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VI
Georges Duroy, l'indomani, ebbe un amaro risveglio.
Indugiò nel vestirsi, poi si sedette davanti alla finestra, e prese a pensare. Si sentiva tutto rotto, come se la sera prima l'avessero bastonato.
Alla fine, pungolato dalla necessità di trovar denaro, si decise ad andare dai Forestier.
L'amico lo ricevette nello studio, coi piedi vicini al fuoco.
«Che cosa ti ha fatto alzar così presto?»
«Una gran brutta faccenda. Un debito d'onore.»
«Di giuoco?»
Esitò un attimo, poi confermò: «Di giuoco.»
«Grosso?»
Ne doveva soltanto duecento ottanta.
Forestier, incredulo, domandò:
«A chi li devi?»
Duroy non seppe lì per lì che rispondere.
«Ma... a... a un certo Carleville.»
Forestier si mise a ridere: «In via dell'arzigogolo, vero? Lo conosco bene il tuo tizio, caro mio. Se ti contenti di venti franchi, ho ancora questi a tua disposizione, ma non uno di più.»
Duroy accettò la moneta d'oro.
Poi, di porta in porta, fece il giro di tutte le sue conoscenze, e riuscì, per le cinque, a raggranellare un'ottantina di franchi.
Siccome gliene mancavano altri duecento, ne trasse deciso le conseguenze e, tenendosi quanto aveva raccolto, mormorò: «Bah, mica voglio rodermi il fegato per quella là. La pagherò quando potrò.»
Per quindici giorni fece una vita d'economie, regolata e casta, pieno d'eroiche decisioni. Poi fu ripreso da un gran desiderio d'amore. Gli parevano anni che non stringeva più fra le braccia una donna, e come il marinaio che perde la testa quando rivede terra, ogni sottana in cui s'imbatteva gli dava un fremito.
Così, una sera, tornò alle Folies-Bergère, con la speranza di trovarvi Rachel. La scorse, infatti, appena entrato, giacché soltanto di rado lei s'allontanava di lì.
Le andò incontro sorridente, con la mano tesa. Ma lei lo guardò dall'alto in basso: «Che vuole, da me?»
Duroy rise male: «Su, non far la sciocca.»
Rachel gli voltò le spalle dicendo: «Non bazzico i mantenuti, io.»
Aveva cercato l'offesa più grossa. Duroy sentì il sangue imporporargli la faccia, e se ne tornò a casa solo.
Forestier, malato, indebolito, sempre con la sua tossaccia, gli rendeva, al giornale, la vita difficile, e pareva si lambiccasse apposta il cervello per appioppargli le più fastidiose incombenze. Un giorno, in uno scatto di nervi dopo un lungo accesso di tosse, arrivò addirittura a dirgli, a proposito d'un'informazione che Georges non gli aveva ancora procurato: «Cristo, sei più idiota di quanto pensassi.»
L'altro fu lì lì per schiaffeggiarlo, ma si contenne e se n'andò mormorando: «Te n'accorgerai, tu!» Gli era balenata un'idea, e aggiunse: «Ti farò becco, bello mio.» E s'allontanò fregandosi le mani, tutto contento di quel suo proposito.
Volle metterlo in atto fin dal giorno dopo, e fece una visita esplorativa alla signora Forestier.
La trovò che stava leggendo un libro, sdraiata sul divano.
Costei gli porse la mano senza scomporsi, voltando appena il capo, e disse: «Buon giorno, Bel-Ami.»
Fu come se gli avessero dato un ceffone.
«Perché mi chiama così?»
«Ho visto la signora de Marelle l'altra settimana,» rispose lei sorridendo, «e ho saputo come l'hanno battezzato in casa.»
I modi urbani della giovane signora lo tranquillizzarono. Che motivo aveva di temere, del resto?
La signora Forestier riprese: «Lei vizia la mia amica. A me, invece, mi si viene a trovare quando ci se ne ricorda, ad ogni morte di papa o giù di lì, vero?»
Duroy le si era seduto accanto e la guardava con curiosità nuova, la curiosità del collezionista che sta considerando un pezzo. Era incantevole, bionda d'un biondo tenero e caldo, fatta per le carezze; e pensò: «Non c'è confronto, con l'altra.» Non dubitava minimamente del proprio successo, convinto che gli sarebbe bastato allungare una mano per farla sua, così come si coglie un frutto.
Disse deciso: «Non venivo a trovarla perché era meglio far così.»
«Come?» domandò lei senza capire. «E perché?»
«Perché? Non lo indovina, il perché?»
«No, proprio no.»
«Perché sono innamorato di lei... oh, un poco... soltanto un poco... e non voglio innamorarmi del tutto...»
Non parve né stupita, né urtata, né lusingata. Continuava a sorridere con lo stesso sorriso indifferente, e rispose tranquilla:
«Oh, può venire egualmente. Di me non si resta mai innamorati a lungo.»
Fu colpito dal tono più che dal senso di quelle parole, e domandò:
«Perché?»
«Perché è fatica sprecata e io lo faccio capire subito. Se lei mi avesse detto prima i suoi timori, l'avrei rassicurato e l'avrei anzi esortato a venire il più spesso possibile.»
Duroy esclamò, patetico: «Già, come se si potesse comandare ai sentimenti!»
La signora Forestier si voltò verso di lui: «Amico mio, per me un uomo innamorato è cancellato dal numero dei vivi. Diventa uno stupido, e non soltanto uno stupido, ma anche un essere pericoloso. Io, con tutti quelli che s'innamorano di me, rompo ogni intima relazione, prima di tutto perché m'annoiano, eppoi perché mi fido di loro come d'un cane idrofobo che da un momento all'altro può esser preso da una crisi. Li metto perciò in quarantena morale finché non gli è passata. Lo tenga a mente. So benissimo che per voialtri uomini l'amore non è che una sorta d'appetito fisico, mentre per me sarebbe, al contrario, una specie di... di... di comunione spirituale che non appartiene alla vostra religione. Voi vi attenete alla lettera, io allo spirito. Ma... mi guardi bene in faccia...»
Non sorrideva più. Aveva un volto calmo e freddo, e disse scandendo ogni parola: «Io non sarò mai, dico mai, la sua amante, se lo metta bene in testa. È dunque del tutto inutile, sarebbe perfin dannoso per lei insistere nel suo desiderio... E ora che... il dente è tolto... vuole che diventiamo amici, buoni amici, ma badi, amici autentici, senza sottintesi?»
Duroy aveva compreso che ogni tentativo sarebbe rimasto infruttuoso di fronte a quella sentenza senza appello. Ne trasse subito le conseguenze, con franchezza, e felice di potersi fare una simile alleata nella vita, le tese entrambe le mani:
«Mi rimetto a lei, signora; farò come vuole lei.»
La signora Forestier sentì, nel tono, la sincerità dell'animo, e gli porse anche lei le mani.
Georges gliele baciò una dopo l'altra, poi disse candidamente, risollevando il capo: «Perdinci, se avessi trovato una donna come lei, con quanto entusiasmo l'avrei sposata!»
La giovane signora rimase commossa, questa volta, lusingata dalla frase come tutte le donne di fronte ai complimenti che trovano la via del cuore; e gli lanciò una di quelle rapide occhiate di gratitudine che rendono subito schiavi.
Poi, visto che lui non riusciva a riagganciar la conversazione, proferì dolcemente, posandogli un dito sul braccio:
«Su, voglio cominciar subito il mio mestiere di amica. Lei non è troppo abile, mio caro...»
Esitò un istante e domandò: «Posso parlar liberamente?»
«Certo.»
«Proprio liberamente?»
«Proprio liberamente.»
