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V
Due mesi erano già trascorsi; settembre era alle porte, e a Duroy pareva che la rapida fortuna da lui sperata si facesse un po' troppo desiderare. Lo innervosiva, più che altro, la sua mediocre posizione morale, e non vedeva per quali vie avrebbe potuto arrampicarsi lassù in alto, dove uno trova considerazione e quattrini. Si sentiva chiuso nel suo modesto mestieruccio di reporter, prigioniero di quello senza possibilità d'evasione. Era stimato ma d'una stima adeguata al rango. Lo stesso Forestier, al quale si rendeva utile in mille modi, non lo invitata più a cena, lo trattava in tutto e per tutto come un inferiore, anche se continuava a dargli del tu come ad un amico.
Ogni tanto, è vero, Duroy, approfittando di questa o quell'altra occasione, riusciva a collocare qualche suo trafiletto; e poiché aveva acquistato, coi suoi echi di cronaca, una scioltezza di penna e un garbo che non possedeva davvero quando aveva scritto il secondo pezzo sull'Algeria, non s'esponeva più al pericolo d'un rifiuto per le sue cronachette d'attualità. Ma da questo allo scrivere articoli di proprio estro e fantasia, o al trattar di politica con autonomia di giudizio, ci correva come tra il guidar da cocchiere pei viali del Bois, e il guidar da padrone e signore. Si sentiva umiliato, soprattutto, dal vedersi precluse le porte della buona società, dal non aver conoscenze altolocate con cui trattare da pari a pari, dal non essere ammesso nell'intimità delle signore, anche se parecchie attrici rinomate l'avevano qualche volta accolto con interessata familiarità.
Sapeva d'altro canto, per esperienza, che le donne provavano per lui, tutte, mondane o commedianti che fossero, una particolare propensione, un'immediata simpatia, e il non aver modo di conoscere quelle dalle quali poteva dipendere il suo avvenire, lo rendeva impaziente come un cavallo cui siano state messe le pastoie.
Più d'una volta aveva pensato di andar dalla signora Forestier; ma il ricordo dell'ultimo incontro lo gelava, lo mortificava, senza contare che aspettava d'essere invitato dal marito. Gli venne allora a mente che la signora de Marelle l'aveva pregato d'andarla a trovare, e le si presentò un pomeriggio che aveva libero.
«Fino alle tre sono sempre in casa,» gli aveva detto costei.
Alle due e mezzo stava già suonando alla sua porta. Abitava in Rue de Verneuil, al quarto piano.
Allo squillo del campanello venne ad aprirgli la donna, una servetta spettinata che gli rispose, allacciandosi la cuffia: «Sì, la signora è in casa, ma non so se è già alzata.»
E spinse l'uscio del salotto, ch'era soltanto accostato. Duroy entrò. Il vano era abbastanza grande, con pochi mobili e piuttosto trasandato. Le poltrone, vecchie e scolorite, erano allineate lungo le pareti, così come doveva averle disposte la domestica, giacché nulla denotava la mano gentile della donna che ama la propria casa. Quattro poveri quadri che raffiguravano una barca su un fiume, un bastimento in mare, un mulino in mezzo a una pianura e uno spaccalegna in un bosco, erano appesi con cordoncini disuguali al centro delle pareti, e tutti e quattro pendevano da una parte. Non ci voleva molto a capire che dovevano starsene lì a quel modo da un pezzo, sotto l'occhio distratto d'una persona indifferente.
Duroy si sedette e aspettò. Aspettò a lungo. Poi s'aprì un uscio, e la signora de Marelle entrò di corsa, avvolta in una vestaglia giapponese di seta rosa, con paesaggi ricamati in oro, fiori azzurri, uccelli bianchi, ed esclamò:
«Ma lo sa ch'ero ancora a letto? Carino, da parte sua, venirmi a trovare! Credevo proprio d'esser passata nel dimenticatoio.»
Gli porse entrambe le mani, felice di vederlo, e Duroy, messo a proprio agio dall'aspetto modesto dell'appartamento, gliele prese fra le sue e ne baciò una come aveva visto fare da Norbert de Varenne.
Lo pregò di sedersi; poi, datagli un'occhiata da capo a piedi: «Com'è cambiato,» disse. «Ha acquistato. L'aria di Parigi le giova. Su, mi racconti tutte le novità.»
E subito si misero a chiacchierare, come vecchi conoscenti, sentendo nascere fra loro una subitanea confidenza, e stabilirsi quella corrente di reciproca fiducia, d'intimità e di simpatia che in cinque minuti trasforma in due amici due persone dello stesso carattere e dello stesso stampo.
D'un tratto la giovane signora interruppe il suo chiacchierio, e tutta stupita esclamò: «Strano, quel che mi succede con lei. Mi sembra di conoscerla da una diecina d'anni. Diventeremo di sicuro buoni compagni. Vero?»
«Certo,» rispose lui, con un sorriso che voleva dire molto di più.
La trovava addirittura provocante, in quella vistosa e morbida vestaglia, meno fine dell'altra in vestaglia bianca, meno micetta, meno delicatina, ma più stuzzicante, più piccante.
Quando si sentiva vicina la signora Forestier, con quel suo inamovibile sorriso tutto garbo che invitava e tratteneva ad un tempo, e che pareva dire: «Lei mi piace», ma anche: «Attento!», senza che se ne capisse mai il senso vero, provava più che altro il desiderio d'inginocchiarlesi ai piedi, o di baciarle la delicata trina del corpetto, aspirando lentamente il tiepido effluvio profumato che, passando fra le poppe, doveva esalare dalla scollatura. Accanto alla signora de Marelle il suo desiderio era più brutale, più determinato, un desiderio che gli si tramutava in un fremito delle dita al cospetto di certi turgori sotto la seta leggera.
Costei continuava a parlare, ponendo in ogni frase un pizzico di quella facile arguzia cui era avvezza, così come l'artigiano intuisce d'acchito, nel corso d'un'opera ritenuta difficile, il tocco che ci vuole per renderla perfetta, lasciando tutti quanti a bocca aperta. E nell'ascoltarla, Duroy pensava: «Sarà bene tenersele a mente, tutte queste cosette. A lasciarla parlare sui fatterelli del giorno, si potrebbero scrivere brillanti articoli di cronaca parigina.»
Qualcuno bussò piano piano, con estrema delicatezza, allo stesso uscio dal quale era apparsa lei. La signora de Marelle gridò: «Puoi entrare, amoruccio.»
Era la figlia, che corse diritta verso Duroy, porgendogli la mano.
La madre, stupita, mormorò: «Ma lei è un conquistatore. Mia figlia non la riconosco più!»
Il nostro giovanotto, dopo aver dato un bacio alla piccina, se la fece sedere accanto, e serio serio le rivolse qualche garbata domanda su ciò che aveva fatto dall'ultima volta che s'erano visti. Lei rispondeva con vocetta flautata, e con quel suo tono grave di persona adulta.
La pendola suonò le tre. Il nostro giornalista si alzò.
«Venga spesso» lo pregò la signora de Marelle, «chiacchiereremo come quest'oggi. Lei mi farà sempre piacere. Ma perché non si fa più vivo dai Forestier?»
«Oh, così,» rispose, «Ho avuto molto da fare. Ma spero che uno di questi giorni possiamo di nuovo incontrarci là.»
E uscì col cuore gonfio di speranza, senza saper nemmeno lui perché.
A Forestier non disse nulla di quella visita.
Ma ne serbò il ricordo nei giorni che seguirono; più che il ricordo, quasi la sensazione fisica d'un'irreale ma ostinata presenza di quella donna. Gli pareva d'aver portato con sé qualcosa di lei, l'immagine del suo corpo rimastagli negli occhi, il profumo del suo animo rimastogli in cuore. Era ossessionato dall'immagine di lei, come talvolta accade dopo aver trascorso ore deliziose accanto a un'altra creatura umana. Si direbbe che uno soggiaccia a uno strano imperio, tutto intimo, vago, conturbante e delizioso perché pieno di mistero.
Tornò a farle visita qualche giorno dopo.
La domestica lo fece passare in salotto, e subito apparve Laurine. Non gli porse la mano, questa volta, ma la fronte: «La mamma m'ha incaricato di pregarla d'aspettare un momento. Ne avrà per un quarto d'ora, perché deve vestirsi. Le farò compagnia io.»
Duroy, divertito dai modi cerimoniosi della bambina, rispose:
«Benissimo, madamigella, sarò felice di trascorrere un quarto d'ora con lei; ma badi che non sono affatto una persona seria, e che mi piace ruzzare tutto il giorno. Facciamo a gatto volato via?»
La ragazzina rimase sorpresa, poi sorrise, come avrebbe fatto una donna, di fronte a quella proposta che l'offendeva un po' e, anche, la stupiva; e mormorò:
«Ma una casa non è mica fatta per giocarci.»
«Che m'importa?» rispose lui. «Io giuoco dappertutto. Su, mi acchiappi.»
E si mise a girare intorno al tavolino, incitandola a rincorrerlo, mentre la piccola lo seguiva con un sorrisetto quasi di cortese condiscendenza, allungando ogni tanto la mano per cercar di toccarlo, ma senza mai abbandonarsi alla corsa.
