Guy de Maupassant
Bel Ami

PARTE PRIMA

III

«»

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III

 

 

            Giunto sul marciapiede, Georges Duroy rimase un attimo incerto, non sapendo neppur lui che fare. Aveva voglia di correre, di sognare, di camminare a caso pensando al proprio domani e respirando l'aria mite della notte; ma lo preoccupavano gli articoli che gli aveva chiesto zi' Walter, e decise di rincasare subito per mettersi al lavoro.

            S'avviò di buon passo, raggiunse il boulevard esterno, e lo seguì fino a Rue Boursault dov'abitava. Lo stabile, di sei piani, ospitava venti famiglie d'operai e di impiegatucci, e nel salire rischiarando al lume d'un cerino gli scalini sporchi e ingombri di pezzetti di carta, di cicche, di bucce, fu preso da un violento senso di nausea e sentì impellente il bisogno d'uscir di , di avere anche lui una casa come quella dei ricchi, una casa pulita, piena di tappeti. Un tanfo opprimente di cucina, di gabinetti e di umanità, un lezzo stagnante di sporcizia e di vecchi muri, che nessuna corrente d'aria avrebbe potuto spazzar via, riempiva l'ambiente da cima a fondo.

            La camera del nostro giovanotto, al quinto piano dava, come su un profondo abisso, sull'immenso trincerone della ferrovia ovest, proprio a strapiombo sull'imboccatura del tunnel, vicino alla stazione delle Batignolles. Duroy aprì la finestra e s'appoggiò alla ringhiera di ferro arrugginito.

            Sotto di lui, in fondo al buio fossato, tre dischi rossi, fissi, sembravan gli occhi di un mostro; e altri se ne scorgevan più in , e altri ancora, ancor più lontani. Ad ogni istante, fischi prolungati o brevissimi attraversavano la notte, vicini alcuni, altri appena percettibili, che giungevano di laggiù, dalle parti di Asnières. Avevano delle modulazioni come di voci che si chiamano. Uno di questi s'avvicinò, lanciando di continuo il suo appello lamentoso che andava crescendo d'attimo in attimo, e ben presto apparve una forte luce gialla che correva con gran frastuono; e Duroy rimase a guardare il lungo rosario di vagoni imbucarsi nella galleria.

            Infine disse fra sé e sé: «Su, al lavoroPosò il lume sul tavolo, ma al momento di mettersi a scrivere s'accorse d'avere in casa soltanto una busta di carta da lettere.

            Pazienza, avrebbe aperto i fogli usandoli in tutta la loro ampiezza. Inzuppò la penna nel calamaio e scrisse con la sua più bella calligrafia:

           

            Ricordi d'un cacciatore d'Africa

           

            Poi cercò l'inizio della prima frase.

            Se ne stava immobile con la fronte appoggiata al palmo della mano, gli occhi fissi sul foglio bianco che aveva davanti.

            Che dire? Non ricordava più nulla, ora, di quanto aveva raccontato poco prima, non un aneddoto, non un fatto, niente. Gli venne d'improvviso un'ispirazione: «Devo cominciare dalla mia partenza.» E scrisse: «Eravamo nel 1874, verso la metà di maggio, allorché la Francia stremata stava riprendendo fiato dopo le catastrofi dell'anno terribile...»

            Ma si fermò di botto, non sapendo come introdurre il seguito, cioè l'imbarco, il viaggio, le prime emozioni.

            Dopo dieci minuti di riflessione, decise di rimandare all'indomani il «cappello» introduttivo, e d'attaccar subito con una descrizione d'Algeri.

            E vergò sulla carta: «Algeri è una città bianca bianca...» senza venire a capo d'altro. Rivedeva con la mente la bella città luminosa, che come una cascata di case piatte ruzzolava dal monte al mare, ma non trovava una parola per esprimere quanto aveva visto, ciò che aveva sentito nell'animo.

            Con un grande sforzo aggiunse: «È abitata in parte da arabi...» poi scaraventò la penna sul tavolo e si alzò.

            Sul suo lettuccio di ferro, avvallato, in mezzo, dal peso del suo corpo, scorse i vestiti d'ogni giorno buttati , vuoti, logori, flosci, laidi come stracci dell'Obitorio. E su una sedia di paglia il cappello a cilindro, l'unico suo cappello, rovesciato come per accogliere l'elemosina.

            Sulle pareti, tappezzate di carta grigia a mazzolini azzurri, le macchie non eran meno numerose dei fiori, macchie vecchie, sospette, di natura indefinibile, insetti schiacciati o gocce d'olio, ditate di ceretta o schizzi di saponata provenienti dalla catinella del lavamano. Tutta roba che sapeva di miseria, l'umiliante miseria delle camere ammobiliate di Parigi. Esasperato, provò un senso di ribellione contro la povertà della sua vita. Doveva uscir subito di , pensò, finirla dall'indomani stesso con quell'esistenza meschina.

