IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
III
Al giornale, l'indomani, Du Roy si recò subito da Boisrenard.
«Senti, amico,» gli disse, «Devo chiederti un piacere. Da qualche tempo, qui trovano divertente chiamarmi Forestier. Io invece comincio a trovare idiota la faccenda. Vuoi farmi il santo piacere d'avvertir per benino i colleghi che darò un bel ceffone al primo che si permetterà ancora di farmi questo scherzetto? Toccherà a loro riflettere se la prodezza vale un occhiello nella pancia. Mi rivolgo a te perché ti so un tipo calmo, in grado d'impedire che si giunga ad estremi spiacevoli; eppoi, anche perché mi hai già fatto da padrino nel nostro duello.»
Boisrenard accettò d'occuparsi della faccenda.
Du Roy uscì per delle commissioni, e tornò un'ora dopo. Nessuno lo chiamò Forestier.
A casa, sentì delle voci femminili in salotto. Domandò:
«Chi c'è?»
Il domestico rispose: «La signora Walter e la signora de Marelle.»
Ebbe un tuffetto al cuore, ma subito si riprese: «Su, coraggio.» E aprì l'uscio.
Clotilde era a fianco del caminetto, in un raggio di luce proveniente dalla finestra. Gli parve che nello scorgerlo fosse un poco impallidita. Dopo aver salutato la signora Walter e le due figlie, che sedevano accanto alla madre come due sentinelle, una di qua e una di là, si volse verso l'ex amante. Costei gli porse la mano; Georges gliela prese e la strinse con intenzione, come per dirle: «L'amo ancora.»
Clotilde rispose alla stretta.
Lui domandò: «E da un secolo che non ci vediamo. Sempre in buona salute?»
«Sicuro,» rispose disinvolta. «E lei, Bel-Ami?»
Poi aggiunse, rivolta a Madeleine: «Permetti che continui a chiamarlo Bel-Ami?»
«Ma certo, cara. Ti permetto tutto quello che vuoi.»
C'era nascosta come una sfumatura d'ironia, in quelle parole.
La signora Walter stava parlando d'una festa organizzata da Jacques Rival nel suo appartamento da scapolo, un grande torneo schermistico al quale avrebbero assistito molte gentildonne. Diceva: «Sarà una cosa interessantissima. Ma sono desolata, non abbiamo nessuno che ci accompagni, mio marito dovrà assentarsi proprio quel giorno.»
Du Roy si offrì subito. Lei accettò: «Gliene saremo molto grate, le mie figliole ed io.»
Lui guardò la più giovane delle due signorine Walter, e pensò: «Mica poi troppo male, la piccola Suzanne. Proprio niente male.»
Pareva una fragile pupattola bionda, troppo piccolina, ma fine, un bel vitino sottile, ben messa di fianchi e di petto, un faccino da miniatura, due occhi di smalto grigiazzurri che sembravano disegnati in punta di pennello e sfumati da un minuzioso pittore di genere, una carnagione troppo bianca, troppo liscia, levigata, tutta unita, senza granulosità o macchie di colore, e capelli scarruffati, arricciati, un sapiente e vaporoso intrico, una nuvola deliziosa, simile in tutto alla capigliatura delle vezzose bambole di lusso, molto più alte delle birichine che le tengono in braccio.
La sorella maggiore, Rose, era brutta, piatta, insignificante, una di quelle ragazze che passano inosservate, senza che nessuno le degni d'una parola o d'un commento.
La madre si alzò, e rivolta a Georges disse: «Conto dunque su di lei, per giovedì prossimo, alle due.»
Lui rispose: «Sì, conti pure su di me, signora.»
Quando se ne fu andata, la signora de Marelle si alzò a sua volta: «Arrivederci, Bel-Ami.»
Fu lei adesso a stringergli la mano, con molta energia, a lungo; e lui si senti turbato da quella muta confessione, ripreso da un brusco capriccio per quella borghesuccia, scapigliata ma brava figliola, che forse gli voleva veramente bene.