«Bene, allora vada a fare una visitina alla moglie di Walter, che lo stima molto, e cerchi di piacerle. Là potrà collocare i suoi complimenti, anche se costei è onesta, badi bene, l'onestà in persona. Eh, nessuna speranza di... furterelli nemmeno da quelle parti, sappia. Ma potrà trovarvi qualcosa di molto meglio facendosi ben volere. So che al giornale lei occupa ancora un posticino in sottordine, ma non tema: là ricevono tutti i redattori con la medesima benevolenza. Ci vada, dia retta a me.»
Lui disse sorridendo: «Grazie, lei è un angelo... il mio angelo custode.»
Poi presero a parlar del più e del meno.
Duroy si trattenne a lungo per dimostrarle che gli faceva piacere star con lei; e, nel congedarsi, domandò ancora:
«D'accordo.»
Essendosi accorto che il suo complimento, poco prima aveva colto nel segno, lo ribadì aggiungendo:
«E si ricordi caso mai restasse vedova, ch'io mi prenoto.»
Poi s'allontanò svelto per non lasciarle il tempo d'indispettirsi.
Una visita alla signora Walter metteva un poco in soggezione Duroy, giacché niente l'autorizzava a presentarsi da lei, non voleva compiere un passo falso. Il principale, lui gli dimostrava benevolenza, apprezzava il suo lavoro, gli affidava, di preferenza, incarichi difficili; perché non approfittare di tale simpatia per entrare in quella casa?
Così un giorno si alzò di buon mattino, e se n'andò al mercato durante l'orario di vendita dove si procurò, per dieci franchi, una ventina di pere ch'erano una meraviglia.
Dopo averle ben sistemate in un cestino, per far credere che venissero da lontano, le lasciò dal portinaio dei Walter con un biglietto da visita sul quale aveva scritto:
prega umilmente la signora Walter d'accettare questo po' di frutta ricevuto stamani dalla Normandia.
Il giorno dopo, al giornale, trovò nella cassetta della posta una busta contenente, in risposta, il biglietto da visita della signora Walter, che «ringraziava sentitamente il signor Georges Duroy», e lo avvertiva che «era in casa tutti i sabati».
Le si presentò il sabato successivo.
Walter abitava sul Boulevard Malesherbes, in una doppia costruzione di sua proprietà, della quale aveva affittato una parte seguendo il buon sistema economico delle persone pratiche. Un solo portinaio, alloggiato fra i due portoni, apriva sia al padron di casa sia all'inquilino, e con la sua bella uniforme da svizzero, i suoi polpacciotti stretti in calze bianche di lana, la sua giubba di gala con bottoni d'oro e risvolti scarlatti, conferiva a entrambi gli ingressi un aspetto signorile da palazzotto di gente ricca e ammodo.
Le sale di ricevimento erano al primo piano, precedute da un'anticamera addobbata d'arazzi e chiusa da portiere. Due domestici sonnecchiavano seduti. Uno prese il soprabito di Duroy e l'altro s'impadronì della sua mazza, aprì un uscio, precedette di qualche passo l'ospite, poi, fattosi da una parte, ne gridò il nome in una stanza vuota.
Il nostro giovanotto, imbarazzato, lanciava occhiate di qua e di là, quando in una spera scorse alcune persone sedute che gli parvero molto lontane. Sbagliò dapprima direzione, ingannato da quello specchio, poi attraversò altri due salotti vuoti per giungere in una specie di camerino privato, tappezzato di seta azzurra a ranuncoli gialli, dove quattro signore stavano parlando sottovoce intorno a un tavolinetto sul quale era servito il tè.
Nonostante la scioltezza venutagli dall'ambiente parigino e soprattutto dalla sua professione di reporter, che lo teneva di continuo a contatto con alte personalità, Duroy si sentiva un poco intimidito da tutta quella messa in scena all'entrata, e da tutte le sale deserte che dovette attraversare.
Balbettò, cercando con lo sguardo la padrona di casa: «Signora, mi sono permesso...»
Costei gli porse la mano, che lui prese inchinandosi, e disse:
«Oh, lei è stato molto gentile. La ringrazio d'esser venuto a trovarmi.»
Poi gli additò una poltroncina sulla quale, facendo per sedersi e avendo calcolato male l'altezza, cadde di peso.
V'era stato un silenzio. Una delle signore riprese la conversazione interrotta. Si stava parlando del freddo che cominciava a farsi pungente, ma non abbastanza, però, da arrestare l'epidemia di tifo o da permettere di pattinare. E ognuna volle dir la sua sulla comparsa del gelo a Parigi, ed esprimere le proprie preferenze in fatto di stagioni, sfoderando tutte le banalità che si depositano sui cervelli come la polvere sui mobili.
Il tonfo lieve d'una porta fece voltare Duroy, che attraverso due specchiere senza stagno vide farsi avanti una voluminosa signora. Come questa entrò nel salottino, una delle ospiti si alzò, strinse la mano alle altre ed uscì; e Duroy poté seguirne con l'occhio, di sala in sala, la schiena luccicante di perline nere.
Quando il lieve trambusto provocato dal cambio di personaggio si placò, si prese d'un tratto a parlare, saltando di palo in frasca, della questione marocchina e della guerra in Oriente, nonché delle difficoltà incontrate dall'Inghilterra nell'Africa meridionale.
Le signore discutevano di quelle cose a pappagallo, come se stessero recitando un'onesta commediola mondana, replicata chissà quante volte.
Un nuovo personaggio entrò in scena, una biondina ricciuta che determinò l'uscita d'una spilungona di mezza età.
Si parlò delle probabilità che aveva Linet d'entrare all'Accademia. La biondina era fermamente convinta che gli avrebbe fatto le scarpe Cabanon-Lebas, l'autore del bel rifacimento in versi francesi, per il teatro, del Don Chisciotte.
«Andrà in scena quest'inverno all'Odéon, lo sapevate?»
«Ma davvero? Non mi lascerò certo sfuggire un così importante esperimento letterario.»
La signora Walter rispondeva a tutti con cortesia, calma e indifferente, dicendo quel che voleva dire senza un'ombra d'esitazione, dato che la sua opinione se l'era fatta in anticipo.
Accortasi ch'era già buio, suonò per i lumi, pur continuando ad ascoltare la conversazione che scorreva liscia come l'olio e a pensar che s'era scordata di passare dall'incisore per i biglietti d'invito al prossimo pranzo.
Era un po' troppo grassa, ma ancora bella, nell'età pericolosa in cui il disfacimento è ormai prossimo. Si teneva su a furia di cure, di riguardi, di igiene e di creme per la pelle. Appariva savia in tutto, equilibrata e ragionevole, una di quelle donne dall'animo ben ordinato, come un giardino alla francese, dove si può passeggiare senza pericolo di sorprese e che tuttavia non manca d'un suo fascino. Aveva del buon senso, un buon senso fino, discreto e infallibile che sostituiva in lei la fantasia, ed era buona, devota, piena di pacata e generosa benevolenza verso tutto e tutti.
Notò che Duroy non aveva ancora aperto bocca, che nessuno gli aveva ancora rivolto la parola, e che sembrava alquanto imbarazzato; e poiché le signore continuavano a discorrere dell'Accademia, argomento a loro caro, sul quale amavano dilungarsi, domandò: «E lei, signor Duroy, che senz'altro è più informato di noi, lei a chi darebbe le sue preferenze?»
Senza esitare, rispose: «Vede, in queste faccende non baderei tanto al merito, sempre discutibile, dei candidati, ma piuttosto all'età e alla loro salute. Non chiederei i titoli, ma le malattie. Non cercherei di sapere se hanno fatto o no una traduzione in rima da Lope de Vega, ma avrei cura d'informarmi sulle condizioni del loro fegato, del cuore, dei reni e del midollo spinale. Per me, una bella ipertrofia, una bella albuminuria, e soprattutto un bel principio d'atassia locomotrice, varrebbero cento volte di più di quaranta tomi di digressioni sul concetto di patria nella poesia delle età barbariche.»
