Niccolò Palmeri
Somma della storia di Sicilia

SOMMA DELLA STORIA DI SICILIA]

CAPITOLO XXXIII. I. Nuovi tentativi del papa contro Federigo, che è coronato re. — II. Sue prime imprese. — III. Primo disgusto del Loria col re. — IV. Altre imprese di Federigo. Altri tentativi del papa contro i Siciliani. — V. Altre vittorie dell’ammiraglio. — VI. Abboccamento di Giacomo e Federigo distornato. — VII. Il Loria si divide dai Siciliani.

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CAPITOLO XXXIII.

I. Nuovi tentativi del papa contro Federigo, che è coronato re. — II. Sue prime imprese. — III. Primo disgusto del Loria col re. — IV. Altre imprese di Federigo. Altri tentativi del papa contro i Siciliani. — V. Altre vittorie dell’ammiraglio. — VI. Abboccamento di Giacomo e Federigo distornato. — VII. Il Loria si divide dai Siciliani.

I. — Intanto era venuto a notizia di papa Bonifazio che non tutti i baroni aveano aderito alla prima elezione di Federigo fatta in Palermo; indi avea concepito speranza di trarre alla sua tutta la nazione. Spedì in Sicilia un Bonifazio di Calamandrano, dell’ordine degli Ospedalieri di San Giovanni, uomo destro e nelle politiche mene assai valente. Costui venuto in Messina cominciò a sciorinare delle cartapecore in bianco, munite solo del suggello papale, offrendo a tutti di scrivervi su quali privilegi od esenzioni avessero voluto, purchè tornassero al dominio dell’Angioino: ma fattoglisi avanti Pietro Ansalone, gli disse aver già la nazione eletto re l’infante Federigo; e, tratta la spada soggiunse «I Siciliani non colle pergamene, ma colla spada vogliono acquistare la libertà: e a te ne va della vita, se tosto non isgombri il paese quello se lo fe’ dire due volte.

Allora re Giacomo prevedendo che una rottura era per seguire tra lui e ’l fratello, ordinò a tutti i baroni aragonesi, che in Sicilia erano, di far ritorno in Aragona; alcuni obbedirono, i più persuasi da Blasco Alagona e da Ugone de Empuriis restarono presso il nuovo re.

Giunta in questo la Pasqua, addì 24 aprile del 1290 il re fu con maravigliosa pompa coronato in Palermo. In tale occasione egli armò cavalieri di sua mano trecento nobili, ai quali concesse terre, castella, contee, feudi e cospicui impieghi. Seguirono poi giostre, tornei ed altre maniere di pubbliche feste. Ma ben altre cagioni ebbero allora i Siciliani di gioire.

Sceglievan essi a lor posta quel sovrano, esercitando questa suprema facoltà per la seconda volta. In questa isola vedean essi accertata la sede del governo e tolta l’influenza di un regno maggiore straniero e lontano. Conoscevan per prova qual principe di alta mente e di gran cuore si fosse Federigo; e quindi scorgevano in lui con giubilo l’amorevol padre, l’ottimo monarca, l’invitto guerriero, che difender li poteva dagli incessanti travagli del superbo Angioino e dal geloso rancore del re Giacomo dimentico del fratello e del loro antico affetto. Le più belle speranze tenean desto a nuova vita il cuore dei Siciliani; queste andaron fallite. Perocchè Federigo, sin dal primo istante che, cinto il diadema, fu salutato re, pubblicò sapientissime leggi; raddoppiò le sue cure verso i novelli suoi sudditi; secondò i voti della nazione, confermandole le antiche franchigie ed altre nuove ed interessanti accordandole giurò di non lasciar mai quest’isola, di tentar maneggi con la romana corte, senza la espressa volontà e il consenso dei suoi popoli; riordinò i magistrati; rese più spedita la giustizia; assoggettò i giudici ad un sindacato di uomini probissimi; raddrizzò insomma ogni ramo di civile amministrazione.

Composto così l’ordine pubblico, il re salito sul trono, avendo a destra ed a manca i grandi del regno e di fronte i rappresentanti del popolo, dichiarò se esser pronto a correr qualunque rischio, a durar qualunque fatica per dare ai Siciliani sicurezza e pace; esser venuto il momento di metter alla prova l’amor suo pei Siciliani; avere re Carlo cinto d’assedio Roccaimperiale in Calabria, con animo d’aspettar l’esercito siciliano per venire a campal battaglia; e però chiedea intorno a ciò il parere del parlamento. Guerra tutti ad una voce gridarono: e ’l re mosse tosto da Palermo per Messina, onde prepararsi alla guerra.

