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SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA] CAPITOLO XXX. I. — Mene dei nemici di Carlo. — II. Avvenimenti di Sicilia. — III. Arrivo di Corradino in Roma. Battaglia di Tagliacozzo. — IV. Prigionia di Corradino. Sua morte. — V. Crudeltà usate in Sicilia. Oppressioni del governo angioino. — VI. Ambiziosi disegni di Carlo. — VII. Giovanni di Procida: Michele Paleologo imperadore di Costantinopoli: Pietro re d’Aragona. — VIII. Procida va in Costantinopoli. Torna in Sicilia. Va in Roma ed in Catalogna. Sue macchinazioni da per tutto. — IX. Celatezza di re Pietro. — X. Vespro siciliano. — XI. Arrivo di re Pietro d’Aragona in Palermo. — XII. Assedio di Messina. Fuga di Carlo. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I. — La battaglia di Benevento fu il solo fatto d’armi che accadde per la conquista del regno. Morto il re, consensienti il più dei baroni, dispersi i mercenarî tedeschi, i Saracini senza capo, non vi ebbe più chi osasse mostrare il viso al vincitore.
Ma, mentre Carlo si tenea già fermo sul trono, poco mancò che non avesse perduto il regno colla stessa rapidità, con cui lo avea acquistato. Tutti que’ baroni, che si tenevan fedeli alla famiglia di Hoenstauffen, fra’ quali maggiormente si distinguevano i conti Galvano e Federigo Lanza, Corrado e Marino Capece fratelli napolitani, uniti a tutti i ghibellini d’Italia, mandarono invitando Corradino, che varcava appena l’adolescenza, a venire in Italia a raccattare il regno a lui legittimamente dovuto, promettendogli per parte della città e degli altri ghibellini ogni maniera di soccorso. Il giovane non si lasciò scappare il bel destro; lettere scrisse a tutte le città italiane, nelle quali si titolava re di Sicilia e prometteva di venire con forze sufficiente a cacciare l’usurpatore francese dal regno.
Corrado Capece, ch’era uno di coloro, che erano iti a chiamarlo, fu da lui destinato suo vicario in Sicilia, per sollevare a nuove speranze i Siciliani; e ben potea farlo, per essere stato a governar l’isola per parte di Manfredi sino alla funesta catastrofe di quel principe. Costui, avuto il real diploma, venne a Pisa, ove chiese ed ebbe una galea ben armata, colla quale si ridusse a Tunisi.
Erano allora in Tunisi i principi Arrigo e Federigo, fratelli del re di Castiglia, i quali con una mano di soldati spagnuoli erano al servizio dell’africano re. A costoro si diresse da prima Corrado, mostrando loro miglior campo di fortuna esser per essi il venire a militare in Italia in favore di Corradino, dal quale, vincente, avrebbero ottenute ben altre ricompense, che non poteano sperare dal musulmano. Coloro, cupidi di ventura, accettarono il partito. Arrigo venne in Roma con una mano de’ suoi Spagnuoli, ove stette alcun tempo come a tutt’altro inteso, mentre operava per istraforo, sì che il popolo romano tumultuando gli conferì la carica di senatore di Roma, di cui spogliò il principe angioino. Giunto lo spagnuolo a quel posto, gittò la maschera e tutto si diede ad opprimere i guelfi, rilevare e riunire tutta la fazione ghibellina, e fare grande raccolta di gente e di danaro, per farne trovar copia a Corradino; al quale oggetto, se è da credere a Saba Malaspina, che certo non è imparziale, usò i modi più iniqui.
Corradino, incuorato dalle promesse di lui e degli altri Italiani di quella parte, raccolta una schiera di cavalli tedeschi, sicuro che il suo esercito si sarebbe ingrossato di tutti i ghibellini, in compagnia di Federigo duca d’Austria suo cugino, e senza far caso delle scomuniche e degli anatemi che papa Urbano fulminava per arrestarlo, s’avvicinava a Roma.
II. — Giunta in Tunisi la notizia di avere Corradino già varcate le Alpi, Corrado Capece e ’l principe Federico di Spagna, con dugento Spagnuoli, altrettanti Tedeschi e quattrocento Saracini, messisi in mare posero a Sciacca. Fra la gente, che seco menato aveano, erano soli diciassette cavalli; ma portaron sulle navi assai selle e briglie, sulla speranza che in Sicilia avrebbero potuto provvedersi di cavalli; nè le speranze loro andaron fallite. Il Capece, posto appena il piede a terra, scrisse lettere a tutte le città di Sicilia, nelle quali diceva: essere già venuto il momento di cacciar dal regno l’usurpatore francese; aver Corradino con fioritissimo esercito, spalleggiato da tutti i ghibellini d’Italia, già varcato le alpi; essersi il popolo romano apertamente dichiarato contro il francese; averlo deposto dalla carica di senatore; stessero di buon animo; a lui accorressero; cooperassero alla grand’impresa. Tali lettere produssero un grande effetto. In tutta l’isola tranne Palermo, Messina e Siracusa, ove la voce pubblica era compressa dalla presenza delle truppe angioine, il popolo palesamente mostrò la sua ilarità.
Governava allora la Sicilia, per parte dello angioino, un Fulcone di Peugricard, il quale, pensando estinguer sul nascere l’incendio, colle sue schiere, alle quali unì molte compagnie di Siciliani, che tenea fidi, corse a Sciacca, per combattere il Capece. Questi gli venne incontro con tutte le sue forze. Appena attaccata la mischia, le schiere siciliane, che militavano col Peugricard, fingendo paura, si volsero in fuga; ma come si furono scostate, gittarono le bandiere di Carlo, inalberarono quelle di Corradino, e diedero addosso dall’altro lato ai Francesi, de’ quali si sarebbe fatta gran tagliata, se Corrado Capece, che di cavalli avea mestieri, non avesse dato ordine di trar giù da cavallo coloro de’ nimici, che venia fatto di prendere, e rimandarli a piedi e senz’armi. Fuggì il Peugricard colla maggior parte de’ suoi, perduto tutte le bagaglie e quasi tutti i cavalli. Sparsasi rapidamente in Sicilia la notizia della disfatta di Peugricard, Girgenti, Terranova, Alicata, Noto, Calascibetta, Nicosia, Catania, Augusta, Sangiovanni, Centorbi, Piazza e poi l’una appresso all’altra tutte le città dell’isola, tranne le tre ricantate, proclamarono Corradino. Solo con Troina e Lentini ebbe luogo la forza; perchè ivi si erano afforzati i guelfi, che in Sicilia si dicevano Ferracani (495).
In questo i Pisani mandarono nella spiaggia di Roma in soccorso di Corradino l’armata loro di ventiquattro galee. Il conte Federico Lanza, cui re Corrado II avea destinato a governar per lui la Sicilia ed a comandare tale armata, menando seco tutti i baroni Siciliani, ch’erano esuli, per non aver voluto piegarsi a riconoscere il dominio di Carlo, dato prima il guasto alla campagna di Mola e di Gaeta, venne a sbarcare a Milazzo. Posto piede a terra, saputo che il Peugricard si era ritirato in Messina, con quella gente, che avea potuto accozzare, volea correr diviato ad assediarlo. A tale oggetto mandò ordine al Capece, ed al principe Federigo di venire a Milazzo, per accomunar le forze. Se un tal pensiero fosse stato eseguito, forse allora avrebbe avuto fine la dominazione angioina in Sicilia; ma, perchè era scritto negli eterni decreti che ciò dovesse accadere in modo più atroce, que’ due per non sottostare all’autorità del conte Lanza, si negarono ad ubbidirlo, ed i Messinesi, invece di avere a difendersi da lui, fecero di offenderlo e gravemente.
Giunta in Messina l’armata provenzale, forte di ventidue galee, comandate da un Roberto di Lavena, professore di dritto civile (496), ad esso si unirono nove galee messinesi, comandate da Matteo di Riso, prode ed esperto marinajo, per andare in traccia de’ legni pisani e combatterli. Al tempo stesso vennero fuori da Messina un settecento militi, tra provenzali, calabresi, messinesi ed ospedalieri di S. Giovanni di Gerusalemme, i quali fatto cuore per la notizia avuta che il Capece s’era negato ad unirsi al Lanza, tennero assai lieve distruggere quel racimolo di gente sbarcata in Milazzo.