            Ripreso ad un tratto da una gran voglia di lavorare, si sedette di nuovo al tavolino, e riandò a caccia di frasi per descrivere lo strano e affascinante volto di Algeri, anticamera dell'Africa misteriosa e profonda, l'Africa degli arabi errabondi e dei negri sconosciuti, l'Africa inesplorata e tentatrice, con quegli incredibili animali che ci mostrano talvolta ai giardini pubblici, e che sembrano creati pei racconti delle fate, gli struzzi, stravaganti polli, le gazzelle, caprette divine, le sorprendenti e grottesche giraffe, i cammelli così compassati, i mostruosi ippopotami, gli informi rinoceronti, e i gorilla, orrendi fratelli dell'uomo.

            Gli venivano confusamente delle idee; le avrebbe forse sapute dire, ma non riusciva assolutamente a esprimerle per iscritto. E poiché quell'impotenza gli dava quasi la febbre, si alzò di nuovo, con le mani madide di sudore e il sangue che gli martellava alle tempie.

            Lo sguardo gli cadde sul conto della lavandaia, portato su, quella stessa sera, dal portinaio, e all'improvviso fu colto da una nera disperazione. Tutta la sua allegria scomparve all'istante, in una con la fiducia in se stesso e con la fede nell'avvenire. Finito; era tutto finito; non avrebbe combinato nulla; non sarebbe diventato nessuno; si sentiva vuoto, inetto, inutile, condannato.

            E tornò ad affacciarsi alla finestra, proprio mentre un treno sbucava dal tunnel con un fracasso improvviso e violento. Se ne filava via per campi e pianure, laggiù, verso il mare. E Duroy provò una fitta al cuore pensando ai genitori.

            Quel convoglio sarebbe passato vicino a loro, a poche leghe appena dalla loro casa. La rivedeva col pensiero, la casetta in cima al colle che domina Rouen e l'immensa vallata della Senna, all'ingresso del villaggio di Canteleu.

            Suo padre e sua madre gestivano un caffeuccio, una bettola dove la domenica andavano a desinare i bravi borghesi dei sobborghi: «Bella vista», si chiamava il locale. Avrebbero voluto far del loro figliolo una persona distinta, e l'avevano messo in collegio. Giunto all'ultimo anno senza riuscire a prendere la licenza, lui s'era arrolato con l'intenzione di diventare ufficiale: colonnello, generale. Ma disgustato della vita militare ancor prima d'aver finito i cinque anni di ferma, aveva sognato di far fortuna a Parigi.

            Ci s'era trasferito, appena congedato, nonostante le preghiere del padre e della madre che ora, svanito il loro sogno, avrebbero voluto tenerselo a casa. Ma era lui, adesso, a nutrire speranze per l'avvenire, a intravedere già il proprio trionfo, grazie ad eventi che certamente avrebbe provocati e assecondati, anche se ancora confusi nella sua mente.

            Sotto le armi, aveva avuto qualche successo di guarnigione, facili avventurette galanti ma anche qualche avventura in un ambiente più fino, come quando aveva sedotto la figlia d'un esattore che voleva a tutti i costi piantar baracca e burattini per seguirlo, o la moglie d'un avvocato che, abbandonata, tentò d'affogarsi per la disperazione.

            I suoi compagni dicevano di lui: «È un dritto, un furbacchione, uno che ci sa fare e che riuscirà a sbrogliarsela.» E questo s'era appunto ripromesso d'essere: un dritto, un furbacchione, uno che ci sa fare.

            La sua coscienza originaria di normanno, strapazzata dalla pratica quotidiana della vita di guarnigione, stiracchiata dal cattivo esempio delle ruberie in Africa, dei guadagni illeciti, delle soperchierie equivoche, nonché sferzata dalle idee d'onore che hanno corso nell'esercito, dalle bravate militaresche, dal patriottismo, dalle belle imprese che si raccontano fra loro i sottufficiali e dalla vanità professionale, era diventata una specie di scatola a triplice fondo, dove si trovava un po' di tutto.

            Ma la smania d'arrivare vi regnava sovrana.

            Senza avvedersene s'era rimesso a fantasticare, come ogni altra sera. Stava sognando una splendida avventura d'amore che, di botto, traduceva in realtà le sue chimere. Si sposava con la figlia d'un banchiere o d'un gran signorone, incontrata per la strada e per rimasta cotta di lui.

            Il fischio stridulo d'una locomotiva; che sbucata sola dalla galleria, come un conigliolone dalla tana, filava a tutto vapore sulle rotaie per andare a riposarsi in deposito, lo richiamò sulla terra.