L’età, la bellezza, gli eroici sentimenti del re, i modi suoi tutti popolari, le preziose franchigie concesse aveano esaltato gli animi dei siciliani e spinto al colmo l’amore della nazione per lui. Termini, Polizzi, Nicosia, Randazzo e tutte le città, per le quali ebbe a passare, gareggiarono nelle splendide accoglienze e nelle dimostrazioni di giubilo: ma soprattutte si distinse Messina (526).

II. — Messa celeramente in ordine l’armata, il re salitovi su, valicò il faro e corse a raggiunger l’esercito capitanato da Blasco Alagona, il quale avea già cinto d’assedio Squillaci. Forte era la terra per sito e per arte. Il re, fatto accostar l’armata, le chiuse la via del mare; e disposto intorno intorno l’esercito, fece da due forti bande guardare i due fiumi, che lambivan le alte rupi, sulle quali la città era posta. Gli assediati, che altronde non aveano onde trarre acqua corsero a respingere una di quelle squadre comandata da Matteo di Termini; ma ne furono con grave perdita respinti. Però nulla giovando loro la fortezza del sito, furon dalla sete costretti ad arrendersi.

Indi si diresse il re ad assediar Catanzaro. Vi comandava lo stesso conte di Catanzaro Pietro Ruffo, con iscelta mano di gente provata. Era costui uno dei più bellicosi e potenti signori di quella provincia, e molta parte avea avuto alla catastrofe di Manfredi e di Corradino. L’impresa era da molti tenuta impossibile. Il re, fatto alto alla Roccella, sei miglia di lungi, chiamò a consiglio i suoi capitani. Era fra questi il grand’ammiraglio stretto congiunto del conte; e però volea risparmiargli l’affronto dl una disfatta e ’l pericolo di cader prigione nelle mani del re. Con tale intendimento imprese a distogliere il re dal tentar quell’assedio, mettendo avanti la forte posizione della terra, il valore del conte, le numerose schiere da lui adunate, per cui non era sperabile aver la città d’assalto, e l’assedio avrebbe tratto in lungo d’assai; onde tenea miglior consiglio dirigersi contro Cutrona e’ circostanti paesi, che non poteano opporre molta resistenza: e al fin de’ fatti quel conte, visto d’ogn’intorno già sottomessa la provincia, si sarebbe di per se stesso arreso.

Gli altri capitani, i quali capivano a qual fine colui intendesse, facean broncio, ma non osavan contraddirlo, per paura che se l’impresa fosse fallita, non ne fossero da quel superbo proverbiati. Ma il re, che non meno degli altri conoscea il pensiere di lui, rispose che nel sottomettere i popoli era sempre da cominciare dai più potenti, vinti i quali, la plebe di per se si arrende; ovechè mostrando paura di questi, ardito si fa il volgo, ed oppone quella resistenza che non s’aspettava. Rammentò il detto di Cesare: In plebem vetat manus, monstratque senatum: e conchiuse con ordinare al grand’ammiraglio di apparecchiare pel domane le macchine da guerra per l’assalto: ed incontinente, fatto marciare l’esercito si pose ad oste attorno la città. Era questa tutta cinta da ertissime rupi che le facean difesa, solo dal lato del castello era una estesa pianura che ne avrebbe reso facile l’accesso, se non fosse stato difeso da un profondo fossato. Qui il re s’accampò ed ordinò di colmare quel fossato: e a tale oggetto egli stesso diemano col suo coltello a tagliare gli alberi e gli arbusti, che in quei campi erano. In poco d’ora il fossato fu colmo. Il domane al far del giorno fu dato il segnale dell’assalto. Tale era l’ardore della truppa animata dall’esempio e dal valore del re, che quelle rupi tenute inaccessibili furono in breve superate dalla gente di mare, mentre lo esercito batteva senza intoppo il castello. Quel conte allora, perduto ogni speranza di difesa, fe’ cenno d’accostarsi al grand’ammiraglio, che comandava una banda degli assalitori, dicendogli: «De per lo comun sangue nostro ti scongiuro, non far che la terra sia presa di forza. Pensa che la mia disfatta, la mia prigionia farebbero un frego a tutta la famiglia.» Il Loria, fattogli cenno di silenzio col dito, correndo di qua e di fra combattenti, dava da per tutto ordine di sospender la pugna: poi recatosi a tutta lena in presenza del re, gli disse essere inutile lo sparger sangue più oltre, che il conte mostravasi pronto a venire a patti. Il re rigettò da prima la proposta. Gli stavan sul cuore la costante nimicizia di quel conte e ’l sangue di Manfredi e di Corradino, che gridava vendetta: pure, generoso com’era, lasciossi piegare. Il conte giurò di render la terra e tutta la contea colle castella in essa comprese e le loro munizioni, se fra quaranta giorni re Carlo, non fosse venuto in loro ajuto.