Lui si fermava, s'acquattava, e quando lei gli si faceva vicina col suo passettino peritoso, scattava su come il babau da una scatola a sorpresa, e d'un sol balzo raggiungeva l'angolo opposto del salotto. La cosa la divertiva, finiva col ridere anche lei, e, animandosi a poco a poco, già cominciava a trotterellargli dietro con dei gridolini di gioia e di timore quando le pareva d'averlo acciuffato. Lui spostava una sedia, se ne faceva un ostacolo, costringeva la piccina a girar per un attimo intorno a quella che, d'improvviso, abbandonava per afferrarne un'altra. Laurine adesso correva liberamente, s'abbandonava tutta al piacere di quel giuoco nuovo e, un poco accesa in volto, rispondeva con tutto il suo slancio di bambina entusiasmata ad ogni fuga, ad ogni stratagemma, ad ogni finta del compagno. D'un tratto, proprio mentre lei credeva d'averlo raggiunto, Duroy la strinse fra le braccia e, sollevandola fino al soffitto, gridò: «Gatto volato via!»
La bimba, felice, sgambettava per cercar di sfuggirgli, e rideva di gran cuore.
La signora de Marelle entrò e, meravigliata: «Oh, Laurine,» esclamò. «Laurine che giuoca... Ma lei è un mago.»
Duroy posò a terra la piccola, baciò la mano alla madre, ed entrambi si sedettero con Laurine nel mezzo. Cercarono di parlare, ma la bimba, ancora inebriata, non la smetteva più col suo cicaleccio, lei che di solito era così taciturna; e dovettero spedirla nella sua cameretta.
Obbedì senza fiatare, ma con le lacrime agli occhi.
Rimasti soli, la signora de Marelle abbassò la voce: «Ho un gran progetto, sa; e ho pensato anche a lei. Ecco, una volta la settimana i Forestier m'invitano a cena, e io li contraccambio in un ristorante, ogni tanto. Aver gente per casa non mi piace, eppoi non sono organizzata, non so nulla di faccende domestiche, nulla di cucina, nulla di nulla. Mi piace vivere alla diavola. Bene: di quando in quando, dicevo, invito i Forestier in trattoria, ma è malinconico esser noi tre soli, e la gente che conosco io non lega troppo con loro. Le dico questo per giustificarle un invito che magari non le sembrerà in perfetta regola. Avrà già capito, no? che le chiedo d'esser dei nostri, sabato alle sette e mezzo, al caffè-ristorante Riche. Lo conosce il locale?»
Georges accettò felice, e lei proseguì: «Saremo soltanto in quattro, coppia contro coppia. Per noi donne che non ci siamo avvezze, son festicciole molto divertenti.»
Indossava un abito marrone scuro, aderente alla vita, ai fianchi, al petto, alle braccia, provocante e civettuolo; e il contrasto fra quell'eleganza così accurata e raffinata e la trascuratezza, che saltava agli occhi, dell'appartamento da lei abitato, stupiva e confondeva Duroy, quasi lo metteva in imbarazzo senza capire perché.
Tutto quel che le copriva il corpo, che le toccava intimamente e direttamente le carni, era delicato e fine, ma di quanto le stava attorno lei non si curava minimamente.
La lasciò portandosi via, ancora una volta, l'impressione che quella donna continuasse ad esser presente dovunque in una sorta d'allucinazione dei sensi. E con un'impazienza che andava via via crescendo, aspettò il giorno della cena.
Noleggiato per la seconda volta l'abito nero, dato che i suoi mezzi non gli permettevano ancora di comprarselo, arrivò per primo all'appuntamento, con qualche minuto d'anticipo sull'ora fissata.
Lo fecero salire al secondo piano, e lo invitarono a entrare in una saletta del ristorante tappezzata di rosso, con una sola finestra che dava sul boulevard.
Un tavolino quadrato, apparecchiato per quattro, sfoggiava la sua tovaglia candida, così abbagliante da sembrar tirata a lucido; e i bicchieri, l'argenteria, lo scaldavivande brillavano gaiamente sotto le fiammelle di dodici candele infilate in due alti candelabri.
Fuori si scorgeva una gran macchia verde, d'un verde chiaro, formata dal fogliame d'un albero illuminato dalla luce vivida delle salette riservate.
Duroy sedé su un sofà basso basso, rosso come la tappezzeria delle pareti, le cui molle sfinite, cedendo sotto il suo peso, gli diedero la sensazione di sprofondare in una buca. Per tutto il vasto locale s'udiva un confuso rumorio, il bombito dei grandi ristoranti formato dall'acciottolio delle stoviglie e delle argenterie urtate insieme, dal suono dei passi frettolosi dei camerieri, attutito dai tappeti dei corridoi, dal cigolio delle porte che, aperte un momento, lasciano scappar fuori il vocio delle salette anguste, gremite di gente a tavola. Forestier entrò e gli strinse la mano con schietta cordialità, come non faceva mai negli uffici della Vie Française.
«Le signore verranno insieme,» disse. «Mi piacciono, queste cenette.»
Poi diede un'occhiata alla tavola, spense del tutto una fiammella a gas bassa come un lumino da notte, chiuse un battente della finestra per evitare una corrente d'aria, e scelse un posto ben riparato dicendo: «Devo fare molta attenzione; per un mese sono stato meglio, ma da qualche giorno ho fatto una ricaduta. Devo aver preso freddo martedì, uscendo da teatro.»
S'aprì la porta e apparvero le due giovani signore seguite da un direttore di mensa, il volto nascosto dal velo e circospette, con quell'adorabile aria di mistero che le donne assumono in quei locali, dove ogni persona avvicinata o incontrata può essere compromettente.
Mentre Duroy la salutava, la signora Forestier lo rimproverò molto di non essersi più fatto vivo con lei; poi aggiunse, con un sorriso diretto all'amica: «Ma capisco, preferisce la signora de Marelle a me. Per lei il tempo lo trova sempre.»
Si misero a sedere, e quando il direttore di mensa presentò a Forestier la lista dei vini, la signora de Marelle esclamò: «Date ai signori quello che vogliono; quanto a noi, champagne ghiacciato, e del migliore, champagne dolce, magari; e stop.»
E come l'uomo se ne fu andato, annunziò ridendo, eccitata: «Stasera voglio alzare il gomito, dobbiamo far bisboccia, una vera orgetta.»
Forestier, come se non avesse sentito, domandò: «Vi dispiace se chiudiamo la finestra? Ho il petto un po' rappreso, da qualche giorno.»
«Ma no, si figuri.»
Andò a chiudere il battente rimasto socchiuso e tornò a sedersi rasserenato in volto, più tranquillo.
Sua moglie taceva, sembrava soprappensiero; e con gli occhi abbassati sulla tavola sorrideva ai bicchieri, con quel suo sorriso vago che sembrava prometter sempre senza mai mantenere.
Furono portate le ostriche d'Ostenda, piccole e grasse, simili a delicati orecchi infantili chiusi fra le valve, che si scioglievano tra il palato e la lingua come chicche salmastre.
Poi, dopo la minestra, fu servita una trota rosea come la carne d'una fanciulla, e i commensali diedero la stura ai discorsi.
Si cominciò col parlare d'uno scandalo che stava facendo il giro di Parigi, la storia d'una donna della buona società sorpresa, da un amico del marito, mentre stava cenando in una saletta riservata con un principe straniero.
Forestier rideva molto dell'avventura; le due signore affermarono che l'indiscreto chiacchierone era un gran villano e un codardo. Duroy la pensava come loro e proclamò ben alto che un uomo ha il dovere di conservare in tali faccende, attore, confidente o semplice testimone che sia, un silenzio di tomba. E aggiunse: «Quanti doni deliziosi ci riserverebbe la vita se ciascun di noi potesse contare sull'assoluta discrezione dell'altro. Spesso, molto spesso, anzi quasi sempre è la paura del segreto svelato a trattenere le donne.»
E aggiunse ancora, sorridendo: «Non è forse vero? Quante donne cederebbero volentieri a un momentaneo desiderio, al capriccio improvviso e violento d'un'ora, a un ghiribizzo d'amore, se non temessero di pagare con uno scandalo irreparabile, e con lacrime di dolore, una breve e labile felicità!»
Parlava con contagiosa convinzione, come se avesse perorato una causa, la sua causa, e quasi avesse voluto dire: «Con me certi rischi non si corrono. Provare per credere.»
Le signore lo guardavano, entrambe incantate, lo approvavano con lo sguardo, trovavano ben detto e giusto ciò che andava affermando, confessavano con connivente silenzio che la loro inconcussa moralità di parigine non avrebbe retto a lungo davanti alla certezza del segreto.
Forestier, spaparacchiato sul sofà, una gamba ripiegata sotto l'altra e il tovagliolo infilato nel panciotto per non macchiar la marsina, dichiarò d'improvviso, con un convinto risolino da scetticone: «Cribbio, staremmo freschi, se si potesse contar sul silenzio! Mannaggia... poveri mariti!»
L'amore rimase al centro della conversazione. Duroy, pur non credendo all'amore eterno, lo riteneva un sentimento durevole, capace di creare un legame, una tenera amicizia, una reciproca fiducia. L'unione dei sensi non è che il suggello dell'unione dei cuori. Ma non poteva soffrire le irritanti gelosie, i drammi, le scenate, le meschinità che, quasi sempre, accompagnano le rotture.
Quando tacque, la signora de Marelle sospirò: «Sì, l'amore è l'unica cosa buona che ci sia nella vita; e noi, spesso, la sciupiamo pretendendo l'impossibile.»