Un silenzio pieno di stupore fece seguito a tali parole.
La signora Walter, sorridendo, domandò: «E perché mai?»
«Perché,» rispose lui, «in ogni cosa bado soltanto al piacere ch'essa può procurare alle donne. Ora, se voi signore provate un reale interesse per l'Accademia, ciò accade soltanto in occasione della morte d'un accademico. Più ne muoiono, e più siete, credo, contente. Ma perché gli accademici si sbrighino a morire, bisogna nominarli vecchi e malati.»
Poiché la sorpresa non scemava intorno a lui, aggiunse: «Del resto, anch'io sono come voi, e mi piace molto leggere negli echi di cronaca parigina il decesso d'un accademico. Mi domando subito: "Chi lo sostituirà?" E preparo la mia brava lista. È un giuoco di società, un giochetto molto carino che si fa in tutti i salotti di Parigi ad ogni trapasso d'immortale: "Il giuoco della morte e dei quaranta vecchioni".»
Le signore, anche se ancora un po' sconcertate, abbozzarono un sorriso, tant'era giusta l'osservazione.
Duroy concluse, alzandosi: «Siete voi a nominarli, e li nominate soltanto per il gusto di vederli morire. Sceglieteveli dunque vecchi, vecchissimi, decrepiti addirittura, e non preoccupatevi d'altro.»
Quindi, bellamente, si congedò.
Come se ne fu andato, una delle presenti osservò: «Bel tipo, quel giovanotto. Chi è?»
La signora Walter rispose: «Uno dei nostri redattori, che per il momento sbriga al giornale soltanto lavoretti spiccioli, ma son certa che non tarderà a far carriera.»
Duroy seguiva allegro il Boulevard Malesherbes, a grandi passi di danza, contento delle sue uscite e mormorando: «Si mette bene, mi pare.»
Fece la pace con Rachel, quella sera.
La settimana successiva fu per lui apportatrice di due avvenimenti importanti. Fu nominato capo degli echi di cronaca e invitato a pranzo dalla signora Walter. Vide subito un legame tra i due fatti.
La Vie Française era innanzitutto una fabbrica di soldi, e il suo padrone era un affarista cui la stampa e il mandato parlamentare servivano soltanto da leva. Facendosi della bonomia un'arma, aveva sempre compiuto le sue manovre sotto la maschera sorridente dell'uomo dabbene; ma per i suoi scopi, quali che fossero, non si serviva che di gente da lui saggiata, provata, fiutata, gente che lui intuiva fina, ardita e arrendevole. Duroy, nominato capo degli echi di cronaca, gli pareva come tale un ragazzo prezioso.
Quell'incarico l'aveva fino ad allora tenuto il segretario di redazione Boisrenard, un vecchio giornalista corretto, preciso e meticoloso come un burocrate. Per trent'anni era stato segretario di redazione d'undici giornali di tinta diversa, senza mai mutar d'un ette i suoi modi di fare e di vedere. Passava da una redazione all'altra come si cambia trattoria, accorgendosi sì e no che la cucina era tutt'altro che la stessa. Le convinzioni politiche o religiose non lo toccavano. Era devoto al giornale qualunque esso fosse, esperto nel proprio lavoro e prezioso per la sua esperienza. Sgobbava come un cieco che non vede nulla, come un sordo che non sente nulla, come un muto che non parla mai di nulla. Dotato d'una grande probità professionale, non si sarebbe però mai prestato a cose da lui ritenute disoneste, sleali e scorrette dal punto di vista del mestiere.
Walter, pur stimandolo, più d'una volta aveva desiderato un uomo diverso cui affidare gli echi di cronaca che, soleva dire, sono la spina dorsale d'un quotidiano. È grazie agli echi che si può lanciare una notizia, far circolare una voce, influenzare il pubblico e le quotazioni. Fra una serata mondana e l'altra, bisogna saper infilare, facendo finta di nulla, il fatto che più ci sta a cuore, insinuarlo piuttosto che dirlo. Bisogna, con abili sottintesi, lasciar indovinare ciò che ci interessa, smentire in modo che la voce venga invece confermata, o confermare in maniera tale che nessuno possa credere al fatto annunciato. Bisogna che, negli echi, chiunque trovi ogni giorno almeno un rigo che lo interessi, affinché tutti li leggano. Bisogna pensare a tutto e a tutti quanti, a ogni ambiente, a ogni professione, a Parigi come alla provincia, ai generali come ai pittori, al clero come all'università, ai magistrati come alle cortigiane.
L'uomo che li dirige e che comanda la legione dei cronisti deve star sempre con gli occhi aperti, e sempre in guardia, diffidente, preveggente, scaltro, accorto, duttile, armato d'ogni astuzia e dotato d'un fiuto infallibile per scoprire d'acchito la notizia falsa, per giudicare ciò che è bene dire e ciò che è bene celare, per indovinare ciò che farà colpo sul pubblico. E deve saper presentare le cose in modo da moltiplicarne l'effetto.
Boisrenard, che aveva dalla sua una lunga pratica, mancava d'abilità e di disinvoltura; e soprattutto mancava di quella innata spregiudicatezza, necessaria per prevenire di volta in volta i reconditi pensieri del principale.
Duroy andava a pennello, e completava a meraviglia la redazione del foglio che «navigava sul fondo dello Stato e sui bassifondi della Politica», secondo l'espressione di Norbert de Varenne.
Gli ispiratori e veri redattori della Vie Française erano una mezza dozzina di deputati cointeressati in tutte le speculazioni lanciate o sostenute dal direttore. Li chiamavano, alla Camera, «la banda di Walter», ed erano invidiati perché con lui, e grazie a lui, dovevan certamente far quattrini.
Forestier, redattore politico, era soltanto l'uomo di paglia di quegli affaristi, l'esecutore materiale delle loro volontà. Gli suggerivano gli articoli di fondo, ch'egli andava immancabilmente a scrivere a casa, per essere più tranquillo, diceva.
Per dare al giornale un tono letterario e parigino, erano state reclutate due penne celebri in due generi diversi, Jacques Rival, articolista d'attualità, e Norbert de Varenne, poeta e scrittore di fantasia, o meglio novelliere, secondo la nuova scuola.
S'erano poi procurati, a basso prezzo, alcuni critici d'arte, di musica, di teatro, un cronista giudiziario e un redattore per le corse, scelti nella grande falange dei pennivendoli poligrafi. Due gentildonne, «Domino rosa» e «Zampino bianco» mandavano note mondane di varietà, s'occupavano di moda, di vita elegante, d'etichetta, di galateo, fornivano indiscrezioni sulle signore dell'aristocrazia.
E così la Vie Française «navigava sul fondo statale e sui bassifondi politici», governata da tutte quelle mani differenti.
Duroy era in piena euforia per la sua nomina a capo degli echi di cronaca quando ricevette un biglietto stampato su cui lesse: «I coniugi Walter pregano il signor Georges Duroy di voler gentilmente pranzare da loro giovedì 20 gennaio.»
Questo nuovo favore, venuto a cader sull'altro, lo colmò d'una gioia tale ch'egli baciò l'invito come se fosse stato una letterina amorosa. Poi andò dal cassiere, per trattar la grossa faccenda dei fondi.
Un capocronista, in genere, ha un proprio stanziamento sul quale pagare i cronisti e le notizie, buone o meno buone, recategli dall'uno o dall'altro come gli ortolani portano a un rivenditore di primizie i loro ortaggi.
Come avvio, gli erano stati assegnati mille e duecento franchi al mese, dei quali naturalmente si proponeva di trattenere una buona porzione.
