Guy de Maupassant
Bel Ami

PARTE PRIMA

VII

«»

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VII

 

 

            Allontanatosi Charles, l'importanza di Duroy crebbe nella redazione della Vie Française. Pur continuando a firmare gli echi, dato che il principale voleva che ciascuno s'assumesse la responsabilità di ciò che scriveva, firmò anche alcuni articoli di fondo. Ebbe qualche polemica, cavandosela con spirito, mentre i suoi costanti rapporti con gli uomini di governo lo avviavano a poco a poco a diventare, a sua volta, un redattore politico abile e perspicace.

            Soltanto una nuvoletta turbava il suo orizzonte: un giornalucolo frondista che l'attaccava costantemente, o meglio che attaccava in lui il capo degli echi di cronaca della Vie Française, il capo degli echi a sorpresa del signor Walter, come diceva il redattore anonimo di quel foglio, che si chiamava La Plume. Si trattava, ogni giorno, di malignità, di stoccate ironiche, d'insinuazioni d'ogni genere.

            Jacques Rival disse un giorno a Duroy: «Lei è molto paziente

            L'altro balbettò: «Cosa vuoi che faccia, attacchi diretti non ce ne sono.»

            Un pomeriggio, appena entrato in redazione, Boisrenard gli porse una copia della Plume:

            «Prenda, c'è un altro sfottò per lei.»

            «Ah! e a proposito di che?»

            «Di nulla, cioè dell'arresto di una certa Auben da parte d'un agente del buon costume

            Georges prese il giornale che il collega gli porgeva, e lesse, sotto il titolo Duroy si diverte:

            «L'egregio cronista della Vie Française c'informa oggi che la Aubert, della quale abbiamo annunziato l'arresto da parte d'un agente dell'aborrita squadra del buon costume, esiste soltanto nella nostra fantasia. Orbene, la persona in parola abita al n. 8 di Rue de l'Ècureuil, a Montmartre. D'altronde, comprendiamo benissimo quale interesse, o quali interessi, possono aver gli agenti della banca Walter a sostenere quelli del questore che tollera i loro commerci. Quanto al cronista sunnominato, farebbe meglio a darci qualcuna di quelle belle notizie sensazionali di cui soltanto lui possiede il segreto: notizie di decessi smentite l'indomani, notizie di battaglie mai combattute, annunzi di parole gravi proferite da sovrani che non hanno aperto bocca, tutte le informazioni insomma su cui si fondano i "Profitti Walter", o almeno una delle sue indiscrezioncelle sulle serate di certe signore a successo, o sull'eccellenza di certi che sono la gran risorsa di qualche collega

            Il nostro giovanotto rimase sorpreso, più che irritato, senza capir altro che dentro c'era qualcosa di molto antipatico per lui.

            Boisrenard riprese: «Chi gliel'aveva fornita, quella notizia

            Duroy frugò nella memoria, ma non ricordava più. Poi, d'un tratto, gli venne in mente:

            «Ah, ecco, è stato Saint-Potin

            Rilesse le righe della Plume, e avvampò d'un tratto, scandalizzato dall'accusa di venalità.

            «Ma come,» esclamò, «io sarei dunque pagato per...»

            Boisrenard lo interruppe:

            «Eh, diamine. È un bel pasticcio, per lei. Il padrone non transige, su questo. Altrimenti, chissà quante volte accadrebbe, con gli echi...»

            Entrò, giustappunto, Saint-Potin. Duroy gli corse incontro:

            «Ha letto la nota della Plume

            «Sì, e vengo proprio da casa della Aubert. Esiste realmente, ma mica è stata arrestata. È una voce priva di fondamento

            Duroy; allora, si precipitò dal principale, che trovò un po' freddino e che lo guardò sospettoso. Dopo aver ascoltato il caso, Walter disse: «Vada lei personalmente da quella donna, e smentisca in modo che non si scrivano più robe simili sul suo conto. Penso alle conseguenze. È una cosa molto antipatica per il giornale, per me e per lei. Un giornalista dev'essere al di sopra d'ogni sospetto, non meno della moglie di Cesare

            Duroy salì su una carrozza, con Saint-Potin per guida, e gridò al vetturino: «Rue de l'Écureuil, numero 18, a Montmartre

            La Aubert abitava in un casamento immenso, e dovettero arrampicarsi fino al sesto piano. Una vecchia in caraco di lana venne ad aprire: «Che volete ancora da me?»disse scorgendo Saint-Potin.

            Questi rispose; «V'ho portato il signore, ch'è un agente investigativo e che vorrebbe sapere com'è andata la faccenda

            Allora la donna li fece entrare, dicendo a Saint-Potin:

            «Ne son venuti altri due, dopo di voi, per non so che giornale

            Poi, rivolta a Duroy: «Dunque, è lei che vuol sapere?.»