La signora Forestier, che stava giocherellando con un coltello, soggiunse: «Eh sì... sì... è bello essere amate...»
E pareva assorta in un sogno lontano lontano, in pensieri che non avrebbe mai osato dire.
Poiché la prima portata tardava, bevevano di quando in quando un sorso di champagne, spelluzzicando i panini rotondi e sgranocchiandone la crosta. E il pensiero dell'amore, lento e invadente, penetrava nel loro animo, lo inebriava a poco a poco, così come il vino biondo, cadendo a goccia a goccia nello stomaco, scaldava loro il sangue e turbava loro la mente.
Portarono delle cotolette d'agnello, tenere, leggere, sdraiate su uno spesso strato di punte fitte fitte d'asparagi.
«Caspita, che delizia!» esclamò Forestier. E si misero a mangiar lentamente, assaporando la carne fina e gli asparagi burrosi come una crema.
Duroy riprese: «Io, quando amo una donna, è come se tutto il mondo sparisse intorno a lei.»
Lo diceva con convinzione, esaltato dalla voluttuosa tavola che stava assaporando.
La signora Forestier mormorò, con la sua solita aria distaccata: «Nessuna felicità è paragonabile a quando per la prima volta una mano, con una lieve pressione, chiede a un'altra: "Mi ami?" e questa risponde con lo stesso mezzo: "Sì, ti amo."»
La signora de Marelle, che proprio in quel momento aveva vuotato d'un fiato un'altra coppa di champagne, disse gaia, posando il bicchiere: «Bah, io sarei meno platonica.»
Tutti, con gli occhi lustri, ebbero un risolino d'assenso.
Forestier si adagiò sul sofà, spalancò le braccia, le appoggiò sui cuscini e disse serio: «La sua franchezza le fa onore, e dimostra che lei è una donna pratica. Ma potrei chiederle l'opinione di suo marito?»
Lei alzò lentamente le spalle, indugiando in quell'atto d'infinito disprezzo, poi disse con voce decisa: «Mio marito non esprime opinioni in merito. Lui... si astiene.»
E la conversazione, dalle elevate teorie sul sentimento, scese nel giardino fiorito delle licenziosità più raffinate.
Fu il momento dei furbi sottintesi, dei veli sollevati dalle parole come si alza una sottana, dei discorsetti maliziosi, delle scaltre arditezze mascherate, di tutte le ipocrisie dell'impudicizia, delle frasi che suscitano immagini di nudità con espressioni coperte, che destano nell'occhio e nella mente la rapida visione di tutto ciò che non si può dire, e che permettono alla gente di mondo una sorta d'amor sottile e misterioso, una specie di contatto impuro dei pensieri grazie all'evocazione simultanea, torbida e sensuale come un abbraccio, di tutte le cose segrete, invereconde eppur bramate, dell'amplesso.
Avevano portato l'arrosto, pernici accompagnate da quaglie, e poi piselli, una terrina di fegato d'oca con un'insalata a foglioline seghettate che come una schiuma verde colmava una grossa insalatiera a forma di catinella. Mangiarono ogni cosa senza gustarla, sbadatamente, tutti presi dai loro discorsi, immersi in un bagno d'amore.
Le due signore, ormai, le dicevano grosse, la de Marelle con la sua naturale audacia che sapeva di provocazione, la Forestier con un adorabile ritegno, con un pudore nel tono, nella voce, nel sorriso, nei modi, che accentuava, con l'aria di attenuarle, le frasi pepate che le uscivano di bocca.
Forestier, stravaccato sui cuscini, rideva, beveva, mangiava a più non posso e ne mollava ogni tanto una talmente spinta o talmente cruda che le signore, ferite dalla forma... e per la forma, mettevano su un musetto imbarazzato che però non durava più di due o tre secondi. Quando gliene scappava una veramente tosta, aggiungeva subito: «Ohei, ragazzi, andiamo proprio bene. A continuar così si finirà col commettere qualche sciocchezza.»
Vennero le frutta, il caffè, i liquori che empirono le menti già turbate d'una nebbia ancor più grassa e affocata.
Come aveva annunziato mettendosi a tavola, la signora de Marelle aveva alzato il gomito, e lo dava a divedere col garbo spigliato e chiacchierino della donna che, per divertire i commensali, esagera una punta d'ubriachezza nient'affatto inventata.
La signora Forestier adesso taceva, per prudenza, forse; e Duroy, sentendosi troppo alterato per non compromettersi, manteneva un astuto riserbo.
S'accesero le sigarette, e Forestier, di schianto, prese a tossire.
Fu un nodo terribile che gli squarciava il petto; congestionato in volto, la fronte imperlata di sudore, soffocava nel tovagliolo. Calmatosi l'insulto, brontolò fuori di sé: «Non è roba che fa per me, divertirsi a questo modo: è idiota.»
Tutto il suo buon umore era scomparso, terrorizzato com'era dal male.
La signora de Marelle suonò per chiedere il conto. Glielo portarono quasi subito. Tentò di leggerlo, ma i numeri le ballavano davanti agli occhi, e passò il foglietto a Duroy: «Tenga, paghi per me, io non ci vedo più, sono troppo brilla.»
E gli lanciò anche la borsetta.
Il totale ammontava a centotrenta franchi. Duroy controllò e verificò la nota, poi porse due biglietti da cento prendendo il resto e domandando sottovoce: «Quanto si deve lasciare di mancia?»
«Quello che vuole, non so.»
Mise cinque franchi nel piatto, poi restituì la borsetta alla giovane signora dicendole:
«Vuol che la accompagni fino al portone di casa?»
«Certamente. Sarei incapace di trovarlo da sola.»
Strinsero la mano ai Forestier, e Duroy si trovò solo con la signora de Marelle in una carrozza che rotolava via.
Se la sentiva a fianco, vicina vicina, chiusa con lui in quella scatola nera, bruscamente illuminata, per un istante, dai lampioni a gas lungo i marciapiedi. Sentiva, sotto la manica, il calore della spalla di lei, e non trovava nulla da dirle, assolutamente nulla, con la mente paralizzata dall'imperioso desiderio di stringerla fra le braccia.
«Che farebbe, se osassi?» pensava. Il pensiero di tutte le frasi grassocce sussurrate durante la cena lo imbaldanziva, ma nello stesso tempo lo tratteneva il timore d'uno scandalo.
Anche lei taceva, immobile, rincantucciata in un angolo. Se non le avesse visto brillare gli occhi ogni volta che un raggio di luce entrava nella carrozza, l'avrebbe creduta addormentata.
«A che starà pensando?» Sentiva ch'era meglio non aprir bocca, che una parola, una sola parola, rompendo il silenzio, avrebbe compromesso la buona occasione che gli si presentava; ma gli mancava l'audacia, l'audacia necessaria per un'azione brusca, brutale.
D'un tratto la sentì muovere un piede: un moto, uno scatto secco, nervoso, d'impazienza, o, forse, d'invito. A quell'atto quasi impercettibile, un lungo brivido gli corse sulla pelle dalle radici dei capelli alle unghie dei piedi, e, voltatosi all'improvviso, si gettò su di lei, cercando con le labbra la sua bocca e con le mani la carne nuda.
La de Marelle diede un grido, un piccolo grido, cercò di alzarsi, di dibattersi, di respingerlo; poi cedette, come se le fosse mancata la forza di resister più a lungo.
La carrozza, nel frattempo, s'era fermata davanti al portone di lei, e Duroy, sorpreso, non ebbe nemmen da cercare qualche appassionata parola per ringraziarla, per benedirla e per esprimerle il proprio amore pieno di gratitudine. Tuttavia lei non si alzava, non si muoveva, stordita da quant'era accaduto. Temendo allora che il vetturino s'insospettisse, scese per primo e le porse la mano.
Uscì dalla carrozza barcollando e senza dire una parola. Duroy suonò, e appena il portone si aprì, chiese con voce tremante: «Quando la rivedrò?»
Con un filo di voce che si udiva appena: «Venga domani a desinare da me,» bisbigliò lei. E scomparve nel buio dopo aver dato una spinta al pesante portone che si chiuse col tonfo d'una cannonata.
Consegnò cinque franchi al vetturino, e s'avviò a passo svelto, trionfante, col cuore che gli traboccava di gioia.
Ne aveva in pugno una, finalmente, una donna maritata! una donna di classe! di gran classe! della buona società parigina! Come tutto era stato facile, inaspettato!
Fino a quel momento aveva creduto che per avvicinare e conquistare una di quelle creature tanto bramate, occorressero infinite premure, attese interminabili, fosse necessario un abile assedio di galanterie, di paroline d'amore, di sospiri e di regali. Ed ecco invece ch'era bastato un piccolissimo tentativo perché, d'un tratto, la prima in cui si era imbattuto gli si abbandonasse fra le braccia, con una rapidità che lo lasciò sbalordito.
«Aveva bevuto,» pensava. «Domani sarà un'altra faccenda. Dovrò sorbirmi le lacrime.» Questa prospettiva lo innervosì, ma esclamò tra sé e sé: «Al diavolo. Ora è mia e, parola d'onore, non me la lascerò scappare.»
