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IV
Georges Duroy dormì male, eccitato dalla voglia di veder stampato il suo articolo. Come fu giorno si alzò, e già bighellonava per la strada ancor prima che i distributori, di corsa, avessero portato i giornali da un'edicola all'altra.
Raggiunse la stazione Saint-Lazare, sapendo che la Vie Française vi sarebbe giunta prima che nel suo quartiere. Siccome era ancora presto, girellò su e giù sul marciapiede.
Vide arrivare la giornalaia, che aprì il suo botteghino a vetri, poi scorse un uomo con in testa un pacco di giornali piegati. Si precipitò: c'era il Figaro, il Gil Blas, il Gaulois, l'Evénement e due o tre giornali del mattino; ma la Vie Française, no.
Gli venne un dubbio: «E se i Ricordi d'un cacciatore d'Africa li avessero rimandati all'indomani? E se all'ultimo momento, putacaso, non fossero piaciuti a zi' Walter?»
Tornando verso il chiosco, s'accorse che il giornale era in vendita senza che lui l'avesse visto portare. Si precipitò a comprarlo, lo spiegò dopo aver buttato là i suoi quindici centesimi, e diede una scorsa a tutti i titoli della prima pagina. Nulla. Cominciò a battergli il cuore; aprì il foglio e provò una grande emozione leggendo appiè d'una colonna, in grassetto: «Georges Duroy». C'era! che gioia!
S'avviò senza più pensare a nulla, col giornale in mano, il cappello sulle ventitré e una gran voglia di fermare i passanti e dir loro: «Comprate, comprate questo! C'è il mio articolo!» Avrebbe voluto urlare con quanto fiato aveva, come fanno gli strilloni, la sera, sui boulevards: «Leggete la Vie Française, leggete l'articolo di Georges Duroy: Ricordi d'un cacciatore d'Africa». E, d'un tratto, gli venne voglia di leggerlo lui stesso, l'articolo, di leggerlo in qualche locale pubblico, in un caffè, ben in vista. E ne cercò uno che fosse già affollato. Dovette trottare un bel po'. Finalmente si sedette all'esterno d'una specie di bottiglieria dove c'erano già parecchi avventori, e chiese un rum com'avrebbe chiesto, magari, un assenzio, senza pensare all'ora. Poi chiamò: «Cameriere, mi dia la Vie Française.»
Accorse un uomo in grembiule bianco:
«Non l'abbiamo, signore. Riceviamo soltanto il Rappel, il Siècle, la Lanterne e il Petit Parisien.»
Adirato e indignato, Duroy gridò: «E che cavolo di stamberga è questa? Su, vada a comprarmela.»
Il cameriere andò di corsa e gliela portò. Duroy si mise a leggere il suo articolo, esclamando più volte ad alta voce: «Molto bene, molto bene», per richiamar l'attenzione e far venire anche agli altri la voglia di vedere cosa mai ci fosse in quel foglio. Poi se n'andò, lasciandolo sul tavolino. Il padrone se n'accorse e lo richiamò:
«Signore, signore, s'è dimenticato il giornale!»
Duroy rispose: «Lo tenga pure, l'ho già letto. C'è una cosa molto interessante, oggi, vedrà.»
Non precisò che cosa, ma vide, andandosene, uno degli avventori prendere la Vie Française dal tavolo dove l'aveva lasciata.
Pensò: «E adesso, che faccio?»
Decise d'andarsene in ufficio a riscuotere lo stipendio e a dare le dimissioni. Già non stava più nella pelle pensando alla faccia che avrebbero fatto il capufficio e i colleghi. Gongolava, soprattutto, figurandosi lo sbalordimento del capoccia.
Camminava adagio, per non giunger prima delle nove e mezzo, dato che la cassa non apriva fino alle dieci.
L'ufficio era uno stanzone buio dove d'inverno bisognava tenere il gas acceso quasi tutto il giorno. Dava su un angusto cortile, con di faccia altri uffici. C'erano in otto impiegati, lì dentro, più un caposezione in un angolo, nascosto dietro un paravento.
Duroy andò prima a chiedere i suoi centodiciotto franchi e venticinque centesimi, chiusi in una busta gialla nel cassetto del pagatore, quindi entrò con aria trionfante nell'ampia stanza da lavoro dove aveva già passato tanti suoi giorni.
