Niccolò Palmeri
Somma della storia di Sicilia

SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA]

CAPITOLO XXXI. I. Arrivo di re Pietro in Messina. Disfida intimatagli da re Carlo. — II. Convoca il parlamento in Messina e si reca in Aragona ed in Bordeaux. — III. Assedio del castello di Malta. Battaglia navale guadagnata da Lauria. Il principe di Taranto è arrestato. — IV. Morte di re Carlo, di papa Martino, di Filippo re di Francia e di re Pietro.

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CAPITOLO XXXI.

I. Arrivo di re Pietro in Messina. Disfida intimatagli da re Carlo. — II. Convoca il parlamento in Messina e si reca in Aragona ed in Bordeaux. — III. Assedio del castello di Malta. Battaglia navale guadagnata da Lauria. Il principe di Taranto è arrestato. — IV. Morte di re Carlo, di papa Martino, di Filippo re di Francia e di re Pietro.

I. — Sgombrata del tutto la Sicilia dagli Angioini, re Pietro senza trar la spada entrò trionfante in Messina; ove poco dopo lo raggiunse la regina Costanza co’ tre figli Giacomo, Federigo e Iolanta, lasciato in Aragona il primogenito Alfonso. qui si arrestò la prospera fortuna di quel re. Passato coll’esercito in Calabria, ebbe Reggio ed in più d’uno scontro assai gente nemica prese, assai ne uccise. Al tempo stesso venuto fuori da Messina il prode ammiraglio Lauria datosi ad inseguire l’armata angioina, che in Napoli si ritirava, ne prese quaranta galee.

Non potea l’Angioino sgozzare tanti affronti; e però mandò un cartello a re Pietro, il quale accettò la sfida. Fu convenuto che i due re doveano trovarsi in un giorno posto, menando ognuno seco cento cavalieri, ne’ campi di Bordeaux, luogo che teneasi per entrambi sicuro, per esser quella città posta in provincia allora appartenente ad Eduardo I re d’Inghilterra comun loro cugino; al cui maliscalco fu dato lo incarico di vegliare per impedire qualunque sopruso.

Non era questo un semplice grillo cavalleresco di Carlo; ma visto di non potere stare a fronte dell’Aragonese in aperta guerra, ebbe ricorso a quell’inganno, con animo di allontanarlo dalla Sicilia, onde trovar qualche via di suscitare alcun torbido; e trattolo al luogo della sfida, se non gli veniva fatto di vincerlo lealmente, farlo opprimere a tradimento. Però avea disposto che gran numero di cavalieri francesi, oltre i cento che seco dovea menare, colà si recassero, come per essere spettatori, mentre di presso dovea tenersi Filippo re di Francia, suo nipote, con un’altra banda d’armati.

II. — Re Pietro intanto convocato il parlamento in Messina, ivi espose il motivo della sua partenza; raccomandò alla fedeltà loro la moglie ed i figli; e dichiarò vicario del regno Guglielmo Calcerando, gran giustiziere Alaimo conte di Lentini, cancelliere Giovanni di Procida e grand’ammiraglio Rugieri di Lauria. Gualtieri di Caltagirone, che fra’ primi era stato a promover la rivolta, avea cospirato contro il governo aragonese, ed in pena ne riportò poi una cocomplici l’estremo supplizio.

Giunto il re in Aragona, mentre preparavasi a portarsi in luogo della sfida, ebbe secreto avviso del tradimento cui era per esporsi; laonde, tolto seco un compagno, il quale diceasi ambasciatore del re d’Aragona, mentre il re stesso avvolto in umile sajo da servidore gli tenea dietro, si condusse in Bordeaux. Ivi fatto chiamare il maliscalco del re d’Inghilterra, colui, che fingeasi ambasciatore, in nome suo lo richiese se fosse ivi la pattuita sicurezza. Il maliscalco onoratamente rispose, che in onta ai patti sottoscritti da’ due re e muniti de’ loro suggelli a lui consegnati, tali eran le disposizioni del campo e le forze ivi da re Carlo e dal re di Francia adunate, che, lungi di prometter sicurezza, voleva avvertito il re di Aragona a guardarsi da un soprammano. Allora re Pietro, deposto il sajo, levata la visiera, si fe’ conoscere. Protestò contro la perfidia dell’Angioino. Volle dal maliscalco un’attestato, da lui scritto, d’essersi presentato in campo, e per prova maggiore lasciogli l’elmo, lo scudo, la spada e la lancia. Voltata poi la briglia al cavallo, a passi celeri ritornò in Aragona. I due re si diedero allora ad assordar l’Europa comanifesti, dandosi reciprocamente dello spergiuro e del codardo. Fatto è, quel duello, di cui allora menossi tanto rumore, non ebbe altro effetto che l’adagio ancora comune in Sicilia, di chiamar disfida di Carlo d’Angiò, qualunque affare che si mena in lungo, senza apparenza di venire a fine.