La sommissione del conte di Catanzaro, come il re avea ben preveduto, indusse tutti gli abitanti di quella provincia, che terra Giordana allora diceasi, a rendersi agli stessi patti, tranne il feroce Locifero arcivescovo di S. Severino, di cui dice lo storico Speciale, che invece di sacrificare a Dio la sacra ostia e ’l divin sangue, immolava ai principî temporali la carne degli uomini e ’l loro sangue colle sue man spremuto.

Mentre che stavasi ad aspettare lo spirar di quella tregua, il re tratto dall’amenità del sito andò a fermarsi coll’esercito presso Cutrona. Intanto per soccorrere Rocca-imperiale strettamente assediata dal conte di Monforte il re ordinò al grand’ammiraglio di accorrervi e tentare ogni via per introdurre nella piazza que’ viveri, di cui scarseggiava. Il Loria, lasciate colà dodici galee sotto il comando dell’ammiraglio Pietro Salvacoscia da Ischia, tolta sulle navi una mano di cavalieri e di scelti fanti, colà si diresse. Ivi fu sopraggiunto da fratArnaldo Ponzio, priore di sant’Eufemia. Era costui degno emulo dell’arcivescovo di S. Severino. Rinnegata la povertà e la vita eremitica, di cui avea fatto voto a S. Giovanni, datosi al mestiere dell’armi, facea in quelle parti la guerra per re Federigo. Colla costui direzione il grande ammiraglio, posta una gran quantità di frumento ed altro camangiare in groppa ai cavalieri e indosso ai fanti, nel silenzio della notte l’introdusse in città. Fornita quell’impresa, portossi a sorprendere Policuri. Ivi, come in luogo sicuro, avea il nemico riposto i viveri e quanto gli facea mestieri in quella guerra; ed oltre ai cittadini vi avea lasciati a guardia cento soldati; ma colti all’improvviso, pochi ne poterono scappare, gli altri una colla roba caddero in potere del grand’ammiraglio, il quale carico di prigioni e di prede si diresse a Cutrona.

Mentre tali fatti seguivano e l’esercito siciliano stava ozioso sotto le mura di Cutrona ad aspettare lo spirar della tregua, accadde una rissa fra i cittadini di Cutrona e i soldati francesi che v’eran di guarnigione. Si venne alle mani: si combattè per le strade. Alcuni dei cittadini d’in sulle mura chiamarono in soccorso i Siciliani. I marinari delle dodici galee colà rimasti, senza curar la tregua, vaghi di preda vi accorsero; i Francesi respinti da per tutto si ritrassero nel castello; ma furon presi da tale spavento che non seppero opporre resistenza; onde quel castello in un attimo fu preso dai marinari inermi e posto a sacco ed a ruba. Era nel meriggio: il re dormiva nella sua tenda. Svegliatosi in sussulto alle grida, saputane la cagione, inerme com’era, presa la sola spada corse in fretta per far ritirare i suoi, ma non fu a tempo. I marinai già ritornavano carichi di preda. Visto il re, altri si ascosero, altri, deposta la preda, fuggirono, altri sopraggiunti da lui, di sua mano fur messi a morte. Per riparare il male, fece restituire tutta la roba presa; di quella, che non potè rinvenirsi, ne pagò del suo il prezzo, contentandosi della semplice assicurazione de’ Francesi: e, come molti di costoro erano stati uccisi nel conflitto, volle che per ogni Francese ucciso, fosse data la libertà a due di quelli, ch’erano prigioni sulle sue galee. E per fare che Pietro di Regibal, che avea comandato in quella fortezza, coll’avanzo della guarnigione avessero potuto con sicurezza ridursi a Napoli, fattili montare su d’una delle sue galee, li diresse al grand’ammiraglio, cui dienotizia dell’accaduto, ordinandogli di mettere in libertà e consegnare al Regibal i prigionieri francesi in compenso de’ morti.

III. — Il grand’ammiraglio in ricever quella notizia e quell’ordine montò sulle furie, parendogli di figurare in ciò da spergiuro. Superbo ed intollerante com’era, invece d’obbedire, corse furioso a Cutrona, presentossi al re e, baciatogli appena la mano, disse esser noti al mondo i servizî da lui resi a’ re d’Aragona sin da che cominciarono a tenere il trono di Sicilia; ed esser noto del pari che in tutti gl’incontri incontaminata era sempre stata la sua fede. Francesi, Provenzali, Greci, Arabi, barbari, Mauritani, Spagnuoli ed altre nazioni lo avean sempre trovato leale nelle sue promesse. Aver egli conchiusa e giurata la tregua di quaranta giorni col Regibal, il quale, mentre riposava sicuro sulla fede da lui data, si vede assalito repentinamente, spogliato d’ogni suo avere, cacciato dalla piazza. Se fosse dopo ciò continuato nel comando, avrebbe potuto esser complice del tradimento; indi in poi nessuno avrebbe avuto più fede in lui; e però deponeva il comando per ritirarsi a vita privata nella sua terra di Castiglione. Ed allora vedrassi, conchiuse, quanto vale Ruggieri di Loria.

