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SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA] CAPITOLO XXXII. I. Testamento di Pietro d’Aragona. Papa Onorio IV scomunica re Giacomo. — II. Nuovi tentativi sulla Sicilia. Battaglia di Castell’a-mare. Liberazione di Augusta. — III. Assedio del castello di Belvedere e di Gaeta. — IV. Carlo lo zoppo è messo in libertà. — V. Giacomo chiamato al regno d’Aragona. Pace conchiusa da re Giacomo. Si tenta indurre Federigo a consentirvi, che va a trovare il papa. — VI. La Sicilia ceduta agli Angioini. Federigo acclamato re. |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I. — Avea re Pietro disposto nel suo testamento che Alfonso suo primogenito gli succedesse nei regni d’Aragona, di Valenza, nel principato di Catalogna e nel regno di Majorca, da lui tolto al fratello, che unito erasi a’ suoi nemici; e Giacomo regnasse in Sicilia. E che se fosse accaduto che Alfonso fosse venuto a morire senza figli, Giacomo passasse al trono d’Aragona, e l’infante Federigo si avesse il regno di Sicilia.
Breve fu il regno di Giacomo in Sicilia; ma quel regno è assai noto, perchè indi comincia il regolare registro degli statuti de’ parlamenti siciliani, che diconsi capitoli del regno.
Da tali occupazioni di pace fu presto re Giacomo distolto per tornare alle armi. Era succeduto a Martino IV, Onorio IV, il quale, comechè nè francese, nè avverso fosse stato ai ghibellini, pure non meno ostinato mostravasi del suo predecessore nel voler cacciati ad ogni costo gli Aragonesi dal trono di Sicilia: ma la politica della corte romana era già diretta da altro principio che dallo studio delle italiane fazioni. I principi aragonesi, comechè rispettosi si fossero mostrati per la chiesa romana, pure si facean forti sul dritto loro ereditario, ovechè gli Angioini, non avendone altro, facean valere la concession pontificia, e faceanla anche più valere i re di Francia, i quali erano già entrati nell’impegno di acquistar per tal modo l’Aragona e le altre provincie di quel reame. Laonde i romani pontefici, che ad ogni costo voleano allora sostenere il dritto di dare o torre a senno loro i regni, guelfi o ghibellini, che fossero stati, erano ostinatamente avversi ai principi aragonesi. Fu questa la ragione, per cui indi in poi quelle due fazioni vennero mano mano estinguendosi. E per la ragione stessa, quando re Giacomo, coronato appena, mandò in Roma Gilberto di Castellet e Bartolomeo di Neocastro suoi ambasciatori ad offrire al papa la sua obbedienza e chiedergli pace, papa Onorio, non che venisse ad alcuno accordo, rinnovò la scomunica già prima fulminata contro il re e scomunicò del pari il vescovo di Cefalù che lo avea coronato e tutti i prelati che aveano assistito alla funzione; e intanto ripigliò tutte le mene del suo predecessore per facilitare il ritorno degli Angioini in Sicilia.
II. — Il conte d’Artois avea già allestita una numerosa armata per invadere la Sicilia. Una parte di essa comandata da Rinaldo di Velino, giunse inaspettatamente ad Agosta addì 1 maggio 1285, e trovata la città senza difesa e quasi deserta, per esserne la maggior parte de’ cittadini iti alla fiera di Lentini, se ne fece padrone, e le navi tornarono in Napoli per portar nuova gente. Vi corse tosto da Messina re Giacomo, e cinse la città d’assedio. Intanto l’ammiraglio Lauria, che colà era venuto col re, lasciati in quel porto alcuni legni per chiudere agli assediati la via del mare, ritornò in Messina, e rafforzato da cinque altre galee, che mandò il comune di Palermo, comandate da Palmeri Abate, e da quelle di altre città, con quaranta legni andò in cerca dell’armata napolitana, che dovea portare il grosso dell’esercito in Sicilia. Trovolla già pronta in Castell’a-mare presso Napoli. Erano settanta galee, oltre i legni da trasporto. I Siciliani resi arditi per le passate vittorie, e maggiormente incuorati dalla promessa di un grosso donativo fatta loro dall’ammiraglio cominciarono a sfidare a suon di tromba il nemico, il quale, fidato nella gran superiorità delle sue forze venne fuori animoso. Erano sull’armata napolitana, oltre lo ammiraglio i conti di