«Domani andrò a trovarla,» pensò.
Rimasto solo con la moglie, questa si mise a ridere, d'un riso aperto e gaio, e guardandolo bene in faccia gli disse:
«Lo sai che la signora Walter ha preso una cotta per te?»
«Ma via, andiamo,» rispose lui, incredulo.
«Ma sì, t'assicuro, m'ha parlato di te con un entusiasmo! Strano, da parte sua. Le piacerebbero, per le sue figliole, due mariti come te!... Meno male che, con quella, a certe cose non si dà peso.»
Georges non capiva che intendesse dire, e fece: «Come, non si dà peso?»
«Oh,» rispose lei, da donna convinta e sicura del fatto suo. «La signora Walter è una che non ha mai dato adito a un mormorio, dico mai, capisci?, mai e assolutamente mai. È inattaccabile da tutti i lati. Suo marito, lo conosci quanto me. Ma lei, lei è tutt'altra cosa. Anche se sposare un ebreo le è costato parecchio, gli è rimasta egualmente fedele. È una donna onesta.»
Du Roy rimase sorpreso: «Credevo che fosse ebrea anche lei.»
«Ebrea lei? Macché, È patronessa di tutte le opere di beneficienza della Madeleine. S'è perfino sposata in chiesa. Non ricordo più se c'è stato un simulacro di battesimo del principale, o se la Chiesa ha chiuso un occhio.»
Georges mormorò: «E così... lei... è cotta di me?»
«Cotta e stracotta. Se tu fossi ancora libero, ti consiglierei di chiedere la mano di... di Suzanne, no? meglio che di Rose.»
Lui rispose, arricciandosi i baffi: «Ma anche la madre, mica è ancora da buttar via.»
«Quanto alla madre, figlio mio, allunga pure il collo. A me non fa davvero paura. Non è alla sua età che si commette il primo fallo. Una donna ci si deve metter prima.»
Georges pensò: «E se fosse vero, che avrei potuto sposare Suzanne?...»
Poi si strinse nelle spalle: «Bah!... È da matti, pensarci... Suo padre m'avrebbe certamente negato il consenso.»
Tuttavia si ripromise, d'ora in poi, d'osservar meglio il comportamento della signora Walter nei suoi riguardi, senza d'altronde chiedersi se avrebbe mai potuto cavarne qualche vantaggio.
Tutta la sera fu tormentato dal ricordo dei suoi amori con Clotilde, ricordi teneri e sensuali a un tempo. Ne rammentava le stramberie, la delicatezza, le scappatelle con lui. E andava ripetendosi: «È davvero molto cara. Sì, domani andrò a trovarla.»
Il giorno dopo, finito di pranzare, si recò realmente in Rue de Verneuil. Gli aprì la solita donna di servizio, che gli chiese familiarmente, come fan tutte le domestiche della piccola borghesia: «Come andiamo, signor Duroy?»
Ed entrò in salotto, dove una mano inesperta stava eseguendo delle scale al pianoforte. Era Laurine. Pensò che gli sarebbe saltata al collo. Invece si alzò seria, salutò cerimoniosamente come avrebbe fatto una persona grande, e si ritirò contegnosa.
Quel suo modo di fare, da donna oltraggiata, lo lasciò a bocca aperta. Entrò la madre. Le prese e le baciò le mani, dicendo:
«Quant'ho pensato a lei!»
Si sedettero. Si sorridevano, gli occhi negli occhi, con una gran voglia di baciarsi sulle labbra.
«Mia cara piccola Clo, ti amo.»
«Anch'io.»
«Allora... allora... non mi serbi troppo rancore?»
«Sì e no... Ho sofferto molto, poi ti ho capito, e mi son detta: "Bah, tornerà a me, un giorno o l'altro".»
«Non osavo venire, non sapevo come mi avresti accolto. Non osavo ma morivo dalla voglia. Ma di', che ha Laurine? M'ha appena salutato e se n'è andata che m'avrebbe mangiato vivo.»