E nel confuso miraggio dove si perdevano le sue speranze, speranze di grandezza, di successo, di notorietà, di ricchezza e d'amore, scorse a un tratto, simili alle ghirlande di danzatrici che si dispiegano nei cieli delle apoteosi, una lunga teoria di donne eleganti, ricche, potenti, che gli passavano davanti sorridendo per scomparire l'una dopo l'altra nella nuvola dorata dei suoi sogni.
E il sonno gli si popolò di visioni.
Era un po' emozionato, l'indomani, salendo le scale della signora de Marelle. Come lo avrebbe accolto? E se non avesse voluto riceverlo? Se avesse dato l'ordine di non lasciar entrare nessuno? Se avesse raccontato?... Ma no, doveva stare zitta con tutti se non voleva che si capisse intera la verità. Era lui dunque l'arbitro della situazione.
La servetta aprì la porta. Aveva il volto di sempre. Duroy si tranquillizzò, quasi si fosse aspettato di vederla sconvolta.
Le domandò: «La signora sta bene?»
La domestica rispose: «Certo, signore, come tutti gli altri giorni.»
E lo fece accomodare in salotto.
Subito si diresse verso il caminetto, per darsi un'occhiata ai capelli e all'abito. Stava aggiustandosi la cravatta quando, nello specchio, scorse la giovane signora che stava osservandolo, ferma sulla soglia della camera.
Fece finta di non averla vista, e per un istante si squadrarono a vicenda in fondo alla spera, esaminandosi; spiandosi prima di trovarsi a faccia a faccia.
Duroy si voltò. Lei non si mosse, e parve aspettarlo. Lui le si precipitò incontro balbettando: «Quanto l'amo! quanto l'amo!»
Lei aprì le braccia, e gli si abbandonò sul petto; poi levò il volto e si baciarono a lungo.
Il nostro giovanotto stava pensando: «È più facile di quanto avessi creduto. Tutto va a gonfie vele.» E quando le loro labbra si separarono, sorrise senza dire una parola, cercando di porre nello sguardo la carica d'un amore infinito.
Sorrideva anche lei, con quel sorriso che nelle donne esprime. il desiderio, il consenso, la volontà di darsi. E mormorò: «Siamo soli, Laurine l'ho mandata a pranzo da una sua compagna.»
Lui sospirò e le baciò i polsi: «Grazie. La adoro.»
Lei allora se lo prese a braccetto, come se fosse stato il marito, e andarono a sedersi sul sofà, vicini vicini.
Duroy avrebbe voluto cominciar la conversazione in modo abile e attraente, ma non trovando le parole adatte balbettò:
«Allora, non mi serba rancore?»
«Zitto,» fece lei mettendogli una mano sulla bocca.
Rimasero silenziosi, gli occhi negli occhi, le dita scottanti intrecciate insieme.
«Quanto la desideravo!» disse lui.
Si sentiva la domestica maneggiare i piatti in sala da pranzo, dietro la parete.
Lui si alzò: «Non posso restarle così vicino. Perderei la testa.»
L'uscio si aprì: «La signora è servita.»
E lui porse il braccio con gravità.
Pranzarono uno di fronte all'altro, guardandosi e sorridendosi senza posa, preoccupati soltanto di se stessi, tutti immersi nel soave incanto d'una tenerezza incipiente. Non s'accorgevan nemmeno di quel che mangiavano. Lui sentì un piede, un piedino, vagare sotto la tavola. Lo prese fra i suoi e lo tenne stretto, con quanta forza aveva.
La domestica andava e veniva, portava e toglieva i piatti indifferente, facendo finta di nulla.
Terminato di pranzare, tornarono in salotto e ripresero il loro posto sul sofà, a fianco a fianco.
Adagio adagio lui le si strinse contro, cercò d'abbracciarla. Ma lei, calma, lo respinse: «Stia attento, potrebbe entrare qualcuno.»
«Quando potrò vederla proprio sola,» mormorò allora Duroy, «per poterle dire tutto il mio amore?»
Chinatasi al suo orecchio, lei sussurrò: «Verrò a casa sua uno di questi giorni, a farle una visitina.»
Lui sentì una vampa di rossore salirgli al viso: «Veramente... a casa mia... vede... è un luogo molto modesto.»
La giovane signora sorrise: «Che importa. Vengo a trovar lei, mica la casa.»
Allora lui insisté per saper quando. Lei stabilì un giorno ancora lontano della settimana susseguente, ma lui la supplicò d'anticipare la data, balbettando con gli occhi lustri, stringendole e tormentandole le mani, rosso in viso, congestionato, divorato dal desiderio, quel desiderio prepotente che segue di solito una cenetta a due.
Lei si divertiva a vederlo implorare con tanta foga, e scalava, via via, d'un giorno. Ma Duroy andava ripetendo:
Finalmente acconsentì: «Sta bene. Domani. Alle cinque.»
Lui trasse un lungo sospiro di gioia, e tornarono a parlare pressoché tranquilli, in piena confidenza, come se si conoscessero da una ventina d'anni.
Una scampanellata li fece sussultare; e, di scatto, si scostarono l'uno dall'altro.
«Dev'essere Laurine,» mormorò lei.
Comparve infatti la bambina che, dopo la prima sorpresa, si precipitò di corsa incontro a Duroy, contenta matta di vederlo, battendo le mani e gridando: «Oh, Bel-Ami!»
La signora de Marelle si mise a ridere:
«To', Bel-Ami! Laurine l'ha battezzato. È un bel soprannome, dice tutta la nostra amicizia. La chiamerò anch'io Bel-Ami!»
Duroy aveva preso la piccina sulle ginocchia, e dovette ripetere con lei tutti i giochetti che le aveva insegnato.
Si alzò da sedere alle tre meno venti per andare al giornale; e per le scale, verso la porta ancora socchiusa, mormorò a fior di labbra: «Domani, alle cinque.»
Con un sorriso lei rispose: «Sì», e scomparve.
Sbrigate le faccende d'ogni giorno, pensò d'aggiustare un po' la sua stanza per ricever l'amante, e di mascherare come meglio poteva la meschinità dell'ambiente. Appuntò alle pareti dei minuscoli ninnoletti giapponesi, e per cinque franchi comprò un'intera collezione di ventaglietti e di ventole di crespo per nasconder le macchie più appariscenti sulla carta della tappezzeria. Ai vetri appiccicò qualche figura trasparente, un fiume con tante barche, stormi d'uccelli fra nubi accese dal tramonto, damine variopinte sul verone, e lunghe file d'omini neri su una pianura coperta di neve.
La stanza, giusto grande quanto basta per dormirci e sederci, rassomigliò in un istante all'interno d'un lampioncino di carta colorata. L'effetto gli parve soddisfacente, e passò la serata a incollare sul soffitto uccellini ritagliati nei fogli a colori rimastigli.
Poi si coricò, cullato dai fischi dei treni.
L'indomani tornò a casa presto, con un pacco di dolci e una bottiglia di madera comprata dal droghiere. Dovette uscir di nuovo per procurarsi due piatti e due bicchieri; e dispose il piccolo rinfresco sulla toletta, coprendone il legno sporco con un tovagliolo, mentre sotto aveva nascosto alla meglio la catinella e la brocca dell'acqua.
Poi aspettò.
Giunse verso le cinque e un quarto, e attratta dal variopinto sfarfallio di tutte quelle figurine, esclamò: «Oh oh! Carino, qui da lei! Però, quanta gente per le scale.»
Lui la prese fra le braccia, e con foga le baciò i capelli, tra la fronte e il cappellino, attraverso il velo.
Un'ora e mezzo dopo la riaccompagnò al posteggio delle vetture di piazza di Rue de Rome. Appena fu salita in carrozza, Georges mormorò: «Martedì, alla stessa ora.»
«Alla stessa ora, martedì,» disse lei. E poiché era già buio, presogli il volto fra le mani lo trasse a sé e lo baciò sulla bocca attraverso il finestrino. Poi, allo schiocco di frusta del cocchiere, gridò: «Addio, Bel-Ami!» E il vecchio legno s'allontanò, al trotto stanco del suo bianco ronzino.
Per tre settimane di seguito, ogni due o tre giorni, talvolta di mattina, talvolta di sera, Duroy ricevette così la signora de Marelle.
Un pomeriggio, mentre stava aspettandola, un gran baccano per le scale lo costrinse a farsi sulla porta. S'udivano gli strilli d'un bambino. Una voce furibonda, una voce d'uomo, urlò: «Ma cos'ha ancora da sbraitare, quel moccioso?»
Rispose la voce stridula ed esasperata d'una donna: «È quella sporca sgualdrina che se la fa col giornalista di su; ha fatto cascar Nicolas sul pianerottolo. Ma guarda se si devon lasciare in giro sudiciumi simili, che non badan nemmeno alle creaturine che son per le scale.»
Duroy, sconvolto, si ritrasse, avendo udito un rapido fruscio di gonne e un passo precipitoso su per la rampa. Quasi subito sentì bussare alla porta or ora chiusa. Aprì e la signora de Marelle irruppe nella stanza, trafelata, sbigottita, balbettando:
«Hai inteso?»
Lui finse di non essersi accorto di nulla.
«No, che cosa?»
«Ma come mi hanno insultata!»
«E chi?»
«Quei miserabili di giù.»
«Ma com'è possibile; cos'è successo, dimmi.»
S'era messa a singhiozzare e non riusciva più a dire una parola.