Quasi nella stessa ora giunsero l’armata nei mari di Milazzo e le schiere terrestri ne’ campi ivi presso. I Pisani, visti i nemici, vollero pigliare il largo, per combattere con più vantaggio in alto mare; i Messinesi, credendo ch’e’ fuggivano, loro corsero sopra ed attaccarono la battaglia; sicuri che le galee provenzali avrebbero loro dato spalla; ma il giureconsulto, al primo menar delle mani, co’ suoi legni sbiettò. I Messinesi, abbandonati dai Provenzali, accerchiati da’ Pisani pensarono a salvar se stessi, con perdere i legni; però, voltate presso terra le prore, corsero a dar del naso nel lido, e quindi saltarono in terra. Sopraggiunti i Pisani trovarono sui legni messinesi solo diciotto persone di nissun conto.
Le schiere terrestri, ch’erano le sole forze che Carlo avea lasciato in Sicilia, viste le nove galee prese, senza aspettar l’invito la diedero a gambe; e, tanto erano gli Angioini sicuri di esser mal veduti in Sicilia, anche da coloro, che si mostravano loro amici, che correvano a tutta forza verso Messina, non pel timore che i marinai pisani, che a piedi l’inseguivano, potessero sopraggiungerli; ma perchè il popolo di Messina, incuorato della perdita della battaglia, non seguisse l’esempio delle altre città (497), non che di Sicilia, ma della Calabria sino alla parte di Roseto, che aveano inalberato lo stendardo di Corradino; intantochè restavano tranquille sotto il dominio di Carlo le sole provincie, tenute in soggezione dalla presenza delle sue armi, ma il regno era dichiarato contro di lui.
III. — Corradino intanto, passando presso Tivoli, ove s’era ritirato papa Urbano, s’avvicinava a Roma. Tanto numerosi ivi erano, massime in quel momento, i ghibellini, che armati ed ordinati gli vennero fuori ad incontrarlo, che avrebbe potuto credersi che correvano a combatterlo, se non fossero stati ghirlandati tutti. Con tale accompagnamento entrò Corradino in quella città, libera un dì, e padrona del mondo, ridotta poi a prostituirsi ad ogni straniero, che ne affettava il dominio (498). Le dimostrazioni pubbliche di giubilo furono allora a gran pezza superiori a quelle, con cui non guari prima era stato accolto Carlo d’Angiò. Va e conta sugli osanna della moltitudine! Ed ove lo scriba del sacro palazzo assicura che gli applausi fatti a Corradino furono mossi da libera volontà del popolo (499), ci dà grande ragione di sospettare che la prima volta non lo siano stati.
Nel venire fuori da Roma, oltre il principe Arrigo di Castiglia e ’l duca d’Austria, accompagnavano Corradino i conti Galvano Lanza con suo figliuolo, Gerardo di Pisa, Guido di Montefeltro, Corrado d’Antiochia ed i primi fra ghibellini romani Giacomo Napoleone, il conte Alebarcucio di S. Eustachio, Stefano Normanno, Pietro Romano, Giovanni Arlatti, gli Anibaldi, i Surdi ed innumerevole gente di minor nome. V’era oltracciò gran numero di baroni e militi tedeschi, lombardi, toscani, romani; e tutti gli esuli del regno. Insomma era quell’esercito tanto numeroso, che Corradino, dopo due giorni di marcia, prima di varcare i confini del regno, rimandò tutta la bordaglia romana, che lo avea accompagnato, e solo ritenne la milizia cappata.
Ne’ campi di Tagliacozzo i due eserciti furono a fronte. Carlo divise l’esercito suo in tre schiere; la prima che occupava una pianura era composta de’ Provenzali e de’ guelfi romani, comandata da Giacomo di Gaucelm; il maliscalco di Carlo comandava la seconda, composta da tutti i mercenarî francesi, che si tenea dietro la prima sul declive de’ colli; lo stesso Carlo tenne sotto di sè da ottocento cavalieri francesi, che pose di qua dai colli fra boschi, come in agguato; la prima dovea correre all’attacco, la seconda dovea od impedire la disfatta o compir la vittoria, la terza era serbata per agire in alcun fortunoso momento.
In due file divise Corradino l’esercito suo. Erano nella prima gli Spagnuoli comandati dal principe Arrigo, i Lombardi da Galvano Lanza ed i Toscani dal conte Gerardo di Pisa; tutta gente provata e bellicosa. Componevano la seconda fila tutti i cavalli tedeschi. Tale era la sproporzione del numero tra’ due eserciti, che uom diceva che tutto l’esercito di Carlo non poteva tener la puntaglia contro una sola della schiere di Corradino; ma la disposizione dello esercito mostrava quanto il principe francese fosse miglior capitano.
Venutosi alle mani tra le due prime schiere, i Provenzali fecero invano ogni sforzo per disordinare i nemici; perocchè la reciproca emulazione addoppiava il valore degli Spagnuoli, dei Lombardi e de’ Toscani; intantochè dopo lungo e sanguinosissimo combattere quella prima schiera fuggì in rotta; accorsero i mercenarî francesi, nè fecero miglior prova; molti ne furono uccisi, molti fugati, molti presi, fra quali il maliscalco di Carlo; e Carlo stesso, che dalla vetta d’un colle stava a guardar la battaglia, la tenne del tutto perduta; perocchè rotte del tutto vedeva le due prime sue schiere; vedea la prima fila nemica ancor menar le mani; nè con soli ottocento cavalieri, prodi che fossero stati, potea stare a fronte di tutto lo studio dei cavalli tedeschi, non ancora entrati in mischia.
In tal fortunoso istante, un di que’ casi, dai quali spesso dipende il destino degl’imperi, fece dar volta alla fortuna di Corradino. Sia che i Tedeschi, non conoscendo Carlo, ingannati dal maestoso contegno del maliscalco fatto prigione, lo avessero creduto lui, sia che a ragion veduta, come il Malaspina dice, quel barone per trarli in inganno avesse vestite le reali insegne, si sparse nell’esercito la voce di essere fra’ prigioni lo stesso Carlo. In quel momento stesso que’ pochi Francesi che restavano della seconda schiera angioina, inabili a tener più la puntaglia, si diedero anch’essi a fuggire in rotta. La gente di Corradino, non vedendo alcuna schiera nemica starle a fronte, sicura che lo stesso principe avversario era prigione, cessò dal combattere e si diede a godere i frutti della vittoria. Rotti gli ordini, molti si dilungarono, per correr dietro ai fuggiaschi; molti si sparsero per lo campo, per ispogliare e frugare gli uccisi; molti si diedero a correr di qua e di là per raccattare vasellame, danaro, armi ed arredi, che i soldati di Carlo aveano gittato lungo le vie, per fuggire più diviati; molti andavano e venivano dal campo carichi di nemiche spoglie; Corradino e tutti i suoi baroni deposte le armi, stavano ad ammirare la copia e la ricchezza dello spoglio, che innanzi a loro si venia accatastando.
«A noi, signore, la vittoria è nostra» disse in quel momento a Carlo Erardo di Valerez. Dire e muoversi Carlo col suo drappello, precipitarsi a briglia sciolta dal colle, dietro il quale erano ascesi, soprapprendere l’esercito nemico, fu opera d’un momento; ed in un momento l’esercito vincitore passò dall’estrema fidanza all’avvilimento estremo; nissuno volle, seppe, potè difendersi; a pochi fu dato fuggire, a nissuno salvar la vita; perocchè Carlo con barbarica ferocia, di cui la storia forse non offre altro esempio, volle che sul campo stesso fossero messi a morte coloro, ch’eran caduti nelle sue mani. Era fra essi il conte Galvano e suo figliuolo; ad ambi fece troncar la testa; ma volle che il figlio fosse messo a morte il primo e sotto gli occhi del padre. Ai Romani ordinò da prima che fossero troncati i piedi, ma poi tenendo forse troppo lieve e troppo lenta tale vendetta, li fece chiuder tutti in un ricinto e ve li fece morire tra le fiamme (500).
