto Corrado II, ossia Corradino; però la regina vedova, madre di lui, e ’l duca di Baviera, spedirono un solenne messaggio a re Manfredi, per ismentir quella voce. Era il re in Barletta nel febbrajo del 1259, quando vennero a trovarlo quegli ambasciatori. Li accolse con somma onorificenza; e diede loro ascolto in pubblico. Il capo dell’ambasceria, ch’era un abate, venerando per la sua canizie, con dignitosa orazione disse di esser la regina vedova, madre di re Corrado II, e ’l duca di Baviera, sorpresi che si sia sparsa nel regno la voce d’esser morto il re, il quale era vivente; e però la regina e ’l duca pregavano il principe a restituire il regno al re pupillo. Rispose Manfredi: essere stato il regno già perduto pel pupillo; costare a tutto il mondo d’averlo egli di viva forza svelto dalle mani di due pontefici; e poterlo egli legittimamente tenere come acquisto proprio; nè il papa ed i popoli esser mai per tollerare la dominazione tedesca; ciò non però di manco, non volere egli tenere il regno oltre la sua vita; promettere di restituirlo dopo la sua morte al pupillo; e però essere bene che la regina, madre di lui, lo mandasse nel regno, per acquistarvi la lingua ed i costumi italiani; sol egli prometteva di tenerlo in luogo di figliuolo. Con regia magnificenza poi presentò quegli ambasciatori; e presenti sontuosi loro diede da recarli per parte sua al duca di Baviera ed agli altri principi congiunti di re Corrado. Avuto que’ doni e quella risposta, i messi ripartirono; ed è da credere che ne siano restati contenti coloro, da’ quali erano stati mandati; perocchè, finchè visse Manfredi; nissun altro reclamo o tentativo fu fatto per parte di Corradino.
Fu in questo stesso anno che re Manfredi concepì e recò ad effetto il lodevolissimo pensiere di demolire la malsana Siponto e trasferirne gli abitanti in una nuova città, posta in sito più salubre, che volle si dicesse Manfredonia. Fatto trasportare a grandi spese le travi dalla Schiavonia, la pietra, l’arena, la calce e gli altri materiali d’altrove; disegnò egli stesso le mura, le piazze, le strade della nuova città e poi fece venire dalla Sicilia e dalla Lombardia due astrologhi, per far loro determinare il giorno opportuno, per gittar la prima pietra nelle fondamenta (485). Pure questo principe era filosofo; ma la filosofia facilmente si affà agli errori del secolo in cui visse: forse i nostri posteri troveranno assai più ridicole della astralogia molte follie alle quali noi ora tenghiamo dietro.
Mentre tali cose si facevano nel continente, un caso accadde in Sicilia, ridevole sulle prime, che poi minacciò di turbare la pubblica tranquillità. Era quivi un accattone, chiamato Giovanni Calcara, il quale avea gran somiglianza a re Federigo imperatore, nè lontana ne era l’età. Come molti in vederlo dicevano di somigliare al difunto monarca, egli da prima ne ridea; ma visto che, tutto ovunque andava accattando tutti dicevano lo stesso, cominciò a farvi disegno sopra; si faceva veder di rado; interrogato della patria e de’ parenti suoi, dava risposte misteriose; il mistero accrebbe la curiosità e la curiosità rese gli uomini crudeli. Com’ebbe così disposti gli animi, si ritirò in una lustra sull’Etna; e per meglio render l’aria del morto sovrano si fece crescere la barba, come quello era solito portarla, e cominciò ad usare modi più dignitosi. Allora cominciò a dire a taluno, come in gran confidenza, l’essere egli veramente lo imperadore; l’essergli stata imposta, per essere assoluto de’ suoi peccati, la penitenza di tapinare nov’anni; per far ciò essersi finta la sua morte, esser di già terminato il tempo della penitenza a lui imposto; aspettare il momento opportuno, per essere riconosciuto e ripigliare l’autorità. Forse alcuna mano secreta, che volea destare nuove turbolenze nel regno, secretamente dirigea le operazioni e le parole del pitocco. Certo è che quella confidenza servì a divulgare e dar credito alla favola. Da tutte le parti la gente traeva a quell’antro, per vedere il penitente sovrano e recargli viveri, vesti e tutto ciò, di che potea aver uopo; tutti coloro ch’erano vaghi di novità, i proscritti, i fuggiaschi ed ogni altra gente di scarriera accorreva a lui, ed a lui come al legittimo sovrano obbediva. Dal nascondiglio ove era stato da prima, seguito da quel trozzo venne a fermarsi sul monte di Centorbi, luogo assai difendevole; e quindi contraffatto il real suggello (ciò che mostra che la manifattura non era di sola gente minuale) cominciò a spedire ordini in tutto il regno, ne’ quali spacciava il titolo di Cesare.