Brenna, di Monforte, d’Avellino, di Monogello, di Aquila, di Sonville e molti altri nobili. Procedeva l’armata gallo-napolitana fiancheggiata da due legni, in uno de’ quali era inalberata la bandiera pontificia e nell’altro quella di re Carlo. La capitana era in mezzo a quattro galee, che la difendevano; ed ognuna di quelle, comandata da alcun di que’ conti, ne avea due ai fianchi. Indi avveniva che lenti e disordinati esser doveano i movimenti di tutta l’armata: ovechè ognuno dei legni siciliani libero nei suoi movimenti, potea occorrere ove il bisogno chiedea. Aggiungasi a ciò che le galee siciliane somministrate dalle città marittime del regno, eran tutte comandate da gente usa al mare; e tutta la marineria era animata dello stesso deciso impegno di vincere o di morire: ma i Francesi eran tutti prodi, ma non tutti esperti in mare; ed i Napolitani eransi nell’altra battaglia dato il vanto d’essere stati i primi a fuggire. Un Guglielmo Trara siciliano, fattosi avanti colla sua galea, venne alle mani con quattro galee francesi, dalle quali fu preso: ma corsero tosto in suo ajuto le galee di Melazzo, di Lipari e di Trapani; a misura che altri legni francesi accorrevano in ajuto dei primi, si fecero avanti le galee di Siracusa, dì Augusta, di Catania e di Taormina, e finalmente quelle di Cefalù, di Terranuova, di Alicata e di Sciacca; il Trara fu liberato; la mischia divenne allora generale, ostinata, sanguinosissima; perchè tutto il resto dei legni siciliani corse sopra l’armata nemica. La valorosa difesa de’ Francesi servì solo a render più gloriosa la vittoria dei Siciliani. Trenta sole delle galee nemiche si salvarono colla fuga: quaranta ne fur prese, e con esse tutti que’ conti che le comandavano, oltre a quattromila gregarî. Tanta commozione produsse in Napoli quella disfatta, che se un solo avesse avuto cuore di alzar la voce, la città si sarebbe dichiarata per re Giacomo. Ben lo temettero il conte d’Artois e ’l cardinal di Parma, legato pontificio, e v’accorsero a tempo; chè l’ammiraglio Lauria, mandati in Sicilia colle prese galee i prigionieri, con trenta galee presentossi avanti quella città, ove, datagli grossa somma di denaro, conchiuse col conte di Artois una tregua in mare di due anni senza averne permesso dal re. Di che ne ebbe poi mala voce da tutti i ministri, e ne avrebbe riportato severo gastigo, se i suoi segnalati servigi e l’amicizia del gran cancelliere Giovanni di Procida, che prese a difenderlo, non lo avessero salvato.
La fortuna fece che il giorno stesso in cui l’armata siciliana riportò quella vittoria presso Napoli, i Francesi, ch’erano in Agosta, ridotti tanto stremi di viveri, che avean mangiato fin la carne de’ loro cavalli e bevutone il sangue per non avere acqua, perduta ogni speranza dell’aspettato soccorso, si resero prigionieri. Eran fra questi il vescovo di Martorana, legato pontificio, ed un frate domenicano, il quale era prima stato mandato in Sicilia con un suo compagno da papa Martino IV per predicar la rivolta. Ambi aveano ricapitate all’abate del monistero di Maniaci le lettere pontificie, per le quali era egli destinato legato in Sicilia con autorità di versare indulgenze a josa a tutti che ribellassero dal governo aragonese. Scoperti, erano stati arrestati: ma Giacomo, che mostravasi sempre rispettoso per la Chiesa, mentre puniva di morte due nipoti dell’abate e pochi altri meschini che s’eran lasciati sedurre, rispettò il carattere ecclesiastico. L’abate mandato prima alle carceri di Malta, poi in quelle di Messina, dopo poco tempo fu mandato libero in Roma: i due frati, non solo ebbero libertà, ma ebbero fatte le spese dei viaggio, e loro si diedero abiti nuovi. Mostraronsi eglino tanto grati, che giuraron pel sacro abito loro di far ogni opera per indurre il papa alla pace. Ma posto appena piede in terra, aveano all’incontro dato ad intendere al conte d’Artois, d’essere in Sicilia un gran partito per la casa d’Angiò, e lo aveano animato a quella spedizione, che tanto dannosa era poi riuscita. Colto l’un di essi, che siciliano era, in Agosta, sfuggì la meritata pena colla volontaria morte, dandosi capo nel muro.