«Non so, ma non vuol più sentir parlare di te da quando ti sei sposato. Penso proprio che sia gelosa.»
«Ma via!»
«Sì, caro. Non ti chiama più Bel-Ami, ti chiama il signor Forestier.»
Du Roy avvampò, poi avvicinatosi a Clotilde, disse:
«Dammi la bocca.»Lei gliela porse.
«Dove potremo rivederci?» domandò Georges. «Ma... ma in Rue de Constantinople.» «Ah!... Allora l'appartamento non è stato affittato?»
«No, l'ho tenuto.»
«L'hai tenuto?»
«Sì, ho pensato che saresti tornato.»
Una folata d'orgogliosa letizia gli gonfiò il petto. Lo amava, dunque, costei, d'un amore vero, costante, profondo.
Poi le chiese: «Tuo marito sta bene?»
«Sì, benissimo. Ha passato un mese qui. È partito ier l'altro.»
Du Roy non seppe trattenere il riso: «Proprio quel che ci voleva.»
«Sì, proprio quel che ci voleva,» rispose lei candidamente. «Ma anche quand'è qui non disturba, lo sai!»
«È vero. È proprio un amore d'uomo.»
«E tu,» disse lei, «come ti trovi con la tua nuova vita?»
«Né bene né male. Mia moglie è una compagna, una socia.»
«Nulla di più?»
«Nulla di più... quanto al cuore...»
«Sì, ma non mi turba affatto.»
Si avvicinò a Clotilde, e mormorò: «Quando ci rivedremo?»
«Ma... domani... se vuoi.»
«Sì, domani. Alle due?»
«Alle due.»
Si alzò per andarsene, poi balbettò, un poco imbarazzato:
«Sai, ho intenzione di prendermelo io, da solo, l'appartamento di Rue de Constantinople. Lo esigo. Ci mancherebbe che continuassi a pagarlo tu.»
Fu lei, ora, a baciargli le mani, in uno slancio d'adorazione, mormorando: «Fa' come ti pare. A me basta averlo conservato per poterci rivedere.»
E Du Roy se n'andò, tronfio di soddisfazione.
Passando davanti alla vetrina d'un fotografo, il ritratto d'una signora, alta e con due occhi molto grandi, gli ricordò la moglie di Walter. «Dopotutto,» pensò, «dev'essere ancora buona. Vorrei saper perché non l'ho notata prima. Son curioso di vedere che faccia mi farà giovedì.»
Camminando, si fregava le mani pieno d'intima gioia, la gioia del successo su tutta la linea, la gioia egoistica dell'uomo abile che raggiunge i suoi scopi, la gioia sottile, fatta di vanità lusingata e di sensualità soddisfatta, che vien dalla simpatia delle donne.
Arrivati al giovedì, disse a Madeleine: «Non vieni al torneo da Rival?»
«Oh no, la scherma non mi diverte troppo. Andrò alla Camera dei deputati.»
Essendo una splendida giornata, Georges si recò dalla signora Walter in landò scoperto.
Rimase sorpreso, vedendola, tanto gli parve giovane e bella. Era vestita di chiaro, col corpetto lievemente spaccato che lasciava indovinare, sotto un merletto biondo, l'opulenza del seno. Non gli era mai sembrata così fresca. Gli parve appetitosissima. Aveva il solito aspetto tranquillo di donna per bene; quel contegno di pacifica madre di famiglia che la faceva passare quasi inosservata agli occhi degli uomini galanti. Non parlava molto, d'altronde, se non per dire cose risapute, assennate, morigerate, seguendo il suo savio buonsenso, metodico e ben ordinato, schivo d'ogni eccesso.
La figlia Suzanne, in rosa, sembrava un Watteau appena dipinto; e la sorella maggiore pareva l'istitutrice incaricata di far compagnia a quel ninnoletto di bambina.
Davanti al portone di Rival c'era una lunga fila di carrozze. Du Roy offrì il braccio alla signora Walter, ed entrarono.