            «Sì. Siete stata arrestata da un agente del buon costume

            La vecchia alzò le braccia: «Ma quando mai, signore mio, ma quando mai. Ecco qua com'è andata. Io ho un macellaio che serve bene ma pesa male. Me ne sono accorta spesso, senza dir nulla, e gli avevo chiesto due libbre di cotolette, visto che c'eran da me mia figlia e mio genero, e vedo che quello mi pesa delle ossa di scarto, ossa di cotolette, è vero, ma non delle mie cotolette. Avrei potuto farci uno stufatino, è vero anche questo, ma quando chiedo cotolette mica lo fo per aver gli scarti degli altri. Così gli dico che quella roba se la tenga pure. Allora lui mi della vecchia taccagna, e io gli rispondo ch'è un bel ladro. In breve, una parola tira l'altra, finiamo in una litigata, ma di quelle, che c'era più d'un centinaio di persone davanti alla bottega, a ridere, a ridere! Finché una guardia se n'accorse e c'invitò a dir le nostre ragioni davanti al commissario. Una volta , quello ci ha rispediti a casa senza dar ragione a nessuno. Da allora mi servo da un altro, ed evito perfino di passare davanti al suo negozio a scanso di scenate

            Tacque. Duroy domandò: «È tutto?»

            «È tutta la verità, signore mio.»

            E dopo avergli offerto un bicchierino di ratafià, che lui rifiutò, la vecchia insisté perché sul verbale non dimenticassero di mettere le ruberie sul peso del macellaio.

            Tornato al giornale, Duroy scrisse la sua risposta:

           

            Un anonimo scribacchino della Plume, strappatasene una dal suo cranio di pappagallo, va in cerca di rogne con me a proposito d'una vecchia che secondo lui sarebbe stata arrestata da un agente del buon costume, cosa ch'io nego. Sono stato io stesso dall'interessata, certa Aubert, d'anni sessanta circa, e costei m'ha raccontato per filo e per segno un suo diverbio col proprio macellaio a proposito del peso di certe cotolette, il che rese necessaria una spiegazione davanti al commissario di pubblica sicurezza.

            Questa, e nient'altro, è la pura verità.

            Quanto alle altre insinuazioni del redattore della Plume, ci sputo sopra. Sono cose che non meritano risposta, specie quando non si ha nemmeno il coraggio di firmarle.

            Georges Duroy

           

            A Walter e a Jacques Rival, giunto proprio in quel momento, il trafiletto parve sufficiente, e decisero di passarlo quello stesso giorno, in calce agli echi di cronaca.

            Duroy rincasò presto, un po' agitato, un po' impensierito. Cos'avrebbe risposto, l'altro? Chi era? Perché quell'attacco brutale? Dati i modi bruschi dei giornalisti, quella sciocchezzuola poteva aver serie conseguenze, molto serie. Dormì male.

            Quando l'indomani rilesse sul giornale la sua nota, gli parve, così stampata, più aggressiva che scritta a mano. Avrebbe potuto, gli sembrò, attenuare certi termini.

            Rimase impaziente tutto il giorno, e anche quella notte dormì male. Si alzò col sole per cercare una copia della Plume con la risposta alla sua replica.

            Il tempo s'era di nuovo messo al freddo. C'era un gelo. I rigagnoli della strada, subito rappresi come si formavano, srotolavano lungo i marciapiedi due nastri di ghiaccio.

            I giornali non erano ancora arrivati nelle edicole, e a Duroy venne a mente il giorno del suo primo articolo: I ricordi d'un cacciatore d'Africa. Aveva mani e piedi intirizziti, gli dolevano, specie le punte delle dita; e si mise a correre intorno al chiosco dove, dietro i vetri, rannicchiata sullo scaldino, la giornalaia mostrava appena, dallo sportello, il naso rosso e le gote arrazzate sotto una bautta di lana.

            Finalmente il distributore dei giornali infilò il pacco tanto atteso nella finestrella, e la buona donna porse a Duroy La Plume spiegata.

            Cercò il suo nome con rapide occhiate, e per non vide nulla. Respirava già, quando scorse lo stelloncino posto tra due filetti.

           

            Il già menzionato Duroy, della Vie Française, ci una smentita; e, smentendoci, mente. Ammette tuttavia che esiste una tale denominata Aubert, e che un agente l'ha condotta al commissariato. Non resta dunque che aggiungere, alla parola «agente», quest'altre tre parole: «del buon costume», e partita è chiusa.

            Ma la coscienza di certi giornalisti è pari al loro ingegno.