Tanta crudeltà era ben lontana dall’appagare l’animo di Carlo, che non ebbe pace sin che non ebbe nelle mani lo stesso Corradino. Lo sventurato giovane, datosi a fuggire cogli altri, era da prima venuto a riparare in Roma presso il conte Guido di Montefeltro, ch’era restato a governar la città; ma, non tenendosi ivi più sicuro, per avere i guelfi ripresa la superiorità, in compagnia di Federigo duca d’Austria, suo cugino, e coetaneo, e di pochi seguaci, venne a ricoverarsi nel castello d’Asturi, posto sul lido, di cui era signore Giovanni Frangipani, barone romano, con animo di ridursi per mare a Pisa. S’era già messo in mare, quando il perfido Frangipani, pentito dell’ospitalità usatagli, armata un’altra saettia, gli corse appresso e lo ricondusse prigione nel suo castello, sperando trarre gran danaro o da lui pel suo ricatto, o da Carlo, per darglielo nelle mani. Era in quei mari il ricantato Roberto di Lavena coll’armata provenzale che comandava, il quale, saputo il caso, prese terra, e con tutti i suoi galeotti venne ad assediare il castello d’Asturi, per aver di forza i prigioni; e ’l Frangipani, sedotto dalla promessa, spaurito dalle minacce, li consegnò.
Carlo, lieto oltremodo di aver nelle mani quel principe, dal quale era stato ridotto ad un pelo di perder la male acquistata corona, lo fece prima ad alcuni cardinali, ivi a tale oggetto spediti da papa Clemente IV, assolvere dalla scomunica (501), e poi lo fece condurre in Napoli. Ivi giunti gl’infelici prigionieri, Carlo ordinò che dalle principali città di Terra-di-lavoro e del principato di Capua fossero spediti in Napoli due buoni uomini, come loro sindaci (502). A tale adunanza, alla quale aggiunse i giudici di ogni città ed alcuni giureconsulti, commise di condannare Corradino e i suoi consorti. Era in quel consesso un Guido di Luzzara giurisperito da Reggio, il quale ebbe cuore di ribattere tutte le accuse che si facevano a Corradino. «Non essere, diceva egli, perturbatore della pubblica pace un principe, che cerca di raccattare un regno sul quale può vantare incontrastabili dritti; molto meno potersi dar colpa a Corradino di avere i suoi soldati saccheggiate le chiese; non esservi alcuna prova che nelle azioni de’ soldati sia stato ordine o consenso di lui; nè potersi dare a lui tal colpa, senza dichiarare reo lo stesso Carlo, i cui soldati avevano fatto e facevano assai di peggio.» Tutti furono dello stesso parere, tranne un Roberto giudice di Bari, il quale dichiarò essere rei di morte Corradino, Federico duca d’Austria e ’l conte Gerardo di Pisa.
Non s’erano dati ai prigionieri nè termine a difendersi, nè alcun difensore; non s’erano in conto alcuno osservate le forme legali de’ giudizî; di tutti i giudici un solo chiamò quegli sciacurati rei di morte; a quella sola sentenza Carlo si tenne e la volle di presente eseguita. Addì 29 di settembre 1268, eretto il patibolo nella piazza del Carmine in Napoli, vi furono condotte le tre vittime. Carlo volle assaporare la vendetta col vedere da un’alta torre morire il suo nemico. L’infame giudice di Bari lesse ad alta voce la sua iniqua sentenza. Tanta fu l’indignazione generale contro quel tristo, che il figliuolo del conte di Fiandra, Roberto, che era ivi, e pur era genero di Carlo, mosso da generoso sdegno, trasse la spada e la immerse in seno al giudice, che spirò prima de’ condannati. Tosto dopo Corradino, il duca d’Austria ed il conte Gerardo di Pisa ebbero troncate le teste (503). Così venne ad estinguersi l’ultimo maschile rampollo dell’imperial famiglia d’Hohenstauffen.
V. — Compita la tragica scena, sangue meno illustre, ma più copioso cominciò a spargere in Sicilia. Carlo destinò a ricondurre quivi i popoli alla sua obbedienza un Guglielmo Stendardo, che il Malaspina dice più crudele d’ogni crudeltà (504). Prima impresa di costui fu l’assedio di Augusta, ove s’erano ritratti da dugento cavalieri toscani, di quelli ch’erano venuti da Tunisi. Era ed è tuttora Augusta edificata in una penisola, che una stretta gola di terra unisce alla Sicilia; sopra tale gola era edificata una torre, che tutta l’occupava, nella quale stavano i difensori. Non poteva il francese giungere alla città, senza prima espugnare la torre. Mentre lo Stendardo faceva ogni sforzo per venirne a capo, sei de’ principali cittadini, a scanso che i Francesi, presa di forza la torre, non mettessero a sacco la città, venuti fuori secretamente, offrirono allo Stendardo d’introdurre alquanti dei suoi per una postierla nella torre, se egli prometteva di non molestare nè le persone, nè la roba de’ cittadini; e quello solennemente lo promise. Fidati su tale promessa, coloro aprirono la postierla; i Toscani colti alla sprovveduta, non poterono far difesa. Avuta la torre, lo Stendardo ordinò di far man bassa sui miseri cittadini. Primi fra tutti, quei sei, che aveano pattuito, ebbero mozza la testa; quanti si trovavan per le vie, senza distinzione di sesso o di età erano consegnati ai carnefici, che presso al lido li facevano al modo stesso morire, e poi ne gittavano in mare i cadaveri; molti cercarono ricovero ne’ più sozzi nascondigli, ma invano; che i Francesi, come segugi, frugavano per le fosse, per le latrine, per gli acquai e fin per le sepolture, ne traevano gli uomini e li menavano ignudi a quattro, a sei, a dieci per volta al macello; molti disperati si gittarono in mare, preferendo questa morte all’altra; alcuni cercarono fuggire sopra una saettìa, ma tanta gente vi si affollò sopra, che, appena discosta dal lido, la barca affondò e tutti miseramente perirono. In somma pur uno non restò in vita; Augusta ebbe ad essere in appresso da altra gente ripopolata.
Direttosi poi lo Stendardo a Centorbi, ove come in sito munitissimo, s’era ritratto Corrado Capece, con alcuna compagnia di Toscani e di Tedeschi, cinse d’assedio la città. I soldati di Capece, spaventati dalla strage d’Augusta, per aver salva la vita, secretamente pattuirono collo Stendardo di darglielo in mano. Avutone egli lingua, non aspettò d’esser preso; e disse a coloro che a lui venivano con tale intendimento so a che venite; non è mestieri usar la forza: poichè lo volete, vado io stesso a darmi in braccio al nemico; possa il solo mio sangue bastare alla sua sete! Ciò detto, seguito dai cospiratori, si recò in presenza dello Stendardo, il quale, fattogli di presente cavar gli occhi, lo mandò in Catania a morir sulle forche; solo per esser cavaliere, gli fu concesso l’onore d’avere il suo scudo appeso con lui. In pari modo e in pari tempo perirono in Napoli d’ordine di Carlo, Martino e Giacomo di lui fratelli.
Restava ancora in Sicilia il principe Federigo di Spagna, il quale co’ suoi Spagnuoli ed alquanti Tedeschi venne a chiudersi in Girgenti, ove corse ad assediarlo lo Stendardo; ma d’ordine di Carlo si venne a patti. Il principe ebbe dugent’once ed una galea, per traghettare ove gli fosse piaciuto: e ritornò in Tunisi. Il conte Federigo Lanza disperato di potere difendere la Sicilia senza il concorso del Capece e del principe spagnuolo, dopo la morte di Corradino si era ritirato nel suo castello di Sala di Calabria, ove tenne lunga pezza l’assedio degli Angioini; finalmente, fatto cauto della vita, cesse di bel patto il castello e si recò in Romanìa. Restavano ostili al nuovo governo i Saracini di Nocera. Carlo stesso venne ad assediarli; si difesero gran tempo con sommo coraggio; molti ne perirono ne’ continui scontri; anche più ne vennero meno per la fame; i pochi che restavano s’arresero; vennero sparsi in varie città, ove o perirono o cambiarono di fede; e così venne a sparire tale genìa.