Il torneo era a beneficio degli orfani del sesto arrondissement di Parigi, sotto il patronato di tutte le mogli dei senatori e dei deputati che avevano qualche legame con la Vie Française.
La signora Walter aveva promesso di portare le figlie ma aveva rifiutato il titolo di patronessa, giacché il suo nome lo concedeva soltanto alle pie iniziative del clero, non perché fosse molto devota, ma perché il suo matrimonio con un israelita la costringeva, secondo lei, a un certo ossequio alla Chiesa; mentre la festa organizzata dal giornalista assumeva un sapore quasi repubblicano che poteva apparire anticlericale.
Da tre settimane si leggeva sui giornali di tutte le tinte:
«Il nostro illustre collega Jacques Rival ha avuto la brillante quanto generosa idea d'organizzare, a degli orfanelli del sesto arrondissement di Parigi, un grande torneo schermistico nella bella sala d'armi annessa al suo appartamento di scapolo.
«Gli inviti son da parte delle signore Laloigne, Remontel, Rissolin, mogli dei senatori omonimi, e delle signore Laroche-Mathieu, Percerol, Firmin, consorti dei ben noti deputati. Durante l'intervallo del torneo verrà fatta una questua in forma molto semplice, e il ricavato sarà venato subito nelle mani del sindaco del sesto arrondissement, o d'un suo rappresentante.»
Si trattava d'una colossale pubblicità che l'astuto giornalista aveva escogitato a proprio vantaggio.
Jacques Rival riceveva gli invitati nell'ingresso della sua abitazione dov'erano stati predisposti i rinfreschi, che per la spesa dovevano gravare sull'incasso.
Poi indicava, con gesto cortese, la scaletta che portava nello scantinato, dove aveva sistemato la sala d'armi e di tiro, e diceva: «Scendere, gentili signore, scendere. Il torneo si svolgerà nei locali sotterranei.»
Si precipitò incontro alla moglie del suo direttore, poi, stringendo la mano a Du Roy, fece: «Buona sera, Bel-Ami.»
L'altro rimase sorpreso: «Chi le ha detto che...»
Rival non lo lasciò finire: «La signora Walter, qui presente, che trova questo soprannome molto carino.»
La signora Walter arrossì: «Sì, confesso che se ci conoscessimo di più, farei come la piccola Laurine, lo chiamerei anch'io Bel-Ami. Le si addice molto.»
Du Roy rideva. «Ma la prego, signora, lo faccia.»
Lei aveva abbassato gli occhi: «No, non siamo ancora intimi fino a questo punto.»
Lui mormorò: «Posso sperare che lo diventeremo presto?»
«Be', vedremo, vedremo,» rispose.
Georges si fece all'ingresso dell'angusta rampa illuminata da una fiammella a gas; e il contrasto brusco tra la luce del giorno e quel chiarore giallognolo aveva qualcosa di lugubre. Un tanfo di sottosuolo saliva dalla scaletta a chiocciola, un sentore d'umidità riscaldata, di pareti ammuffite, prosciugate per la circostanza, e anche zaffate di benzoino che sapevano di chiesa, effluvii femminili d'acqua di Lubin, di verbena, di giaggiolo, di violetta.
Si sentiva in quella buca un gran vocio, un sobbollir di folla in fermento.
Tutto il sotterraneo era illuminato con lumi a gas e con lampioncini alla veneziana, nascosti tra le fronde che coprivano i muri di pietra chiazzati di salnitro. Si vedevano frasche dappertutto. Il soffitto era addobbato di felci, il pavimento cosparso di foglie e di fiori.
Trovavano ciò molto bello, un'idea peregrina. Nel piccolo scantinato in fondo, fra due file destinate ai giudici, c'era una pedana per gli schermitori.
In tutto il sottosuolo le panche, allineate per dieci, in egual numero a destra come a sinistra, potevano ospitare un duecento persone delle quattrocento ch'erano state invitate.