            E mi firmo: Louis Langremont

           

            Col cuore che aveva preso a battergli precipitoso, Georges rincasò per vestirsi, senza saper nemmeno lui quel che stava facendo. Dunque, l'avevano insultato, e in modo tale che non c'era da frapporre il minimo indugio. E perché? Per nulla. Per una vecchia che aveva litigato col suo macellaio.

            Si cambiò alla svelta e andò da Walter, sebbene fossero appena le otto del mattino.

            Walter, già alzato, stava leggendo La Plume.

            «Be',» disse serio in volto, scorgendo Duroy. «Mi par che lei non possa tirarsi indietro

            Il nostro giovanotto non rispose nulla. Il direttore proseguì: «Vada subito da Rival che curerà i suoi interessi

            Duroy balbettò qualche vaga parola e uscì per recarsi da Rival, che dormiva ancora. Costui saltò giù dal letto alla scampanellata, e dopo aver visto lo stelloncino fece: «Capperi, bisogna farsi sotto. Chi ha in mente come altro padrino

            «Ma, non saprei

            «Boisrenard? Che ne dice

            «Sì, Boisrenard

            «È bravo alla spada

            «Macché

            «Ah, diavolo. E alla pistola

            «Un poco.»

            «Bene. Vada ad allenarsi mentre penso io a tutto. Aspetti un momento

            Andò nel bagno e riapparve subito lavato, rasato, inappuntabile.

            «Venga con me,» disse.

            Abitava al pianterreno d'una palazzina, e fece scendere Duroy in cantina, un cantinone enorme, trasformato in sala d'armi e in poligono di tiro, con tutte le aperture sulla strada tappate.

            Dopo aver acceso una fila di becchi a gas che conduceva sino alla parete di fondo d'un secondo sotterraneo, dove si ergeva una figura umana di lamiera tinta di rosso e di blu, posò su un tavolo due paia di pistole di nuovo modello a retrocarica, e cominciò a scandire i comandi, brevi e secchi, come se si fosse già sul terreno.

            «Pronto

            «Fuoco! uno, due, tre!»

            Duroy, distrutto, obbediva, alzava il braccio, mirava, sparava, e siccome di frequente riusciva a colpir la sagoma in pieno ventre, essendosi servito spesso, da ragazzo, d'una vecchia pistola da sella di suo padre per tirare agli uccelli in cortile, Jacques Rival, soddisfatto, diceva: «Bene, benissimo, benone, se la caverà, se la caverà

            Poi lo lasciò: «Spari così fino a mezzogiorno. Ecco delle cartucce, non abbia timore di sprecarle. Verrò a prenderla per andare a pranzo e per portarle le novità

            E uscì.

            Rimasto solo, Duroy sparò ancora qualche colpo, poi si sedette e cominciò a riflettere.

            Quant'era sciocco, in definitiva, tutto questo! A che pro, poi? Un mascalzone cessava forse d'esser tale dopo essersi battuto? Che ci guadagnava, un galantuomo insultato, a mettere a repentaglio la propria pelle contro un farabutto? E mentre la sua mente brancolava nei buio, si ricordò le parole di Norbert de Varenne sulla miseria spirituale degli uomini, sulla meschinità delle loro idee e delle loro preoccupazioni, sull'insipienza della loro morale!

            Esclamò ad alta voce: «Cristo, se aveva ragione

            S'accorse d'aver sete, e udito uno sgocciolio d'acqua alle spalle, vide una doccia e andò a bere al getto. Poi si rimise a pensare.

            C'era un'aria triste, in quello scantinato, triste come in una tomba, Il rotolio remoto e sordo delle carrozze pareva il bombito d'un temporale lontano. Che ora sarà stata? dentro le ore trascorrevano come forse trascorrono in fondo a un carcere, senza niente che le indichi o che le segni, tranne le visite del secondino che viene a portare i pasti. Aspettò a lungo, a lungo.

            Poi, d'un tratto, udì dei passi, delle voci, e accompagnato da Boisrenard ricomparve Jacques Rival, che gli gridò appena lo vide: «Tutto sistemato

            Duroy credette che la faccenda fosse stata aggiustata con una lettera di scusa, e provò un tuffo al cuore. Balbettò:

            «Ah, grazie

            Rival proseguì: «Quel Langremont è un uomo molto aperto, ha accettato tutte le nostre condizioni. Venticinque passi, un solo colpo al comando, alzando la pistola. Il braccio, a questo modo, è molto più fermo che abbassandola. Stia a vedere, Boisrenard

            E presa la pistola cominciò a sparare per dimostrargli come si mantenga meglio la mira alzando il braccio.

            Poi disse: «E ora andiamo a mangiare, è mezzogiorno suonato

            Si recarono in una trattoria vicina. Duroy parlava poco. Mangiava perché non pensassero che avesse paura, poi in giornata accompagnò Boisrenard in redazione e sbrigò il suo lavoro distrattamente e macchinalmente. Parve a tutti un uomo di fegato.