            Ma riafferrato subito dal vago e ridente miraggio che di continuo lo struggeva, lanciò a caso un bacio nella notte, un bacio d'amore diretto all'immagine della donna attesa, un bacio di desiderio diretto alla fortuna agognata. Poi chiuse la finestra e cominciò a spogliarsi mormorando:

            «Bah, domattina mi riuscirà più facile. Non ho la mente sgombra, stasera. Eppoi, forse ho anche bevuto un po' troppo. Si lavora male in queste condizioni

            Si coricò, spense il lume e s'addormentò quasi subito.

            Si svegliò presto, come succede sempre nei giorni di viva speranza o preoccupazione, e saltato giù dal letto aprì la finestra per bersi, come amava dire, un bel tazzone d'aria fresca,

            Le case di Rue de Rome, dirimpetto, oltre il largo fossato della ferrovia, tutte un barbaglio nel sole sorgente, sembravano spalmate d'una candida luminosità. A destra, in lontananza, si scorgevano i colli d'Argenteuil, le alture di Sannois e i mulini d'Orgemont in una nebbiolina azzurrata e leggera, simile a un velo ondeggiante e trasparente teso sull'orizzonte.

            Duroy rimase per qualche minuto a guardare la campagna lontana, e mormorò: «Si deve star fottutamente bene, laggiù, in una giornata come questa.» Poi si ricordò che doveva, e subito, mettersi al lavoro, e che doveva anche mandare il figliolo della portinaia, previo un mezzo franco di mancia, ad avvertire in ufficio che lui si sentiva male.

            Sedette al tavolino, inzuppò la penna nel calamaio, appoggiò la fronte al palmo della mano e si mise in cerca d'idee. Fatica vana. Non gliene veniva nemmeno una.

            Ma non si perse d'animo. Pensò: «Bah, non ci sono avvezzo. È un mestiere che bisogna imparare come ogni altro. Devono aiutarmi, le prime volte. Andrò da Forestier, che mi metterà in piedi l'articolo in dieci minuti

            E si vestì.

            Quando fu per la strada, gli parve che fosse ancora un po' prestino per presentarsi dall'amico, che probabilmente dormiva fino a tardi. Si mise perciò a gironzolare passo passo sotto gli alberi del boulevard esterno.

            Non erano ancora le nove, e giunse fino al parco Monceau, tutto bagnato e fresco della recente annaffiata.

            Sedutosi su una panchina, riprese a fantasticare. Un giovanotto gli passeggiava davanti su e giù, molto elegante, certo in attesa d'una donna.

            La vide spuntare, velata, a passettini svelti; prese il braccio di lui, dopo una breve stretta di mano, e s'allontanarono.

            Un tumultuoso bisogno d'amore punse il cuore di Duroy, un bisogno d'amori raffinati, profumati, delicati. Si alzò e si rimise a camminare pensando a Forestier. Quello si ch'era fortunato!

            Giunse al portone dell'amico proprio sul punto in cui questi ne usciva.

            «To', a quest'ora! Che c'è?»

            Duroy, confuso dall'averlo incontrato così mentre se ne stava andando, balbettò:

            «C'è... c'è... c'è che io l'articolo non riesco a metterlo insieme; sai, quell'articolo sull'Algeria che m'ha chiesto Walter. Del resto, non c'è da stupirsi troppo, dato che non ho mai scritto un rigo. Ci vuol pratica anche in questo, come in ogni altra cosa. Ci farò presto l'osso, ne sono sicuro, ma per prender l'avvio non so da che parte rifarmi. Le idee ce l'ho, ce l'ho tutte, ma non riesco ad esprimerle

            Si fermò, un poco esitante. Forestier sorrideva malizioso:

            «L'ho provato anch'io.»

            Duroy riprese: «Già, deve capitare a tutti, le prime volte. Be', ero venuto... ero venuto per dirti se puoi darmi una mano... In dieci minuti, tu, potresti mettermi in piedi l'articolo, indicarmi per qual verso va preso. Sarebbe una bella lezione di stile; altrimenti, senza di te, non so proprio come ne caverò le gambe

            L'altro continuava a sorridere divertito. Diede un colpetto sul braccio all'ex compagno d'armi, e gli disse:

            «Va' su da mia moglie, è brava quanto me e ti sistemerà la faccenda. L'ho allenata, in questo genere di lavori. Io stamani non ho tempo, sennò l'avrei fatto io ben volentieri

            Duroy, d'un tratto intimidito, esitava, non ardiva:

            «Ma non posso mica presentarmi da lei a quest'ora!...»

            «Ma ti dico di sì. È già alzata. La troverai nel mio studio, sta riordinandomi certi appunti

            L'altro non voleva salire.

            «No... non posso...»

            Forestier gli mise le mani sulle spalle, lo fece girar sui tacchi, e spingendolo verso le scale: «Ma vai,» gli disse, «vai, minchione che non sei altro; se sono io, a dirti d'andare! Non vorrai mica costringermi a rifar tre piani per annunziarti e spiegare di che hai bisogno

            Allora Duroy si decise: «Ti ringrazio, andrò. Ma le dirò che sei stato tu a obbligarmi, letteralmente a obbligarmi

            «Ma sì, e non ti mangerà per questo, sta' tranquillo. Piuttosto, non dimenticarti questo pomeriggio alle tre.»