Fremeron di rabbia Carlo e ’l re di Francia di esser loro fallito il colpo; quest’ultimo scrisse una lettera a papa Martino chiedendo la punizione del re d’Aragona nemico della sua famiglia e della Chiesa; e ’l papa, visto che la scomunica già fulminata contro re Pietro era tornata vana, facendo il solito abuso del titolo di vicario di colui, che disse il suo regno non esser di questo mondo, dichiarò re Pietro decaduto dai regni d’Aragona, dei quali fe’ donazione a Carlo figliuolo secondogenito del re di Francia, facendogli la vana promessa di un esercito di crocesignati per ajutarlo.

III. — Ciò non però di manco non venne meno il coraggio di re Pietro e dei suoi; che anzi in quel tempo stesso il prode ammiraglio Lauria riportava splendissima vittoria sui Provenzali. Un’armata provenzale era ita a soccorrere il castello di Malta strettamente assediato da Manfredi Lanza; avutone avviso l’ammiraglio siciliano, or fu sopra. Acremente pugnossi; chè non meno del siciliano era prode l’ammiraglio francese, il quale nel forte della mischia, passato d’un salto sulla galea comandata dal Lauria, con una scure che brandiva cominciò a fare orrida strage. Mentre il Lauria gli correa incontro, un dardo traforatogli un piede, lo fisse al palco della galea e nell’affaticarsi a svellernelo, l’ammiraglio nemico furioso gli venne sopra colla scure levata: ma un sasso scagliato da un galea gliela fe’ cadere e nel chinarsi a riprenderla, il Lauria già svelto il dardo, con quello stesso lo passò dalle reni al petto. Colla morte dell’ammiraglio, cadde l’animo de’ suoi; onde, tranne sei galee, che durante la pugna eransi salvate colla fuga e quelle affondate, tutta l’armata venne in potere de’ Siciliani.

Avea intanto re Carlo fatto ogni sforzo per avere una poderosissima armata; e a tale oggetto avea dato ordine in tutte le città marittime dei suoi stati di apprestare quante galee poteansi e mandarle in Napoli, ove egli dovea presto recarsi con numeroso esercito, per fare un gran colpo sulla Sicilia. Governava Napoli Carlo soprannominato lo zoppo principe di Taranto suo figliuolo primogenito. Non era il governo angioino meno odiato in Napoli che in Sicilia; e però era facile a trovar delatori. Giovanni di Procida, che tante dipendenze avea in quel paese, era venuto in cognizione del piano di re Carlo e d’essere già in Napoli settanta galee: e fecene avvertito il grand’ammiraglio, il quale s’accinse a distruggerle prima di soppraggiungere le altre; con sole quaranta galee presentossi a vele gonfie innanti Napoli, ora provocando i nemici a battaglia, ora scorazzando quelle campagne. In questo gli venne fatto di intraprendere una saettìa, per la quale re Carlo mandava ordine al figlio di non venir mai alle mani coSiciliani prima del suo ritorno. Ritenuto quel legno, il principe, ignaro dell’ordine del padre, stizzito dell’arroganza de’ Siciliani, fidato nella superiorità delle sue forze, salito egli stesso sulla capitana con quanti erano distinti personaggi di Francia e di Napoli, corse animoso sopra l’armata siciliana. L’astuto Lauria al muover dell’armata nemica, finse darsi alla fuga: preso da ciò maggior ardimento, il principe s’affrettava ad inseguirlo e con ciò dilungavasi dal lido e l’armata sua veniva disordinata. Quando l’ammiraglio siciliano vide i nemici affatto disordinati e lontani dalla terra, onde non potevano più essere soccorsi, voltate in un subito le prore attaccò la battaglia. I legni ch’erano più vicini, non potendo essere soccorsi dagli altri, da’ quali si erano assai dilungati, furono o presi o distrutti. Delle galee che più tarde seguivano, le napolitane si volsero in fuga, ma le francesi, animate dalla presenza e dal pericolo del principe combatterono con estremo valore. Lunga e sanguinosissima fu la battaglia; ma il Lauria, fatto buttar in mare un suo marinaro valente notatore, fe’ a lui forare il fondo della galea, sulla quale era il principe, il quale vistosi sul punto di annegare, lontano com’era dal lido, senza speranza di scampo, s’arrese con tutta l’armata. Solo l’ammiraglio tentò salvarsi colla fuga, ma sopraggiunto da una galea catanese, s’arrese anch’egli. Quaranta galee nemiche, il principe ed il fiore della nobiltà francese e napolitana vennero in potere dei Siciliani. L’ammiraglio ivi stesso chiese ed ottenne dal prigioniere la libertà della principessa Beatrice, sorella della regina, la quale sin dallo infelice caso del re Manfredi era stata da re Carlo custodita nelle prigioni di Napoli; ed ora rimessa in libertà venne ad accrescere lo splendore del trionfo.