Appena entrato, il caposezione Potel lo chiamò:
«Ah, è lei, signor Duroy? Il capufficio l'ha già cercato parecchie volte. Lei sa che non ammette che uno sia malato per due giorni di seguito senza certificato medico.»
Duroy, che ritto in mezzo alla stanza aveva già calcolato l'effetto, rispose forte:
«Ah si? Sai quanto me ne frega!»
Vi fu tra gli impiegati un moto di stupore, e la faccia del signor Potel sbucò allibita di sul paravento dov'era rinchiuso come in una scatola.
Si barricava lì dentro per tema degli spifferi d'aria, reumatizzato com'era. Aveva fatto soltanto due o tre buchetti nella carta per sorvegliare il personale.
Ci fu un silenzio in cui si sarebbe sentita volare una mosca. Il caposezione, infine, domandò con voce esitante:
«Com'ha detto?»
«Ho detto che non me ne frega nulla. Son venuto soltanto per dare le dimissioni. Ho avuto un posto di redattore alla Vie Française: cinquecento franchi al mese più un tanto a riga per gli articoli. Stamani è già uscito il mio primo pezzo.»
S'era ripromesso, è vero, di far durare quanto più poteva la soddisfazione presasi, ma non aveva resistito alla voglia di mollar tutto in un botto.
Il colpo, del resto, era pienamente riuscito. Erano rimasti di stucco.
Duroy disse: «Vado ad avvertire il signor Perthuis, poi verrò a salutarvi.»
E uscì per andar dal capufficio, che scorgendolo cominciò a urlare:
«Ah, è venuto? Lo sa che io non tollero...»
Il nostro impiegato gli tappò la bocca:
«È inutile che lei sbraiti tanto...»
Il signor Perthuis, un omone rosso come la cresta d'un galletto, si mise a boccheggiare per la sorpresa.
Duroy riprese: «Ne ho fin qui del suo baraccone. Stamani ho fatto le mie prime prove come giornalista, m'è stato offerto un posto magnifico. Mi pregio di salutare la Signoria Vostra.»
E uscì. Vendetta era stata fatta.
Come aveva promesso, andò a stringer la mano ai suoi ex colleghi, che quasi non osavano rivolgergli la parola timorosi di compromettersi, avendo udito la conversazione col capufficio dalla porta rimasta aperta.
Si ritrovò in istrada col suo stipendio in saccoccia. Si offrì un pranzetto succolento in una buona trattoria che sapeva lui, dai prezzi ragionevoli; poi, comprata un'altra copia della Vie Française e lasciatala sulla tovaglia, fece un giro in vari negozi acquistando cosucce qualsiasi, tanto per il gusto di farsele mandare a casa e di dare il suo nome, Georges Duroy, senza mancare ogni volta di aggiungere: «Sono il redattore della Vie Française.»
Forniva poi l'indirizzo, via e numero, avendo cura di pattuire: «Lasciare in portineria.»
Avendo ancora tempo disponibile, entrò da un litografo che fabbricava biglietti da visita sotto gli occhi dei passanti, pronta consegna, e se ne fece fare immediatamente un centinaio, con stampata, sotto il nome, la sua nuova professione.
Forestier lo ricevette stando tutto sulle sue, come si fa con un inferiore: «Ah, sei venuto. Bravo. Ho giustappunto parecchie cosette da farti fare. Aspetta dieci minuti. Devo prima finir qua.»
E continuò una lettera che aveva cominciata.
All'altro capo dell'ampio tavolo, un ometto pallido pallido, grasso e tondo, pelato, con un cranio bianco e lucido come avorio, stava scrivendo col naso sul foglio, tant'era spudoratamente miope.
Forestier gli chiese: «Di' un po', Saint-Potin, a che ora vai a intervistare i nostri tizi?»
«Alle quattro.»
«Porta con te il giovane Duroy, qui presente. Gli svelerai gli arcani del mestiere.»
«Sta bene.»
Rivolgendosi all'amico, Forestier aggiunse:
«L'hai portato il secondo pezzo sull'Algeria? Il primo di stamani ha avuto molto successo.»
Duroy, confuso, balbettò: «No.... pensavo di trovare un po' di tempo nel pomeriggio... ho avuto un fottio di cose da fare... non ho potuto...»