Il cassiere, cedendo alle sue insistenti rimostranze, aveva finito con l'anticipargli quattrocento franchi. Lì per lì Duroy ebbe la ferma intenzione di restituire alla signora de Marelle i duecento ottanta franchi che le doveva, ma rifletté quasi subito che gliene sarebbero rimasti in mano soltanto centoventi, somma che non sarebbe affatto bastata a far funzionare in modo decente il suo nuovo servizio, e rimandò ad altro momento la restituzione.
Per due giorni pensò a sistemarsi. Aveva ereditato un tavolo personale e un casellario per la posta, nella grande stanza comune della redazione, e occupava un'ala di tale camerone mentre Boisrenard, coi capelli color d'ebano, nonostante l'età, sempre piegati su un foglio di carta, occupava l'ala opposta.
La lunga tavola al centro apparteneva ai redattori volanti. Generalmente serviva da panca per sedercisi, sia stando sul bordo, con le gambe penzoloni, sia nel mezzo, alla turca. Ce n'erano a volte cinque o sei, accosciati su quel tavolo, che giocavano a bilbocchetto con pertinacia, in pose da figurine cinesi.
Duroy aveva finito col prender gusto a tal passatempo, e cominciava a farsi bravo, diretto e consigliato da Saint-Potin.
Forestier, sempre più sofferente, gli aveva affidato il suo bel bilbocchetto di legno delle Antille, l'ultimo comprato, che trovava un po' pesantuccio, e Duroy manovrava con braccio vigoroso la grossa palla nera legata in cima alla funicella, contando sottovoce: «Uno... due... tre... quattro... cinque... sei...»
Era giunto per la prima volta a far venti punti di seguito proprio lo stesso giorno che doveva pranzare dalla signora Walter. «Giornata buona,» pensò allora; «oggi son tutte dalla mia»; giacché l'abilità nel bilbocchetto conferiva davvero una sorta di superiorità negli uffici della Vie Française.
Lasciò presto la redazione per cambiarsi, e stava percorrendo Rue de Londres quando vide trotterellare pochi passi più innanzi una figurina di donna che aveva tutto l'aspetto della signora de Marelle. Sentì una vampa salirgli al viso, e il cuore gli prese a batter forte, Attraversò la strada per guardarla di profilo. Quella si fermò per attraversare anche lei. S'era sbagliato. Respirò.
Spesso s'era chiesto com'avrebbe dovuto comportarsi se si fossero incontrati a faccia a faccia. Doveva salutarla, o far finta di non averla vista?
«Farò finta di non averla vista,» decise.
Faceva freddo, i rigagnoli gelati erano pieni di croste di ghiaccio. I marciapiedi apparivano asciutti e grigi sotto i lampioni a gas.
Appena il nostro giovanotto fu a casa, pensò: «Devo cambiare alloggio, questa stanza ormai non mi basta più.» Si sentiva eccitato ed allegro, capace di fare acrobazie, e ripeteva ad alta voce, andando su e giù fra il letto e la finestra: «È la fortuna che arriva! è la fortuna! Devo scriverlo al babbo.»
A suo padre scriveva di tanto in tanto; e le sue lettere recavano sempre viva gioia nella tavernetta normanna, lungo lo stradale, in cima al costone che domina Rouen e l'ampia vallata della Senna.
Di tanto in tanto anche lui riceveva una busta turchina con l'indirizzo a grossi caratteri tremolanti, e infallantemente leggeva ogni volta le stesse righe iniziali nella lettera paterna:
«Caro figliolo, ti scrivo questa lettera per farti sapere che noi, io e la mamma, stiamo bene. In paese non ci sono grosse novità. Ti dirò tuttavia che...»
In fondo al cuore le vicende del paesello lo interessavano ancora, le notizie sui vicini, sulle condizioni delle terre e sui raccolti.
Mentre s'annodava la cravatta bianca davanti allo specchietto, andava ripetendosi: «Voglio scrivere al babbo domani stesso. Se mi vedesse stasera nella casa dove sono invitato, povero vecchio, resterebbe a bocca aperta! Porca miseria, fra poco mi farò una di quelle cene come lui non si e mai sognato in vita sua.» E rivide d'un tratto la cucina nera, nel retro del locale vuoto, le casseruole che rilucevano gialle alle pareti, il gatto sul camino, col muso al fuoco e in una posa da Chimera accovacciata, il tavolo di legno bisunto dal tempo e dalle bevande rovesciate, con una zuppiera fumante nel mezzo e una candela accesa fra due scodelle. E rivide anche loro due, marito e moglie, suo padre e sua madre, i due contadini lenti nei gesti che mangiavano parsimoniosamente la povera zuppa. Conosceva ogni minima ruga di quei vecchi volti, ogni minimo moto delle braccia e del capo. Sapeva perfino quel che si dicevano, ogni sera, mentre cenavano l'uno di fronte all'altro.
Pensò anche: «Una volta o l'altra dovrò pur andare a trovarli.»
Avendo finito di vestirsi, spense il lume ed uscì.
Sul boulevard esterno cominciarono a ronzargli intorno le solite donnine. Liberando il braccio: «Ma non mi scocciate,» rispondeva sdegnato al loro invito, come se costoro l'avessero offeso o diminuito... Per chi lo prendevano? Non sapevan nemmeno distinguere gli uomini, quelle battone? L'abito da cerimonia, indossato per andare a cena da gente così ricca, così nota e così importante, gli dava il senso d'una personalità nuova, la coscienza d'esser diventato un altr'uomo, un uomo di mondo, del gran mondo.
Entrò sicuro di sé nell'anticamera rischiarata da alte lumiere di bronzo e consegnò, con naturalezza, la mazza e il soprabito ai due domestici che gli si erano fatti incontro.
Tutte le sale erano illuminate. La signora Walter riceveva nella seconda, la più grande. Lo accolse con uno smagliante sorriso, e Georges strinse la mano ai due signori giunti prima di lui, Firmin e Laroche-Mathieu, deputati e redattori anonimi della Vie Française. Laroche-Mathieu, molto influente alla Camera, godeva al giornale di particolare autorità. Nessuno dubitava che un giorno sarebbe diventato ministro.
Poi giunsero i Forestier, lei in rosa, deliziosissima. Duroy si stupì di vederla in così stretta dimestichezza coi due rappresentanti del paese. A bassa voce, presso il caminetto, rimase a parlare con Laroche-Mathieu per cinque minuti buoni. Charles appariva ridotto a un cencio. Era molto dimagrito, in un mese, e tossiva di continuo ripetendo: «Dovrò decidermi a finir l'inverno nel Mezzogiorno.»
Comparvero assieme Norbert de Varenne e Jacques Rival. Poi, da una porta apertasi in fondo alla sala, entrò Walter con due ragazzone alte, fra i sedici e i diciott'anni, una brutta e l'altra carina.
Duroy sapeva che il principale era padre di famiglia, ma rimase egualmente stupito. Aveva sempre pensato alle figlie del direttore come si pensa alle terre lontane che non vedremo mai. Eppoi se le era sempre figurate molto piccole, mentre ora vedeva delle donne fatte. Ne rimase un po' scombussolato come se gli avessero cambiato le carte in tavola.
Queste gli porsero la mano, l'una dopo l'altra, finite le presentazioni, e andarono a sedersi a un tavolinetto che senza dubbio era riservato a loro, e lì si misero a rimestare in un mucchio di spagnolette di seta in un cestino.
S'aspettava ancora qualcuno, e tutti erano silenziosi, presi da quel lieve imbarazzo che precede i pranzi fra gente che non si trova nella stessa atmosfera spirituale dopo le differenti occupazioni della giornata.
Duroy, tanto per far qualcosa, s'era messo a guardar le pareti; e Walter, accortosene, gli disse da lontano, con l'evidente intenzione di dar valore alle sue cose: «Sta guardando i miei quadri?»