            «Oh, non temere

            E Forestier se n'andò tutto frettoloso, mentre Duroy prese a salir lentamente, uno scalino dopo l'altro, cercando nel suo cervello le parole da dire e preoccupato dell'accoglienza.

            Gli aprì il domestico. Aveva un grembiule turchino e la scopa in mano.

            «Il signore è uscitodisse senza aspettar la domanda. Duroy insisté: «Chiedete alla signora Forestier se può ricevermi, e ditele che mi manda suo marito. L'ho incontrato per via

            Restò ad aspettare. L'uomo tornò, aprì un uscio a destra, e annunciò: «La signora l'attende

            Era seduta su una poltrona da ufficio, in una stanzetta con le pareti interamente nascoste dai libri ben allineati su scaffali di legno nero. Le rilegature di tinte diverse, rosse, gialle, verdi, viola e turchine, ponevano una nota gaia di colore in quel monotono schieramento di volumi.

            Si voltò, sorridente come al solito, avvolta in una vestaglia bianca ornata di pizzi; e gli porse la mano, mostrando il braccio nudo nell'ampia svasatura della manica.

            «Già qua?» disse. Poi aggiunse: «Non è un rimprovero, è una semplice domanda

            Lui balbettò: «Oh, signora, io non volevo salire; ma suo marito, che ho incontrato giù, m'ha costretto. Sono così confuso che non riesco nemmeno a dire perché son venuto.»

            Lei indicò una sedia: «Si sieda e mi dica

            Rigirava agilmente tra le dita una penna d'oca, con davanti un gran foglio di carta scritto a metà, essendo stata interrotta dalla venuta del nostro giovanotto.

            Pareva esser nel suo, a quel tavolo da lavoro, a proprio agio come in salotto, intenta a un'ordinaria incombenza. Un profumo lieve alitava dalla vestaglia, il fresco profumo della toilette recente. E Duroy cercava d'indovinare, gli pareva di scorgere il corpo luminoso, pieno e caldo, delicatamente avvolto nella morbida stoffa.

            Poiché lui non parlava, ripeté: «Su, mi dica, di che si tratta

            Incerto, Duroy mormorò: «Ecco... ma per la verità... io non ho il coraggio... Iersera ho lavorato fino a tardissima ora... e stamattina... mi sono alzato molto presto... per scrivere l'articolo sull'Algeria che m'ha chiesto Walter... e non ho approdato a nulla di buono... ho stracciato tutti i miei tentativi... Non ci sono abituato, io, a questo genere di lavori; ed ero venuto per chiedere a Forestier d'aiutarmi.. per questa volta soltanto...»

            Lei lo interruppe ridendo di cuore, felice, divertita, lusingata: «E le ha detto di venir da me?... Carino...»

            «Sì, m'ha detto che lei m'avrebbe tolto d'impiccio meglio di lui... Ma io, io non osavo, non volevo. Mi creda

            La signora Forestier si alzò: «Sarà simpaticissimo collaborare insieme. È un'idea che mi entusiasma. Su, si sieda al mio posto, al giornale conoscono la mia calligrafia. Imbastiremo un articolo ma di quelli, un articolo che sarà una cannonata

            Lui sedette, prese una penna, si spiegò davanti un foglio, e restò in attesa.

            Rimasta in piedi, lei lo guardò fare tutti quei preparativi, poi, allungata una mano, prese sul caminetto una sigaretta e l'accese.

            «Se non fumo non riesco a lavoraredisse. «Su, cosa vuole scrivere

            Lui sollevò il capo, sorpreso.

            «Ma è proprio quello che vorrei sapere. Son venuto qui apposta

            «Ma certo,» si riprese lei. «Le cucinerò io la faccenda. Le preparerò l'intingolo; ma mi ci vuol la pietanza

            Lui continuava a starsene , imbarazzato; infine disse, esitante: «Vorrei raccontare il viaggio, fin dall'inizio

            Allora lei gli si sedette davanti, all'altro capo dell'ampia tavola, e guardandolo negli occhi: «Su,» lo esortò; «racconti prima a me, soltanto per me, pian pianino, senza scordarsi nulla; e io sceglierò quel che c'è da prendere

            Ma visto che lui non sapeva da dove rifarsi, cominciò a interrogarlo come fa il prete al confessionale, con domande precise, atte a ricordargli particolari sfuggitigli, personaggi incontrati, volti appena intravisti.