Gli altri prigionieri furon tutti sparsi per le fortezze di Sicilia, e vennero poi ricattandosi con grosse somme di danaro. Tanto calea al conte d’Artois della libertà di Rinaldo Velino, che per lui diede in cambio al re l’isola d’Ischia.
III. — Fatto ardito da tante vittorie, re Giacomo con numerosa armata, sulla quale imbarcò le schiere terrestri, si diresse nel 1288 all’assedio di Gaeta; cammin facendo assediò il castello di Belvedere tenuto da un Rugieri di Sanginato, potente barone di quelle parti, il quale era stato prigioniero del re, ed avea ottenuta la libertà sulla promessa di non pigliar più le armi contro di lui, e per tener la promessa avea lasciato due suoi figliuoli in ostagio. Non per tanto, libero appena, avea con più pertinacia riprese le armi. Stretto d’assedio, avea sulle mura piantate le sue macchine per iscagliar pietre sulla tenda del re. L’ammiraglio Loria allora, piantati quattro remi innanzi la tenda, su vi pose i due figli di Rugieri, credendo così impedire quel trar di sassi; ma, sia che quei remi, mal fermi, fossero caduti per un gran vento che si mosse, sia che l’ostinato barone nulla curando il pericolo dei figli avesse continuato a tirar sassi a furia, i remi caddero e con essi uno dei pargoli estinto. Quel vento stesso portò tal copioso rovescio di pioggia che, mentre il castello era per arrendersi, perchè l’acqua v’era affatto mancata, gli assediati poterono non che dissetarsi, ma farne grandi provviste, e gli assedianti trovaronsi come in un pantano; onde fu forza al re levar l’assedio: ma prima di partire, mosso a compassione della disgrazia accaduta a quel barone, gli mandò libero il figlio superstite e ’l cadavere dell’altro involto in un ricco drappo di seta. Quindi venne il re a Gaeta. Presi e saccheggiati i sobborghi, accampossi in luogo munito. Vi accorse con tutte le sue forze il conte d’Artois, ma trovatone ben fortificato il campo, fermossi indi presso.
Mentre stavan così il conte ad assediare il re, e ’l re ad assediar la città, sopraggiunsero ambasciatori del re d’Aragona e del re d’Inghilterra, per opera de’ quali fu conchiusa una tregua di due anni, durante i quali dovea dal pontefice trattarsi una stabile pace. I due eserciti si ritirarono, ma per rispetto alla dignità del re, il conte decampò tre giorni prima.
IV. — In quell’anno stesso Alfonso re d’Aragona per aver pace dal re di Francia che minacciavalo di nuova guerra, mise in libertà il principe Carlo, già riconosciuto per re sotto il titolo di Carlo II volgarmente chiamato Carlo lo Zoppo. Avea re Pietro prima di morire ordinato al figliuolo Giacomo di mandar quel prigioniere in Aragona: e Giacomo, non potendo negarsi ai comandi del padre, era ito in Cefalù, ove era egli custodito, ed avea ottenuto da lui la promessa, che arrivato al trono, non avrebbe più contrastato a lui o a’ suoi successori il possedimento della Sicilia; che avrebbe dato in moglie all’infante Giacomo Bianca sua figliuola, dandone in dote qualunque diritto su questo regno. Un’altra di lui figliuola dovea sposare l’infante Federigo, colla dote del principato di Taranto e della contea di Monte Sant’Angelo, un dì patrimonio del re Manfredi. E finalmente Filippo secondogenito del principe dovea menare in moglie Violante, sorella dell’infante; e per maggior sicurezza obbligavasi a lasciare in ostaggio in mani di re Pietro tre de’ suoi figliuoli sino all’adempimento de’ patti, e giurò sopra i santi evangeli di osservar tale promessa.
Giunto dopo ciò in Aragona, avea trovato morto re Pietro e ritirato l’esercito francese: e però Alfonso avealo ritenuto prigione. Minacciato poi di nuovo dalla Francia, era venuto a liberarlo, ricevuti in vece di lui tre de’ suoi figliuoli in ostaggio; obbligandosi a tornare volontariamente prigione, se ivi ad un’anno non si fosse conchiusa la pace tra la Francia, l’Aragona e la Sicilia.