L'altro diede un'alzata di spalle, scontento: «Devi esser più puntuale, caro mio, sennò addio avvenire. Walter ci contava, sul tuo articolo. Gli dirò che sarà pronto per domani. Ma se credi d'esser pagato per startene con le mani in mano, ti sbagli.»
Poi, dopo una pausa, aggiunse: «Si deve battere il ferro finché è caldo, perdiana!»
Saint-Potin si alzò: «Io sono pronto,» disse.
Allora Forestier, abbandonandosi all'indietro sulla sedia, assunse un tono quasi cattedratico nell'impartire le sue istruzioni, e rivolto a Duroy disse: «Dunque. Abbiamo qui a Parigi, da due giorni, il generale cinese Li-Theng-Fao, al Continental, e il maragià Taposahib Ramaderao Pali, all'Hôtel Bristol. Andrete a intervistarli.»
Quindi, rivolto a Saint-Potin, raccomandò: «Non dimenticare i punti principali che t'ho indicato. Chiedi al generale e al ragià la loro opinione sulle mene dell'Inghilterra in Estremo Oriente, le loro idee sul suo sistema di colonizzazione e di dominio, le loro speranze in un intervento dell'Europa, e in particolare della Francia, nelle loro questioni.»
Tacque, poi aggiunse, ma come se parlasse a personaggi ideali, fuori scena: «Sarà interessantissimo, pei nostri lettori, saper contemporaneamente che si pensa in Cina e nelle Indie dei problemi che in questo momento appassionano tanto l'opinione pubblica.»
Per Duroy, aggiunse ancora: «Osserva bene come fa Saint-Potin. È un ottimo reporter, e cerca di capire le astuzie per far vuotare il sacco a un uomo in cinque minuti.»
Poi riprese a scrivere serio serio, con l'evidente intenzione di stabilire le distanze e di tenere al suo posto il vecchio compagno d'armi e nuovo collega.
Appena fuor dell'uscio, Saint-Potin si mise a ridere, e disse a Duroy: «Bel pallone gonfiato, sì. La viene a raccontare proprio a noi, come se fossimo dei suoi lettori.»
S'avviarono per il boulevard, e il cronista domandò:
«Beve qualcosa?»
«Sì, volentieri. Fa un caldo.»
Entrarono in un caffè e si fecero servire due bibite ghiacciate. Saint-Potin diede la stura alla sua chiacchiera. Parlò di tutti e del giornale con profusione di particolari, uno più sorprendente dell'altro.
«Il principale? Un vero ebreo. E gli ebrei, lei lo sa, nessuno riuscirà mai a cambiarli. Che razza di gente!»
E sfoderò esempi d'incredibile avarizia, di quella particolare avarizia di cui soltanto i figli d'Israele sono capaci: spilorcerie d'un diecino, stiracchiamenti sui prezzi degni d'una donnicciola, ribassi indecenti chiesti e ottenuti, tutta una mentalità da usuraio, da bagarino.
«E con tutto ciò,» proseguì, «un bel tipo che non crede a nulla e la fa in barba all'universo intero. Il suo giornale, che è ufficioso, cattolico, liberale, repubblicano, orleanista, albero della cuccagna e bottega del buon vantaggio, è stato fondato sol per tener su le sue operazioni di borsa e i suoi intrallazzi d'ogni genere. Da questo lato Walter è un cannone, e riesce a guadagnar milioni con società che non hanno quattro soldi di capitale...»
Non la finiva più, e chiamava Duroy «mio caro amico».
«A volte, quella tigna, ha delle uscite alla Balzac. Immagini, l'altro giorno ero nel suo ufficio con quel vecchio baccalà di Norbert e quel donchisciotte di Rival, quando capita il nostro amministratore, Montelin, con la sua brava borsa di marocchino sotto il braccio, una borsa famosa in tutta Parigi. Walter alza il capo e gli chiede: "Novità?" Montelin risponde candido: "Ho pagato un momento fa i sedicimila franchi che dovevamo al nostro fornitore di carta." Il capoccia fece un salto, un salto alto così. "Cos'ha detto?" "Che ho pagato il signor Privas." "Ma a lei ha dato di volta il cervello!" "E perché?" "Perché... perché... perché..." Si levò gli occhiali, li nettò. Poi ebbe un risolino, uno di quei suoi strani risolini che gli corrono tutt'in giro alle gotone ogni qualvolta sta per dire qualcosa di diabolico o di forte, e con tono beffardo e convinto esclamò: "Perché? Ma perché potevamo ottenerci sopra uno sconto di quattro o cinquemila franchi." Montelin, trasecolato, ribatté: "Ma signor direttore, i conti non facevano una grinza, li ho controllati io, e lei li ha approvati..." Allora il principale, rifattosi serio, sentenziò: "Via, non siamo tanto ingenui. Sappia, signor Montelin, che il miglior modo per giungere a una transazione, è sempre quello di lasciar che i debiti si accumolino."»