Davanti alla pedana, alcuni giovani in costume d'assalto, snelli, longilinei, impettiti, coi baffi all'insù, erano già in posa davanti agli spettatori, che ne sussurravano il nome, indicavano i professionisti e i dilettanti, tutte le maggiori personalità della scherma. Intorno a quelli conversano altri signori in redingote, giovani e vecchi, con aria di gente ch'è di casa fra gli schermitori in tenuta di scontro. Anche loro cercavano d'esser notati, riconosciuti e indicati per nome. Erano gli assi della spada in borghese, gli esperti del fioretto.
Quasi tutte le panche erano occupate dalle donne, e si sentiva un gran fruscio di stoffe e un gran cicaleccio. Costoro si sventagliavano come a teatro, essendoci già, in quella grotta piena di foglie, un caldo dà stanza termale. Un burlone gridava ogni tanto: «Orzata! gazose! birra!»
La signora Walter e le figlie raggiunsero i posti a loro riservati in prima fila. Du Roy, sistematele, disse facendo l'atto d'andarsene:
«Sono costretto a lasciarvi, gli uomini non possono occupare le panche.»
La signora Walter rispose, esitando:
«Vorrei che rimanesse egualmente. Mi direte i nomi degli schermitori. Guardi, se ne starà in piedi accanto a questo sedile, non disturberà nessuno.»
Lo guardava coi suoi occhioni miti. Insisteva «Su, resti con noi... signor..; signor Bel-Ami. Abbiamo bisogno di lei.»
Lui rispose: «Obbedisco... e con piacere, signora.»
Si sentiva ripetere da ogni parte: «Curiosissimo, questo sotterraneo, molto carino.»
Georges lo conosceva bene, il camerone a volta! si ricordava la mattina che vi aveva passato, la vigilia del duello, solo solo, di fronte al cartoncino bianco che lo guardava d'in fondo al secondo interrato come un occhio enorme e minaccioso.
Dalla scala echeggiò la voce di Jacques Rival: «Si comincia, gentili signore.»
E sei tizi, con abiti molto stretti perché risaltasse meglio il torace, salirono sulla pedana e si sedettero sulle sedie destinate alla giuria.
I loro nomi corsero sulla bocca di tutti: il generale Raynaldi, presidente, un ometto con un gran paio di baffi; il pittore Joséphin Roudet, alto e calvo, con una lunga barba; Matthéo de Ujar, Simon Ramoncel, Pierre de Carvin, tre giovanotti eleganti, e Gaspard Merleron, un maestro.
Due cartelli vennero appesi ai due lati del sotterraneo. Su quello a destra c'era scritto: Signor Crévecœur, e su quello a sinistra: Signor Plumeau.
Erano due professionisti, due buoni professionisti di second'ordine. Vennero subito avanti, asciutti entrambi con piglio militaresco, gesti piuttosto stecchiti. Dopo aver fatto il saluto delle armi, scattando come automi, cominciarono lo scontro, simili, nel loro costume di tela e cuoio bianco, a due pierrots-soldati che si battessero per far ridere.
Ogni tanto si sentiva la parola «toccato!». E i sei signori della giuria annuivano con un cenno del capo, da intenditori. Il pubblico vedeva soltanto due marionette viventi che si agitavano tendendo il braccio. Non capiva un'acca, ma era contento lo stesso, anche se trovava non proprio aggraziati e un poco ridicoli quei due burattini. Facevano venire a mente i lottatori di legno che si vendono a capodanno sui boulevards.
Presero il posto di questi due schermitori i signori Planton e Carapin, un maestro di scherma borghese e un maestro di scherma militare. Planton era minutino, e Carapin una botte. Avresti giurato che il primo colpo di fioretto avrebbe sgonfiato quel corpaccione come un elefante di gomma elastica. La gente rideva. Planton saltava come uno scimmiotto. Carapin si limitava a muovere il braccio, avendo il resto del corpo immobilizzato dalla pinguedine, e ogni tanto faceva la spaccata con una tal pesantezza e un tale sforzo da sembrar che in quel momento stesse ponzando la più energica decisione della sua vita. Poi gli ce ne voleva, per rialzarsi!