            Dopo averlo costretto, così, a parlare per un breve quarto d'ora, lo interruppe di colpo: «Adesso possiamo cominciare. Facciamo finta, intanto, che lei debba scrivere le sue impressioni a un amico, così sarà libero di dire un sacco di sciocchezze, di far tutte le osservazioni che vuole, d'apparir naturale e, speriamo di farcela, divertente. Cominciamo:

            «Caro Henry, vuoi saper cos'è l'Algeria, e lo saprai. Poiché in questa baracchetta di fango che mi fa da abitazione son disoccupato, t'invierò una specie di diario della mia vita, scritto giorno per giorno, ora per ora. Sarà un po' spinto, qualche volta, ma pazienza, non sei obbligato a mostrarlo alle signore di tua conoscenza...»

            S'interruppe per riaccendere la sigaretta spenta, e subito lo stridio garrulo della penna d'oca sul foglio cessò.

            «Proseguiamodisse lei.

            «L'Algeria è una vasta terra francese ai confini di vaste regioni sconosciute che si chiamano il deserto, il Sahara, l'Africa centrale, ecc., ecc.

            «Algeri è la porta, la porta bianca e affascinante, dello strano continente.

            «Senonchè bisogna prima arrivarci, e il viaggio non è certo rose e fiori per chiunque. Io sono, lo sai, un ottimo cavallerizzo, ammaestro i cavalli del colonnello, ma si può essere ottimi cavalcatori e pessimi marinai. È il caso mio.

            «Ricordi l'ufficiale medico Simbretas, quello che noi chiamavamo dottor Ipecacuana? Quando ci stimavamo maturi per un ventiquattr'ore d'infermeria, noi, beato paese, si marcava visita.

            «Quello se ne stava seduto su una sedia con le sue coscione divaricate nei calzoni rossi, le mani sulle ginocchia e le braccia ad ansa, coi gomiti in fuori, e strabuzzava gli occhi bovini mordicchiandosi i baffi bianchi.

            «Ricordi la sua prescrizione:

            «"Questo soldato soffre d'un disturbo di stomaco. Somministrategli il vomitativo n. 3 secondo la mia ricetta; poi dodici ore di riposo; gli passerà."

            «Era un rimedio sovrano, quel vomitativo, sovrano e travolgente. Lo si buttava giù, perché così si doveva fare. Poi, una volta passati attraverso la ricetta del dottor Ipecacuana, si godeva delle ben meritate dodici ore di riposo.

            «Ebbene, mio caro, per raggiungere l'Africa bisogna subire, per quarant'ore, un'altra sorta di vomitativo travolgente, secondo la ricetta della Compagnia Transatlantica

            La signora Forestier si diede una fregatina di mani, felice della sua trovata.

            Si alzò e si mise a passeggiare dopo aver acceso un'altra sigaretta, e dettando sbuffava il fumo in fili sottili che, dapprima, uscivano diritti diritti da un buchetto tondo formato dalle sue labbra strette, poi s'allargavano, svaporavano lasciando qua e , nell'aria, delle strisce grigie, una specie di nebbia trasparente, una velatura come d'una ragnatela. Ogni tanto, con la mano aperta, cancellava quelle leggere tracce, le più persistenti; oppure le tagliava con l'indice, standosene poi a guardare, con la più seria attenzione, i due monconi d'impercettibile vapore sparir lentamente.

            E Duroy, col naso in aria, ne seguiva tutti i gesti, tutti gli atteggiamenti, tutti i moti del corpo e del volto in quel vago gioco che non le impegnava la mente.

            Adesso stava descrivendo le peripezie della traversata, tratteggiava il profilo di qualche compagno di viaggio di sua invenzione, e imbastiva un'avventura galante con la moglie d'un capitano di fanteria che andava a raggiungere il marito.

            Poi, sedutasi, chiese a Duroy qualche ragguaglio topografico sull'Algeria, al cui proposito era assolutamente a digiuno. Le bastaron dieci minuti per saperne quanto lui, e buttò giù un capitoletto di geografia politica e coloniale per informare il lettore e per permettergli di capire i gravi problemi che sarebbero stati sollevati nei successivi articoli.

            Proseguì con un'escursione nella provincia d'Orano, una passeggiata tutta di fantasia, dove più che altro si parlava di donne, di maure, di ebree, di spagnole.

            «È l'unica cosa che interessidisse.

            Terminò con una sosta a Saida, appiè degli altipiani, e con un simpatico intrighetto amoroso tra il sottufficiale Georges Duroy e una spagnola della manifattura dell'alfa di Ain-el-Hadjar. Descrisse gli appuntamenti, di notte, sul monte sassoso e brullo, mentre gli sciacalli, le jene e i cani arabi urlavano, latravano e ululavano fra le rocce.

            «Il resto a domaniesclamò ilare. Poi aggiunse, alzandosi: «Ecco come si scrive un articolo, caro il mio signore. Firmi, per piacere

            Lui tergiversava.

            «Ma firmi, su!»

            Si mise allora a ridere, e scrisse in calce alla pagina:

            «GEORGES DUROY».