Dovette toglierle il cappellino, slacciarla, adagiarla sul letto, umettarle le tempie con un pannolino; le mancava il respiro; finché, calmatasi un poco l'emozione, diede libero sfogo, fuor di sé, al proprio sdegno.
Pretendeva che lui scendesse immediatamente, che ti battesse, che li ammazzasse.
Duroy continuava a ripetere: «Ma è gente del popolo, son dei cafoni. Pensaci, c'entrerebbero di mezzo le guardie. Potresti essere riconosciuta, arrestata, rovinata. Meglio non compromettersi, con tipi simili.»
Un'altra idea le attraversò la mente: «E come faremo, adesso? Io mica posso tornarci, qui.»
«Ma è semplicissimo, cambierò casa.»
«Già, ma s'andrà per le lunghe,» mormorò lei.
Poi, d'un tratto, balenatale una soluzione, e subito rasserenata:
«No, ascolta, ho trovato,» esclamò. «Lascia fare a me. Tu non t'impicciare. Ti manderò domattina un "bigliettino azzurro".»
Chiamava «bigliettini azzurri» i telegrammi chiusi che circolano in Parigi.
Sorrideva, adesso, entusiasta della propria idea, che però non voleva rivelare; e s'abbandonò a mille follie d'amore.
Ma com'era agitata, nel ridiscendere le scale, appoggiandosi di peso al braccio dell'amante, tanto le si piegavano le gambe.
Non incontrarono nessuno.
Poiché si alzava sempre tardi, l'indomattina lui era ancora a letto quando, verso le undici, il fattorino gli portò il telegramma promesso.
Duroy l'aprì e lesse: «Appuntamento stasera ore 5, Rue de Constantinople 127. Fatti aprire appartamento affittato dalla signora Duroy. Baci. Tua Clo.»
Alle cinque in punto Georges entrava dal portinaio d'un grosso stabile, tutto d'appartamenti ammobiliati, e chiese: «È qui che la signora Duroy ha affittato un appartamento?»
«Sì, signore.»
«Le dispiace accompagnarmi?»
L'uomo, abituato senza dubbio alle delicate situazioni per le quali è bene andar coi piedi di piombo, lo guardò fisso negli occhi, poi gli domandò, mentre sceglieva una chiave nella lunga fila:
«Lei è il signor Duroy, vero?»
Gli aprì allora un ambientino di due stanze, a pianterreno, davanti alla portineria.
Nel salotto, tappezzato di carta a fiorami abbastanza fresca, c'erano due o tre poltroncine e un divanetto di mogano coperti di cordonato verdastro a disegni gialli, e una rezzola di tappeto a fiori, tanto sottile che si sentiva il legno del pavimento.
La camera era così angusta, che il letto bastava ad occuparne tre quarti. Era posto contro la parete di fondo, da un cantone all'altro, un gran letto da camera ammobiliata avvolto in pesanti drappeggi turchini, anch'essi di cordonato, e oppresso da un coltrone di seta rossa pieno di equivoche macchie.
Preoccupato e scontento, Duroy stava pensando: «Mi costerà un occhio, un appartamentino così. Dovrò indebitarmi ancora. Bell'idiozia, ha fatto!»
La porta si aprì; e Clotilde entrò come una ventata, con gran fruscio di vesti, a braccia aperte. Era entusiasta: «Non è carino, di'? Non è carino? E niente scale da salire, e sulla strada, a pianterreno. Si può entrare e uscire dalla finestra senza esser visti dal portinaio. Come potremo amarci bene, qui dentro.»
Duroy la baciava freddo freddo, non osando far la domanda che gli saliva alle labbra.
Lei aveva posato un grosso involto sul tavolincino tondo in mezzo alla stanza. Lo aprì e ne tirò fuori una saponetta, una bottiglia d'acqua di Lubin, una spugna, una scatola di forcine, un allacciabottoni e un piccolo ferro da ricci per rimettere in sesto le ciocche sulla fronte che, ogni volta, le si sfacevano.
Cercando il posto adatto a ciascun oggetto, cominciò a mettere a posto ogni cosa, divertendosi un mondo in quel giuoco di sistemar la nuova casetta.
Parlava continuando ad aprir cassetti: «Devo portarmi un po' di biancheria per aver da cambiarmi, all'occorrenza. Sarà una gran comodità. Se mi prenderà un acquazzone mentre sono in giro a far commissioni, potrò sempre venire qui ad asciugarmi. Avremo una chiave per uno, oltre quella lasciata in portineria, casomai ci scordassimo la nostra. Ho preso in affitto per tre mesi, a nome tuo, naturalmente, perché non potevo mica dare il mio.»
«Ma è già pagato, tesoro,» rispose lei con semplicità.
«Allora dovrò pagar te,» riprese Duroy.
«Ma no, cocco mio, tu non c'entri, è una piccola pazzia che ho voluto far io.»
Lui fece finta d'aversene a male: «Ah, no, perbacco! Questo non lo permetterò mai.»
Avvicinatasi supplichevole, e posategli le mani sulle spalle: «Ti prego, Georges,» gli disse lei. «Sarò così felice, ma così felice se il nostro nido rimarrà mio, tutto mio. Non devi offenderti per questo. Che c'è di male? È un mio omaggio al nostro amore. Dimmi che me lo permetti, mio piccolo Gèo, dimmelo...»
Lo supplicava con gli occhi, con le labbra, con tutta l'anima.
Duroy si fece pregare, opponendo gesti di sdegnato rifiuto, ma finì col cedere, anzi gli parve cosa giusta, dopotutto.
Quando se ne fu andata, mormorò, fregandosi le mani e senza cercar troppo nelle profonde latebre del cuore donde gli venisse, quel giorno, tale apprezzamento: «Però, che cara...»
Qualche giorno dopo ricevette un altro «bigliettino azzurro» che diceva: «Mio marito arriverà stasera, dopo sei settimane d'ispezione. Chiusura per otto giorni, dunque. Che scocciatura, tesoro mio. Tua Clo.»
Duroy rimase di princisbecco. Davvero non ci pensava più che avesse un marito. Ecco un tipo che gli sarebbe piaciuto vedere in faccia almeno una volta, non fosse che per saper com'era fatto.
Comunque aspettò pazientemente la partenza del coniuge, senza tuttavia scordarsi le Folies-Bergère, dove passò due serate che finirono da Rachel.
Infine, una mattina, nuovo telegramma con queste quattro parole: «Stasera alle cinque. Clo.»
Arrivarono all'appuntamento tutti e due in anticipo. Lei gli si buttò fra le braccia in un grande slancio d'amore, gli coprì il viso di baci appassionati, poi gli disse: «Dopo che ci saremo amati tanto tanto, mi ci porti a pranzo da qualche parte? Io mi sono resa libera.»
S'era giusto ai primi del mese, e sebbene lo stipendio se lo fosse già consumato da un pezzo, e ora vivesse alla giornata racimolando soldi qua e là, per combinazione Duroy si trovava fornito; e fu contento dell'occasione che gli si offriva di spendere qualcosa per lei.
Rispose: «Ma sicuro, cara, dove vuoi tu.»
Uscirono che saranno state le sette, e raggiunsero il boulevard esterno. Clotilde gli si stringeva a fianco quanto più poteva, dicendogli in un orecchio: «Sapessi come son contenta d'uscire a braccetto con te; mi piace tanto sentirti vicino vicino.»
«Vuoi che andiamo da zi' Lathuile?» le domandò.
«Oh,» rispose lei, «è troppo per bene. Vorrei qualcosa di curioso, un locale ordinario, una trattoria, per esempio, da impiegatucci e da operaie. Adoro le cenette nelle bettole! Oh, fossimo potuti andare in campagna!»
Poiché Duroy non conosceva nulla del genere nel quartiere, vagarono per il boulevard e finirono con l'entrare in una bottiglieria dove, in una saletta a parte, si dava anche da mangiare. Dagli usciali a vetri, lei aveva visto due ragazzotte in capelli sedute di fronte a due soldati.
In fondo alla stanza, lunga e stretta, pranzavano tre vetturini; e uno strano personaggio, non classificabile in quanto a mestiere, se ne stava lì a fumar la pipa, le gambe allungate, le mani nella cintola dei calzoni, steso sulla sedia col capo rovesciato all'indietro sopra la spalliera. La sua giacca pareva una galleria di patacche, e dalle tasche gonfie come pance pregne si vedeva uscire il collo d'una bottiglia, un pezzo di pane, un cartoccio fatto con un giornale, e uno spago ciondoloni. I suoi capelli erano folti, crespi, arruffati, grigi di sporcizia. Per terra, sotto la sedia, c'era il suo berretto.
Clotilde colpì gli avventori con la sua eleganza. Le due coppie smisero di bisbigliare, i tre cocchieri di discutere, e il tizio che fumava, toltasi la pipa di bocca, scaracchiò per terra e la guardò voltando appena il capo.
«Carino, qui!» mormorò lei, «Ci staremo come papi; la prossima volta voglio vestirmi da popolana.»
E per nulla imbarazzata o schifata, sedette al tavolino di legno grezzo verniciato dal grassume dei cibi, lavato dalle bevande rovesciate, forbito dalla passatina di tovagliolo del garzone. Duroy, piuttosto impacciato e vergognoso, cercò un beccatello qualsiasi per appendervi il cilindro. Non avendone trovato traccia, lo posò su una sedia.