Riccardo Filangeri, conte di Marsico, che allora governava il regno per parte del re, visto andar tant’oltre le cose, v’accorse con buon nerbo di soldati; accerchiò il monte; tutti coloro che vi si erano ritirati caddero ivi nelle sue mani; il finto imperadore, invece di salir sul trono salì sulla forca; e lo stesso fine fecero i suoi cortigliani.
X. — Quetato quel lieve subuglio, re Manfredi si recò in Sicilia; in Palermo fu con grandi dimostrazioni d’onore e di gioja accolto; ed ivi tutto il tempo, che a lui sopravvanzava dalle cure del governo, lo destinava a godere le delizie delle reali ville, abbondanti di viveri, di boschi, di giardini, di cacciagione (486). Fu in quel tempo che venne conchiuso il maritaggio della Costanza, unica figliuola, che il re avea avuto da Beatrice di Savoja, sua prima moglie, con Pietro figliuolo primogenito di Giacomo II re di Aragona; e nel maggio del 1260 la sposa partì da Palermo, sulle galee catalane, ch’eran venute a levarla.
Tosto dopo fece re Manfredi ritorno nel continente, ove, cessata ogni cura di guerra, tutto si diede alle lettere, a’ civili sollazzi e particolarmente al buon reggimento de’ popoli. Due fatti narra Matteo Spinelli dei quali ben si può argomentare quanto questo principe sia stato inesorabile nel volere eseguite le leggi. Nell’ottobre del 1260 venne il re in Foggia con gran seguito di cavalieri napolitani e grandi della sua corte. Un dì in presenza sua e di tutti, forse in seguito di alcun repetìo, un saracino, capitano della reale guardia, diede un pugno a Mazzeo Griffo, cavaliere napolitano, il quale non patì l’acciacco e rispose di rimbecco con un tempione che a colui fece grondar sangue dalle nari. A quell’atto i Saraceni ed i Napolitani diedero di piglio alle armi, e molti quindi e quinci ne furono feriti; finalmente i baroni, ch’eran presenti, li partirono. Quetato il subuglio, il re depose dalla carica il saracino ed ordinò, che quel temerario, che avea osato dare uno schiaffo in sua presenza ad un uffiziale, avesse mozza la destra. Quì s’interposero tutt’i signori della corte, dicendo esser duro render monco un cavaliere per vendetta d’un cane saracino. Non per questo poterono tor giù il re del suo proponimento: solo poterono ottenere, che gli fosse troncata la mano sinistra, invece della destra, come la legge prescrivea. Il domani il re chiese conto della salute del Griffo; ed essendogli stato risposto che, per lo spasimo dell’amputazione era per morire, mandò persone a visitarlo per parte sua, col dono di cento augustali.
Da Foggia passò in Barletta, ove s’intertenne piacevoleggiando più mesi. Ivi, per onorare lo imperatore Baldovino II, che cacciato dal trono di Costantinopoli prese terra a Barletta, furono celebrati tornei e giostre. Ma tali piaceri non distoglievano il re d’amministrar severamente giustizia. Un di que’ giorni un Amelio, nipote del conte di Molise, fu colto in atto men che onesto con una ragazza di Barletta, bellissima, di bassa mano; carcerato dal giustiziere, il padre ed i fratelli di lei ebbero ricorso al re, il quale ordinò la sposasse. E comechè il conte di Molise, cui era grave che un suo nipote dovesse sposare una donzella minuale, avesse fatto acquetare i parenti di lei, promettendo loro che duecent’once avrebbe loro date il nipote ed altrettante egli stesso, il re non s’acquetò, se il giovane non l’ebbe sposata. Dopo lo sponsalizio, avuto a se l’Amelio, gli disse di non tenerlo meno buon cavaliere di prima. Il solo conte di Molise restò crucioso per quel maritaggio voluto dal re; ma lodato a cielo ne fu Manfredi da tutto il popolo e particolarmente dalle donne; e ciò che più monta, più gastigato indi in poi divenne il costume dei cortigiani e di tutti.