Il re, che altronde non avea animo da tollerare l’insolenza altrui, punto da quel superbo parlare, per cui veniva a darsi a lui la taccia di sleale e di spergiuro, gli rispose «Se grandi a sono stati i vostri servizî non meno grandi ne sono state le ricompense. Ma, perchè mostrate di non conoscere ancora l’animo mio, vi voglio avvertito, che se alcuno dei più famosi fra gli antichi eroi tornasse in vita e facesse per me l’acquisto di tutti i regni della terra, non però lo tollererei con animo docile, se avvelenasse con anima superba i suoi servizî. Vi duole o mostrate dolervi del caso di Regibal: ma Dio è testimone, che in ciò io non ebbi alcuna parte. Sa tutto il campo che io tinsi la mia destra del sangue dei miei sudditi per riparar l’accaduto, e tutto il campo sa ciò che feci per ristorare il danno sofferto da’ Francesi. Dato ancora che in ciò vi fosse stato manco di fede, mia e non vostra ne sarebbe l’infamia; che voi avete giurato sull’anima mia, (giuravano allora i sudditi sull’anima del re). Fate ciò v’aggrada, andate ove volete, ma ricordatevi sempre che la mano di Dio castiga i superbi

Ciò detto mostrando di non curarne più oltre, cavalcò a diporto per quelle campagne. Ma fattosi avanti Corrado Lanza, cognato del Loria, uomo d’alto senno, cominciò a pregarlo a perdonare il cognato: egli stesso si presentò mostrandosi pentito dell’ardire. Il re piegossi, ma restò all’altro una gozzaja, se pure non avea già da alcun tempo prima covato il malanimo. Ciò non per tanto rimbarcatosi tornò al soccorso di Rocca-imperiale; e il re vi si diresse per terra coll’esercito. Avutone lingua il conte di Monforte, non istette ad aspettarli e decampò.

IV. — Liberata così quella piazza, il re volse le armi contro Sanseverino, ove comandava quel feroce arcivescovo, il quale fidando nella fortezza della città, preparossi ad una ostinata resistenza. E veramente così munita era la città, che vano sarebbe stato ogni sforzo per averla d’assalto. Ma il re, fatto difender le sorgenti, onde i cittadini attingean l’acqua, li ridusse in breve a chieder patti: la ferocia dell’arcivescovo sbaldanzì: si rese allo stesso partito del conte di Catanzaro e degli altri; solo potè ottenere di render la piazza dopo due mesi, se non avesse in detto termine avuto soccorso da re Carlo.

Ciò fatto, venne il re sottomettendo tutto il paese sino a Rosano. Giunto avanti quella città, le intimò la resa. I cittadini negaronsi e si prepararono a gagliarda difesa. Il re diemano a devastare le loro campagne. La città spaventata da questo solo, senza venire ad altra prova aprì le porte.

Intanto re Carlo, malgrado le vive istanze del conte di Catanzaro e degli altri, visto disperato il caso della Calabria, amò meglio abbandonarla, per restringer tutte le sue forze a custodire le spiaggie di Puglia: laonde scorsi i termini convenuti, tutta quella provincia venne di queto in mani del re.

Ma non era questa la sola ragione, per la quale l’Angioino lasciava allora libero il corso alle armi di re Federigo. Stava egli aspettando l’esito de’ maneggi di papa Bonifazio, il quale indispettito di non essergli venuto fatto di trappolare il re, che ritornato in Sicilia, senza far caso delle vane promesse di lui, avea solennemente ricevuto la corona, ebbe ricorso al solito compenso delle scomuniche e degli interdetti; dichiarò nulli tutti gli atti fatti dal parlamento per la proclamazione e coronazione di Federigo; contento a tutto ciò, che certo poco valea a distorre dal loro proponimento il re ed i Siciliani, a forza di minacce indusse lo stesso re Giacomo a stringersi in lega con lui e con l’Angioino, per cacciar di forza re Federigo dal trono. E a tale oggetto venuto Giacomo in Roma, il papa lo elesse capitan generale della spedizione, in apparenza diretta contro i Saracini, nel fatto contro la Sicilia.

Era ancora nel 1297 Federigo in Calabria, quando venne un frate domenicano, mandato a lui da re Giacomo, il quale tutto lieto in volto gli disse che il papa per l’esaltazione della religione cristiana e la gloria della fede avea scelto re Giacomo a gonfaloniere, ammiraglio e capitan generale della romana chiesa. Esser venuto il tempo che tutti i regni d’Europa uniti contro i nemici della religione dovessero riposare in pace tra essi sotto la tutela della Chiesa. A tale oggetto il re Giacomo lo invitava a recarsi nell’isola d’Ischia per comporre tra loro l’accordo: ma avvertivalo che se si fosse negato ad andarvi, non potea egli nella sua qualità di capitan generale della Chiesa negarsi a portar le armi ovunque il capo della Chiesa avesse ordinato e fino nel seno della madre, nella gola del fratello, nelle viscere de’ figli.