Le crudeltà, ch’ebbero allora luogo in Sicilia, potrebbero ascriversi o all’indole feroce dello Stendardo, e alla straordinaria circostanza di dovere ricondurre all’obbedienza un popolo rivoltato; ma non meno atroce ed oppressivo era lo ordinario andamento del governo di Carlo d’Angiò. Tosto come egli giunse in Napoli, dopo la fatal giornata di Benevento, ebbe a se alcuni di coloro, che impiegati erano stati dal passato governo nella pubblica amministrazione, per aver da essi piena contezza dei pesi, cui il regno era stato soggetto; e ben trovò un Gizzolino di Marra da Barletta (nè di tal pessima genìa è stato mai penuria sotto i tristi governi), per opera del quale ebbe esatto registro, non che delle ordinarie contribuzioni legalmente imposte, ma di tutte le angherie, perangherie, collette, taglie, donativi, contribuzioni di guerra, di tutti in somma gli abusi di recente introdotti, ai quali Federigo e Manfredi, per le strette in cui si trovarono, aveano avuto ricorso; e che il primo avea solennemente confessato di essere illegali, col dichiarare nel suo testamento di non essere i Siciliani tenuti a pagare al di là di ciò che pagavano sotto Guglielmo II. Carlo non pensava che l’eccesso della gravezza più che il valore suo e dei suoi, gli aveano reso agevole la conquista del regno; perocchè i baroni, stanchi di tanti pesi illegali, confidando nelle sue promesse di sgravarneli, aveano abbandonato Manfredi; e però, non contento al ridurre a tributi ordinarî e permanenti tutte quelle imposizioni, che rendono più pronta e severa l’esazione, levò di posto tutti coloro, che tenevano cariche del passato governo, ne accrebbe il numero, e vi promosse o Provenzali, o di quei paesani, che pur sempre si trovano peggiori degli stranieri, i quali, datisi ad esigere a capriccio, smungevano il sangue e le midolla de’ popoli (505). Eppure avea Carlo, nel ricevere la corona in Roma, giurato di governare il regno secondo gli statuti di Guglielmo II (506); ma un principe d’indole tanto superba e feroce non poteva esser sincero nel promettere di avere a modello il buon Guglielmo. Quanto il governo di lui sia stato diverso da quello, è facile il conoscerlo, sol che si ponga mente ai fatti narrati dallo Scriba del sacro palazzo, Saba Malaspina.
Carlo convertì in rendita perenne ed invariabile il provento eventuale, che i re suoi predecessori traevano dal numeroso bestiame, che per civanza o diletto mantenevano nelle terre del demanio. I porci, i bovi, le pecore, le giumente e fino le api e i polli furono da lui dati forzatamente a soccio ai più facoltosi agricoltori di ogni contrada, imponendo loro tale iniqua legge, che colui, al quale si dava una gregge di scrofe, per ogni scrofa che gli si assegnava doveva in capo all’anno darne venti; perocchè si volea in ogni conto che la scrofa dovesse partorire due volte l’anno cinque porcelli, tre femine e due maschi, e le femine del primo primo parto dovevano nell’anno stesso in quella ragione partorire (507). Da coloro, cui si davano pecore, si volevano assolutamente per ogni centinajo di esse, novanta agnelli, sessanta femine e trenta maschi, dieci cantàri di formaggio, due di ricotta e quattro di lana; e dello stabbio doveano concimarne due salme di maggesi, del cui prodotto doveano darne dodici salme di frumento. Per ogni dozzina di giumente, era l’agricoltore tenuto dare ogni anno dieci puledri, sei femmine e quattro maschi. A tutti costoro poi si diede la stessa facoltà, che allora i principi aveano, di menare a pascere quel bestiame, ovunque loro fosse piaciuto, ne’ terreni altrui; e così degli oppressi si fece uno strumento di generale oppressione.
«Vidi io più volte, soggiunge lo stesso storico, quando il re od alcuno de’ suoi officiali veniva in qualche terra, pigliare a forza dalle case, non che i letti, ma i più meschini giacigli; e se i padroni osavano mandar fuori una sola voce di querela, oltre i ceffoni e le bastonate, di cui eran caricati, venivano carcerati, nè potevano uscirne se non a forza di denaro. Vidi gli officiali regî, col pretesto di aver bisogno di gente per la custodia de’ carcerati, che doveano condursi altrove, e per ispedir lettere o denaro, obbligare i cittadini a tali servizî, ed ismunger da essi denaro, per esentarneli.
«Vidi spessissimo anche peggio. Coloro che erano spediti in qualche luogo, per riscuotere i tributi, chiamare alcuni de’ più facoltosi della terra, ordinar loro di pagare a contanti tutta la somma del tributo, per esigerla poi a ritaglio da’ tributarî; e, se si negavano, stretti i polsi colle manette, si mandavano in carcere e vi restavano fino a tanto che non aderivano o non si ricattavano con dare grosse mangerie all’esattore, il quale, liberati i primi, faceva lo stesso con altri, e poi con altri, finchè non restava nella terra alcuno da smungere.
«Vidi di più. Se accadeva in qualche città un omicidio comechè il reo fosse noto, ed il giustiziere lo avesse carcerato, si faceva pagare alla città la multa di cento agostali, che la costituzione del regno infliggea nel caso di omicidio occulto. Denaro si traeva poi dal reo per liberarlo; e così la città era oppressa, il delitto impunito, il pubblico costume corrotto.
«E per tacere di tanti altri acciacchi, che gli occhi inorridivano al vederli, la lingua si contamina a narrarli, basta dire che i Francesi, che si recavan pedoni da un luogo a l’altro, traevan giù da’ ronzoni quanti viandanti a cavallo incontravano, e, lasciatili a piedi, andavan via co’ cavalli loro; se alcun Francese avea da trasportare roba, pigliava di forza i somieri altrui; e se di paglia, di legna o di altrettali cose avea mestieri, le pigliava ovunque ve n’era nella campagna, senza darne alcuna mercede ai padroni, i quali aveano da lodare Dio, se per soprassoma non toccava loro un carico di legnate (508).» Carlo non tanto che punisse tali soprusi, a bello studio li provocava, per depauperare i regnicoli, sì che non potessero levare il capo contro di lui (509).
Nè i dritti delle chiese erano meglio rispettati. Alcuni de’ vescovi del regno aveano, per particolar concessione, anche le dogane, entro i limiti delle loro diocesi; tali erano i vescovi di Catania, di Cefalù e di Patti in Sicilia, e quello di Cosenza in Calabria. Carlo vietò che nelle spiagge di tali diocesi potesse caricarsi o scaricarsi alcun legno; e così venne nel fatto a spogliare i prelati del dritto loro e d’una parte essenziale della loro rendita.
Tali gravezze, accompagnate dalle continue vessazioni e rese anche più dure dalla crudeltà de’ governadori mandati in Sicilia, dai gastighi spesso ingiusti e sempre atroci, inflitti da un governo nuovo, che sentiva di essere odiato e non curava l’odio, purchè fosse temuto, dalla rapacità e dai modi insolenti e dai licenziosi costumi de’ Francesi, spinsero al sommo la disperazione de’ Siciliani; e tale disperazione intanto più s’accresceva, in quanto per lo ricorrere ai pontefici, nissuno alleviamento poterono mai ottenere ai mali che soffrivano.
Papa Clemente IV non si stancava d’insinuar sempre a Carlo di guardarsi dallo imporre tasse di sua sola volontà; ma che, ove il bisogno ne avesse, convocasse il parlamento, facesse conoscere il bisogno e restasse contento a ciò che da quello gli si dava (510); ma cantò a sordi; intantochè, convocatosi da Gregorio X un concilio generale in Lione, vi venne fra gli altri Marino arcivescovo di Capua, il quale espose in più capitoli tutte le vessazioni, le gravezze, gli abusi del governo angioino. Comechè tutti i padri se ne fossero mostrati inorriditi, non potè ottenere altro rimedio, se non quello che due de’ prelati del regno, sciolto il concilio ammonissero Carlo per li suoi ingiusti e sconsigliati procedimenti.