Sedea allora sul trono pontificio Niccolò III; a lui presentatosi Carlo in Rieti, ed espostogli la convenzione fatta in Cefalù e ’l suo giuramento, il papa gli vietò di tener la promessa, e coronollo re di Sicilia; perlocchè si venne di nuovo alle armi. Nuova tregua si conchiuse l’anno appresso, durante la quale l’ammiraglio Loria, per non lasciare oziosa l’armata, con sedici galee recossi in Levante, e carico di spoglie di schiavi saracini e di cristiani liberati tornò in Sicilia.
V. — Nell’anno 1290, spirata già la tregua, re Giacomo era passato in Calabria per compire la conquista di quella provincia, di cui una parte era stata già prima sottomessa. Ivi gli giunse la notizia d’esser morto il suo fratello Alfonso senza prole; onde fatto subito ritorno in Sicilia, convocato il parlamento, vi pubblicò la notizia della morte del fratello; mostrò la necessità di accorrere a dar sesto al nuovo regno, protestò il suo amore pe’ Siciliani: ma non lasciò, come dovea, il regno al fratello Federigo, lasciò bensì costui suo vicario per governarlo in suo nome, e partì.
Il buon Federigo, che allora contava appena diciott’anni, e fe’ mostra di sgozzare il torto, nè parlò del suo diritto al regno; perchè assai erano i baroni catalani, ed aragonesi venuti col padre, o chiamati dal fratello, i quali si sarebbero certamente opposti ad ogni sua pretensione: ma in quella vece cominciò con sagace politica a careggiare il popolo.
Giunto in Aragona, Giacomo, sopraffatto dai rigiri di papa Bonifazio VIII e dalle minacce di Filippo il bello re di Francia che apprestava un grand’esercito per far valere la concessione fatta dai papi de’ regni di Aragona e Carlo conte di Valois suo fratello, lasciossi indurre a sottoscrivere un trattato di pace tra lui, il papa, re Filippo di Francia, re Carlo di Napoli e ’l conte di Valois. Repudiata la figliuola del re di Castiglia, colla quale avea contratto sponsalizio, Giacomo menò in moglie Bianca figliuola di re Carlo, e die’ libertà ai tre figliuoli di lui che in ostaggio tenea: Carlo di Valois rinunziò a qualunque dritto sui regni d’Aragona; re Carlo per compensarnelo cesse a lui le contee d’Angiò e di Manese in Francia; e per compensare re Carlo, Giacomo cesse a lui la Sicilia; ed a tali patti papa Bonifazio lo assolvè dalla scomunica.
Restava intanto il più grave intoppo a superare, quello cioè d’indurre anche l’infante Federigo a rinunziare volontariamente al trono. Per venirne a capo il pontefice, mentre trattavasi in Aragona l’accordo, colto il destro dell’avere lo infante non guari prima spediti a lui Manfredi Lanza e ’l giudice Rugieri di Geremia, per congratularsi della sua esaltazione e mostrargli desiderio di pacificarsi con la romana corte, gli scrisse una lettera tutta dolce ed amorosa, nella quale dopo una lunga diceria invitavalo a venirlo a trovare, per trattar di presenza un’affare di gran momento; e per meglio conchiuderlo gli proponea di condur seco il gran cancelliere Giovanni di Procida, il grand’ammiraglio Rugieri di Lauria ed altri prodi e distinti siciliani (523).
Avuta quella lettera, Federigo la trasmise al comune di Palermo, chiedendone il parere. La risposta reca veramente onore ai Palermitani e mostra non volgari essere le idee de’ Siciliani in quell’età. Lo avvertiscono in primo luogo a non fidarsi nella sicurtà promessagli dal pontefice; gli rammentano che i cittadini di Montefeltro e di Urbino, e tutti coloro che avean prese le armi per re Manfredi, dopo d’averle deposte con solenne promessa di perdono, furon tutti messi a morte. Pensasse alla costante inimicizia dei romani pontefici pe’ re di Sicilia; alle ingiuste guerre mosse all’imperator Federigo e al re Manfredi; alla morte di Corradino, che a loro deve accagionarsi; dacchè: Error, cui non resistitur, approbatur; ai sommi sforzi da loro fatti per cacciare il re Pietro e ’l re Giacomo da un trono loro legittimamente dovuto. Non si spaventasse del detto del pontefice, impossibile essere il pugnare contro Dio; chè Dio è sempre da quella parte, ov’è la giustizia. Nè vostro padre, soggiungeano, nè vostro fratello, nè voi, nè noi avremmo riportate tante vittorie, se Dio non fosse stato manifestamente per noi; siamo stati spesso un contro mille, e pure ne siamo sempre usciti vittoriosi, perchè Dio e la giustizia combattevan per noi (524).