Il re, nel ricever quel messaggio, stato alquanto sopra pensieri, chiamò i suoi capitani a consiglio, e tutti allibirono a quell’annunzio. Ma il re con volto sereno cominciò a riprovare la loro pusillanimità, dicendo che non sempre tutte le minacce recavansi ad effetto, massime ove siano inique. E quali iniquità, soggiunse, maggiori a quella d’allegarsi un mio fratello co’ nostri nemici e volger le armi contro di me e contro di voi, cui tanto deve. Ma, fate cuore; Iddio ci ajuterà: non è possibile che l’eterna giustizia protegga tanta iniquità. Però fu stabilito di ritornar subito in Sicilia, convocare il parlamento e sentirne il parere.

Con tale intendimento, lasciato Blasco Alagona suo vicario per continuar la guerra in Calabria, il re venne a Messina e convocò il parlamento, designando la città di Piazza per luogo della sua riunione.

V. — Intanto il grand’ammiraglio, trovato già sciolto l’assedio di Rocca-imperiale, drizzò le prore alle spiaggie di Puglia. Posto piede a terra colla sua gente innoltrossi sino a Lecce, ed assalitala nel cuor della notte, gli abitanti poterono appena scappare ignudi, lasciando preda dei Siciliani tutto l’aver loro, che fu trasportato alle navi. Carico com’era, si diresse il Loria ad Otranto. Le mura ed ogni maniera di munizione n’erano stati demoliti sin dai tempi del re Manfredi; que’ cittadini, furono presi da tanto timore all’apparire dell’armata siciliana, che senza oppor difesa o chieder patti s’arresero. E il grand’ammiraglio trovatone il sito opportuno, tornò a fortificarla, e lasciatovi presidio, si diresse a Brindisi. Era ivi giunta poco prima una banda di seicento cavalieri francesi, i quali allo avvicinarsi dell’armata siciliana si posero in agguato, il Loria, cauto com’era, conoscendo il sito atto alle insidie, sbarcata la sua gente, la vallò con palizzate ed altre maniere di ripari, e poi si die’ a devastar quelle belle campagne, per le quali correva un fiume, con sur esso un ponte. Quei cavalieri, che stavan sopra i guastatori, tratti dall’amenità del paese, dilungatisi da essi, passato oltre il ponte, dieronsi a passeggiare per que’ campi e per quelle fonti. Il Loria, quasi presago del soprastante pericolo, spronato il ronzino, corse a loro, per farli ritornare di dal fiume. In quel momento, sbucati i Francesi, corsero per occupare il ponte, onde, restando i cavalieri divisi dai guastatori, lontani dal campo e dall’armata, dovettero rendersi prigioni, e già Goffredo di Joinville loro capitano, con un suo nipote, seguiti da tutta la schiera avea occupato più che la metà del ponte. Pellegrino di Patti e Guglielmo Palotta, volendo spender la vita per salvare i compagni, corsero soli ad opporsi a tutta la schiera nemica. E ben lor venne fatto, chè feriti in più parti, coperti di sangue, non fu possibile a’ Francesi svellerli dal posto, finchè il Lauria, lasciato il ronzino, salito sul destriere, seguito da tutti gli altri accorse a rinfrescare la mischia, che il solo coraggio potea render pari; dacchè il numero dei Siciliani era a gran pezza inferiore a quello dei nemici. Pure la pugna, non che ostinata, era spaventevole innanzi ad ogni altra; chè non le sole armi davan la morte, ma per la ristrettezza del ponte ad ora ad ora, quinci e quindi, molti de’ combattenti precipitati dal ponte annegavan nel fiume. Joinville scontrossi corpo a corpo col Lauria. Prodi ed esperti nell’armi, com’eran del pari, lunga pezza si batterono senza vantaggio dell’uno o dell’altro. Finalmente il francese alto levò la mazza per accoppare il siciliano: questi trattogli di punta, gli fe’ un profonda ferita nel volto. Non ne morì: chè anzi vie più inferocito, per istringere maggiormente il nemico, die’ di sproni al destriero, il quale, focoso come era, mise un salto, cadde e nel risorgere traboccò dal ponte, ed una col cavaliere fu assorto nei vortici del fiume. In questo sopraggiunse una banda d’arcieri siciliani, i quali cominciarono dalla sponda a saettare i Francesi, questi scuorati dalla perdita del capitano, perdute le speranze di cacciare i cavalieri siciliani dal ponte, vistisi anzi in pericolo di perirvi senza difesa, si volsero in fuga: ma pochi camparono. Molti nella confusione caddero dal ponte, ed anche più ne furon fatti prigioni.