E Saint-Potin concluse, con un cenno del capo da intenditore: «Eh? Non è forse degno di Balzac?»
Duroy non aveva mai letto Balzac, ma rispose arciconvinto: «Orco, se lo è.»
Il reporter passò a parlare della signora Walter, un'ocona ma di quelle, di Norbert de Varenne, vecchio imbrattacarte fallito, di Rival, una riedizione di Fervacques. Infine fu il turno di Forestier: «Quanto a costui, può dirsi fortunato d'aver sposato sua moglie, ecco tutto.»
Duroy domandò: «Cos'è, di preciso, sua moglie?»
Saint-Potin si diede una stropicciatina di mani: «Eh, una donna senza scrupoli, una gran furbacchiona. È l'amante d'un vecchio smidollato, certo Vaudrec, il conte de Vaudrec, che le ha dato una dote e un marito.»
Duroy sentì all'improvviso un brivido nella schiena, una specie di contrazione nervosa, un bisogno di svillaneggiare e di schiaffeggiare quella malalingua. Ma si limitò a interromperlo chiedendogli: «Lei si chiama proprio Saint-Potin?»
L'altro rispose con semplicità:
«No, mi chiamo Thomas. Saint-Potin è un nomignolo che m'hanno affibbiato al giornale.»
Duroy, pagando le consumazioni, fece: «Mi sembra tardi, dobbiamo ancora intervistare quei due po' po' di personaggi.»
Saint-Potin si mise a ridere: «Lei è ancora un ingenuo. Ma via, crede davvero ch'io me ne vada a chiedere a quel cinese e a quell'indiano cosa ne pensano dell'Inghilterra? Come se io non sapessi meglio di loro quel che devono dire per i lettori della Vie Française. Ne ho già intervistati un mezzo migliaio, di cotesti cinesi, persiani, indù, cileni, giapponesi e via dicendo. Rispondono tutti l'identica cosa, sulla base di quel che voglio io. Non ho che da riprendere l'articolo sull'ultimo che è venuto qui e ricopiarlo parola per parola. Di diverso, semmai, non c'è che la loro faccia, il nome, i titoli, l'età, il seguito. Eh, a questo proposito devo stare attento a non prender cantonate, sarebbero istantaneamente sottolineate dal Figaro o dal Gaulois. Ma su questo punto mi basterà parlare cinque minuti col portinaio dell'Hôtel Bristol o con quello del Continental per esser perfettamente informato. Ce ne andremo a piedi fin là fumando un sigaro. Totale: cinque franchi di carrozza che dovrà rimborsarci il giornale. Ecco, caro mio, come si fa quando si ha una certa pratica.»
Duroy osservò: «Deve rendere, far l'intervistatore a questi patti.»
Il giornalista replicò con aria di mistero: «Certo, ma son gli echi di cronaca a render più d'ogni altra cosa, per la pubblicità che puoi infilarci sotto.»
Si erano alzati, e seguivano il boulevard verso la Madeleine. E Saint-Potin disse ad un tratto al suo compagno:
«Senta, se ha da fare non faccia complimenti, io non ho affatto bisogno di lei.»
Duroy gli strinse la mano e se n'andò.
Il pensiero dell'articolo da scrivere in serata lo tormentava, e cominciò a concentrarsi. Immagazzinò idee, riflessioni, giudizi, aneddoti, e risalì tutta l'Avenue des Champs-Élysées, dove non si scorgeva che qualche raro passante, giacché Parigi era deserta in quelle giornate di calura.
Dopo aver cenato in una bottiglieria presso l'Arco di Trionfo dell'Étoile, tornò a casa a piedi, passo passo, prendendo i boulevards esterni, e si mise a tavolino per lavorare.