            Jacques Rival venne verso sera a stringergli la mano; e rimasero d'accordo che i padrini sarebbero andati a prenderlo a casa in landò, l'indomani mattina alle sette e mezzo, per accompagnarlo al bosco del Vésinet, luogo dello scontro.

            Tutto questo era avvenuto, per lui, in modo così inopinato, senza avervi minimamente preso parte, senza aver detto una sola parola sua, senza aver espresso un suo parere, senza aver né accettatorifiutato, e con tanta rapidità, da restarne stordito, sbigottito, quasi incapace di rendersi conto di quanto stava accadendo.

            Alle nove di sera era già a casa, dopo aver cenato con Boisrenard che, tutto dedito a lui, quel giorno non l'aveva abbandonato un momento.

            Appena si trovò solo, per qualche minuto passeggiò su e giù per la camera, a passi concitati. Non riusciva a raccogliersi, tant'era forte il suo turbamento. Un pensiero fisso gli ingombrava intera la mente - un duello, l'indomani, - senza che tale pensiero riuscisse a suscitare in lui qualcosa di diverso da una confusa e intollerabile emozione. Era stato un soldato, aveva sparato agli arabi, magari senza troppo rischio personale, un po' come si tira al cinghiale, a caccia. Ma il suo dovere, insomma, l'aveva sempre saputo fare. Aveva saputo mostrarsi all'altezza. Impossibile non ricordarsene, non approvarlo, non congratularsi. Poi esclamò ad alta voce, come si fa quando s'ha il cervello fortemente scosso: «Ma che mostro, quello

            Si sedette e prese a riflettere. Aveva buttato sul suo tavolinetto un biglietto da visita del suo avversario consegnatogli da Rival per non dimenticar l'indirizzo. Lo rilesse per la ventesima volta in quella giornata. Louis Langremont, 176, rue Montmartre. Nient'altro.

            Esaminava quelle lettere dell'alfabeto combinate insieme, e gli parevano piene di mistero, di significati inquietanti. «Louis Langremont», chi era costui? Che età aveva? Che statura? Che volto? Non era forse un'indecenza che un estraneo, uno sconosciuto potesse turbare a quel modo la vita d'un uomo, tutt'a un tratto, senza un motivo, per puro sfizio, a proposito d'una vecchia che s'è litigata col sua macellaio?

            Ripeté ancora una volta, ad alta voce: «Che mostro

            E rimase immobile, pensieroso, lo sguardo ancora inchiodato sul biglietto. Gli veniva su una bile, contro quel pezzettino di carta, una bile piena d'un odio in cui si mescolava uno strano senso di malessere. Com'era stupida, tutta la faccenda! Prese un paio di forbicine da unghie, che si trovavano , e conficcò la punta su quel nome stampato, quasi volesse pugnalar qualcuno.

            Dunque, doveva battersi a duello, e battersi alla pistola. Perché non aveva scelto la spada? Se la sarebbe cavata con una scalfittura al braccio o alla mano, mentre con la pistola non si posson mai prevedere le conseguenze.

            Disse: «Su, ci vuole un po' di fegato

            Sussultò al suono della propria voce; e si guardò intorno.

            Cominciava a sentirsi molto nervoso. Bevve un bicchier d'acqua, poi si coricò.

            Appena fu a letto, spense il lume e chiuse gli occhi.

            Sentiva un gran caldo, fra le lenzuola, sebbene la stanza fosse gelida, e non riusciva a prender sonno. Si girava e rigirava da ogni parte, restava cinque minuti supino, si metteva sul fianco sinistro, poi si voltava sul destro.

            Aveva di nuovo sete. Si alzò per bere, e un'inquietudine lo assalì: «E se avessi paura

            Perché il cuore gli martellava a quel modo ad ogni noto rumore della stanza? Perché quando il cucù stava per sbucar fuori dall'orologio, il lieve cigolio della molla, di soprassalto, lo rimescolava tutto e doveva restarsene per qualche istante con la bocca aperta, tanto si sentiva mancare il fiato?

            No non poteva certamente aver paura, dato ch'era deciso ad andare sino in fondo e aveva ben fermo il proposito di battersi, di non tremare. Ma si sentiva così profondamente emozionato, da domandarsi: «Può uno aver paura a suo malgrado?» E questo dubbio s'impossessò di lui, questa preoccupazione, questo sgomento! Se una forza più possente della sua volontà, una forza imperiosa, irresistibile, lo avesse piegato, che sarebbe accaduto? Sì, che sarebbe potuto accadere?

            Certo, sul terreno ci sarebbe andato, perché era deciso ad andarci. Ma se gli fosse presa la tremarella? Ma se fosse svenuto? E pensava alla sua posizione, alla sua reputazione, al suo avvenire.