Mentre re Manfredi si tratteneva in Barletta, vi venne Michele Comneno, despota di Romania, fratello della regina Elena, seconda moglie di lui, per implorare il suo soccorso contro del Paleologo, dal quale era egli minacciato; e perchè il cognato gli rispose non potersi accingere a lontana impresa, mentre il papa gli dava solo un soprattieni, il despota venne in Roma, per indurre il pontefice a venire ad uno stabile accomodamento. Papa Alessandro alla prima proposizione fattagliene rispose: se essere pronto a pacificarsi con Manfredi, purchè egli restituisse i beni ai fuorusciti e cacciasse dal regno tutti i Saracini. Riferito ciò al re gli tornò in mente la favola dei lupi, che offrivan pace alle pecore a patto che bandissero i cani; e rispose, che lungi di cacciarli, volea raddoppiare il numero de’ Saracini. E ben si appose; perocchè non guari andò che venne a scoppiare la tempesta, che già da lung’ora s’addensava, e produsse finalmente l’estrema rovina di questo re, ed una lunga serie di calamità a questo regno.
Le lunghe ed aspre lotte con re Federigo imperadore aveano fatto conoscere ai papi che gli anatemi avean perduto quasi del tutto la forza; e che senza il soccorso delle armi temporali avean avuto un bel dichiarare quel principe decaduto dal trono, ch’egli sempre più saldo e minaccevole vi s’era mantenuto. E comechè fosse venuto fatto a papa Innocenzio IV d’impedire che Corrado suo figliuolo, dopo la morte di lui, salisse al trono imperiale, malgrado la sua bolla e le sue scomuniche, non avea potuto torgli il regno di Sicilia; e se non era della morte, che troncò nel più bel fiore i giorni di quel principe, forse la contesa sarebbe in tutt’altro modo finita. Che se le interne dissidie aprirono momentaneamente a quel pontefice il varco, per entrare nel regno, Manfredi avea ben saputo rivendicar l’onore e l’indipendenza del regno. Per tali ragioni papa Innocenzio era venuto offerendo il regno di Sicilia ora a questo, ora a quel principe, per trarne il danaro necessario, per fare quegli armamenti, nei quali solo confidava.
Prima d’ogni altro si diresse a Riccardo conte di Cornuaglia, fratello di Arrigo III re d’Inghilterra, ch’era il più dovizioso principe di quella età, al quale offerì la corona di Sicilia, a patto ch’egli somministrasse il danaro necessario, per cacciar dal regno Corrado. Ma il conte appose tali condizioni al trattato, perchè il suo danaro non fosse sprecato invano, a danno del pontefice, che questi non andò oltre; per che quello disse: il papa mi vuole vendere a contanti la luna, a patto ch’io vi salissi a pigliarla.
XI. — Più facile a lasciarsi giuntare fu il re Arrigo suo maggior fratello, al quale papa Innocenzio fece l’offerta del regno in favore di Edmondo suo figliuolo, coll’espressa condizione, ch’egli desse il danaro, ed invece di recarsi all’impresa di Terra-Santa, come avea giurato, venisse in Italia a far guerra a Corrado e seco menasse tutti i crocesignati. Aderì lo sconsigliato re, diede al nunzio papale tutto il danaro che avea e quanto potè trarre altronde, e promise di continuare a darne quanto era mestieri per recare a fine l’impresa; al quale oggetto mandò al papa sue lettere patenti, nelle quali si obbligava a pagare ogni somma di danaro, con qualunque usura, che il papa avesse tolto in presto in suo nome; ed il papa ben se ne valse (487). Con tali mezzi levò papa Innocenzio lo esercito, con cui invase il regno.
Disfatto del tutto quell’esercito da Manfredi, papa Alessandro, seguendo le orme del suo antecessore, mandò per altro soccorso in Inghilterra, e per meglio illudere quel re, pel vescovo, che a tal oggetto colà spedì, mandò, come simbolo dell’investitura del regno, un’anello al principe Edmondo, che solennemente con quello ne fu investito. Il gocciolone re, tenendo esser tutt’uno aver l’anello in dito e il regno nelle mani, gongolava per l’ilarità, dava a suo figlio pubblicamente il titolo di re di Sicilia, e permetteva al papa di smungere il regno suo, per fare un acquisto non suo.