Sotto il pontificato di Giovanni XXI i Siciliani, stanchi di soffrire più oltre, spedirono ambasciatori a quel pontefice, Bartolomeo vescovo di Patti e fra Buon Giovanni Marino, dell’ordine de’ predicatori, per implorare la sua mediazione, perchè avessero fine o modo i mali che soffrivano. Esposero eglino al pontefice il messaggio, di cui erano incaricati; ma, appena venuti fuori, furono, d’ordine di Carlo, presi e menati in carcere. Venne fatto al vescovo unger le mani a chi lo custodiva, e campare; ma la prigionia del povero frate lunga pezza bastò (511).
VI. — Carlo si faceva beffe delle querele dei popoli e delle insinuazioni de’ papi, e ne avea ben d’onde. Era egli assai forte per isfatare i sudditi; ed i papi, non che potessero intimorirlo, aveano grande ragione di temere di lui. Ottenuto il regno di Sicilia, non avea egli più mestieri della protezione papale; e ’l regno era solo un primo gradino alla dominazione di tutta l’Italia, che affettava. Comandava in Roma come senatore, in Toscana come vicario imperiale, titolo che nella ebbrietà del favore avea ottenuto dalla romana corte; ed è facile il vedere, come un principe prode e guerriero, ne’ cui eserciti affluivano quanti erano uomini valorosi in Francia, potea di leggieri convertire in propria l’autorità delegata. Al tempo stesso proponeva alle città di Lombardia di riconoscerlo in loro signore, e prometteva di esterminar da per tutto i ghibellini. Un trattato avea conchiuso col cardinale Ottobuono de’ Fieschi ed altri fuorusciti genovesi, per dargli in mano la loro città.
Tutto pareva arridere ai suoi disegni. L’Italia non avea armi da opporre alle sue; la Francia, a lui stretta di sangue, avanti che avversario, lo avrebbe favorito; e Rodolfo di Ausbourgh elevato straordinariamente al trono imperiale, non era in istato di far valere i dritti dell’impero sulla Italia. Ma quella resistenza che Carlo non potea incontrare nelle armi, la trovò nella sagacità degl’Italiani. Coll’estinzione dell’imperial famiglia Hohenstauffen era venuto freddandosi il furore delle due fazioni, che aveano lacerata la Italia; un nuovo sentimento più nobile e maggiormente degno di un popolo a ragione orgoglioso della sua reminiscenza cominciò a destarsi, lo studio, cioè, di mantenere la indipendenza d’Italia, tanto da vicino minacciata dalla forza, dal volere, dall’ambizione di Carlo. Per tal ragione, quando si riunirono in Cremona i deputati delle città lombarde, per ventilare la proposta dell’Angioino, i Cremonesi, i Piacentini, i Parmigiani, Modanesi, i Ferraresi ed i Reggini inchinavano ad accettarla; ma Milano, Como, Novara, Alessandria, Tortona, Turino, Pavia, Bergamo e Bologna conobbero il ghiacchio, in cui Carlo voleva inretirle, e gridarono: voler meglio esser libere fra le scissure, che tranquille provinciali. Tal voto prevalse.
Non miglior frutto fece Carlo in Genova. Coloro che ne stavano al governo, avvertiti della subita irruzione dei fuorusciti, mentre nel regno di Sicilia e nelle provincie si catturavano alla sprovveduta tutti i legni e mercanti genovesi, si difesero in terra, sì che ogni tentativo andò a voto; ed in mare l’armata loro brugiò tutti i legni di Carlo che sorgevano nel porto di Tregani, e traendosi appresso molti bastimenti predati, fece ritorno in Genova.
Fra tutti gl’Italiani poi, ai quali il dominio di Carlo già incresceva, non eran da sezzo i Romani e particolarmente i cardinali ed i prelati; intantochè, se non fosse stato de’ cardinali francesi, già da lung’ora la fortuna dell’Angioino avrebbe data la volta. Per tal ragione, se prima, ove accadeva la morte del pontefice, il conclave andava in lungo, per li contrasti tra’ cardinali guelfi e ghibellini, ora accadeva lo stesso per la lotta tra’ Francesi e Latini (nome generico, che si dava ai non Francesi). Papa Gregorio X, per toglier lo scandalo di restar la Chiesa vedova talvolta più anni, a causa di tali dissensioni, avea sancito che, se dopo una settimana, che i cardinali erano racchiusi, il nuovo pontefice non fosse eletto, si venissero sottraendo loro i cibi e le altre agiatezze, fino a tanto che si accordavano. Carlo che, come senatore di Roma era incaricato dell’esecuzione d’una tal legge, stringeva con ogni maniera di privazione i cardinali latini; mentre i francesi gozzovigliavano co’ lauti desinari che loro faceva arrivare di soppiatto (512); ma venuto a morte in Viterbo papa Giovanni XXI, ivi stesso ebbe luogo il conclave; e, perchè ivi comandava uno degli Ordisi, i cardinali francesi non v’ebbero alcun vantaggio. Dopo sei mesi di lotta venne eletto Niccolò III romano, il quale, tosto come fu coronato, tolse a Carlo il governo della Toscana, ed una legge bandì, che indi in poi nissuna persona di regio sangue e non nata in Roma potesse aver la carica di senatore.
Era allora Carlo dato a fare grande appresto per la più vasta impresa ch’avesse egli mai concepita; la conquista dell’impero bizantino. A tale oggetto avea già in pronto quaranta conti, diecimila militi, un corpo numeroso di fanti; e trecento navi da guerra, e da trasporto erano raccolte ne’ porti di Sicilia, di Puglia, di Provenza, oltre all’armata de’ Veneziani, co’ quali avea stretta lega. Il fiore de’ cavalieri francesi avea voluto concorrere a tanta impresa; pronti erano cinquecento polledri destrieri de’ più belli che se ne trovavano nelle marescallie di Sicilia. Tutto quel formidabile appresto andò a voto per l’opera d’un sol’uomo.
VII. — Fra coloro, ch’erano stati cari a re Federigo imperadore era un nobile salernitano, Giovanni di nome, il quale, per esser signore dell’isola di Procida, veniva detto messer Giovanni di Procida. Era egli stato un di coloro, in presenza de’ quali Federigo avea scritto il suo testamento, ed uno dei testimonî che lo aveano sottoscritto, e, per esser conventato in medicina, come tutti i nobili salernitani allora solevano, in quell’atto gli si dà il titolo di maestro. Non seguì già costui l’esempio del marchese di Bembourgh, di Pietro Ruffo e di Riccardo da Montenero, i quali, dopo d’avere anch’eglino sottoscritto il testamento del padre, fecero apertamente guerra al figliuolo. Messer Giovanni all’incontro si tenne sempre fedele a re Manfredi; ma, perchè uomo d’armi non era, in tutto il regno di quel principe e sotto la tirannide angioina, sino al 1279, la storia non fa cenno di lui (513). Perduta l’isola di Procida e quant’altro possedea di là del faro, s’era retratto in Sicilia, ove stette lunga pezza digrumando l’odio contro l’Angioino ed agguantando il destro di sottrarre la patria all’odiosissima tirannide di lui. Il destro finalmente gli si offrì; ed egli, sagace ed instancabile com’era, lo colse.
Sedeva allora sul trono di Costantinopoli Michele Paleologo, il quale, per appagare la sua ambizione di regno, avea fatto accecare il legittimo imperatore Giovanni, ultimo de’ Lascari, pupillo a sua cura affidato, il cui padre Andronico avea raccattato l’impero, cacciatone Baldovino II, ultimo degli imperadori latini. Per quell’atroce delitto Michele era stato scomunicato dal patriarca Arsenio, ed in odio era venuto a molti e particolarmente al clero. Carlo d’Angiò aveva al tempo stesso conchiuso un trattato con Baldovino, al cui figliolo Filippo avea fidanzata la Beatrice sua figliuola, per mover guerra in nome di lui al Paleologo. Questi, per ischivar la tempesta, avea implorato la protezione del papa Gregorio X, dichiarandosi pronto a riconoscere la supremazia della chiesa latina e farne adottare ai sudditi i dommi. Gregorio X fu lieto di un tal trionfo, e tenne per alcun tempo a freno l’ambizione di Carlo. Ma breve fu il trionfo; l’aggiunzione del filioque al credo greco non fece altro che accrescere l’odio dei sudditi verso il Paleologo. Svanita così la speranza della desiderata unione delle due chiese, i papi più non ritennero il braccio di Carlo.