            Provò lo strano bisogno, d'un tratto, di alzarsi e di guardarsi allo specchio. Riaccese la candela. Quando scorse il proprio volto riflesso nel vetro lucido, stentò a riconoscersi; quasi non si fosse mai visto in faccia. I suoi occhi gli parvero enormi; era pallido, sì, era pallido, pallidissimo.

            D'improvviso un pensiero gli attraversò il cervello come una pallottola: «Domani a quest'ora, forse, sarò già morto,» E il cuore gli ricominciò a battere furiosamente.

            Si voltò verso il suo giaciglio e vide distintamente se stesso, steso supino fra quelle medesime lenzuola or ora lasciate. Aveva le guance affossate dei morti, e le stesse cadaveriche mani che non si muoveranno mai più.

            Allora ebbe paura del proprio letto e per non vederlo aprì la finestra e si mise a guardar fuori.

            Un freddo glaciale gli penetrò nelle ossa, e si ritirò col fiato mozzo.

            Pensò di fare un po' di fuoco. Si mise ad attizzarlo lentamente, senza voltarsi. Nel toccar gli oggetti, le mani gli tremavano un poco, pervase da un fremito nervoso. Stava perdendo la testa, e le idee gli turbinavano nel cervello smozzicate, gli sfuggivano via dolorosamente. Si sentiva ubriaco, come se avesse bevuto.

            E senza posa si domandava: «Cosa devo fare? Che sarà di me?»

            Riprese a camminar su e giù, ripetendo di continuo, come una macchinetta: «Devo essere energico, molto energico.» Poi disse tra sé e sé: «Voglio avvertire i miei, mi capitasse qualcosa.»

            Si mise di nuovo a sedere, prese una busta di carta da lettere e: «Caro babbo, cara mamma...» vergò.

            Ma poi gli parvero termini troppo domestici, in un frangente così drammatico, e strappò il foglio per ricominciar da capo: «Padre mio, madre mia, all'alba mi batterò in duello; e siccome potrebbe succedermi...»

            Ma gli mancò il coraggio di scrivere il resto, e si alzò di scatto.

            Battersi in duello. Questo pensiero adesso, lo annientava. Era un fatto ormai inevitabile. E allora, che stava accadendo, in lui? La volontà di battersi non gli mancava, la sua intenzione e la sua decisione erano ben ferme; eppure, nonostante ogni sforzo, gli sembrava di non aver nemmeno l'energia sufficiente per arrivare al luogo dello scontro.

            Di tratto in tratto batteva i denti con un secco ticchettio, mentre andava domandandosi: «Avrà già avuto altri duelli, il mio avversario? È un frequentatore del tiro a segno? È famoso? È quotato?» Non lo aveva mai sentito nominare, ma doveva di certo esser bravo alla pistola per aver accettato così, senza esitare e senza discutere, quell'arma pericolosa.

            Duroy cercava di figurarsi lo scontro, il suo comportamento e il contegno dell'altro. Si logorava la mente cercando d'immaginare ogni minimo particolare della partita d'armi; e di colpo si vide davanti il buchetto nero e profondo della canna, da cui sarebbe uscita la pallottola.

            Fu preso bruscamente da una tremenda crisi di disperazione. Tremava a verga a verga, percorso in tutto il corpo da fremiti e sussulti. Stringeva le mascelle per non urlare, con un forsennato bisogno di rotolarsi per terra, di sbranar coi denti qualcosa, di mordere. Scorse un bicchiere sul caminetto e si ricordò d'aver nell'armadio una bottiglia d'acquavite quasi intera, avendo conservato l'abitudine militaresca di bersi un cicchetto ogni mattina.

            Afferrò la bottiglia e, attaccatosi al collo, tracannò a grosse sorsate, avidamente. E non la posò finché non si sentì mancare il fiato. L'aveva svuotata d'un terzo.

            Presto un calor di fiamma gli bruciò lo stomaco, gli si diffuse per le membra, lo rinfrancò stordendolo.

            Pensò: «Ho trovato il mezzo.» E poiché adesso aveva i bollori, riaprì la finestra.

            Albeggiava, un'alba calma e gelida. Su in cielo, le stelle parevano morire nel firmamento illuminato, mentre in fondo al fosso della ferrovia i segnali verdi, rossi e bianchi si facevano sempre più fiochi.

            Le prime locomotive uscivano dal deposito fischiando, in cerca dei primi convogli. Altre, in lontananza, lanciavano appelli acuti e reiterati, diane mattutine come quelle dei galletti fra i campi.

            Duroy pensava: «Forse queste cose non le rivedrò più.»Ma accortosi che stava di nuovo intenerendosi su se stesso, reagì con energia: «Su, non devo pensare a nulla fino al momento dello scontro; è l'unico modo per non esser pusillanimi

            Cominciò a prepararsi. Mentre si faceva la barba, ebbe ancora un momento di debolezza pensando che forse si vedeva in volto per l'ultima volta.