            Mentre lei continuava a fumare e ad andar su e giù, il nostro giovanotto se ne stava a contemplarla senza riuscire a trovare una parola di ringraziamento, beato e contento d'esserle accanto, pervaso di gratitudine e di sensuale letizia per quell'intimità nascente. Gli pareva che tutto quanto le stava attorno fosse parte di lei, tutto, perfino le pareti coperte di libri. Le sedie, i mobili, l'aria dove fluttuava l'odor del tabacco, aveva qualcosa di particolare, di buono, di dolce, di piacevole, che emanava da lei.

            A bruciapelo la signora Forestier gli domandò:

            «Che ne pensa della mia amica de Marelle

            Rimase sorpreso:

            «Ma... la trovo... la trovo molto attraente

            «Vero

            «Eh sì, sì.»

            Avrebbe voluto aggiungere: «Non quanto lei, però.»

            Non osò.

            «E sapesse quant'è divertente, originale, intelligente! Spensierata come una bohémienne, sì, una vera bohémienne. Per questo suo marito non ne è entusiasta. Ne vede soltanto i difetti, senza apprezzare le buone qualità

            Duroy si stupì che la de Marelle fosse sposata. Eppure era la cosa più naturale del mondo.

            Disse: «Ma come... è sposata? E cosa fa suo marito

            La signora Forestier alzò leggermente le spalle e le sopracciglia, con un sol moto pieno di reconditi significati.

            «Bah, è ispettore sulle ferrovie nord. Passa otto giorni al mese a Parigi. Otto giorni che sua moglie chiama "il servizio obbligatorio", oppure "la settimana di corvée", o "la settimana santa", anche. Quando la conoscerà meglio, vedrà quant'è arguta e fina. Vada a trovarla, uno di questi giorni

            Duroy non se ne sarebbe più andato; gli pareva di poter restar sempre , d'essere a casa sua.

            Ma, silenziosamente, s'aprì la porta, e un signore alto entrò senza essere annunziato.

            Si fermò scorgendo un uomo. La signora Forestier apparve per un attimo imbarazzata, poi disse con voce naturale, anche se una lieve vampa le era salita, dalle spalle, al volto:

            «Entri, entri, mio caro. Le presento un bravo compagno d'armi di Charles, Georges Duroy, futuro giornalista

            Quindi aggiunse, con altro accento: «Il conte de Vaudrec, il nostro migliore e più intimo amico

            I due si salutarono guardandosi nel bianco degli occhi, e Duroy tolse subito il campo.

            Nessuno lo trattenne. Balbettò qualche ringraziamento, strinse la mano che gli aveva porto la giovane signora, s'inchinò ancora una volta davanti al sopraggiunto, che serbava un contegno freddo e compassato d'uomo di mondo, e uscì turbatissimo, come se avesse commesso qualche sciocchezza.

            Una volta per la strada, si sentì triste, scombussolato, tormentato dall'oscura sensazione d'un cruccio misterioso. Camminava a caso, chiedendosi il perché di quella sua improvvisa malinconia; non riusciva a trovarne la causa, ma la figura severa del conte de Vaudrec, già anzianotto, con qualche capello grigio e con in volto l'imperturbabilità arrogante di chi ha molti soldi ed è sicuro di sé, non gli si levava dinanzi agli occhi.

            Capì ch'era stato proprio quello sconosciuto, interrompendo col suo apparire un delizioso tu per tu cui in cuor suo aveva già preso gusto, a provocare in lui quel senso di gelo e di sconforto che a volte una semplice parola udita, un'inezia qualsiasi, una sciocchezzuola da nulla bastano a darci.

            E capì, anche, pur non riuscendo a scorgerne il motivo, che quell'uomo era rimasto seccato di trovarlo .

            Non aveva più nulla da fare fino alle tre; e non era ancor mezzogiorno. Gli erano rimasti in tasca sei franchi e cinquanta: andò a mangiare un boccone da Duval, una trattorietta da poco; poi bighellonò sul boulevard; e come suonaron le tre, infilò la grande scala pubblicitaria della Vie Française.

            I fattorini se ne stavano in attesa seduti su una panca, a braccia conserte, mentre un usciere, dietro una specie di piccola cattedra scolastica, smistava la posta appena giunta. La messa in scena era perfetta per far colpo sui visitatori. Tutti, , erano pieni di contegno, di sostenutezza, di decoro e di stile, come si conviene nell'anticamera d'un grande giornale.

            Duroy chiese: «Il signor Walter, per favore

            L'usciere rispose: «Il signor direttore è in riunione. Se vuole accomodarsi un momento

            E gli additò il salottino d'attesa, già pieno di gente.