Mangiarono castrato in umido, la falda del cosciotto, e un'insalata. Clotilde non faceva che dire: «Adoro questi posti. Ho gusti plebei, io. Mi diverto più qui che al Café Anglais.»
E aggiunse: «Se vuoi farmi del tutto felice, portami in una di quelle taverne fuori porta dove si balla. Ne conosco una curiosissima, non troppo lontana. Si chiama "Regina Bianca".»
Duroy, sorpreso, domandò: «E chi ti ci ha portato?» La guardò e la vide arrossire, un poco turbata, come se tale domanda brusca avesse risvegliato in lei qualche dolce ricordo. Dopo una di quelle esitazioni tutte femminili che durano un lampo e che bisogna cogliere a volo, rispose: «Un amico... Un amico,» aggiunse dopo una breve pausa, «che è morto.»
E abbassò gli occhi, colta da sincera mestizia.
Per la prima volta Duroy pensò a tutto quanto ignorava del passato di quella donna, e rimase pensieroso. Doveva aver già avuto, certo, altri amanti, ma di che genere? di quale ambiente? Una vaga gelosia, una specie d'animosità gli nasceva nell'animo contro di lei, un rancore per tutto ciò che ignorava della sua persona, per tutto ciò che del suo cuore e della sua esistenza non gli era appartenuto. La guardava, punto dal mistero chiuso in quella muta testolina che forse, in quello stesso istante, stava pensando all'altro, agli altri, con un po' di nostalgia. Come gli sarebbe piaciuto ficcare il naso in quei ricordi, frugarvi dentro, e saper tutto, conoscer tutto!...
Lei ripeté: «Mi ci porti alla "Regina Bianca"? La festa sarebbe per me al completo.»
Lui pensò: «Bah, il passato che conta? Sono un bel bestione a crucciarmi per questo.» E rispose sorridendo: «Ma certo, tesoro.»
Quando furono per la strada, lei riprese a bassissima voce, col tono misterioso di quando si confida un segreto: «Sai, prima non avevo mai osato chiederti di portarmici; ma tu non immagini quanto mi piaccia far di queste scappate da ragazzaccio in posti dove le signore non ardiscono entrare. A carnevale voglio vestirmi da collegiale. Son buffa che non ti dico, vestita da collegiale.»
Entrati nella saletta da ballo, gli si strinse contro, spaurita e felice, guardando estasiata le prostitute e i loro protettori; e di tratto in tratto, scorgendo una guardia municipale seria e immobile, diceva quasi a rassicurarsi in vista di chissà quale pericolo: «Ecco un vigile che mi par ben piantato.»
Dopo un quarto d'ora n'ebbe abbastanza, e lui la riaccompagnò a casa.
Cominciò allora tutta una serie di scorribande in locali equivoci dove va a sollazzarsi il popolino; e Duroy scoprì nella sua amante una vera passione per quel vagabondare da goliardi in bisboccia.
Si presentava al solito appuntamento con un vestituccio di rigatino e una cuffia da cameriera, da cameriera d'operetta; ma nonostante la scelta d'un abitino così semplice nella sua grazia, continuava a portare gli anelli, i braccialetti e gli orecchini di brillanti, tirando fuori questa scusa se lui la supplicava di levarseli: «Tanto, li prenderanno per cocci di bottiglia.»
Si reputava ammirevolmente travestita, e sebbene, in realtà, il suo fosse il nascondersi dello struzzo, andava nei ritrovi più malfamati.
Avrebbe voluto che Duroy si vestisse da operaio; ma questi si oppose e non abbandonò mai il suo correttissimo abito da giovanotto elegante, senza voler nemmeno sostituire il cilindro con un cappello floscio. S'era consolata di tanta ostinatezza con questa riflessione:
«Penseranno ch'io sia l'amore ancillare d'un uomo di mondo.» E la commedia la trovava gustosissima.
Entravano così nelle bettolacce frequentate dalla feccia, e si sedevano in fondo allo stambugio affumicato, su due seggiole zoppe, davanti a un vecchio tavolino di legno. Una nuvola di fumo acre che sapeva di pesce fritto empiva il locale. Uomini in camiciotto berciavano bevendo bicchierotti; e il garzone, a bocca aperta, squadrava la strana coppia, posando, davanti a loro, due ciliege sotto spirito.
Tutta tremori, timori e stupori, Clotilde sorseggiava il succo rosso dei frutti guardandosi intorno con occhio trepido e acceso. Ogni ciliegia inghiottita le dava l'impressione d'un peccato commesso, ogni goccia di quel liquore pizzicante che le bruciava la gola le procurava una voluttà acre, il piacere d'un godimento delittuoso e proibito. Finché sottovoce diceva: «Andiamocene.»
Uscivano. A capo chino e a passettini brevi, da attrice che lascia la scena, Clotilde filava via svelta fra i bevitori che coi gomiti sul tavolino la guardavano passare diffidenti e seccati; e appena varcata la soglia, traeva un sospirone come se fosse scampata a un terribile pericolo.
Talvolta chiedeva a Duroy, con un brivido:
«Cosa faresti se in uno di questi postacci m'oltraggiassero?»
«Ma ti difenderei, perbacco!» rispondeva lui con aria smargiassa.
Lei allora gli stringeva il braccio, beata, con un vago desiderio, probabilmente, che la oltraggiassero per vedersi difesa, per vedere uomini battersi fra loro per lei, magari quegli stessi uomini lì col suo adorato.
Ma queste scorribande che si ripetevano due o tre volte la settimana cominciavano a stancar Duroy, che d'altronde, da qualche tempo, riusciva a malapena a procacciarsi il mezzo luigi necessario per la carrozza e le consumazioni.
Conduceva adesso una vita stentatissima, ancor più stentata di quand'era impiegato alle ferrovie nord, perché avendo scialacquato, senza star lì a far conti, durante i suoi primi mesi di giornalismo, sempre con la speranza di guadagnar domani grosse somme, aveva esaurito ogni sua risorsa e ogni suo mezzo per procacciarsi quattrini.
Un metodo molto spiccio, quello degli anticipi chiesti in cassa al giornale, ben presto non funzionò più di fronte a un debito, ormai, di ben quattro mesate, più i seicento franchi anch'essi anticipatigli sulla collaborazione a un tanto a riga. Doveva inoltre cento franchi a Forestier e trecento a Jacques Rival, che non era stretto di borsa; ed era divorato da un'infinità di debitucci inconfessabili, di venti o perfino di cinque franchi.
Saint-Potin, consultato sui procedimenti da usare per scovare ancora un centinaio di franchi, non era riuscito, lui uomo così ricco di trovate, a scoprir nulla; e Duroy era esasperato da tanta disdetta, ancor meno sopportabile di prima essendo cresciuti i bisogni. Una bile sorda covava in lui contro tutti quanti, unita a una continua irritabilità, che si manifestava a proposito e a sproposito, ad ogni piè sospinto, pei più futili motivi.
A volte si chiedeva come avesse fatto a spendere una media di mille franchi al mese, senza essersi mai abbandonato a eccessi o fantasie; e allora s'accorgeva che addizionando un desinare da otto franchi con una cena da dodici in uno dei tanti caffè-ristorante di lusso del boulevard, s'arrivava subito a un luigi, il quale, aggiunto a una decina di franchi in moneta spicciola, quella che se ne va senza che si sappia come, dava un totale di trenta franchi. Ora, trenta franchi al giorno fanno novecento franchi al mese. E questo senza includer nella cifra le spese per i vestiti, le scarpe, la biancheria, la lavandaia, ecc.
Il 14 dicembre si trovò così senza un soldo in tasca e senza un'idea nella mente per acciuffar qualche po' di moneta. Fece come già aveva fatto spesso, saltò il desinare e trascorse il pomeriggio in redazione lavorando, pieno di rabbia e preoccupato.
Verso le quattro ricevette un bigliettino azzurro della sua amante, che diceva: «Vogliamo cenare insieme? Faremo poi una delle solite scappatelle.»
Rispose immediatamente: «Cenare è impossibile.» Poi rifletté che sarebbe stato stupido privarsi dei piacevoli momenti che lei gli avrebbe procurato, e aggiunse: «Ma ti aspetterò alle nove nel nostro appartamento.» E mandato uno dei fattorini a portare il biglietto per risparmiare i soldi del telegramma, pensò a come sbrogliarsela per procurarsi il pasto serale.
Alle sette non aveva ancora escogitato nulla; e una fame da lupo gli torceva le budella. Ricorse allora a uno stratagemma disperato. Aspettò che i colleghi, ad uno ad uno, se ne fossero andati tutti, e quando fu solo diede un'energica scampanellata. Accorse l'usciere del direttore, rimasto di guardia agli uffici.
Ritto, nervoso, frugandosi nelle tasche, Duroy disse con voce brusca: «Foucart, mi sono scordato il borsellino a casa, e devo andare a cena al Luxembourg. Prestami un po' mezzo scudo per la carrozza.»
L'uomo cavò tre franchi dal panciotto, e fece:
«Se le occorre di più, signor Duroy...»
«No, no, mi bastano. Molte grazie.»
E afferrate le monete d'argento, Duroy scese le scale di corsa e andò a cena in una trattoriuccia dove finiva sempre nei giorni di magra.
Alle nove stava aspettando la sua amante, coi piedi davanti al fuoco, nel salottino.
Giunse tutta animata, piena d'allegria, eccitata dall'aria fredda della strada: «Se ti va,» disse, «faremo prima un giretto, poi torneremo qui alle undici. Il tempo par fatto apposta per passeggiare.»