Nè contenti al solo scrivere, mandarono i Palermitani Niccolò Maida e i due giudici Pietro di Filippo, e Filippo di Carastono per maggiormente distorlo da quella gita. Ciò non per tanto Federigo volle andare, menando seco il gran cancelliere e ’l grand’ammiraglio. Trovò il pontefice in Velletri. La tenera età dell’infante, la sua bellezza, l’esser egli da capo a piedi vestito d’armi, fecero gran sensazione a papa Bonifazio che molta esperienza avea nel conoscer gli uomini. Tesogli le mani al volto, baciollo in fronte dicendogli: «Buon figliuolo, in così tenera età se’ già uso alle armi? » Poi volto all’ammiraglio «Siete voi» disse «quel nemico della Chiesa, la cui spada tanta gente ha messo a morte?» «Colpa di vostra santità e de’ suoi predecessori» colui con militar franchezza rispose. Tratto poi in disparte l’infante, a lui propose di fargli avere in moglie Caterina di Courtenay unico rampollo di una famiglia che avea momentaneamente avuto l’impero di Costantinopoli, onde era stato cacciato Baldovino avo di lei dai Paleologhi, che tranquillamente regnavano, mentre i Courtenay erranti in Europa tapini conservavano il voto titolo d’imperadori di Costantinopoli. Faceagli il papa grandi offerte di armare tutti i regni di Europa per fargli ricuperar quell’impero, se egli avesse rinunziato ad ogni dritto al trono di Sicilia. L’accorto Federigo ne uscì, come suol dirsi, per lo rotto della cuffia, rispondendo al pontefice che avrebbe dato il suo assenso quando avrebbero adempito alla promessa tutti quei principi, che dovean pigliar parte a quella impresa. Sciolta così la conferenza, l’infante fe’ ritorno in Sicilia ove era di già arrivata la notizia del trattato conchiuso da Giacomo, e della cessione da lui fatta della Sicilia a Carlo lo Zoppo.
VI. — Nessuno da prima prestò fede a tal notizia; intantochè i più cospicui baroni, e particolarmente i Catalani e gli Aragonesi, credutala una menzogna sparsa ad arte da Federigo per farsi strada al trono, si ritrassero ne’ loro castelli con animo di opporsi a tale impresa, per non mancare alla fede promessa a Giacomo. Dall’altra mano molti de’ baroni e de’ sindici dei comuni riunitisi in Palermo addì 11 di dicembre 1295 proclamarono re Federigo; e destinarono tre dei sindaci come ambasciatori della nazione a Giacomo, onde avere una notizia legale della cessione da lui fatta.
Giunti i messi siciliani in Aragona e chiesto del fatto Giacomo, palesò loro la verità. Allora i messaggieri alla presenza di tutta quella corte sì protestarono contro tal cessione, e dichiararono che, poichè re Giacomo avea senza consenso della nazione renunziato il regno, i Siciliani si teneano sciolti da ogni dovere verso di lui, e liberi di darsi un re a posta loro. Giacomo, non che assentì a tal dichiarazione, ma permise che se ne fosse fatta pubblica scrittura. Prima di ripartire poi quegli ambasciatori, chiamatili in privato, raccomandò loro la regina Costanza sua madre e la principessa Violante sua sorella. «Per Federigo», soggiunse «nulla ho a da dirvi; egli è cavaliere, sa quel che deve fare: e voi Siciliani conoscete il dover vostro.» Fatta così certa la rinunzia di Giacomo, cessarono le fazioni, tutti concorsero nel voto d’esaltare l’infante Federigo al trono, e a tale oggetto fu convocato il parlamento in Catania, ove, perchè più solenne apparisse il voto della nazione, Federigo chiamò, oltre i sindaci, sei cittadini dei più distinti per nobiltà, per virtù, per sapere e per facoltà di ogni comune (525). Ivi l’infante a voti unanimi fu acclamato re, e fu designato il giorno dell’imminente Pasqua per coronarsi in Palermo.