Riferisce il Villani, che passando l’armata siciliana vittoriosa presso il lido di Sorrento, quei cittadini mandarono al Lauria un presente di frutta. Coloro che le portavano, saliti sulla capitana, si presentarono al principe che non conosceano, e, credutolo l’ammiraglio, gli dissero «Messer l’ammiraglio, goditi questo piccolo presente di Soriento e piacesse a Iddio che come hai preso il figlio, avessi anche preso il padre, e sappi che noi fummo i primi a fuggire.» Il principe a quei detti non potè tener le risa e rivolto all’ammiraglio disse: «Per Dio! costoro sono ben fedeli a monsignore il re» sapea egli che in quel momento stesso, giunta in Napoli la notizia di quella disfatta, il popolo erasi dato a gridare «Muoja re Carlo! Viva l’ammiraglio Loria

Non è da dimandare se il vecchio Carlo fosse stato accorato dalla disgrazia, di cui ebbe notizia mentre scendeva in Italia con nuove forze, pieno l’animo di grandi speranze di riacquistar presto la Sicilia; e con ragione sperava di trovarvi alcun favore all’impresa; dacchè eragli venuto fatto di ribellare Alaimo conte di Lentini, il quale dopo d’essersi tanto affaticato per cacciare i Francesi, sedotto dalla Macalda sua moglie, orgogliosissima femina, la quale a nissun patto volea tollerare esser tenuta da meno della stessa regina, erasi indettato cogli Angioini di levare un tumulto in Sicilia, per facilitar loro l’ingresso nel regno. Scoperta la trama, l’infante Giacomo col pretesto di volere informare il re dello stato delle cose di Sicilia, lo mandò in Catalogna con due suoi nipoti complici della congiura. Appena giunti, re Pietro, di già avvisato dal figlio, li fe’ carcerare, e al tempo stesso carcerati furono in Sicilia l’orgogliosa contessa e gli altri complici.

Il popolo di Messina intanto, creduto il principe di Taranto e gli altri prigionieri a parte della congiura, e forse era vero, tumultuando ne chiedea la morte per vendicare in lui il sangue di Corradino. A malistento potè la regina salvarlo ricovrandolo nel proprio palazzo, e poi per maggior sicurezza lo mandò nel castello di Cefalù. E però, fattosi appena Carlo colla sua armata presso Messina, invece dello sperato favore trovò la minaccia di veder troncata la testa del figlio, se osava metter piede a terra; onde egli, certo che i Siciliani non si sarebbero tenuti alle sole parole, non ebbe cuore di tentar lo sbarco. Si diresse in quella vece all’assedio di Reggio; ma, perdutovi gran tempo invano, levatosene, si diresse in Napoli.

IV. — Giunto in Foggia, oppresso da tanti crepacuori, s’ammalò, ed addì 7 di gennaro del 1285 finì di vivere, lasciato il conte di Artois bailo del regno durante la prigionia del figliuolo. In quest’anno stesso gli tennero dietro al sepolcro papa Martino, il re Filippo di Francia, e lo stesso re Pietro. Strano esempio delle umane vicissitudini! Carlo comincia il suo ingiusto regnare fra lo splendor dei trionfi e le carezze della fortuna: dopo vent’anni finisce di regnare e di vivere oppresso dalle sciagure. Papa Martino, dopo d’avere versato a piene mani scomuniche ed interdetti contro i Siciliani e re Pietro, e suscitategli contro non che le armi di Francia, ma quelle dello stesso fratello di lui il re di Majorca, finì di vivere col cordoglio di vedere i Siciliani più ostinati di prima e ’l suo nemico più fermo sui troni d’Aragona e di Sicilia. Re Filippo, fidato sulla concessione del papa e sulle sue prepotenti forze, teneasi certo della conquista de’ regni di Pietro; al fin dei fatti vi perdè l’esercito, l’armata e la vita. Re Pietro che, da prima nicchiava ad avventurarsi all’impresa di Sicilia, ne vien padrone senz’altro stento che un prospero viaggio: scomunicato dal papa; bandita una crociata contro di lui; dato ad altri i suoi regni, si fa beffe de’ fulmini di Roma, trionfa da per tutto dei suoi nemici, e quando poi è in circostanza d’ottenere una stabile pace, muore e lascia ai figli in retaggio la guerra. Ed intanto l’imperator Bizantino, minacciato dalle forze della miglior parte d’Europa, storna la tempesta e resta ad osservar tranquillo l’incendio d’Occidente: e tale incendio fu suscitato dall’opera d’un soluomo, cui forse re Carlo non si degnava temere. Va e prevedi le vicende del mondo!


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