Rispose immusonito: «Perché uscire? Si sta così bene, qua.»
«Vedessi,» riprese lei senza levarsi il cappellino, «c'è un chiaro di luna. È un vero piacere, stasera, andare a spasso.»
«Può darsi, ma a me di andare a spasso non va.»
Era furente, e Clotilde rimase colpita, ferita dal tono della sua voce.
«Ma che ti piglia?» domandò. «Perché fai così? Se ho voglia di fare una passeggiata, non capisco perché tu debba prendertela tanto.»
Lui si alzò, esasperato: «Non me la prendo affatto. Mi scoccia, ecco tutto.»
Lei era una di quelle donne che la resistenza irrita e la sgarbatezza esaspera.
Rispose sdegnosa, con fredda collera:
«Non sono abituata a sentirmi parlar così. Andrò allora da sola. Addio!»
Lui capì che non scherzava e, di slancio, le prese le mani e gliele baciò, balbettando:
«Perdonami, amor mio, perdonami, son tanto nervoso, stasera, son così irritabile. È che son pieno di fastidi, di noie, vedi, seccature del mestiere.»
Un poco rabbonita, ma non placata, lei rispose:
«Son faccende che non mi riguardano, ma non voglio che tu scarichi su di me il tuo malumore.»
Lui la prese fra le braccia, la trasse verso il divano:
«Ascoltami, tesoruccio, non volevo offenderti; ho detto così senza saper quel che dicevo.»
L'aveva costretta a sedersi, e in ginocchio le domandò:
«Mi hai perdonato? Dimmi che mi hai perdonato.»
«Sia,» gli rispose lei freddamente. «Ma che non si ripeta mai più.»
E alzatasi, aggiunse: «Ora andiamo a fare un giretto.»
Rimasto in ginocchio, lui le circondò i fianchi con le braccia e balbettò: «Ti prego, restiamo qui. Ti supplico. Fammi questo regalo. Mi piacerebbe tanto, stasera, tenerti qui tutta per me, vicino al fuoco. Dimmi di sì, ti scongiuro, dimmi di sì.»
«No,» replicò lei asciutta, dura. «No. Mi va di passeggiare e non son disposta a cedere ai tuoi capricci.»
Duroy insisté: «Ti supplico, ho i miei motivi, dei motivi molto seri.»
«No,» disse ancora lei. «E se non vuoi uscire con me, me ne vo sola. Addio.»
S'era liberata con uno strattone e aveva già raggiunto la porta. Lui la rincorse e la chiuse fra le braccia.
«Ascolta, Clo, mia piccola Clo, stammi a sentire, fammi questo piacere...»
Lei accennava di no col capo, senza rispondere, scansando i baci e cercando di svincolarsi dalla sua stretta per andarsene.
«Clo, mia piccola Clo,» balbettava lui, «ho i miei motivi.»
Guardandolo bene in faccia, Clotilde si fermò «Tu menti... quali motivi?»
Duroy arrossì, non sapendo che dire. E lei riattaccò indignata: «Lo vedi che sei un bugiardo... brutto screanzato...»
E con uno scatto di rabbia e gli occhi pieni di lacrime gli sfuggì via.
La afferrò ancora una volta per le spalle, e costernato, pronto a confessar tutto pur d'evitare una rottura, disse pieno di disperazione: «Non ho un soldo in tasca... lo vuoi sapere?»
Lei si fermò di colpo, e guardandolo nel bianco degli occhi per cercar di leggervi la verità, domandò «Hai detto?»
Duroy era arrossito fino alla radice dei capelli: «Ho detto che non ho nemmeno un soldo. Ora hai capito? Nemmeno un franco, nemmeno mezzo franco, nemmeno di che pagarti una bibita in un caffè. Mi costringi a confessare cose che mi fanno avvampar di vergogna. Bella figura uscir con te, e poi dirti tranquillamente, davanti a due consumazioni, ch'io non posso pagare...»
Clotilde lo guardava fisso fisso: «Ma... ma allora è proprio vero, quel che dici?»
In un baleno lui si rivoltò tutte le tasche, quelle dei pantaloni, quelle del panciotto, quelle della giacca, e mormorò:
«Te'... sei contenta... adesso?»
Allargando le braccia in uno slancio di passione, lei gli si buttò di schianto al collo barbugliando: «Oh povero amor mio... tesoro mio... se avessi immaginato! Ma come t'è potuto capitar questo?»
Lo fece sedere, e si sedette anche lei sulle sue ginocchia; poi, tenendogli le braccia intorno al collo, e baciandolo ogni minuto sui baffi, sulla bocca, sugli occhi, volle a tutti i costi che le raccontasse l'origine dei suoi guai.
Duroy inventò una storia commovente. Aveva dovuto aiutar suo padre in cattive acque. S'era visto costretto non solo a dargli tutti i suoi risparmi, ma addirittura a indebitarsi fino ai capelli per lui.
Aggiunse: «Dovrò far cinghia per un sei mesetti almeno, avendo dato fondo a tutte le mie risorse. Pazienza, la vita ha di questi rovesci. Del resto, non val la pena di prendersela per il denaro.»
«Te ne presterò io, permetti?» gli sussurrò lei in un orecchio.
Con dignità, le rispose: «Tu sei molto buona, tesoruccio mio, ma non parliamo più di queste cose, ti prego. Mi faresti dispiacere.»
Lei tacque; poi, stringendolo fra le braccia, mormorò:
«Sapessi quanto bene ti voglio.»
Fu una delle loro più belle serate d'amore.
Sul punto d'andarsene, lei disse sorridendo:
«Eh, chissà che piacere, in una situazione come la tua, trovarsi in tasca dei soldi dimenticati, una moneta andata a finire sotto la fodera!»
«Altro che piacere!» fece lui con piena convinzione.
Clotilde volle tornare a casa a piedi, con la scusa che c'era una splendida luna e che lei si beava a guardarla.
Era una notte fredda e serena, di primo inverno. I passanti e i cavalli procedevano svelti, nel gelo limpido e pungente. I tacchi risuonavano sul marciapiede.
Nel lasciarlo, gli disse: «Vuoi che ci rivediamo posdomani?»
«Ma certo.»
«Alla stessa ora?»
«Alla stessa ora.»
Duroy tornò a casa a passo svelto, chiedendosi cos'avrebbe mai inventato, l'indomani, per togliersi dagli impicci. Aprendo la porta della sua stanza, si mise la mano in tasca per cercare i fiammiferi, e rimase di stucco sentendosi fra le dita una moneta.
Com'ebbe acceso il lume, la prese per guardarla. Era un luigi da venti franchi!
Lo girò, lo rigirò, cercando d'indovinare per quale miracolo si trovasse lì. Non poteva certo essergli caduti in tasca dal cielo.
Poi, d'un tratto, capì tutto, e una collera piena d'indignazione s'impossessò di lui. La sua amante, infatti, non gli aveva forse accennato a una moneta scivolata sotto la fodera, e ritrovata al momento del bisogno? Era stata lei a fargli quell'elemosina. Dio, che vergogna!
Imprecò: «Benone! ma vedrà che accoglienza, posdomani! Vedrà che bel quarto d'ora!»
Andò a letto col cuore che gli martellava di rabbia e d'umiliazione.
Si svegliò tardi. Aveva una fame. Tentò di riaddormentarsi per alzarsi alle due; poi pensò «Ma che concludo, a questo modo? Devo pur sempre scovarlo, qualche soldo!» E uscì con la speranza che gli venisse qualche idea strada facendo.
Non gliene venne nessuna, ma davanti ad ogni trattoria una voglia irresistibile di mangiare gli empiva la bocca di saliva. A mezzogiorno, non avendo ancora escogitato nulla, prese una decisione improvvisa: «Bah, pranzerò sui venti franchi di Clotilde. Questo non m'impedirà di restituirglieli, domani.»
Fece colazione in una birreria, con due franchi e cinquanta. Appena entrato al giornale restituì i tre franchi all'usciere: «Tenga, Foucart, ecco quanto m'ha prestato ier sera per la carrozza.»
Lavorò fino alle sette. Poi andò a cena e tolse altri tre franchi dal medesimo denaro. Le due birre serali portarono a nove franchi e trenta centesimi la spesa della giornata.
Non potendo riacquistare il credito perduto o crearsi nuove risorse in ventiquattr'ore, l'indomani prese altri sei franchi e cinquanta dai venti che doveva restituire quella sera stessa, giungendo così all'appuntamento fissato con quattro franchi e venti in tasca.
Era nero come un cane idrofobo e si riprometteva di metter subito in chiaro la faccenda. Avrebbe detto alla sua amante: «Di', ho trovato i venti franchi che m'hai messo in tasca l'altra sera. Non te li rendo oggi perché sono ancora al punto di prima e non ho ancora avuto il tempo d'occuparmi della questione economica. Ma te li renderò la prima volta che ci rivedremo.»
Lei giunse tutta affettuosa, premurosa, timorosa. Come l'avrebbe accolta? E per evitare un'immediata spiegazione, se lo tenne stretto a lungo fra le braccia.
Duroy, da parte sua, pensava: «Troverò pur il modo d'entrare in discorso. Troverò bene un appiglio.»