Ma com'ebbe sotto gli occhi il gran foglio bianco, tutto il materiale che aveva accumulato gli volò via di mente, quasi gli fosse svanito il cervello. Cercava di riacciuffare qualche minuzzolo dei suoi ricordi e di fissarlo sulla carta: ma gli sfuggivan tutti come riusciva a ghermirli, oppure gli si precipitavano incontro alla rinfusa, e lui non sapeva come presentarli, in che modo acconciarli e da quale rifarsi.
Dopo un'ora di vani tentativi e dopo aver riempito cinque cartelle di frasi d'avvio che non trovavano un seguito, pensò: «Non sono ancora abbastanza rotto al mestiere. Devo prendere un'altra lezione.» E subito la prospettiva d'un'altra mattinata di lavoro con la signora Forestier, e la lusinga d'un lungo colloquio a due, intimo, cordiale e così dolce, lo fecero fremere di desiderio. Si coricò molto presto, quasi temendo, adesso, di rimettersi al lavoro e di farcela tutt'a un tratto.
L'indomattina si alzò sul tardi, cercando di ritardare e di pregustare il piacere della visita.
Erano le dieci passate quando suonò a casa dell'amico.
«Veramente, il signore sta lavorando.»
A Duroy non era neppur passato per la mente che potesse esserci il marito. Tuttavia insisté: «Gli dica che sono io, per una cosa urgente.»
Dopo cinque minuti d'anticamera, fu fatto entrare nello studio dove aveva trascorso una così bella mattinata.
Al posto già occupato da lui, sedeva adesso Forestier che stava scrivendo in veste da camera, le pantofole ai piedi e in capo un piccolo tocco all'inglese, mentre sua moglie, avvolta nella stessa vestaglia bianca, e appoggiata al caminetto, dettava con la sigaretta in bocca.
Duroy, fermatosi sulla soglia, mormorò: «Scusate, scusate molto. Disturbo?»
L'amico, voltatosi verso di lui furibondo, ringhiò: «Be', che ti manca ancora? Spicciati, abbiamo fretta.»
L'altro, confuso, si mise a barbugliare: «Niente, niente, scusami.»
Ma Forestier, arrabbiandosi ancor di più, disse: «Avanti, perdio, non perdiamo altro tempo; non avrai mica forzato la mia porta soltanto per il gusto di darci il buongiorno.»
Allora Duroy, turbatissimo, si sbottonò: «No... ecco... vedete... volevo dire che non ce la fo nemmeno questa volta a buttar giù l'articolo... e tu sei stato... voi siete stati così... così... gentili l'ultima volta, che... che speravo... che ho osato venire...»
Forestier gli troncò la parola in bocca: «Ma insomma, tu vuoi proprio prender per il bavero la gente! Credi che il tuo lavoro te lo debba fare io, e che per te tutto si riduca a passare alla cassa alla fine del mese? To'! Questa sì ch'è bella!»
La giovane signora continuava a fumare, senza dire una parola, sorridendo sempre di quel vago sorriso che pareva una maschera di gentilezza sull'ironia dei pensieri.
Duroy, rosso come un papavero, continuava a incheccarsi:
«Scusatemi... credevo... pensavo che...»
Finché, d'improvviso, con voce chiara, fece: «Le chiedo mille volte scusa, signora, e le rinnovo i miei ringraziamenti per il bell'articolo che mi ha dettato ieri.»
Poi salutò ed uscì, dopo aver detto a Charles: «Sarò al giornale alle tre.»
Tornò a casa a passo svelto, bofonchiando fra i denti:
«Ebbene, me lo scriverò da solo, gli mostrerò io...»
Appena in camera, sotto l'eccitazione della collera, si mise a scrivere.
Ripigliò l'avventura già cominciata dalla signora Forestier, ammucchiando particolari da romanzo d'appendice, strabilianti peripezie e descrizioni ampollose, con la scioltezza stilistica d'un collegiale e la proprietà d'un sergente maggiore. In un'ora imbastì un articolo che pareva uscito da un manicomio, e lo portò, baldanzoso, alla Vie Française.
Il primo in cui s'imbatté fu Saint-Potin, che con una calorosa stretta di mano piena di complicità, gli domandò:
«L'ha letto il mio colloquio col cinese e con l'indù? Non è spiritoso? Ha divertito tutta Parigi. E pensare che a quei due non gli ho visto nemmeno la punta del naso.»