VI. — Ottenuta quella vittoria, il grand’ammiraglio tornò al campo co’ suoi. Ivi gli giunse un messo del re che ordinavagli di ritornar tosto in Sicilia per assistere al parlamento. Giunto in Messina, quel frate, che avea portato il messaggio del re Giacomo, gli ricapitò una lettera dello stesso re, nella quale gli raccomandava di fare ogni opera perchè seguisse l’abboccamento al quale avea invitato già il fratello: ed egli che forse naturalmente inclinava più dalla parte del maggior fratello che del minore, particolarmente dopo il fatto di Cutrona, accettò volentieri lo incarico, e si die’ a persuadere i baroni e i sindici de’ comuni del vantaggio dell’abboccamento proposto fra’ due fratelli. Dall’altra parte Vinciguerra Palici, Matteo di Termini ed altri baroni facean vedere il pericolo che il minor fratello intimorito o sedotto dal maggiore, non li abbandonasse. Radunato il parlamento, il più de’ ragionari fu contro la gita del re: ma levatosi il grand’ammiraglio, disse grande esser la potenza del re d’Aragona, e se egli veniva ad accomunar le sue forze con quelle degli altri nemici, la Sicilia non avrebbe scampo; avere essa sino a quel punto potuto resistere per la superiorità delle forze navali, ma, perduta questa, perchè maggiori sono in ciò le forze dell’Aragona, le città marittime del regno ne sarebbero state arse o saccheggiate, e quelle entro terra obligate ad arrendersi senza difesa: non essere altro compenso che il correr tutti a gettarsi a’ piedi di re Giacomo; chè forse l’aspetto del fratello supplice potrebbe distoglierlo dal proponimento: potersi dire che l’onore del re nol comporterebbe; conciossiachè non sarebbe sdicevole che il minor fratello s’acchinasse al maggiore. Ma l’ostinarsi nel contrario parere porterebbe la conseguenza della perdita delle principali forze del regno; dachè tutti i baroni aragonesi e catalani dovrebbero ritrarsi, per non divenire, giusta le consuetudini di Aragona e di Catalogna, rei di alto tradimento, col pigliar le armi contro il loro signore.

Quel discorso destò come un ronzio in tutta l’adunanza, pochi ad alta voce osavan contraddirlo, molti sommessamente ne mormoravano; talmentechè in quella tornata nulla potè conchiudersi. Il giorno appresso il re aprì la scena in questi sensi: «Quando due persone hanno preso partito riciso in contrario, il loro abboccamento può solo tornare a male, con inasprire maggiormente gli animi loro. Tale è lo stato delle cose tra me e mio fratello: egli s’è unito ai nostri nemici contro di noi, e certo per lo mio pregare od altrui non deporrà tal pensiero; io ho giurato sparger tutto il mio sangue in vostra difesa, e venga che può, terrò il giuramento. A qual pro adunque l’incontrarci? Che parli tu, Rugieri, di consuetudini di Aragona? Nacqui aragonese anch’io: vorresti forse per ciò accagionarmi d’alto tradimento, se impugno le armi contro quel re? Ma tu ben sai, ben lo sapete voi tutti, che finchè ressi la Sicilia da suo vicario, comechè questo regno a me sin d’allora si sarebbe appartenuto, pure sgozzai il torto e lo rispettai qual mio signore. Ma quando poi egli, unitosi ai nostri nemici, cesse loro ogni dritto sulla Sicilia, la sua cessione potea valere pei dritti suoi, non pei miei; e la nazione tutta, facendomi giustizia (e tu, tu il primo, che gran parte vi avesti), elevommi al trono. Allora tutti i vincoli fra noi e lui furon rotti. S’egli viene ora ad attaccarci, vorrai tu dire che le leggi d’Aragona interdicono ai Siciliani il pigliar le armi in difesa delle mogli, de’ figliuoli, dei beni, della patria? Per coloro poi, i quali dall’Aragona e dalla Catalogna vennero a stanziare in Sicilia, non è già ch’eglino vi vengano a cercar guerra col loro signore, ma trasmigrarono da gran tempo, ned erano eglino servi addetti alla gleba di quei regni, in modo che fosse stato loro vietato di mutar patria. Se ora viene il re d’Aragona ad attaccar la patria loro adottiva ed ei la difendono, non per questo potrebbono chiamarsi traditori. Traditori bensì saranno coloro, che si negano a pigliar le armi e seguirmi per la difesa della patria.» Così fra gli applausi generali l’adunanza fu sciolta, il re fe’ ritorno in Messina e ’l messo di re Giacomo si partì.