Mentre il principe angioino si preparava allo acquisto di nuovi reami, altri covava in mente il disegno di spogliarlo del regno. Pietro di Aragona, che già da più anni regnava, principe di gran senno e di gran cuore, non avea dimenticato il dritto luminosissimo della regina Costanza, sua donna, al regno di Sicilia, come colei ch’era sola figliuola di re Manfredi; ma, perchè non avea forze tali da attaccare il regno, mentre Carlo con poderoso esercito vi stava; sicuro altronde che la romana corte avrebbe fatto ogni sforzo in favore di quello, aspettava in silenzio alcuna favorevole congiuntura, ed al tempo stesso accoglieva con piacere ogni siciliano, che a lui veniva, fra’ quali era in grande stato appo lui il calabrese Rugiero di Lauria, valente capitano di mare, da lui promosso a suo grande ammiraglio.
VIII. — La promozione di Niccolò III, nemico di Carlo, svegliò le speranze di Giovanni di Procida e gli fece concepire il vasto ed ardito progetto di mettere in corrispondenza il Paleologo con papa Niccolò e re Pietro, per far che ognun d’essi servisse a’ disegni degli altri e tutti alla sua vendetta. Con tale intendimento, senza comunicare ad alcuno il suo pensiere, nel 1279 si recò in Costantinopoli. Incontrati ivi due cavalieri del regno, che, per essere anch’essi nemici di Carlo, colà s’erano ridotti, disse loro: esser profugo anch’esso e per la stessa cagione; pregarli a far modo potesse entrare al servizio del greco imperadore. Coloro accettarono l’incarico, e dissero al Paleologo d’esser venuto da Sicilia, per trovar servizio nella sua corte, un signore di gran senno, valente medico; l’imperadore ne fu lieto; avuto a se il Procida, grandemente l’onorò; gli diede la carica di suo primo consigliere (514).
Dopo tre mesi che vivevano in grande dimestichezza, un dì messer Giovanni disse al Paleologo: volergli parlare di cosa d’altissimo rilievo, in luogo secretissimo. Ridottisi sopra una torre, ov’erano le secreterie dell’impero, il siciliano disse al greco: Comechè altri vi tenga principe savio e prode, io vi reputo il più vile degli uomini e simile a quei torpidi animali, che non si risentono, se non quando sono traforati dalle punture. Come potete voi musare, mentre Carlo d’Angiò è per venirvi addosso con prepotenti forze, risoluto a togliervi l’impero e la vita? A ciò il Paleologo, piangendo rispose: O messer Giovanni, io ho tentato tutte le vie per distogliere l’Angioino dal suo proponimento; ho cercata la mediazione del papa, de’ cardinali de’ re di Francia, d’Inghilterra, di Spagna e d’Aragona; invano: per esser tutti spauriti delle grandi forze di lui. Solo Dio può ajutarmi; chè dagli uomini non posso sperare aiuto. E ’l Procida: Or se taluno vi levasse da tanto affanno, lo meritereste voi d’alcuna cosa? Io lo meriterei di quanto posso, l’altro rispose: ma chi sarà costui che vorrà por mente a me, e mettersi a tanta impresa? Io sarò quel desso, che unito al vostro ajuto il mio consiglio, potrò destare a Carlo tali brighe a casa sua, da non poter più pensare a straniere e lontane imprese. E qui venne esponendo com’era necessario soccorrere di danaro il re d’Aragona, per fare lo appresto necessario per raccattare e difendere la Sicilia. Il Paleologo scrisse allora una lettera al re di Aragona, nella quale gli offeriva tutti i suoi tesori. Avuta tale lettera, messer Giovanni fece giurare il Paleologo, a tenere il più alto silenzio intorno a ciò; ed intanto promise di andare egli stesso a recar la lettera al re d’Aragona e concertare ogni cosa. E, perchè la sua partenza non desse sospetto, volle che l’imperadore si mostrasse di lui malcontento; in presenza, non che dei Greci, ma degli stessi Latini amici suoi, lo chiamasse traditore e lo bandisse dalla corte.
Il finto bandito, messo su un abito di frate minore, da Costantinopoli venne in Sicilia; e chiamati Alaimo conte di Lentini, Palmiero Abate, Gualtiero da Caltagirone ed altri dei baroni del regno, disse loro: Miseri malavventurati e maltrattati, sono forse impietrati i vostri cuori? Non vi muoverete mai? Vorrete esser sempre servi, potendo esser signori; nè vorrete mai vendicare le ingiurie e le onte vostre? A ciò tutti risposero che non manco di cuore li tenea, ma la certezza che vano sarebbe ogni loro sforzo a fronte delle prepotenti forze dell’oppressore. Io, disse allora messer Giovanni, posso trarvi di servitù, purchè vogliate aver fede in me ed eseguire quanto per me e per altri amici è disposto. Promessolo queglino, soggiunse. A voi si conviene ribellar la terra, quando sarà ordinato da tal signore, che tutti saremo lieti della sua signoria. E qui si fece a narrar loro quanto avea fatto e quanto era per fare; mostrò loro la lettera del Paleologo; e fece scriver loro una lettera a Pietro d’Aragona, nella quale lo pregavano a venire a liberarli di servitù, come Moisè liberò gli Ebrei dalla servitù di Faraone (515). Avuta tale lettera, esatto da essi il giuramento del più rigoroso silenzio, lasciò la Sicilia e tirò verso Roma.
Venuto in presenza di papa Niccola, cominciò ad implorare la protezione di lui, per fare rimpatriare tutti coloro, che dalle oppressioni dl Carlo erano stati obbligati a fuggire dal regno di Sicilia e dalla Puglia. Il papa a tal discorso, non conoscendo l’uomo, stava in sul tirato, e rispondeva: se non potere far nulla contro la volontà di Carlo, per essere egli figlio della Chiesa. Messer Giovanni allora lo punse sul vivo, col rispondergli: Santo Padre, Carlo è figlio della Chiesa; ma nè obbedisce, nè rispetta la madre. Come potete dir ciò? Disse il pontefice. S’egli fosse figlio rispettoso della Chiesa, non avrebbe con tanta superbia respinta la vostra proposizione di dargli in moglie una vostra nipote, sì che lacerò la lettera nella quale gliene scrivevate. Il sentire d’esser palese quell’affronto, fece ribollire lo sdegno del pontefice, e senza mistero rispose ciò è ben vero, e volentieri ne lo farei pentire. Qui messer Giovanni aggiunse: ben potere egli fare la sua vendetta, con far levare a Carlo il regno di Sicilia. A ciò papa Niccola, il quale, comechè nemico di Carlo ed irato, pur sempre era papa, levate le ciglia disse: il regno di Sicilia è della Chiesa. L’astuto Giovanni, senza negare od affermare il dritto dei papi, rispose: io lo farò fare a tal signore, che sarà sempre fedele alla Chiesa, le pagherà il censo, e non isdegnerà di far parentela con voi; ma non disse chi costui fosse, se prima il papa non giurò sull’anima sua di tenere il tutto celato. Prestato il sacramento, messer Giovanni gli mostrò per filo e per segno tutte le operazioni fatte e da farsi. Il papa ne fu oltremodo lieto, e scrisse una lettera a re Pietro, nella quale lo incuorava all’impresa e lo benediceva. Tale lettera suggellata non colla bolla solita di piombo, ma col suggello secreto del papa, messer Giovanni ripose colle altre e corse in Catalogna.