Duroy, che non aveva letto nulla, prese subito il giornale, e diede una scorsa a un'articolessa intitolata «India e Cina», mentre l'altro gli sottolineava col dito i passi più interessanti.
Sopraggiunse Forestier, tutt'affannato, frettoloso, indaffarato:
«Ah, bene. Avevo bisogno proprio di voi.»
E snocciolò una filastrocca d'informazioni politiche da procurarsi in serata.
Duroy gli porse il suo articolo.
«Ecco il seguito sull'Algeria.»
«Benissimo, dammi qua. Vo a consegnarlo al direttore.»
E fu tutto.
Saint-Potin rimorchiò il nuovo collega nel corridoio, e gli disse:
«No, perché?»
«Perché? Per farsi pagare. Vede, una mesata d'anticipo ci vuol sempre. Non si sa mai.»
«Eh già... io non chiedo di meglio.»
«Venga, la presento al cassiere. Non farà nessuna difficoltà. Si è di manica larga, qui.»
E Duroy andò a riscuotere i suoi duecento franchi, più ventotto franchi per il suo articolo del giorno prima, che aggiunti a quanto gli restava dello stipendio della ferrovia facevano, lì nella sua saccoccia, trecentoquaranta franchi.
Non aveva mai posseduto una somma simile, e gli parve d'essere ricco per l'eternità.
Saint-Potin lo portò poi a sentir le sue chiacchiere in tre o quattro redazioni di giornali concorrenti, dove sperava d'incontrare qualcuno già in possesso delle informazioni che doveva raccogliere, e di riuscire a soffiargliele, grazie alla sua parlantina e alla sua astuzia.
La sera Duroy, non avendo nulla da fare, pensò di tornarsene alle Folies-Bergère, e giocando d'audacia si presentò all'ingresso:
«Sono Georges Duroy, redattore della Vie Française. Son già venuto l'altra sera con Forestier, che m'aveva promesso d'interessarsi per il mio ingresso gratuito. Non so se se ne sia ricordato.»
Fu consultato un registro. Il suo nome non c'era. Tuttavia l'addetto al controllo, persona urbanissima, gli disse:
«Può entrare egualmente, signore, e rivolga lei stesso la domanda al direttore. La accoglierà senz'altro.»
Entrò, e quasi subito s'imbatté in Rachel, la donna con la quale era stato la prima sera.
«Ciao, tesorone,» gli disse costei muovendogli incontro. «Stai bene?»
«Benone, e tu?»
«Non c'è male. Pensa un po', t'ho sognato due volte, dall'altro giorno.»
«Ah, ah! e che significa?»
«Significa che mi sei piaciuto, scioccone, e che potremo fare il bis appena ne avrai voglia.»
«Certo che mi va.»
«Bene, ma stammi a sentire...»
Esitava, vergognandosi un po' del suo comportamento, poi proseguì: «Il guaio è che stavolta sono al verde. Sono stato al circolo e m'hanno asciugato le tasche.»
Lei lo fissò negli occhi, fiutando la bugia con l'istinto e l'esperienza della prostituta abituata alle mascalzonate e alla pidocchieria degli uomini, e disse: «Contaballe! Mica è carino, sai, far così con me.»
Duroy sorrise imbarazzato: «Se ti contenti di dieci franchi, è tutto quanto m'è rimasto.»
«Fa' come vuoi, tesoruccio,» disse lei col disinteresse della cortigiana che vuol togliersi un capriccio. «A me basti tu.»
E guardando incantata i baffi del giovanotto, gli prese il braccio e vi s'appoggiò appassionatamente: «Andiamocene prima a bere una granatina. Poi faremo un giretto insieme. Mi piacerebbe tanto, a me, andare all'Opéra, così insieme a te, per mostrarti alla gente. Ce ne torneremo a casa presto, ti va?»
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Dormì fino a tardi da quella donnina. Quando uscì era già giorno fatto, e il suo primo pensiero fu di comprare la Vie Française. Aprì il giornale con mano febbrile; il suo articolo non c'era; e se ne rimase lì ritto sul marciapiede, a scorrere ansiosamente le colonne stampate, nella vana speranza di trovarvi quel che andava cercando.
Sentì d'un tratto un gran peso opprimergli il cuore, giacché dopo lo strapazzo d'una nottata d'amore quella contrarietà, aggiunta alla stanchezza ,assumeva le proporzioni d'una catastrofe.