VII. — Intanto posavan le armi. Solo un attacco ebbe luogo tra cinque galee siciliane che a difesa stavano dell’isola d’Ischia e nove grosse barche napolitane, delle quali cinque fur prese e quattro fuggirono: di che re Carlo ebbe tale onta, che ne fe’ impiccar per la gola i quattro comandanti. Ma le politiche mene continuavano. Re Giacomo chiamò a se, ignorasene il perchè, il grande ammiraglio: e questi, avuta la lettera, suggellata, com’era, presentolla al re. Apertala e lettone il contenuto, il grand’ammiraglio cominciò a promettere che avrebbe fatto opera per distorre re Giacomo dal proponimento. Corrado Lanza, cognato di lui approvò la proposizione; il re, non che diegli licenza, ma gli permise di portar seco due galee per provvedere di viveri e di munizioni i suoi castelli di Loria e Badulato in Calabria. Ma quando si fu partito, gli emuli suoi cominciarono a soffiar negli orecchi del re che il Loria erasi secretamente buttato dalla parte di re Giacomo, ciò che altronde, ove si ponga mente ai fatti antecedenti ed a quelli in appresso seguiti, non pare improbabile. Fatto fu che ritornato egli e presentatosi al re in Messina, nel volergli baciar la mano, il re sdegnosamente la ritirò, cominciò a rimproverargli il tradimento e conchiuse ordinandogli di rendersi prigione. Nessuno degli astanti osò porgli le mani addosso; pure ei, fremendo di rabbia si ritrasse in un angolo della sala. Interpostisi allora il conte Manfredi Chiaramonte e Vinciguerra Palici, che in grande stato erano appo il re, si fecero per lui mallevadori, e ’l re l’ accettò. Ma egli venuto appena fuori del real Palazzo, corse in tutta fretta alle sue castella (era egli signore di Novara, Tripi, Ficarra, Castiglione, Aci e Francavilla ed altri luoghi) e pose ogni studio a munirli sollecitamente e fortificarvisi. Una guerra intestina parea di mettere il colmo ai pericoli ond’era minacciata la Sicilia.

Fortunatamente in quel momento la regina Costanza disponevasi a partire per Roma, ove era stata chiamata da re Giacomo una colla principessa Giolanda sorella di lui, per celebrare le pattuite sponsalizie tra la principessa e Roberto duca di Calabria, figliuolo di re Carlo. Essa dimandò al re il permesso di condur seco non che il grand’ammiraglio Loria, ma il gran cancelliere Giovanni di Procida, e, come anche della costui fede il re dubitava, condiscese alla richiesta della madre. Ma il Loria prima di partire lasciò ordine ai custodi de’ suoi castelli ed a tutta la gente sua di obbedire a suo nipote Giovanni di Loria, quando che egli si trovasse nel castello di Castiglione. Egli intanto già determinato ad oscurar tutta la sua gloria con un tradimento, giunto appena in Roma, corse a Napoli per accontarsi con re Carlo, e ritornò in Roma, per combinare con re Giacomo il piano della guerra. Giacomo tornò in Aragona per allestire una grande armata; il Loria salito sur un veloce naviglio, si diresse per la Sicilia, forse con animo di levar qui una guerra intestina. Il re, avutone lingua, fe’ mettere in agguato alcune galee all’isole Eolie per intraprenderlo. Giunto in quelle alture, avvistosi di quei legni, si volse per fuggire, e, forse favorito dai comandanti di essi, gli venne fatto di ridursi salvo in Napoli.