Ivi giunto, si condusse in presenza di re Pietro, dal quale fu, come tutti gli altri profughi del regno, ben accolto; pure stette alcun tempo prima di palesare a quel re l’oggetto della sua venuta. Un dì che il re seco lo condusse in Majorca, gli disse: io ho da parlarvi di cosa, che non conviene sapersi, se non da Dio e noi due; perocchè al palesarsi potrebbe portare la distruzione vostra e del vostro legnaggio. Giuratogli credenza il re, messer Giovanni soggiunse: re Manfredi lasciò il regno di Sicilia a vostra moglie, sua figlia; e voi, come debole e codardo, non avete mai tentato di raccattarlo; vi sovvenga di vostro avo ucciso a tradimento da’ Francesi nel castello di Murello in Tolosa; ora, se volete esser provvido ed ardito, potete vendicar l’ingiuria e far valere i dritti vostri. A ciò re Pietro con amaro sogghigno rispose: siete voi fuor di senno? Come pensate che un signore di piccolo stato, qual mi sono, possa contendere colla casa di Francia e con Carlo. L’altro riprese: e se io vi dessi il regno bello e guadagnato, senza trar la spada, e centomila once giunte per le altre spese, lo rifiutereste voi? A ciò re Pietro disse: che non lo avrebbe rifiutato; ma ne avrebbe voluto assicurazione più certa delle nude sue parole. Qui messer Giovanni gli presentò le lettere del Paleologo, dei baroni siciliani e del papa. Come re Pietro ebbe lette quelle lettere, non si lasciò scappare il ciuffo che la fortuna gli offriva. Rispose qual si conveniva alle lettere; tutto promise, e soprattutto il più rigoroso silenzio.
Tornato allora in Roma messer Giovanni diè conto a papa Niccola del felice esito della sua missione: dimandato dal papa qual uomo fosse l’Aragonese, rispose: il più savio uomo del mondo, il più prode cavaliere della cristianità. Di tal’uomo, rispose il pontefice, a noi ed ai Siciliani facea mestieri; e però disse al Procida di far presto ritorno in Sicilia per animar da sua parte i Siciliani ad uscir di servitù.
Venuto celatamente a Trapani, vi chiamò Palmeri Abbate e tutti gli altri congiurati, narrò loro quanto avea fatto, loro raccomandò a tenere il più stretto silenzio, e quindi partitosi, fu in Costantinopoli. Lieto oltremodo quell’imperadore al legger delle lettere del pontefice e del re d’Aragona, fedele alla promessa, consegnò ad un cavaliere lombardo, che in sua corte era, trenta mila once d’oro per recarle insieme con messer Giovanni a re Pietro. Imbarcatisi, incontrarono in alto mare una nave pisana; chiesto ai marinai novelle d’Italia, seppero la morte di papa Niccola. Comechè messer Giovanni forte turbato ne fosse, per non dar sospetto al compagno, fece le viste di non farne caso.
Giunti in Trapani, avvisò i baroni congiurati di accozzarsi in Malta. Ivi il conte di Lentini disse, che per la morte di papa Niccola, avean perduto il principale sostegno all’impresa; onde era da soprassedere sino all’elezione del nuovo pontefice; e tutti gli altri aderivano a tal sentenza. Ma messer Giovanni acremente li riprese del poco lor cuore. Disse, che il differire più oltre un’impresa già tanto matura, era un esporsi ad averne il danno certo senza pro; che qual si fosse per essere il nuovo pontefice, la sua elezione dovea da loro tenersi in poco conto; che se il nuovo pontefice fosse un italiano, avrebbero perduto invano il tempo, se un francese, ov’eglino abbiano cuore, colle forze del re d’Aragona e i soccorsi del Paleologo potrebbero tener la terra a mal dispetto di lui, E qui mostrandogli il denaro, che seco recava, rianimò il coraggio loro, e tutti animosi giurarono di accingersi all’impresa e ritornarono altri in Palermo, altri alle loro castella, per preparar le forze.
Di più gravi timori trovò messer Giovanni agitato il re Pietro; che non sì tosto era egli arrivato in Barcellona, vi venne notizia dell’esaltazione del francese Martino IV; ma venne fatto al Procida di rincuorarlo, mostrandogli la ferma risoluzione de’ baroni siciliani; intanto che diè tosto mano a fare ogni appresto per la guerra, facendo correr voce, dover egli portar le armi contro i Saracini.
Egli è ben da maravigliare, che una congiura tanto estesa, nella quale tanti governi e tutti i baroni siciliani avean preso parte, fosse stata ordita da un solo uomo e tenuta così celata, che re Carlo non n’ebbe pur sospetto. Non lieve argomento è questo della sagacità del Procida e dell’odio dei Siciliani al governo angioino.
IX. — Pure i grandi preparamenti di guerra del re Pietro diedero ombra al re Filippo di Francia, il quale per suoi ambasciadori chiese all’Aragonese contro qual setta di Saracini intendea volger le armi, offrendogli al tempo stesso ogni maniera di soccorso. Re Pietro rispose esser vero se avere in animo di andar sopra i Saracini, ma non esser prudente palesare in qual parte. La stessa dimanda gli fu fatta dagli ambasciatori di papa Martino, ed egli, non che negossi a mostrargli l’animo suo, disse che se la sua destra palesasse i segreti suoi alla sinistra, la farebbe troncare.
Fornito l’appresto, re Pietro si recò coll’esercito in Barbaria e cominciò a guerreggiare con quei mori. Mentre così tutto era preparato, un caso avvenne, per cui tante macchinazioni furono di leggieri recate ad effetto.
X. — Era la Pasqua del 1282. Costumavasi sin d’allora in Sicilia andare in que’ dì festivi a diporto nelle campagne attorno le città. Il terzo dì dopo la Pasqua (29 marzo 1282) il popolo palermitano concorrea in gran folla nelle pianure presso la chiesa di S. Spirito, ov’è ora il Campo Santo. Comechè fosse allora stato costume di portare e spada e lancia, pure Giovanni da S. Remigio giustiziere del val di Mazzara avea bandito, che nessuno in quei giorni, pena la vita, potesse portare armi. Un soldato francese, Droghetto di nome, vista in quella torma una bella ragazza, comechè accompagnata fosse da tutti i suoi, accostatosele (in tanto disprezzo tenean costoro i Siciliani), fingendo esser venuto in sospetto, ch’ella avesse avuto alcun pugnale sotto le vesti, le pose le mani in seno.
A quell’atto la vereconda donzella mise un grido e svenne; gli astanti ne furono presi di orrore e di rabbia; un giovane più audace degli altri, corse sopra quel francese, trattogli la spada dal fianco, ne lo trafisse. Tutti fecero plauso e tutti si diedero a gridare (ne mancava chi gli aizzasse): Muojano i Francesi. Quanti ne erano presenti, furono in un attimo messi a morte a furia di sassi. Quindi il popolo corse furibondo in città, facendo strage di tutti i Francesi, che erano sparsi per le strade. Il sangue muovea nuova sete di sangue. Datisi a frugar per le case i Palermitani, donne, vecchi, fanciulli, bambini lattanti, erano miseramente scannati; anzi non contenti di dar la morte alle madri, quando le trovavan gravide, aperto loro il ventre, ne traevano il feto e lo mettevano in pezzi. L’abito sacro, i sacri luoghi non furono schermo ed asilo, chè il popolo penetrava ne’ chiostri dei frati francescani e domenicani, ch’erano i più zelanti partigiani del papa e di Carlo, e quanti di essi parlavano la lingua francese, erano scannati fin nelle chiese. Lo stesso giustiziere ferito in volto era fuggito da Palermo e corse a cercar ricovero nel castello di Vicari: ma in quelle campagne fu messo a morte da una banda di Caccamesi. Tante crudeltà avrebbero impresso una nota indelebile d’infamia sul nome siciliano, se non fossero giustificate dal modo illegale e violento, con cui l’Angioino era venuto al possedimento del regno, dal sangue sparso di Corradino e di migliaja di vittime, dall’aver egli depauperata la nazione e sovvertito le leggi fondamentali del regno, dall’avere i Siciliani esauriti tutti i mezzi legittimi di querela, e più che tutto dalla longanimità e dal coraggio, con cui tennero in appresso il giuramento di mai più tornare al giogo angioino. Ma certo non possono andare esenti da tal nota i primi autori di tanti sconvolgimenti.
Suscitata così la rivolta, i baroni corsero alle loro terre, animando da per tutto il popolo a seguir l’esempio di Palermo (516).
Per tal modo l’incendio comunicossi rapidamente in tutto il val di Mazzara, in cui non fu lasciato vivo alcun francese, tranne un Guglielmo Porcelletto, nobile provenzale, il quale per le sue virtù ebbe risparmiata la vita coi suoi a patto di sgombrar tosto il paese. Pochi altri camparon la morte negli altri due valli, i quali tutti si ridussero in Messina. Ivi comandava Eberto d’Orleans vicario di re Carlo, il quale ben potè più tenere a segno per alcun tempo i Messinesi, intantochè, quando il comune di Palermo scrisse a quel di Messina una lettera per animarlo a far ciò che tutta Sicilia avea fatto (517), Messina rispose con poche parole negandosi, ma negavasi in modo da far travedere che mal fermo era il suo proponimento. Nè guari andò che levatosi in capo quel popolo contro i Francesi, gli obbligò a sgombrar la città; e così in un mese non fu più Francesi in Sicilia (518).