            Bevve un'altra sorsata d'acquavite, e finì di vestirsi.

            L'ora che gli rimase fu dura a passare. Percorreva in lungo e in largo la stanza, proprio mentre si sforzava di render fermo il proprio animo. Quando sentì bussare alla porta, poco ci mancò che non andasse a sbattere per terra, tant'era stata violenta l'emozione. Erano i padrini. Di già! Erano imbacuccati nelle pellicce. Rival disse, dopo avergli stretto la mano: «Fa un freddo che par d'essere in Siberia

            Poi gli domandò: «Si sente bene

            «Sì, benissimo

            «È calmo

            «Calmissimo

            «Allora, tutto andrà per il meglio. Ha bevuto, ha mangiato qualcosa?»

            «Sì, non mi occorre nulla.»

            Boisrenard, per l'occasione, aveva messo una decorazione straniera, verde e gialla, che Duroy non gli aveva mai visto addosso.

            Uscirono. Un signore stava aspettandoli in landò. Rival fece: «Il dottor Le Brument

            Duroy gli strinse la mano balbettando: «La ringrazio.»Poi cercò di prender posto sul sedile anteriore, e si sedé su qualcosa di duro che lo costrinse a rialzarsi di scatto, come spinto da una molla. Era la cassetta delle pistole.

            Rival badava a ripetere: «No, il duellante e il medico sul sedile in fondo, sul sedile in fondo

            Duroy finalmente capì, e s'accasciò accanto al dottore.

            Salirono anche i due padrini, e il vetturino s'avvio. Sapeva già dove andare.

            La cassetta delle pistole dava fastidio a tutti quanti, specie a Duroy, che avrebbe preferito non vederla. Cercarono di mettersela dietro la schiena. Spezzava le reni. La sistemarono per ritto fra Rival e Boisrenard, ma cadeva ogni momento. Finirono per ficcarsela sotto i piedi.

            La conversazione languiva, sebbene il medico raccontasse delle barzellette. Soltanto Rival gli dava retta. Duroy avrebbe voluto dar prova di presenza di spirito, ma aveva paura, parlando, di perdere il filo, e di mostrar così il proprio turbamento, ossessionato com'era dal timore assillante di mettersi a tremare.

            Presto la carrozza fu in aperta campagna. Saranno state le nove. Era uno di quei pungenti mattini invernali in cui tutto il paesaggio luccica, fragile e duro come cristallo. Gli alberi, coperti di brina, parevano trasudare ghiaccio; la terra risonava sotto i piedi; l'aria asciutta portava lontano ogni minimo rumore; il cielo azzurro splendeva come uno specchio, e il sole seguiva il suo corso nello spazio, anch'esso brillante e freddo, dardeggiando sul creato gelido raggi che non riscaldavano.

            Rival disse a Duroy: «Ho preso le pistole da Gastine-Renette. Le ha caricate lui stesso. La cassetta è sigillata. Dovremo però tirarle a sorte con quelle del nostro avversario

            Duroy rispose macchinalmente: «La ringrazio

            Rival gli fece allora mille meticolose raccomandazioni, perché ci teneva che il suo assistito non commettesse errori. Insisteva parecchie volte sullo stesso punto: «Quando domanderanno: "Siete pronti, signori?" lei risponderà con voce robusta: "Sì." Al comando: "Fuoco!" alzerà di scatto il braccio e sparerà prima che abbiano pronunziato: "tre!"»

            E Duroy si ripeteva mentalmente; «Al comando "fuoco", alzerò il braccio... al comando "fuoco", alzerò il braccio... al comando "fuoco", alzerò il braccio

            Faceva come i bambini che imparano a pappagallo la lezione, mormorando fino alla nausea quelle parole per ficcarsele bene in testa. «Al comando "fuoco", alzerò il braccio

            Il landò entrò in un bosco, svoltò a destra su un viale, poi ancora a destra. Rival, bruscamente, aprì lo sportello per gridare al vetturino: «Laggiù, da quel sentiero.» E la carrozza s'inoltrò su una pista piena di carreggiate fra due boschetti cedui dove tremava qualche foglia orlata di ghiaccio.

            Duroy stava ancora borbottando: «Al comando "fuoco", alzerò il braccio.» E pensò che un incidente alla carrozza avrebbe sistemato tutto. Oh, se si fosse rovesciata, che fortuna! Se lui si fosse rotto una gamba!...

            Ma in fondo a una radura scorse un'altra carrozza ferma e quattro signori che battevano i piedi per scaldarseli; e gli venne un fiatone, da dover tenere la bocca aperta.