            Vi si scorgevano uomini di grave aspetto, commendatori, persone importanti, e poveracci malmessi con la camicia interamente nascosta dalla finanziera abbottonata fino al collo e, sul davanti, piena di frittelle frastagliate come i continenti e gli oceani d'una carta geografica. Fra tutta quella gente erano mescolate tre donne. Una carina, col sorriso sulle labbra, tutta in ghingheri, probabilmente una cocotte; l'altra, accanto a lei, con una maschera tragica, tutta rughe, vestita austeramente, con quel non so che d'estenuato e d'artefatto che hanno, in genere, le vecchie attrici: qualcosa come una fittizia giovinezza inacetita, come un profumo d'amore andato a male.

            La terza donna, in gramaglie, se ne stava in un angolo, con l'aria della vedovella sconsolata. Duroy pensò che fosse venuta a chiedere l'elemosina.

            Sebbene fossero già trascorsi venti minuti, non avevano ancor fatto entrare nessuno.

            A Duroy venne allora un'ispirazione, e tornato dall'usciere: «Il signor direttoredisse, «m'aveva dato appuntamento per le tre. Veda un po', comunque, se c'è il mio amico Forestier

            Fu introdotto in un lungo corridoio che lo condusse in uno stanzone dove quattro tizi stavano scrivendo su un vasto tavolo verde.

            Forestier, in piedi davanti al camino, fumava una sigaretta giocando con un bilbocchetto. Era abilissimo e infilava ad ogni colpo l'enorme palla di bosso giallo nel piccolo puntale di legno. Contava: «Ventidue, ventitré, ventiquattro, venticinque

            Duroy fece: «Ventisei

            E l'amico lo guardò, senza interrompere il moto cadenzato del braccio.

            «Ah, sei qui? Ieri ho imbroccato cinquantasette colpi di seguito. Qui soltanto Saint-Potin può darmi le carrube. L'hai visto il direttore? Non c'è nulla di più comico di quel vecchio baccalà di Norbert quando gioca a bilbocchetto. Tiene il boccalone aperto come se volesse ingoiare la palla

            Uno dei redattori si rivolse a Forestier:

            «Di', ne conosco uno stupendo ch'è in vendita, di legno delle Antille. Dicono che sia appartenuto alla regina di Spagna. Vogliono sessanta franchi. Mica caro

            Forestier domandò: «E dove alloggia

            Avendo fallito il suo trentasettesimo colpo, aprì un armadio e Duroy scorse una ventina di bilbocchetti superbi, allineati e numerati come ninnoli d'una collezione. Poi, riposto l'aggeggio col quale aveva giocato, ripeté: «E dove alloggia, il cimelio

            Il giornalista rispose: «Ce l'ha uno che vende i biglietti del Vaudeville. Domani te lo porterò, se vuoi.»

            «Perché no. Se è bello come dici, lo prendo, i bilbocchetti non sono mai troppi.»

            Quindi, rivolto a Duroy: «Vieni con me, ti ci accompagnerò io dal direttore, senza che tu debba mettere i pinci qua, magari fino alle sette

            Riattraversarono il salottino d'attesa, dove le stesse persone erano ancora al loro posto. Appena Forestier apparve, la giovane signora e la vecchia attrice, alzatesi di scatto, gli mossero incontro.

            L'una dopo l'altra, lui le condusse nel vano della finestra, e sebbene avessero cura di parlar sottovoce, Duroy poté notare che Forestier dava del tu ad entrambe.

            Finalmente, spinte due porte imbottite, entrarono dal direttore.

            La riunione, che durava ormai da un'ora, consisteva in una partita d'écarté con alcuni di quei signori dal cappello a tese piatte che Duroy aveva notato il giorno prima.

            Walter teneva ferme in mano le carte e, concentrandosi, giocava attento, con gesti cauti, mentre l'avversario buttava, prendeva, maneggiava i leggeri cartoncini colorati con l'agilità, la destrezza, l'eleganza del giocatore consumato. Norbert de Varenne stava scrivendo un articolo, seduto sulla poltrona direttoriale, e Jacques Rival, allungato sul divano, fumava un sigaro con gli occhi chiusi.

            Si sentiva, dentro, un tanfo di rinchiuso, l'afror di cuoio dei mobili, il puzzo del tabacco invecchiato e della tipografia, quel particolare sentore delle redazioni ben noto a tutti i giornalisti.

            Sul tavolo di legno nero intarsiato di rame giaceva una quantità incredibile di fogli: lettere, cartoline, giornali, riviste, fatture, stampe d'ogni genere.

            Forestier strinse la mano ai cronisti che, in piedi dietro i giocatori, scommettevan su di essi, e senza dire una parola prese a seguir la partita; poi, come zi' Walter ebbe vinto, presentò il suo compagno d'armi: «Ecco qua Duroy, il mio amico

            Il direttore osservò brusco il nostro giovanotto con una delle sue occhiate di sulle lenti, e domandò:

            «Me l'ha portato l'articolo? Andrebbe benissimo oggi, insieme con la discussione Morel

            Duroy cavò di tasca i fogli piegati in quattro: «Eccolo.»