Era stato così celato l’accordo tra re Pietro e i baroni siciliani, che nel primo scoppiar della sommossa, il popolo credendo non potere avere altro schermo alla vendetta di re Carlo, volle darsi in braccio al pontefice, e spedì in Roma l’arcivescovo di Palermo per offrire il regno a papa Martino, il quale acremente lo rigettò.
Re Pietro intanto avuto avviso degli avvenimenti di Sicilia, per meglio deludere il papa e re Carlo, spedì in Roma Pietro Queralta suo ambasciatore, il quale espose al pontefice ed ai cardinali le vittorie riportate su i mori di Barbaria, dichiarò esser fermo proponimento del re d’Aragona d’inoltrarsi sino in Siria al conquisto della santa città: ma, come le rendite sue ordinarie non bastavano all’impresa, dimandava la decima dei beni ecclesiastici di tutti i suoi dominî. Lieti furono il papa e i cardinali della vittoria dei cristiani; ma, come in onta alla strana pretensione dei romani pontefici di disporre del regno di Sicilia come di cosa propria, loro stava sempre sugli occhi il dritto del re d’Aragona, stava papa Martino in pendente per accordargli il chiesto sovvenimento. Il Queralta allora senza aspettare risposta, dilungatosi di Roma, come a caso e di passaggio venne in Palermo.
Avea il comune di Palermo sin dalle prime invitate tutte le città del regno a mandare loro sindaci alla capitale per potere tutta la nazione pigliare legalmente un partito. Il Queralta trovò il parlamento riunito nella chiesa di S. Maria dell’ammiraglio. Discordi erano i pareri, grande il timore di tutti. Queralta riprese da prima lo scoramento loro e poi propose di chiamare dall’Affrica vicina il re Pietro d’Aragona, il quale colle forze ivi adunate potea ben difenderli e il dovea, come colui cui il regno legittimamente si appartenea, per esser marito della regina Costanza figliuola del re Manfredi. Tutti ad una voce assentirono ed issofatto furono scelti frai baroni e fra i sindaci ambasciatori a re Pietro per offrirgli la corona di Sicilia.
XI. — Re Pietro al ricever gli ambasciatori siciliani mostrossi tutto nuovo dell’accaduto, finse esser dubbioso e chiamò i suoi capitani a consiglio, molti dei quali lo sconsigliarono ad entrare in quella lizza coll’Angioino e col papa. Ma Pietro che già da lung’ora avea preso il suo partito, rispose agli ambasciatori siciliani, di tornar lieti in Sicilia, che presto gli avrebbe raggiunti. Congedati poi coloro fra suoi, che nicchiavano a seguirlo, rimbarcatosi cogli altri, venne in Trapani e quindi in Palermo (30 agosto 1282), ove fu accolto colle più liete esultazioni. E da quel momento in poi assunse pubblicamente il titolo di re di Sicilia (519).
Il parlamento allora scrisse una lunga lettera a papa Martino, nella quale enumerava prima tutte le gravezze dai Siciliani sofferte sotto il governo angioino, soggiungeva in fine, avere i Siciliani, scosso appena il giogo, inalberato le armi pontificie ed offerto il regno a lui stesso, ma respinti, eransi rivolti a pregare istantemente il re Pietro d’Aragona ad accettar la corona, il quale con pochi seguaci era già venuto in loro soccorso (520). Se (e convien crederlo) tale lettera fu scritta per insinuazione dello stesso re Pietro, ciò fu per dare una pubblica prova d’esser egli stato chiamato da’ Siciliani; onde non potersi dir invasore de’ dominî altrui.
XII. — Poco stette re Pietro in Palermo, avendone dovuto presto partire per correre in soccorso di Messina, strettamente assediata da re Carlo, il quale avuto appena in Roma, ove allora trovavasi, avviso della perdita della Sicilia, avea rivolto a Messina tutte le forze preparate per la spedizione contro il Paleologo: ma come il papa e i cardinali aveangli raccomandato di tentar la via della pace, prima di usar la forza, era seco venuto come legato pontificio il cardinal Gerardo di Parma, il quale ammesso in città nulla avea lasciato intentato per indurre i Messinesi a tornare all’obbedienza dell’Angioino; ed essi spaventati dalle grandi forze di re Carlo mostravansi inchinati a venire all’accordo, purchè si promettesse loro di levare tutte le gravezze, da quelle in fuori, che pagavansi sotto Guglielmo II; di non esser conferita alcuna carica nel regno a’ Francesi; e di perdonarsi loro il delitto della passata rivolta. Re Carlo respinse orgogliosamente la proposizione. Rotto il trattato, il cardinale, scomunicata ed interdetta la città, si partì. I Messinesi, tolto coraggio dalla disperazione, giuraron difendersi sino all’ultimo fiato; e ben tennero il giuramento. Vano fu il valor de’ soldati francesi, vano il tempestar delle macchine, i Messinesi mostraronsi sempre più arditi, più pertinaci di prima. Finalmente dopo due mesi di assedio la città, stretta in terra dall’esercito, chiusa in mare dall’armata, erasi ridotta affatto strema di viveri.
Re Pietro fece precedersi da’ suoi messi, i quali in suo nome intimarono re Carlo a sgombrare dal regno. Fremè di rabbia l’Angioino al sentire, che il re d’Aragona, ch’egli credea le mille miglia lontano, era già in Sicilia signore di tutta l’isola e con grandi forze gli correa addosso. Forse più che la perdita del regno in lui potea la stizza, per essere stato deluso. Pure fidandosi delle sue forze a gran pezza superiori alle nemiche, scrisse a re Pietro una lettera, nella quale dopo le maggiori villanie minacciavalo dello stesso destino di Manfredi e di Corradino, se ostinavasi più oltre a cozzar coll’autorità della Chiesa (vedi che avea che fare la Chiesa colle brighe tutte temporali dei papi!) e colla sua alta potenza, che riducea in piano i monti, convertiva in dritto il torto e rendea piane le vie difficili (521). Re Pietro gli rispose di serbar per le lepri e per le rane quelle vane minacce; rimproveravagli le crudeltà e le oppressioni da lui fatte ai Siciliani; diceagli che la morte di Manfredi e di Corradino, di cui tanto vampo menava, erano appunto la sua ignominia, che le lacrime dell’infelice madre di quel re innocente avean finalmente impetrata l’eterna giustizia; che egli era venuto a vendicarlo ed a ripigliare un regno legittimamente dovuto alla sua regina figliuola del re Manfredi, e che quel Dio che avea fin’allora favorito la sua impresa, avrebbe presto fatto sparir dalla terra lui e la sua gente; e che presto vedrebbe qua’ colpi meni il braccio aragonese e qual pro abbia tratto dall’uccisione dei re e dal sangue sparso degl’innocenti (522).
Nè vano era il minacciare di re Pietro, che prima di muover da Palermo, avea dato ordine al suo grande ammiraglio Rugiero di Lauria di unire tutte le galee siciliane alle sue, correre inaspettatamente al faro e distruggervi l’armata angioina. Per tal modo restava re Carlo con tutti i suoi affatto chiuso da tutte le parti e gli era forza rendersi prigione, se non volea perir dalla fame; che in quel suolo stesso occupava, avea rabbiosamente sperperato le campagne. Ma il colpo andò fallito, perchè Arrighino da Genova ammiraglio di re Carlo avuto lingua della mossa del Lauria e del suo disegno, per una spia, che in Palermo tenea, corse a dare avviso al re dell’inevitabile destino che lo aspettava, se tosto non facea ritorno in Calabria. E fu sì opportuno l’avviso, che malgrado la fretta con cui l’esercito angioino imbarcossi, soppraggiunta l’armata del Lauria, molti legni nemici distrusse, molti ne bruciò e ne prese.