Quel miei rimbombò. E aggiunse subito: «Ve li voglio mostrare.»
Prese un lume perché nessun particolare potesse sfuggire.
«Qui abbiamo i paesaggi,» disse.
Al centro della parete si vedeva una grande tela di Guillemet, una spiaggia normanna sotto un cielo temporalesco. Sotto, un bosco di Harpignies, eppoi una pianura algerina, di Guillaumet, con un cammello all'orizzonte, un cammellone ritto sulle sue lunghe zampe, simile a uno strano monumento.
Walter passò alla parete accanto, e col tono serio d'un cerimoniere, annunziò: «La grande pittura.»
C'erano quattro tele: una Visita all'ospedale, di Gervex; una Mietitrice, di Bastien-Lepage; una Vedova di Bouguereau, e una Esecuzione, di Jean-Paul Laurens. In questa ultima si vedeva un prete vandeano che veniva fucilato contro il muro della sua chiesa da un plotone dei Bleus.
Un sorriso sfiorò il volto grave del principale nell'indicar la parete attigua: «Ecco i pittori di genere.»
Si notava, per prima, una tela di Jean Béraud, intitolata In alto e in basso. Una graziosa parigina stava salendo la scaletta d'un tram in moto. Aveva il capo all'altezza dell'imperiale, e gli uomini seduti guardavano con golosa soddisfazione il bel visino che s'avvicinava a loro, mentre quelli in piedi sulla piattaforma, giù in basso, ammiravano le gambe della giovane, con dispetto e cupidigia insieme.
Walter reggeva col braccio teso il lume, e ripeteva con risatine lubriche: «Eh? non è carino? non è carino?»
Poi illuminò un Salvataggio, di Lambert. Al centro d'una tavola sparecchiata un micetto, seduto sul suo didietro, contemplava attonito e pensieroso una mosca che stava annegando in un bicchier d'acqua. Teneva una zampetta alzata, pronto a ghermir l'insetto con un colpetto fulmineo. Ma era ancora incerto. Esitava. L'avrebbe fatto?
Il principale mostrò poi un Detaille, La lezione, che raffigurava un soldato in caserma intento a insegnare il tamburo a un barboncino, e disse: «Quanto spirito, vero?»
Duroy sorrideva, approvando estasiato: «Delizioso, delizioso, de...»
S'interruppe di botto, avendo udito alle spalle la voce della signora de Marelle, entrata proprio in quel momento.
Il principale continuava a illuminare i quadri, a illustrarli.
Mostrava adesso un acquarello di Maurice Leloir, L'ostacolo. Si vedeva una portantina bloccata in mezzo alla strada da una rissa fra due popolani, due mastangoni che lottavan fra loro come due ercoli. Un volto incantevole di donna affacciato alla finestrella della portantina guardava... guardava senza impazienza, senza timore e con una certa ammirazione, la pugna di quei due bestioni.
Walter continuava a dire: «Ne ho ancora, nelle altre stanze, ma son firme meno note, meno quotate. Qui è il Salon carré del mio piccolo Louvre. Ora sto comprando dei giovani, dei giovanissimi, e li metto in deposito nelle mie stanze private, aspettando che gli autori diventino celebri.»
Poi aggiunse a bassissima voce: «È il momento di comprare quadri. I pittori stanno morendo di fame. Sono in bolletta, in bolletta...»
Ma Duroy non vedeva nulla, ascoltava senza capire. La signora de Marelle era lì, dietro a lui. Che doveva fare? Salutandola, correva il rischio che gli voltasse le spalle, o gli dicesse qualche insolenza. E non avvicinandola; che avrebbe pensato la gente?
«Cerchiamo di guadagnar tempo,» disse fra sé e sé. Era così turbato, che per un attimo pensò perfino di fingere un malore, tanto per aver modo d'allontanarsi.
La visita alle pareti era finita. Il principale andò a posare il lume e a salutare l'ospite or ora giunta, mentre Duroy riprendeva da solo l'esame delle tele, come se non fosse ancora sazio d'ammirarle.
Era sconvolto. Che doveva fare? Udiva distinte le voci, poteva seguire la conversazione. La signora Forestier lo chiamò: «Dica, signor Duroy.»
Si precipitò. Voleva raccomandargli un'amica che dava una festa e che avrebbe gradito molto un cenno negli echi di cronaca della Vie Française.
Balbettò: «Ma certo, signora, certo...»
La de Marelle era ora vicinissima a lui, che non osava più né voltarsi né andarsene.
D'un tratto gli parve d'esser diventato matto. «Buonasera, Bel-Ami,» si sentì dire da lei, ad alta voce. «Non mi riconosce?»
Si girò di scatto, e se la vide davanti sorridente, lì in piedi a guardarlo gaia e affettuosa, mentre gli porgeva la mano.
Gliela prese tremando, ancor timoroso di qualche brutto scherzo o di qualche perfidia. Clotilde aggiunse serena:
«Che le è successo? Non la si vede più.»
Duroy, impappinato, non riusciva a riacquistare il proprio sangue freddo.
«Ma... ho avuto tanto da fare, signora, tanto da fare... Walter m'ha affidato un nuovo servizio, che m'assorbe maledettamente.»
«Lo so, ma non è una buona ragione per dimenticare gli amici,» rispose lei, continuando a guardarlo in faccia, senza che lui riuscisse a scorgere nel suo sguardo altro che benevolenza.
Furono separati da una grassona entrata in quel momento, scollata, con le braccia e le guance arrossate, vestita e pettinata pretenziosamente, con un passo così pesante da render fisicamente sensibile, a chi la guardava camminare, il peso e il volume delle sue cosce.
Poiché tutti la trattavano con molto riguardo, Duroy domandò alla signora Forestier:
«Chi è, costei?»
«La viscontessa de Percemur; quella che si firma "Zampino bianco".»
Trasecolò, e gli venne una gran voglia di ridere: «Zampino bianco, Zampino bianco! E io che pensavo a una giovane signora come lei! Zampino bianco, quella lì? Ah, è carina! proprio carina!»
Un domestico si fece sulla porta annunziando:
«La signora può accomodarsi a tavola.»
Fu una cena banale e fatua, una di quelle tavolate dove si parla di tutto e di nulla. Duroy era seduto tra la figlia maggiore del principale, quella brutta, Rose, e la signora de Marelle. La vicinanza di quest'ultima lo turbava un poco, quantunque Clotilde non apparisse per nulla imbarazzata, e parlasse con la solita spigliatezza. Rimase sulle prime impacciato, incerto come un professore d'orchestra che ha perduto il ritmo. Ma a poco a poco si riprese, e fra i due cominciò un fitto incrociarsi d'occhiate che s'interrogavano, s'intrecciavano quasi con la stessa sensuale intimità d'una volta.
D'un tratto gli parve di sentir qualcosa, sotto la tavola, sfiorargli il piede. Avvicinò adagio adagio la gamba a quella della signora de Marche, che al contatto non si ritrasse. Tacevano entrambi, volti in quel momento verso gli altri commensali.
Duroy, col cuore che gli batteva, spinse ancora un poco il ginocchio. Gli rispose una lieve pressione. Allora capì che i loro amori stavano per ricominciare.
Che si dissero, dopo? Nulla di speciale, ma le loro labbra fremevano tutte le volte che si guardavano.
Il nostro giovanotto, volendo esser gentile con la figlia del principale, di quando in quando le rivolgeva qualche domanda. E costei, proprio com'avrebbe fatto la madre, rispondeva sempre senza esitare.
Alla destra di Walter, la viscontessa de Percemur si dava arie da principessa; e Duroy, che la guardava divertito, domandò sottovoce alla signora de Marelle:
«E l'altra, quella che si firma "Domino rosa", la conosce?»
«Altroché, è la baronessa de Livar!»