            Scesero prima i secondi, poi il medico e il primo. Rival, presa la cassetta delle pistole, andò incontro, con Boisrenard, a due degli sconosciuti che stavano dirigendosi verso di loro. Duroy li vide salutarsi cerimoniosamente, e poi camminare insieme sullo spiazzo, guardando ora per terra, ora sugli alberi, come se fosse caduto o volato via qualcosa. Contarono alcuni passi, e a fatica piantarono due bastoni da passeggio sul suolo gelato. Formarono quindi un capannello, e fecero a testa e croce, come ragazzini che giocano.

            Il dottor Le Brument domandò a Duroy:

            «Si sente bene? Le occorre nulla?»

            «Nulla, grazie

            Gli pareva d'essere impazzito, di dormire, di sognare, e che fosse accaduto qualcosa di soprannaturale, in cui si trovasse coinvolto.

            Aveva forse paura? Poteva anche darsi. Ma non avrebbe saputo dire. Tutto era così insolito, intorno a lui.

            Riapparve Jacques Rival, e gli disse a bassa voce, soddisfatto:

            «Tutto pronto. Per le pistole, la sorte ci ha favoriti..»Ma se c'era una cosa di cui a Duroy non importava nulla, era proprio questa.

            Gli tolsero il cappotto. Li lasciò fare. Gli tastarono le tasche 'della redingote, per accertarsi che non avesse carte o portafogli a fargli scudo.

            Badava a ripetere mentalmente, come una giaculatoria:

            «Al comando "fuoco", alzerò il braccio

            Lo riaccompagnarono fino a uno dei bastoni ficcati in terra, e gli consegnarono la pistola. Scorse allora un uomo ritto davanti a lui, vicinissimo, un ometto basso, con la pancetta, calvo e occhialuto. Era il suo avversario.

            Lo vide benissimo, ma in mente non aveva altro che:

            «Al comando "fuoco", alzerò il braccio e sparerò

            Echeggiò una voce nel gran silenzio intorno, una voce che sembrava giungere da molto lontano:

            «Siete pronti, signori

            Georges gridò: «Sì!»

            Allora la stessa voce comandò: «Fuoco

            Non ascoltò altro, non si rese conto di nulla, sentì soltanto che stava alzando il braccio e che premeva il grilletto con quanta forza aveva.

            E non udì nulla.

            Ma vide subito un po' di fumo uscir dalla canna della sua pistola; e siccome l'uomo dirimpetto a lui era ancora in piedi, nella stessa identica posizione, scorse un'altra nuvoletta bianca innalzarsi sul capo del suo avversario.

            Avevano sparato entrambi. Era finita.

            I secondi e il medico lo toccavano, lo palpavano, lo sbottonavano domandando ansiosi: «È mica ferito

            «No, non credorispose a vanvera.

            Anche Langremont, del resto, era illeso, e Jacques Rival mormorò di malumore: «Con questa maledetta pistola finisce sempre così, o si fa cilecca o ci s'accoppa. Che sporco arnese

            Duroy non si muoveva, imbambolato dalla sorpresa e dalla gioia. Era finita! Dovettero levargli l'arma che teneva ancora stretta in pugno. Si sentiva capace, adesso, di battersi contro l'universo intero. Era finita. Che bellezza! Era pronto, per , a provocar chiunque.

            I padrini parlarono fra loro per qualche minuto, prendendo appuntamento in giornata per stendere il verbale, poi risalirono tutti in carrozza; e il vetturino, che rideva in serpa, si mosse con uno schiocco di frusta.

            Pranzarono tutti e quattro sul boulevard, commentando l'avvenimento. Duroy diceva le sue impressioni.

            «Non m'ha fatto nessun effetto, assolutamente. Del resto, avete visto, no?»

            Rival disse: «Sì, s'è comportato bene

            Appena il verbale fu redatto, lo consegnarono a Duroy perché lo inserisse negli echi di cronaca. Rimase stupito leggendo d'aver scambiato due pallottole col signor Louis Langremont; e, un po' turbato, interrogò Rival: «Ma non abbiamo sparato una pallottola sola

            L'altro sorrise: «Certo... una pallottola... una pallottola per uno... il che fa due.»

            Soddisfatto della spiegazione, non insisté. Zi' Walter lo abbracciò:

            «Bravo, bravo, lei ha tenuto alta la bandiera della Vie Française, bravo

            La sera, Georges si mise in mostra nella redazione dei più grandi giornali parigini e nei più grandi caffè-ristoranti del boulevard. Incontrò due volte il suo avversario, che stava facendo altrettanto.

            Non si salutarono. Se uno dei due fosse rimasto ferito, si sarebbero stretti la mano. Ma entrambi erano pronti a giurare, e convinti, d'aver sentito fischiar la pallottola all'orecchio.