            Il principale parve rallegrarsi molto, e disse sorridendo:

            «Benone, benone. È stato di parola. Devo darci un'occhiata, Forestier

            Forestier s'affrettò a rispondere :

            «Non ce n'è bisogno, signor Walter: l'ho aiutato io, a scriverlo, per insegnargli il mestiere. Va benissimo

            Il direttore stava già prendendo le carte da un tizio alto e magro, un deputato del centro-sinistra, e aggiunse con indifferenza: «Quand'è così.»

            Ma Forestier non lo lasciò cominciare la nuova partita; e chinatosi al suo orecchio: «Ricorderàbisbigliò, «di avermi promesso d'assumere Duroy al posto di Marambot. Devo far con lui le stesse condizioni

            «Ma certo, certo.»

            Prendendo il braccio dell'amico, il giornalista lo trascinò con sé mentre Walter si rimetteva a giocare.

            Norbert de Varenne non aveva alzato il capo dal foglio, quasi non avesse visto o riconosciuto Duroy. Jacques Rival, invece, gli aveva stretto la mano con l'energia piena di sollecitudine del collega che ci tiene a far capire che su di lui si può, all'occorrenza, contare.

            Riattraversarono la saletta d'attesa, e siccome tutti avevano appuntato gli sguardi su Forestier, questi disse alla più giovane delle tre donne, con voce abbastanza alta da poter essere udita dagli altri in paziente attesa: «Il direttore vi riceverà fra poco. Adesso è a colloquio con due membri della commissione per il bilancio

            Poi tirò innanzi brusco, con l'aria dell'uomo importante che non ha tempo da perdere, e come se dovesse correre a fare un telegramma da cui sarebbero dipese le sorti del mondo.

            Appena tornati in redazione, Forestier prese subito il suo bilbocchetto e, rimettendosi a giocare e smozzicando ogni frase per contare i colpi, disse a Duroy: «Dunque. Tu verrai qui tutti i giorni alle tre e io ti dirò le commissioni e le visite che dovrai fare, sia nel pomeriggio, sia alla sera, sia al mattino. E uno. Intanto ti darò una lettera di presentazione per il capo di Gabinetto della questura, e due!, che ti metterà a contatto con un suo impiegato. Tu te la sbroglierai con quello per tutte le notizie importanti, e tre!, relative alla questura, le notizie ufficiali o quasi, si capisce. Pei dettagli, potrai rivolgerti a Saint-Potin, che è al corrente, e quattro! Lo vedrai fra poco, o domani. Dovrai anzitutto abituarti a far cantar la gente che andrai a trovare, e cinque!, e a infilarti dovunque, nonostante le porte chiuse, e sei! Ti beccherai per questo un mensile fisso di duecento franchi, più due soldi a riga per le notizie interessanti di tua propria produzione, e sette!, nonché altri due soldi a riga per gli articoli d'argomento vario che ti verranno richiesti, e otto!»

            Non badò più che al suo giuoco, e continuò a contare lentamente, nove, dieci, undici, dodici, tredici. Fece cilecca al quattordicesimo colpo e, tirando un moccolo: «Porcaccio d'un tredici,» fece. «Mi porta sempre iella, questo fottuto numero. Ne avremo certamente tredici, quando morirò

            Uno dei redattori che aveva finito il suo lavoro, prese a sua volta un bilbocchetto dall'armadio; era un omiciattolo che pareva un bambino, nonostante i suoi trentacinque anni; e parecchi altri giornalisti entrarono a prendere, in fila, il balocco di loro appartenenza. Ben presto furono in sei con la schiena appoggiata al muro e l'uno a fianco dell'altro, a lanciare in aria con gesto identico e regolare le palle rosse, gialle o nere, a seconda della qualità del legno. E siccome s'era intrapresa una gara, i due redattori che stavano ancor lavorando s'alzarono per far da arbitri.

            Forestier vinse con undici punti. Allora il bagonghi dall'aspetto infantile, che aveva perso, suonò per chiamare il fattorino, e ordinò nove birre. E tutti ripresero a giocare in attesa di potersi rinfrescar la gola.

            Duroy bevve un bicchiere coi suoi nuovi colleghi, poi domandò all amico.

            «Che c'è da fare?»

            L'altro rispose:

            «Per oggi non ho da darti niente. Puoi andartene, se vuoi.»

            «E il nostro... il nostro articolo... andrà in macchina stanotte

            «Sì, ma non preoccuparti: correggerò io le bozze. Prepara il seguito per domani, e vieni alle tre come oggi

            E Duroy, dopo aver stretto tutte quelle mani senza nemmeno conoscere il nome dei loro proprietari, ridiscese le sfarzose scale col cuore traboccante di gioia, pieno d'euforia.

 


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