«No, ma non è meno buffa. Una perticona alta così, sessant'anni, cernecchi finti, denti cavallini all'inglese, mentalità Restaurazione e acconciatura della stessa epoca.»
«Ma dove li hanno scovati, questi due fenomeni delle patrie lettere?»
«Alla borghesia arrivata piace raccogliere i relitti della nobiltà.»
«Nessun altro motivo?»
«Nessun altro.»
S'accese quindi una discussione politica tra il principale, i due onorevoli, Norbert de Varenne e Jacques Rival, e si protrasse fino all'ultima portata.
Tornati in salotto, Duroy si riavvicinò alla signora de Marelle e, guardandola negli occhi, le chiese: «Posso riaccompagnarla, stasera?»
«No.»
«Perché?»
«Perché Laroche-Mathieu, mio vicino di casa, mi riaccompagna sempre lui, fino al portone, tutte le volte che pranzo qui.»
«Quando potrò vederla?»
E si separarono senza dirsi altro.
Duroy non si trattenne molto, trovando monotona la serata. Per le scale raggiunse Norbert de Varenne, che stava uscendo anche lui. Il vecchio poeta lo prese a braccetto. Non temendo più in lui un rivale alla Vie Française, dato che la loro collaborazione avveniva in campi diversi, lo trattava adesso con paterna bonomia
«Be',» fece, «perché non m'accompagna un pezzetto?»
Duroy rispose: «Con piacere, caro maestro.»
E s'avviarono per il Boulevard Malesherbes, passo passo.
Parigi era semideserta, quella notte, una notte rigida, una di quelle notti che diresti più vaste delle altre, nelle quali le stelle sono ancora più in alto, e l'aria sembra recare nelle sue gelide zaffate un effluvio proveniente d'oltre gli astri.
Per un po' i due non aprirono bocca. Poi Duroy, tanto per dir qualcosa, mormorò:
«Quel Laroche-Mathieu mi par molto intelligente e colto.»
Il vecchio poeta rispose: «Lei trova?»
Il nostro giovanotto esitò, sorpreso: «Be', sì. Del resto, passa per uno degli uomini più dotati della Camera.»
«Sarà. Nel regno dei ciechi ogni guercio è re. Ma dia retta, è tutta gente meschina, quella lì, con la mente limitata da due muri, il denaro e la politica. Son degli scorzoni, amico mio, coi quali è impossibile intavolare un discorso, specie su quanto ci sta a cuore. La loro intelligenza posa sulla melma, o meglio sugli spurghi, come la Senna ad Asnières. Eh, com'è difficile trovare un uomo d'ampie vedute, capace di darti la sensazione del vasto respiro che, lungo la costa, vien dal largo. Ne ho conosciuti alcuni, ma sono morti.»
Norbert de Varenne parlava con voce nitida, ma in sordina, una voce che avrebbe destato echi nel silenzio notturno se lui non l'avesse moderata. Appariva sovreccitato e triste, in preda a quella tristezza che s'abbatte talvolta sugli animi e li rende pronti a vibrare come la terra sotto il ghiaccio.
Riprese: «Che importa, del resto, un po' più o un po' meno d'ingegno, se tutto è destinato a finire!»
E tacque. Duroy, che quella sera aveva l'allegria nel cuore, disse sorridendo: «Lei è piuttosto nero, oggi, caro maestro.»
Il poeta rispose: «Lo sono sempre, ragazzo mio, e lo sarà anche lei, fra qualche annetto. La vita è un monte. Finché si sale, si guarda la vetta, e ci si sente felici; ma quando s'arriva lassù, si scorge d'un tratto la china, e giù in fondo la fine, che è la morte. L'ascesa è lenta, ma la discesa è un ruzzolone. Alla sua età, si ha il cuor contento. Si spera in un mucchio di cose, anche se non s'avvereranno mai. Alla mia età, non ci si aspetta più nulla, tranne... la morte!»
Duroy si mise a ridere: «Capperi, mi fa venire un brivido nella schiena.»
Norbert de Varenne rispose: «No, lei oggi non può capirmi, ma più in là ricorderà le mie parole di adesso. Viene un giorno, vede, e per molti viene molto presto, in cui la festa è finita, come si suol dire, perché dietro tutto quel che si guarda, una sola cosa si scorge: la morte. Alla sua età essa non significa nulla. Alla mia, è una parola tremenda. Già, la si comprende d'improvviso, senza saper perché né a proposito di che; e allora, nella vita, tutto cambia aspetto. Son quindici anni, io, che sento la morte lavorarmi, come se avessi dentro un tarlo roditore. Poco alla volta, un mese dopo l'altro, ora per ora, l'ho sentita minarmi come una cosa che si sta sfasciando. M'ha talmente sfigurato, ch'io non mi riconosco più. Nulla è rimasto di me, dell'uomo raggiante, fresco e forte che ero a trent'anni. L'ho vista tingermi di bianco i capelli neri, e con quale sapiente e perfida lentezza! Essa s'è portata via la mia carne soda, i miei muscoli, i miei denti, l'intero mio corpo d'una volta, lasciandomi soltanto, ma per portarsi via anche quella, presto, un'anima colma di disperazione. Sì, m'ha ridotto in briciole, l'immonda, ha compiuto lenta e terribile la lunga opera di distruzione della mia persona, attimo per attimo. E ora m'accorgo di morire in ogni mio atto. Ogni mio passo m'avvicina a lei, ogni mio gesto, ogni mio respiro affretta il suo odioso compito. Respirare, dormire, bere, mangiare, lavorare, sognare, tutto quel che facciamo è un morire. Insomma, vivere è morire! Oh, se n'accorgerà anche lei! Rifletta soltanto un momento e anche lei la vedrà dappertutto, la morte! Che cosa s'aspetta? Amore? Ancora qualche bacio, e poi lei sarà un impotente. E dopo? Denaro? Per che farne? Per pagar delle donne? Bella soddisfazione! Per mangiar molto, diventare obeso e gridar per nottate intere sotto il morso della gotta? E appresso? Un poco di gloria? E a che serve, quando non la si può più cogliere sotto forma d'amore? E poi, e poi? Ancora e sempre la morte a chiuder baracca e burattini... Io, adesso, me la vedo così vicina, che spesso mi verrebbe voglia d'allungare un braccio per spingerla indietro. Essa ricopre la terra e riempie lo spazio. La scopro dovunque. Le bestiole schiacciate lungo le rotabili, le foglie che cadono, il pelo bianco scorto nella barba dell'amico, tutto mi strazia il cuore e mi grida in faccia: "Eccola!" Essa mi sciupa tutto ciò che faccio, tutto ciò che vedo, tutto ciò che mangio o che bevo, tutto ciò che amo, i pleniluni, le albe, il mare aperto, i bei fiumi e la brezza delle serate estive, così dolce a respirare!»
Camminava adagio adagio, con un lieve affanno, pensando ad alta voce, quasi dimentico che qualcuno lo stava a sentire.
Riprese: «E mai un solo essere tornerà, mai... Si conservano i calchi delle statue, gli stampi per rifabbricar di continuo oggetti identici; ma il mio corpo, il mio volto, i miei pensieri, i miei desideri non riappariranno mai più. Anche se nasceranno milioni, miliardi d'individui che avranno, su una superficie di pochi centimetri quadrati, un naso, due occhi, una fronte, delle guance e una bocca come me, e magari un'anima come me, io tuttavia non tornerò più, non riapparirà mai più nulla di riconoscibilmente mio fra le innumerevoli creature così diverse, indefinitamente diverse anche se pressappoco simili. A che ancorarsi? A chi gridare al soccorso nel nostro naufragio? A che cosa credere? Tutte le religioni sono stupide, con la loro morale puerile e le loro egoistiche promesse, spaventosamente sciocche. Soltanto la morte è certa.»