Il papa pubblicò in Inghilterra una crociata per la conquista del regno di Sicilia; volle che tutti coloro, che avean presa la croce contro gl’infedeli, e quelli, che avean fatto voto di contribuir danaro per quell’impresa, concorressero in quella vece alla guerra contro Manfredi, nemico, com’ei dicea, più terribile della religione, di qualunque saracino; volle la decima di tutti i beneficî ecclesiastici d’Inghilterra; ed ordinò che fossero scomunicati tutti i prelati che non erano puntuali al pagamento. Per soprassoma poi il vescovo di Heraforel, residente alla corte del papa, addossava capricciosamente grossissime cambiali a tutti i prelati d’Inghilterra, per danaro, ch’e’ diceva di essere stato pagato da mercanti italiani, per la guerra contro Manfredi. Rustand, legato pontificio, convocò un’assemblea di tutti i vescovi ed abati, a’ quali disse: esser piacere del re e del papa che pagassero quelle cambiali. Grande fu la resistenza; il vescovo di Worcester dichiarò: voler prima morire che pagare; il vescovo di Londra disse: che il papa ed il re potevano torgli la mitra, ma egli invece avrebbe messo sul capo un cimiero. Ciò non di manco ebbero a cedere alla forza.
Ma tutto quel danaro non era sufficiente alla richiesta continua di papa Alessandro, il quale giunse a mandare un legato in Inghilterra, per minacciare la scomunica al re e l’interdetto al regno, se di presente non pagavano tutto il danaro che non s’era riscosso. Arrigo conobbe finalmente l’inganno fattogli, nè potè in altro modo spelagare, che col rinunziare quella corona, che nè egli, nè alcuno della sua famiglia avrebbe mai avuto (488).
Papa Alessandro, il quale, malgrado il danaro tratto d’Inghilterra, non avea potuto impedire che Manfredi ripigliasse il regno, molto meno potè tentare di ritorglierlo, mancato quel soccorso. Indi era nata la sospensione della guerra, senza venire alla pace. Venuto poi a morte in Viterbo nel 1260 Alessandro IV, fu promosso Urbano IV, francese, il quale era patriarca di Gerusalemme ed era venuto a chiedere soccorsi per liberar dalla servitù degli scredenti la santa città. Costui, una con tutti i vescovi di Siria, avea altamente gridato contro Innocenzio IV, per aver distolto i crocesignati di Inghilterra dal recarsi alla santa impresa, per far la guerra al re di Sicilia (489); ma, giunto al papato, dimenticò Gerusalemme; solo pensò alla guerra contro Manfredi; dichiarò di essere di altro stomaco del suo antecessore (490), e ben lo mostrò.
Pubblicò anch’egli la crociata, che avea tanto disapprovata; e perchè conosceva di essere impossibile cacciar dal trono Manfredi con eserciti raunaticci, comandati da legati pontificî, offrì la corona di Sicilia a Carlo conte d’Angiò e di Provenza, fratello del santo re Luigi IX, a patto di venire egli stesso con poderoso esercito a cacciar dal regno Manfredi, contro il quale avea già fulminate le solite scomuniche.
Carlo accettò di buona voglia un’offerta che largo campo offriva al valore ed all’ambizione di lui. Una circostanza concorse a favorire i disegni di papa Urbano. Era in quei dì il governo civile della città di Roma affidato ad un senatore eletto dal popolo; e per le fazioni, in cui la città era scissa, il senatore era o guelfo o ghibellino, secondo che prevalea o questa o quella parte. I guelfi, ch’erano allora i più forti, per avere un più saldo appoggio, non più un nobile romano o delle vicine città, com’era solito, ma vollero scegliere a senatore lo stesso Carlo d’Angiò, il quale mandò a reggere la città un suo vicario, fino a tanto che egli, fatto ogni appresto per la conquista del regno a lui concesso, fosse venuto ad esercitar di persona la carica. Il suo vicario intanto si diede a tutta possa a raccozzare le forze dei guelfi italiani, a fiaccare i ghibellini, e, ciò che più monta, ad aprir secrete mene co’ baroni delle vicine provincie del regno.
Manfredi non mancò a se medesimo. Venuto in Napoli, vi convocò il parlamento del regno; espose il pericolo della vicina invasione; intimò a tutti i baroni il loro servizio feudale; rinforzò l’esercito mercenario con levare in Germania altra compagnia di Tedeschi; strinse maggiormente l’alleanza colle città ghibelline, di Lombardia, di Toscana e dello stato romano, per fare ritardare quanto più potea la marcia dell’esercito angioino; e perchè si sapea che Carlo, recatosi a Marsiglia, quindi dovea coll’armata venire in Roma, per aspettarvi l’esercito, dispose che la sua armata, unita alla pisana, con lunghi pali e con sassi enormi chiudesse la foce del Tevere, acciò i legni nemici, chiuso quel ricovero, potessero di leggieri o esser dispersi dalla tempesta o con vantaggio combattuti in alto mare. Ma la fortuna s’era già dichiarata contro Manfredi. Mentre la sua e l’armata pisana davano opera a chiudere la foce, soprapprese da una tempesta, ebbero ad allontanarsi, lasciato imperfetto il lavoro; spinte dalla stessa tempesta le navi angioine s’accostarono a quel lido; Carlo su d’una saettia venne in terra; le navi, rimossi senza ostacolo gl’intoppi, entrarono nel Tevere, e quindi scesero mille scelti cavalieri, che Carlo avea menato in sua compagnia.