Tornato a casa, si buttò sul letto vestito com'era, e s'addormentò.
Entrato qualche ora dopo in redazione, andò da Walter:
«Mi son meravigliato molto di non aver visto stamani il mio articolo sull'Algeria.»
Il direttore sollevò il capo, e fece asciutto: «L'avevo dato al suo amico Forestier perché lo leggesse; non gli è parso all'altezza; dovrà esser rifatto.»
Duroy, fuor di sé, uscì senza rispondere una parola, ed entrato bruscamente nella stanza del collega: «Perché,» l'apostrofò, «non hai fatto uscire stamani il mio pezzo?»
Il giornalista stava fumando una sigaretta, sprofondato nella poltrona e coi piedi sulla scrivania, imbrattando coi tacchi l'articolo che aveva cominciato. Con voce annoiata e distante, quasi parlasse da una buca, scandì tranquillamente! «Al capo non è piaciuto, m'ha detto di restituirtelo perché tu lo rifaccia. Prendilo, eccolo là.»
E gli mostrò col dito i fogli spiegati sotto un fermacarte. Duroy, confuso, rimase a bocca aperta, e mentre si rimetteva in tasca la sua prosa, udì Forestier soggiungere: «Oggi andrai prima di tutto in questura...»
Gli snocciolò una filastrocca di commissioni da sbrigare e di notizie da raccogliere, e Duroy se n'andò senza esser riuscito a trovare quella parola sferzante che avrebbe voluto gettargli in faccia.
Riportò l'articolo l'indomani. Gli venne di nuovo restituito. Lo rifece per una terza volta, e vedendoselo rifiutare ancora capì che voleva correre troppo e che soltanto la mano di Forestier avrebbe potuto aiutarlo sulla sua strada.
Così non parlò più dei Ricordi d'un cacciatore d'Africa, e si ripromise d'essere docile e scaltro, giacché quella era la via, e di far con zelo, in attesa di meglio, il suo mestiere di reporter.
Conobbe i retroscena dei teatri e quelli della politica, i corridoi e i vestiboli degli uomini di Stato e della Camera dei deputati, le facce importanti dei segretari di gabinetto e i musi aggrottati degli uscieri insonnoliti.
Fu in continuo contatto con ministri, portinai, generali, agenti di pubblica sicurezza, principi, mantenuti, cortigiane, ambasciatori, vescovi, ruffiani, avventurieri stranieri, uomini di mondo, bari, vetturini, camerieri e tanta e tant'altra gente d'ogni sorta; ne divenne l'amico interessato e impassibile, e a furia di vederseli davanti ogni giorno, a qualsiasi ora e senza avere il tempo di poter di volta in volta adeguare il proprio animo; a furia di parlare con tutti delle identiche cose inerenti alla sua professione, finì col far di tutt'erbe un fascio: col misurarli, tutti, con lo stesso metro, e col giudicarli con lo stesso occhio. Proprio come chi, secondo un paragone a lui caro, dovendo assaggiare l'un dopo l'altro i campioni di tutti i vini esistenti, presto non sa più distinguere lo Château-Margaux dall'Argenteuil.
Divenne in breve tempo un reporter di notevole valore, sicuro delle sue informazioni, astuto, svelto, sagace, veramente prezioso per il giornale, come diceva zi' Walter, che di redattori se n'intendeva.
Ma ciononostante, coi suoi dieci centesimi la riga e i duecento franchi di stipendio fisso, dato anche il costo della vita di caffè e di ristorante sul boulevard, era sempre in bolletta, e non se ne dava pace.
«Devo imparare il trucco anch'io,» pensava, scorgendo certi suoi colleghi sempre con le tasche gonfie d'oro, senza peraltro riuscir mai a capire a quali segreti espedienti essi ricorressero per procacciarsi tanta agiatezza. E pieno d'invidia immaginava intrallazzi a lui ignoti ed equivoci, ricompense per favori fatti, tutto un commercio illecito ma pur accettato e consentito. Già, doveva penetrare il mistero, entrar nella tacita associazione, imporsi ai colleghi che si dividevano la torta senza di lui.
E più d'una volta gli capitò di pensare, la sera, mentre alla finestra guardava passare i treni, ai metodi che avrebbe potuto usare.