Non ne trovò, appigli, e non disse nulla, facendo marcia indietro di fronte alle prime parole che avrebbe dovuto dire su un tasto così delicato.
Lei non parlò all'atto d'uscire e fu in ogni senso deliziosa.
Si separarono verso mezzanotte, dopo aver preso appuntamento solo per il mercoledì della settimana successiva, giacché la signora de Marelle aveva molti inviti a pranzo fuori casa, uno dietro l'altro.
L'indomani, nel pagar il conto del desinare, mentre cercava le quattro monete che dovevano essergli rimaste, Duroy s'accorse che erano cinque, una delle quali d'oro.
Pensò lì per lì che la sera prima gli avessero dato di resto, per una svista, un luigi di più, poi comprese ed ebbe un tuffo al cuore per l'umiliazione di quella insistente elemosina.
Quanto si pentì di non aver accennato a nulla! Se avesse parlato risoluto, questo non sarebbe successo.
Per quattro giorni fece numerosi quanto infruttuosi tentativi per procurarsi cinque luigi, e finì col mangiarsi anche il secondo di Clotilde.
Costei, la prima volta che si rividero, trovò il modo - anche se lui le aveva detto fuor di sé: «Bada bene, non ricominciamo con lo scherzetto delle altre sere, perché m'arrabbio davvero» - d'infilargli altri venti franchi nella tasca dei pantaloni.
Quando se n'accorse, sacramentò: «Mondo boia!» e li trasferì nel panciotto per averli sottomano, dato che si trovava senza un centesimo.
Riuscì a far tacere la propria coscienza con questa argomentazione: «Restituirò tutto in blocco. In fondo, non si tratta che di denaro dato in prestito.»
Il cassiere del giornale, cedendo alfine alle sue disperate preghiere, accondiscese a dargli uno scudo al giorno. Quanto bastava appena appena per mangiare, non certo per restituire sessanta franchi.
Poiché intanto Clotilde era stata ripresa dalla mania delle scorribande notturne in tutti i locali equivoci di Parigi, lui finì col non prendersela più del necessario allorché si trovava un bel luigino in una delle sue tasche, anzi un giorno addirittura in una scarpa, e un altro giorno nella cassa dell'orologio, dopo una delle loro movimentate passeggiate Non era forse naturale che lei, certi suoi capricci che sul momento lui non poteva toglierle, se li pagasse da sola piuttosto che rinunziarvi?
Del resto, prendeva nota di tutto quel che gli veniva dato a quel modo, per poter poi un giorno restituire.
Una sera Clotilde gli disse: «Ma lo sai che non son mai stata alle Folies-Bergère? Mi ci porti?»
Rimase un momento incerto, temendo d'incontrare Rachel. Poi pensò: «Mica sono sposato, dopotutto. Se quella mi vedrà, capirà la situazione e terrà il becco chiuso. Eppoi, prenderemo un palco.»
Un'altra ragione lo decise. Era felice di poter offrire un palco in teatro alla signora de Marelle senza spendere nulla. Era un modo di disobbligarsi.
Lasciò Clotilde in carrozza per recarsi a ritirare lo scontrino, in modo che lei non s'accorgesse che glielo davano gratis, poi tornò a prenderla ed entrarono salutati dai controllori.
Una folla immensa ingombrava l'ambulacro. A gran fatica riuscirono ad aprirsi un varco in quella ressa d'uomini e di donnine. Raggiunsero il palco e vi presero posto, rinchiusi fra la platea immobile e gli ingorghi della galleria.
La signora de Marelle non prestava molta attenzione al palcoscenico, tutta presa dallo spettacolo delle prostitute che le circolavano alle spalle; e si voltava di continuo per guardarle, con una gran voglia di toccarle, di palparne il corpetto, le guance, i capelli, per sapere com'eran fatte, quelle lì.
D'improvviso disse: «C'è una brunona ben piantata che non fa altro che guardarci. M'è perfin sembrato, poco fa, che volesse dirci qualcosa. L'hai notata?»
«No,» disse lui. «Devi esserti sbagliata.»
Ma l'aveva notata sì, e da un pezzo. Era Rachel, che ronzava intorno a loro con occhi incattiviti e parole scottanti a fior di labbra.
L'aveva sfiorata un attimo prima tra la folla, e costei, a bassissima voce, l'aveva salutato strizzando l'occhio come per dire: «Capisco.» Senonchè lui non aveva corrisposto a tanta finezza, temendo che se n'accorgesse la sua amante, e aveva tirato innanzi freddo freddo, a fronte alta e con una smorfia d'alterigia. La bellona, che già si sentiva punta da un'inconscia gelosia, tornò sui suoi passi, lo sfiorò di nuovo e disse più forte: «Ciao, Georges.»
Non rispose neppure questa volta. Allora quella s'incaponì a strappargli un segno di riconoscimento e un saluto, e di continuo apparve dietro il palco per cogliere il momento propizio.
Accortasi che la signora de Marelle stava osservandola, toccò con la punta d'un dito la spalla di Duroy: «Ciao, stai bene?»
Ma lui non si voltò.
«Be'?» fece allora lei. «Sei diventato sordo, da giovedì?»
E lui, ancora zitto, affettando un disprezzo che gli impediva di compromettersi con una come lei, sia pure con una sola parola.
Rachel sbottò a ridere, ma d'un riso stizzito: «Ti sei fatto muto? O la madama t'ha mangiato la lingua?»
Duroy ebbe un gesto di rabbia, ed esasperato gridò: «Ma come vi permettete di rivolgermi la parola? Levatevi dai piedi, o chiamo una guardia!»
Con gli occhi che facevan fiamme e il petto che pareva scoppiarle, Rachel si mise a berciare: «Ah, è così, dunque, pezzo d'un cafone! Ma quando s'è stati a letto con una donna, si ha almeno il dovere di salutarla. Se oggi sei con un'altra, mica è una buona ragione per far finta di non conoscermi. Se tu m'avessi fatto un cenno quando poco fa ti sono passata accanto, ora t'avrei lasciato in pace. Ma tu no, tu hai voluto fare il superbo! Già! Ma aspetta che ti servo io! Manco la buonasera, mi dà, quando m'incontra...»
Avrebbe continuato a strillare chissà quanto, se la signora de Marelle, aperto l'uscio del palco, non si fosse eclissata tra la folla, cercando disperatamente l'uscita.
Duroy, slanciatosi dietro di lei, cercava di raggiungerla.
Trionfante, Rachel si mise allora a urlare, vedendoli fuggire:
«Acchiappatela! acchiappatela; m'ha fregato il damo!»
Fra il pubblico serpeggiò qualche risata. Due tizi, per celia, afferrarono per le spalle la fuggitiva, e tentarono di trascinarla e di baciarla. Ma Duroy, raggiuntala, la liberò violentemente e la rimorchiò per la strada.
Clotilde si precipitò in una vettura libera, ferma davanti al teatro. Georges vi saltò dentro anche lui, e al cocchiere che gli aveva domandato: «Dove s'ha da andare, maestro?» rispose: «Va' un po' dove vuoi.»
La carrozza s avviò lenta, sobbalzando sui selci. Clotilde, in preda a una specie di crisi isterica, le mani sul volto, si sentiva mancare, soffocava; e Duroy non sapeva a che santo votarsi. Infine, accortosi che piangeva, barbugliò: «Ascoltami, Clo, mia piccola Clo, lascia ch'io ti spieghi! Io non ho colpa. Quella donna la conobbi molto tempo fa... agli inizi...»
Lei scoprì all'improvviso il volto, e con tutto il furore dell'innamorata tradita, un furore che le ridonò la parola, balbettò smozzicando le frasi, con la voce rotta dall'affanno: «Ah, disgraziato... disgraziato... che mascalzone, sei... Possibile?... Che vergogna!... Oh, mio Dio, che vergogna!»
Poi adirandosi sempre di più a mano a mano che le idee le si andavano schiarendo e in lei aumentavano le buone ragioni: «E la pagavi,» proseguì, «coi miei quattrini, eh? Già, perché per quella sgualdrina i soldi glieli davo io... Oh, disgraziato...»
Parve cercare, per qualche istante, una parola ancor più forte che le mancò, poi d'un tratto, facendo l'atto di sputare: «Ah, porco!» gridò. «Porco... porco...»
Non riusciva a trovare altre parole, e ripeteva: «Porco... porco...»
Improvvisamente si sporse dal finestrino, e afferrato il cocchiere per la manica: «Fermo!» ordinò. E aperto lo sportello saltò a terra.
Georges tentò di seguirla, ma lei gli intimò: «Ti proibisco di scendere!»
E lo gridò così forte da richiamar gente intorno a loro.
Per tema d'uno scandalo, Duroy non si mosse.
Lei cavò di tasca il portamonete e cercò degli spiccioli al lume del fanale, poi, presi due franchi e cinquanta, li mise in mano al vetturino dicendogli con voce vibrante: «Tenete... ecco qua per la vostra corsa... Son io che pago... E riportatemi questo porcaccione in Rue Boursault, alle Batignolles.»
Vi fu un'ilarità nel capannello che s'era intanto formato. Un tizio fece: «Brava la nostra piccina!» E un ragazzaccio, che s'era ficcato fra le ruote della carrozza, infilando il capo nello sportello aperto gridò, con una vocetta acuta come uno spillo: «Ciao, bamboletta!»
Poi la vettura si rimise in moto, lasciandosi dietro una scia di risate.