            L'indomani mattina, verso le undici, Duroy ricevette un telegramma della signora de Marelle: «Mio Dio, che paura! Vieni stasera in Rue de Constantinople, ch'io t'abbracci, amor mio. Come sei coraggioso! Ti adoro. Clo

            Andò all'appuntamento, e lei gli si gettò fra le braccia, coprendolo di baci.

            «Oh, tesoro, sapessi che emozione, stamani, quand'ho letto i giornali. Raccontami. Dimmi tutto. Voglio sapere

            Dovette raccontare ogni particolare per filo e per segno. Lei esclamò: «Chissà che nottataccia hai passato, prima del duello

            «Macché. Ho dormito come un ghiro

            «Io non avrei chiuso occhio. E sul terreno com'è andata, di'

            Fece un racconto drammatico: «Quando ci siamo trovati a faccia a faccia, a venti passi l'un dall'altro, appena quattro volte la lunghezza di questa stanza, Jacques, dopo averci chiesto se eravamo pronti, ha comandato: "Fuoco!" Ho alzato subito il braccio, tenendolo ben fermo, ma ho avuto il torto di mirare alla testa. Avevo un'arma molto dura, mentr'io sono avvezzo a pistole docilissime, così la resistenza del grilletto m'ha fatto deviare in alto il colpo. Pazienza, la pallottola però non deve essergli passata lontana. Anche lui spara bene, quel mascalzone. Il suo proiettile m'ha sfiorato la tempia. Ne ho sentito il vento

            Clotilde gli si era seduta sulle ginocchia e se lo stringeva fra le braccia come per proteggerlo da un pericolo, mormorando:

            «Oh, povero tesoruccio mio, povero tesoruccio mio...»

            Poi, quando lui ebbe finito di raccontare, gli disse: «Sai, non posso più fare a meno di te! Ho bisogno di vederti, e, con mio marito qui a Parigi, non è facile. Potrei avere spesso un'ora al mattino, prima che tu ti sia alzato, e potrei venire ad abbracciarti, ma non voglio tornare in quella tua orribile casaccia. Come fare?»

            A Duroy venne d'improvviso un'ispirazione, e domandò:

            «Quanto paghi, qui?»

            «Cento franchi ai mese

            «Bene, pago io l'appartamento e vengo ad abitarci. La mia camera non mi basta più, data la mia nuova posizione

            Lei rifletté un attimo, poi rispose:

            «No, non voglio.»

            Lui si stupì.

            «E perché?»

            «Perché no.»

            «Che razza di ragione. Questa casetta mi va a pennello. Ci sono e ci resto

            Si mise a ridere, e aggiunse: «Del resto, è intestata a me.»

            Ma lei insisteva nel rifiuto: «No, non voglio...»

            «Ma si può sapere perché?»

            Allora Clotilde mormorò sottovoce, teneramente: «Perché ci porteresti altre donne, e io non voglio.»

            Lui s'offese: «Ma quando mai, diavolo. Ti prometto

            «No, ce le porteresti lo stesso.»

            «Ti giuro

            «Proprio?»

            «Proprio. Parola d'onore. È la nostra casetta, questa; soltanto nostra.»

            «Allora accettodisse lei stringendoselo al petto in uno slancio d'amore. «Ma t'avverto: se m'inganni una sola volta, dico una, sarà finita fra noi, finita per sempre.»

            Lui giurò ancora, protestando, e stabilirono che vi si sarebbe insediato quello stesso giorno, in modo che lei potesse vederlo passando davanti alla porta.

            Poi Clotilde gli disse:

            «Comunque, domenica vieni a cena da noi. Mio marito ti trova simpaticissimo

            Lui ne fu lusingato.

            «Ah, davvero

            «Sì, lo hai conquistato. Eppoi, di', non m'hai detto che sei stato educato in un castello in campagna

            «Sì, perché?»

            «Allora devi intenderti un poco d'agricoltura

            «Già.»

            «Ebbene, parlagli d'orticoltura e di raccolti, sono argomenti che gli piacciono molto.»

            «Sta bene, me lo ricorderò

            Clotilde lo lasciò, dopo avergli dato un bacio che non finiva mai, giacché il duello aveva rinfocolato in lei le tenerezze.

            Tornando al giornale, Duroy pensava: «Che strana creatura! Che cervello da uccellino! Lo sai tu quel che vuole e quel che le piace? E che strana coppia! Quale essere fantasioso ha potuto mettere insieme quel vecchione e questa scervellata? Quale ragionamento ha indotto quell'ispettore a sposare questa studentina? Mistero! Chi ci capisce qualcosa è bravo. L'amore, forse?»

            Concluse: «Alla fin fine, è un'amante adorabile. Sarei un bello scemo a lasciarla

 


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