XII. — Era allora morto Urbano IV, ed era stato esaltato Clemente IV, il quale alla nimicizia contro Manfredi e tutta la sua famiglia, che in quei tempi infelici era come addetta al papato, univa un particolare sollucheramento per la riuscita dell’impresa del principe francese, per esser nato suddito di lui (491). Carlo entrò in Roma fra gli osanna (492); e vi fu solennemente coronato re di Sicilia da quattro cardinali, destinati dal papa, addì 6 di gennaio del 1266. In questo, l’esercito angioino, superato ogni intoppo, era già arrivato in Roma, impaziente di correre alla conquista, che tutti ardentemente desideravano, per arricchirsi dello spoglio del regno; ned altro che tal cupidigia li movea. Lo stesso Carlo avea dovuto torre in presto assai danaro dei mercatanti romani, sulla promessa di dar loro grandi franchigie nel commercio del regno (493); e però, ricevuta la papale assoluzione di tutti i peccati, l’esercito invasore si diresse ai confini del regno.
Re Manfredi, raccolte tutte le sue forze, era venuto a fermarsi presso Benevento, per aspettarvi il nemico. Ma di tutto il suo numeroso esercito, poteva solo contare sui Tedeschi ed i Saracini, perocchè il più dei baroni, sedotti dalle promesse dell’angioino di far loro più ampie concessioni di feudi, di sgravarli dei pubblici pesi e liberarli dall’odiosa presenza dei Saracini e dei Tedeschi, si erano indettati con lui e col papa; e però alcuni, col pretesto di difendere le proprie Castella, si tennero lontani, ed altri, comechè seguissero le bandiere reali, miravano a favorire il nemico.
Addì 27 di febbrajo del 1266 i due eserciti furono a fronte. Un corpo di arcieri saracini, lasciatosi indietro l’esercito, furono i primi ad attaccar la mischia con una schiera di ribaldi (494), e di quel trozzo fecero una grandissima tagliata; un grosso stuolo di scudieri corse sopra ai Saracini, i quali, non poterono tener l’urto di quella cavalleria e furono spersi; Giordano d’Anglerio, conte di Sanseverino, arrisicato guerriero, con mille cavalli tedeschi, ch’erano il fiore dello esercito siciliano, diede addosso a quegli scudieri, che non eran tali, nè tali cavalli ed armature aveano da far fronte a quella schiera cappata; però pochi ne camparono vivi ed illesi. Mille cavalieri francesi corsero allora a mescolar le loro mani co’ Tedeschi, i quali non ismagarono, tennero anzi lunga pezza in bilico la fortuna di quella fatal giornata. Manfredi, che dall’alto di un colle osservava la battaglia, visto che i cavalieri tedeschi, stanchi già di due scontri sostenuti, cominciavano a vacillare, si tenne sicuro della vittoria coll’ordinare a’ suoi baroni di dare addosso a’ Francesi; si negarono; egli, disperato, col solo Teobaldo degli Anibaldi, barone romano, che avea giurato (e tenne il giuramento) di morirgli accanto, e pochi militi, che gli furon egualmente fidi, corse nel più folto della mischia a cercare una morte gloriosa e la trovò.
Compita fu la vittoria di Carlo; tutto il campo restò pieno di cadaveri, fra’ quali stette tre giorni confuso quello dello sventurato Manfredi; riconosciuto, fu fatto da Carlo seppellire presso il ponte di Benevento. Ma l’odio di papa Urbano giunse fino a turbare il freddo carcame dello sventurato re. Sulla ragione che il cadavere di uno scomunicato non dovea giacere in luogo sacro (e sacro chiamava il territorio di Benevento, per essere compreso nello stato romano) tramutò le nude ossa, e le fece ignobilmente sotterrare presso le sponde del Marno, che allora si diceva Verde.
Nè quì ebbero fine le ree vicende di quella illustre e disgraziata famiglia. La vedova regina Elena, un piccolo figliuolo, che Manfredi anch’esso avea nome, ed una sorellina di lui errarono alcun tempo in cerca d’un ricovero; vennero da prima in Nocera; poi in Manfredonia, ove speravano imbarcarsi e passare in Romania; soprappresi, d’ordine di Carlo furono carcerati, e sparirono per sempre dalla terra.