Giovanni suo nipote allora, forse consapevole dei disegni dello zio, comechè assai amato fosse dal re, come colui che nato era ed educato in corte, corse a Castiglione ed ivi levato lo stendardo della rivolta, tentò prima di ribellare Randazzo, e non venutogli fatto, saccheggiò la piccola terra Mascali. Contro lui il re si diresse con grandi forze. Assediò Castiglione e dopo lunga resistenza finalmente l’ebbe a patto di andarne Giovanni ed i suoi immuni in Calabria. Francavilla era già stata presa da’ Messinesi. Il castello d’Aci fe’ più lunga difesa, come quello che posto sur altissima rupe non temea l’assalto e ben provveduto era di viveri e d’ogni bisognevole. Pure tali furon le macchine dal re poste in opera, che finalmente i difensori, certi che il Loria non potea venire in loro soccorso, s’arresero. Così Rugieri di Loria dopo una gloriosissima carriera perdè in un momento l’onore e le vastissime possessioni a lui largite dai re di Sicilia. Egli intanto giunto in Napoli, avuta da re Carlo una mano di soldati, corse in Calabria e si die’ a ribellare quelle città, quale di forza, quale colla frode. Chiamato a colloquio Blasco d’Alagona, tentò con grandi promesse sedurlo: di che avuto avviso il re, l’Alagona richiamò in Sicilia. Unitosi allora il Loria con Pietro Ruffo già conte di Catanzaro, corsero ad assalir quella terra, la quale, per mancanza di fortificazioni, s’arrese: ma la guarnigione del castello pattuì di renderlo, se ivi ad un mese non veniva altro soccorso. Inteso di ciò il re, rimandò Blasco Alagona in quelle parti accompagnato a Guglielmo Calcerando e Guglielmo Raimondo Montecateno: ma per la strettezza del tempo potè appena dar loro dugento soldati. Giunsero essi il penultimo giorno ch’era per ispirar la tregua, e vi trovarono il Loria, il conte di Catanzaro, un Reforziato da Provenza ed altri nobili con quattrocento soldati. Malgrado il numero tanto inferiore, i Siciliani si prepararono alla battaglia. La notte l’Alagona ebbe avviso da un esploratore d’essere entrato nella terra un Goffredo di Mili con altri trecento soldati: a tale avviso, senza mutar volto, consiglio, prevenne l’esploratore di non farne motto per non iscuorare i soldati. Il Loria avea diviso tutta la sua gente in tre schiere. La prima, comandata da lui stesso, dovea attaccar la battaglia, Reforziato attaccare in fianco i Siciliani e da ultimo il Mili compir la rotta. Alagona, che poca gente avea, la strinse in un corpo, nel cui centro si pose egli stesso e destinò il Calcerando a comandare l’ala destra e ’l Montecateno la sinistra. Un Martino di Oletta con un pugno di gente scelta, fu posto avanti colle bandiere, come per antiguardo, e pose a fianchi della sua truppa i galeotti ed un corpo d’irregolari milizie che Almogaveri allora diceansi, per impedire che il nemico pel maggior numero della sua gente non lo circondasse. Il Loria colla sua schiera corse impetuosamente ad attaccare i Siciliani, ma trovò quella resistenza che non s’aspettava. Non che il corpo principale del piccolo esercito siciliano; ma quei pochi, ch’erano avanti, non cessero un palmo di terreno. Sopraggiunse Reforziato e corse a guadare un fiume per attaccare in fianco i Siciliani, ma ne fu con grave perdita respinto a furia di sassi. Allora divenne più presto nociva che utile la superiorità del numero; chè tutti i combattenti nemici doveano a forza restringersi nella lunghezza del fronte dei Siciliani; onde il Mili, tra per questo e la sorpresa e forse anche il timore, stette quasi inoperoso. Intanto Loria ed Alagona faceano mirabili prove. Quello teneasi sicuro della vittoria pel maggior numero dei suoi e perchè uso a vincer sempre; teneasene sicuro l’altro pel fronte serrato della sua schiera e perchè non sapea cedere. In questo il Loria ferito, mortogli il cavallo sotto, ebbe a ritirarsi. Allora Alagona spinse alcuni de’ suoi ad attaccare il banderajo nemico, il quale fe’ da prima gran resistenza, ma ricevuto gravi ferite in volto, tenendo già estinto il comandante, volse le terga. Colse quel destro Alagona per gridare «A noi, soldati; la vittoria è nostra.» A quel grido i soldati raddoppiaron d’ordine e di veemenza: gridavano essi indistintamente Aragona e Alagona; e tal bisticcio fe’ credere al Mili di esser due le schiere de’ nemici, onde, tenendosi in pericolo d’essere accerchiato, si volse in fuga il primo, ed a lui tenne dietro il resto dell’esercito. La notte sopraggiunta impedì al comandante siciliano d’inseguire i fuggitivi. Molti de’ nemici caddero in mano de’ Siciliani, anche più ne fur morti. Loria gravemente ferito si ascose nella siepe di un vigneto; se n’avvide un suo soldato di nome Pietro Satallata, il quale gli die’ il suo cavallo per cercar di salvarsi nell’oscurità della notte dicendogli «se resto io preso, potete ricattarmi, se muojo serbate la ricompensa a’ miei erediAmbi si salvarono, Loria fu ingrato: chè donò a quel soldato di grandi possessioni sue nel regno di Valenza. Catanzaro tornò in potere di re Federigo.

Giunto in presenza di re Carlo il Loria dopo questo disastro, orgoglioso e sprezzante com’era, gli disse «Signore: i vostri soldati ed i capitani francesi, che menan gran vampo del loro valore, mi hanno lasciato solo nella mischia, datisi vilmente a fuggire. Sperate invano vincere i Siciliani coProvenzali e Francesi. Affrettate piuttosto i soccorsi di re GiacomoRe Carlo si die’ allora a spogliar tutte le chiese de’ loro tesori, e con tal danaro cominciò ad assoldare Francesi, Aragonesi, Calatani, Guasconi, Italiani ed altra gente di ventura, colla quale si stette ad aspettare la venuta di re Giacomo.





526 Vedi in fine la nota XLVIII.



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