Si fermò, prese Duroy pei risvolti del cappotto, e con voce lenta aggiunse: «Mediti su tutto questo, giovanotto, ci mediti sopra per parecchi giorni, mesi ed anni, e vedrà la vita in maniera diversa. Cerchi di liberarsi da ciò che lo imprigiona, compia il sovrumano sforzo d'uscir mentre è vivo dal suo corpo, dai suoi interessi, dai suoi pensieri e dall'umanità tutta intera per rivolger lo sguardo altrove; e allora capirà quanta poca importanza abbiano le dispute fra romantici e naturalisti, e le discussioni sul bilancio.»
Riprese a camminare, a passo svelto.
«Ma anche lei proverà l'angoscia tremenda dei disperati. Si dibatterà, sperduto, affogato nelle incertezze. Griderà aiuto a dritta e a manca, e nessuno le risponderà. Tenderà le braccia, invocherà per esser soccorso, amato, consolato, salvato; e nessuno le verrà incontro. Perché dobbiamo soffrire così? Senza dubbio perché eravamo nati per vivere più in obbedienza alla materia che in obbedienza allo spirito; ma a furia di pensare, s'è creato uno squilibrio fra la nostra intelligenza ingigantita e le immutabili condizioni della nostra esistenza. Guardi la gente mediocre: se non son grosse catastrofi a cader loro fra capo e collo, son beati e contenti, senza soffrire per la comune sventura. Neppure le bestie ne soffrono.»
Si fermò un'altra volta, rifletté per qualche istante, poi con voce stanca e rassegnata fece: «Io sono un uomo alla deriva. Non ho né padre, né madre, né fratelli, né sorelle, né figli, né Dio.»
Aggiunse, dopo una pausa: «Ho soltanto la rima.»
Quindi, alzando gli occhi al firmamento dove brillava la faccia pallida della luna piena, declamò:
pallido l'astro della notte, cerco
Raggiunsero il Pont de la Concorde, lo attraversarono in silenzio, poi fiancheggiarono il Palais-Bourbon. Norbert de Varenne ricominciò a parlare: «Prenda moglie, amico mio, lei non sa che vuoi dire viver soli, alla mia età. La solitudine, oggi, mi colma d'un'angoscia orribile; il deserto in casa, presso il focolare, la sera. Mi sembra d'essere solo sulla tetra, orribilmente solo, ma assediato da oscuri pericoli, da cose sconosciute e terrificanti; e la parete che mi separa dal vicino che non conosco, me lo rende lontano quanto le stelle che scorgo dalla finestra. Qualcosa come una febbre m'entra nelle ossa, una febbre di dolore e di timore, e il silenzio delle mie mura mi sgomenta. È così profondo e così triste, il silenzio della stanza dove si vive soli! È un silenzio che avvolge non solo il corpo, ma anche l'anima; e quando un mobile scricchiola, si ha un tuffo di sangue, tant'è inaspettato qualsiasi rumore nel triste rifugio.»
Fece un'altra pausa, poi aggiunse: «Quando si è vecchi, ci vorrebbero proprio dei bambini!»
Erano giunti circa a metà di Rue de Bourgogne. Il poeta si fermò davanti a un alto fabbricato, suonò, strinse la mano a Duroy e gli disse: «Dimentichi questa mia senile tiritera, caro giovanotto, e viva come si deve vivere alla sua età. Buonanotte!»
E scomparve nel buio del portone.
Duroy si rimise in cammino col cuore piccolo piccolo. Era come se gli avessero mostrato una fossa piena di teschi e di tibie, una fossa in cui anche lui sarebbe inevitabilmente caduto un giorno. Mormorò: «Cribbio, non dev'essere allegra, casa sua. Non vorrei proprio avervi, porco cane, un palchetto per assistere alla sfilata delle sue idee!»
Ma fermatosi per lasciar passare una signora tutta profumata ch'era scesa di carrozza per rincasare, aspirò a pieni polmoni l'odor di verbena e di giaggiolo sparsosi nell'aria. Il petto e il cuore gli si gonfiarono d'un tratto di speranza e di gioia; e il ricordo della signora de Marelle, che avrebbe rivisto l'indomani, gli corse in ogni vena.
Tutto gli arrideva, la vita lo accoglieva amorevole. Com'è bello poter realizzare le proprie speranze!
S'addormentò inebriato e si alzò di buon mattino per fare un giretto a piedi sull'Avenue du Bois-de-Boulogne, prima di recarsi all'appuntamento.
Cambiato il vento, il freddo s'era mitigato in nottata, e ora c'era una brezza tiepida nel solicello d'aprile. Tutti i fedeli al Bois erano usciti, cedendo all'invito del cielo sereno e mite.
Duroy camminava lentamente, bevendo l'aria fina, sapida come un elisir di primavera. Oltrepassò l'Arco di Trionfo dell'Étoile e si inoltrò sul vialone, dalla parte opposta a quella dei cavallerizzi. Uomini e donne, li guardava trottare o galoppare, i ricconi della buona società, e quasi quasi, adesso, non li invidiava più. Li conosceva di nome, più o meno, tutti quanti, sapeva l'ammontare del loro patrimonio e la storia segreta della loro vita, avendolo trasformato, la sua professione, in una specie d'almanacco dei personaggi in vista e degli scandali parigini.
Passavano le amazzoni, snelle e ben modellate nel panno scuro dell'abito attillato, con quel tanto di altero e di inavvicinabile che acquistano molte donne a cavallo; e Duroy si divertiva a recitar sottovoce, come si recitano in chiesa le litanie, i nomi, i titoli e le qualità degli amanti che avevano realmente avuto o che venivan loro attribuiti. E talvolta, invece di dire
Principe de La Tour-Enguerrand,
Louise Michot, del Vaudeville,
Questo giuoco lo divertiva molto, quasi gli fornisse la riprova, sotto la seriosità delle apparenze, dell'eterna e profonda turpitudine dell'uomo, e come se ciò lo rallegrasse, lo stimolasse, lo consolasse.
Infine esclamò ad alta voce: «Massa d'ipocriti», e cercò con lo sguardo i cavallerizzi intorno ai quali circolavano i pettegolezzi più grossi.
Ne vide parecchi, sospettati di barare al giuoco, pei quali comunque i circoli costituivano una grande risorsa, l'unica risorsa, una risorsa piuttosto equivoca, non c'è che dire.
Altri, notissimi, vivevano esclusivamente delle rendite della moglie, lo sapevano tutti; altri, stando ai si dice, delle rendite dell'amante. Molti avevano pagato i loro debiti (atto onorevole) senza che mai si fosse riusciti a capire (mistero poco pulito) dove avessero trovato il denaro necessario. Vide nababbi il cui immenso patrimonio aveva alle origini un furto, e che tuttavia venivano ricevuti dovunque, nelle case più nobili; poi uomini rispettatissimi, di fronte ai quali la gentuccia si toglieva il cappello, ma le cui spudorate speculazioni nei grandi appalti nazionali non erano un mistero per chiunque conoscesse i retroscena del mondo.
Tutti avevano un'aria altezzosa, il labbro sprezzante, l'occhio insolente, sia quelli con tanto di favoriti, sia gli altri con tanto di baffi.
Duroy continuava a ridere, ripetendo: «Che roba, che branco di farabutti, di teppisti!»
Una carrozza passò, scoperta, bassa ed elegantissima, tirata al gran trotto da due snelli cavalli bianchi con la criniera e la coda al vento, e guidati da una bella biondina, una famosa cortigiana con due lacchè seduti dietro di lei. Duroy si fermò, con una gran voglia di salutare e d'applaudire quella parvenue dell'amore che ostentava audacemente, su quella passeggiata e nell'ora degli ipocriti aristocratici, il lusso spavaldo guadagnato fra le lenzuola. Forse sentiva, vagamente, che c'era qualcosa di comune fra loro due, un legame naturale, che erano della stessa stoffa, avevano lo stesso carattere, e che il suo successo personale sarebbe scaturito da un'analoga spregiudicatezza di mezzi.
Tornò indietro, a passo più lento, il cuore gonfio di soddisfazione, e giunse con un poco d'anticipo alla porta della sua amante.
Costei lo ricevette porgendogli le labbra, come se fra loro non fosse avvenuta nessuna rottura, e dimentica perfino, per qualche po', della saggia prudenza che di solito opponeva, in casa sua, alle espansioni. Poi gli disse baciandogli le punte arricciate dei baffi: «Lo sai il guaio che m'è: capitato, tesoro? Speravo in una bella luna di miele, ed ecco che mi capita fra capo e collo mio marito, per sei settimane; s'è preso un congedo. Ma io non voglio star sei settimane senza vederti, soprattutto dopo il nostro piccolo screzio, ed ecco com'ho sistemato la faccenda. Tu verrai a pranzo da me lunedì, gli ho già parlato di te. Ti presenterò.»
Duroy riluttava, piuttosto perplesso, non essendogli ancor capitato di trovarsi a faccia a faccia con un uomo del quale si portava a letto la moglie. Temeva che qualcosa potesse tradirlo, un attimo d'imbarazzo, un'occhiata, un'inezia qualsiasi. Barbugliò: «No, tuo marito preferisco non conoscerlo.»
Lei insisté, molto meravigliata, lì in piedi davanti a lui, sgranando i suoi occhioni pieni di candore: «Ma perché? Che stranezza è la tua? Son cose d'ordinaria amministrazione. Perbacco, non t'avrei mai creduto così sciocco.»
Lui si sentì punto nell'amor proprio. «E sta bene,» disse. «Verrò a pranzo lunedì.»
«Perché la cosa appaia più naturale,» aggiunse lei, «ci saranno anche i Forestier, sebbene non mi piaccia troppo ricever gente in casa.»
Fino al lunedì Duroy non si preoccupò gran ché dell'incontro; ma ecco che salendo le scale della signora de Marelle si sentì stranamente turbato, non perché fosse restio a stringer la mano di quel marito, a berne il vino e a mangiarne il pane, ma per un oscuro timore, senza saper nemmeno lui di che.
Fu fatto passare in salotto, e attese come ogni altra volta. Poi l'uscio s'aprì, ed egli scorse un uomo alto, con la barba bianca e una decorazione, che grave e corretto gli andò incontro con estrema cortesia: «Mia moglie m'ha parlato spesso di lei, e son felice di conoscerla.»
Duroy si fece innanzi cercando di dare al suo volto una espressione cordiale, e con esagerata energia strinse la mano che l'ospite gli aveva porto. Poi si mise a sedere, senza saper che dire.
Il signor de Marelle rimise un pezzo di legna al fuoco, e domandò: «È da molto tempo che lei fa il giornalista?»
Duroy rispose: «Soltanto da qualche mese.»
«Ah, ha fatto una rapida carriera, allora!»
«Sì, abbastanza.»
E il nostro giovanotto si mise a parlare a caso, senza pensar troppo a quel che diceva, snocciolando tutte le banalità di prammatica fra persone che non si conoscono affatto. Cominciava a sentirsi più tranquillo, e a trovar piuttosto divertente la situazione. Guardava il volto serio e rispettabile del signor de Marelle, con una gran voglia di ridere a fior di labbra, e pensava: «Ti farò un bel paio di corna, bello mio, un bel paio così.» E lo pervadeva un'intima perversa soddisfazione, la gioia del ladro che l'ha fatta in barba a tutti quanti, una gioia perfida ma deliziosa. D'un tratto gli era venuto il desiderio d'essere amico di quell'uomo, di cattivarsene la fiducia, d'indurlo a raccontare i fatti più gelosi della sua vita.
La signora de Marelle entrò all'improvviso, e avvolgendo i due con un'occhiata allegra e impenetrabile, s'avvicino a Duroy che non osò, davanti al marito, baciarle la mano com'era solito fare, Clotilde era tranquilla e gaia, da persona rotta a tutto, e trovava l'incontro; nella sua naturale e franca mancanza di scrupoli, del tutto normale e innocente. Comparve Laurine, che intimidita dalla presenza del padre, porse la fronte a Duroy più contegnosa delle altre volte. La madre le disse: «Be', non lo chiami Bel-Ami, quest'oggi?»
La bambina arrossì, come se fosse stata commessa una grave indiscrezione, come se fosse stato rivelato qualcosa che non si doveva, come se si fosse violato un segreto, geloso e un poco colpevole, del suo cuore.
Quando giunsero i Forestier, tutti rimasero impressionati dalle condizioni di Charles. In una settimana era spaventosamente dimagrito e impallidito, e la tosse non gli dava tregua. Annunziò che sarebbero partiti per Cannes il giovedì successivo, per ordine esplicito del medico.
Si ritirarono presto, e Duroy disse scuotendo il capo:
«Mi sembra ridotto maluccio. Mica deve averne per molto.»
La signora de Marelle affermò pacata: «Eh, è un uomo finito, anche se ha avuto la fortuna di sposare una donna come la sua.»
Duroy domandò: «Lo aiuta molto?»
«Dica pure che gli fa tutto lei. È informata di tutto, conosce tutti anche se par che non veda mai nessuno; ottiene sempre quello che vuole, come vuole lei e quando vuole lei. Eh, è fina, scaltra e intrigante quant'altre mai, quella lì. Un autentico tesoro per uno che voglia fare strada.»
Georges riprese: «Si risposerà presto, no?»
La signora de Marelle rispose: «Certo. Penso anzi che abbia già messo gli occhi addosso a qualcuno... a un deputato, dicono... A meno che questi non sia costretto a dir di no per... per via... pare... di certi grossi ostacoli che si frapporrebbero... ostacoli d'ordine morale... Ma in fondo, io cosa ne so.»
Il marito brontolò con fiacca insofferenza: «Tu insinui sempre un mucchio di cose che non mi piacciono affatto. Non immischiamoci mai nei fatti altrui. Abbiamo già da badare a noi stessi. Dovrebbe essere una buona norma per tutti.»
Duroy si ritirò, turbato in cuore e con la mente ingombra di vaghe possibilità per il suo futuro.
Andò l'indomani a far visita al Forestier, e li trovò che avevano appena finito di preparar le valigie. Charles, disteso sul divano, esagerava di proposito la sua difficoltà di respirazione, ripetendo: «Avrei dovuto esser già partito da un mese.»
Poi snocciolò a Duroy una sfilza di raccomandazioni per il giornale, quantunque tutto fosse già stato regolato e sistemato con Walter.
Georges, prima d'andarsene, strinse calorosamente la mano al suo ex compagno d'armi: «Be', vecchio mio, a presto!» Ma alla signora Forestier che lo aveva accompagnato alla porta, disse animatamente: «Non ha dimenticato il nostro patto, vero? Noi siamo amici e alleati. Perciò, se lei avrà bisogno di me, in qualsiasi occasione, non faccia complimenti. Un telegramma o una lettera, e sarò ai suoi ordini.»
«Grazie, non lo dimenticherò,» mormorò lei. E anche il suo sguardo, ma in modo più profondo e più dolce, disse: «Grazie.»
Mentre scendeva le scale, Duroy s'incontrò col signor de Vaudrec, già incontrato da lei, che stava salendo lentamente. Il conte pareva malinconico. Forse per quella partenza?
Per dimostrarsi uomo di mondo il giornalista lo salutò premurosamente.
L'altro rispose al saluto con cortesia, ma con una certa alterigia.
I Forestier partirono il giovedì sera.