Gli esperti dichiararono il suo giuoco molto fermo e serrato. E il pubblico, fiducioso, applaudì.
Poi si presentarono i signori Porion e Lapalme, un professionista e un dilettante che si abbandonarono a una ginnastica sfrenata, scagliandosi l'un contro l'altro come due furie, costringendo i giudici a scappare portandosi dietro le sedie, attraversando e riattraversando la pedana da un capo all'altro, l'uno avanzando e l'altro indietreggiando con vigorosi e comici balzi. Certi loro salterelli all'indietro facevano ridere le signore, mentre certi salti in avanti, in compenso, quasi mozzavano il fiato. Questo scontro a passo ginnico fu ben definito da un capo ameno, che gridò: «Ma non vi scalmanate: qui si paga un tanto all'ora!»
Il pubblico, urtato da quella mancanza di buon gusto, fece: Sst!
Fu diffuso il giudizio degli esperti. I due schermitori avevano dimostrato molto vigore, anche se non avevano avuto sempre il senso dell'opportunità.
La prima parte si concluse con una bella partita d'armi fra Jacques Rival e il famoso professore belga Lebègue. Rival fu apprezzato molto dalle donne. Era davvero un bel ragazzo, ben fatto, sciolto, agile, molto più avvenente di tutti gli altri che lo avevano preceduto. Recava nel suo modo di chiudersi in guardia e di andare a fondo una certa mondana eleganza che piaceva e che contrastava col piglio energico, ma ordinario, dell'avversario. «Si nota subito l'uomo di classe,» dicevano intorno.
La botta decisiva fu sua. Grandi applausi.
Senonchè, da qualche minuto, uno strano rumorio, al piano di sopra, irritava gli spettatori. Era un gran scalpicciare accompagnato da fragorose risate. I duecento invitati che non eran potuti scendere nello scantinato, evidentemente, si divertivano a modo loro. Nella scaletta a chiocciola erano stipati in una cinquantina. Il caldo stava diventando infernale, giù in basso. Si gridava: «Aria! Da bere!»
Lo stesso burlone d'un momento prima squittiva in falsetto, dominando con la sua voce il brusio delle conversazioni: «Orzata! gazose! birra!»
Comparve Rival, ancora in costume di scherma e rosso in viso. Disse: «Farò portar subito i rinfreschi.»
E cercò d'infilarsi nella scaletta. Ma ogni comunicazione col pianterreno era interrotta. Cercar di superare la muraglia d'uomini pigiati sugli scalini era come voler trapassare il soffitto.
Rival gridava: «Fate venire i gelati!»
Cinquanta voci ripetevano: «Gelati!»
Finalmente apparve un vassoio. Ma c'erano soltanto bicchieri vuoti, i rinfreschi se li erano sorbiti durante il tragitto.
Una voce potente gridò: «Qui dentro si soffoca, finiamo alla svelta e andiamocene.»
Un'altra voce propose: «La questua!»
E il pubblico, boccheggiante ma contento, ripeté: «La questua... la questua...»
Sei signore, allora, si misero a girare fra le panche, e si sentì il lieve tintinnio delle monete che cadevano nelle borse.
Du Roy diceva alla signora Walter i nomi degli uomini più in vista: uomini di mondo, giornalisti, quelli dei grandi quotidiani, dei vecchi quotidiani, che consideravano la Vie Française con sufficienza, con un tal quale riserbo, sorto dalla loro esperienza. Ne avevano visti morire tanti, di quei fogli politico-finanziari, nati da equivoche nozze e crollati con la caduta d'un ministero. Si scorgevano anche alcuni pittori e scultori, gente sportiva, in genere, nonché un poeta dell'Accademia segnato a dito, due musicisti e molti nobilotti stranieri, che Du Roy indicava facendo seguire al nome la sillaba Rast (che voleva dire Rastaquoueère, ossia straniero che fa gran vita ma le cui ricchezze e i cui titoli son d'origine ambigua), tanto per fare il verso, diceva, agli inglesi, che mettono Esq sui loro biglietti da visita.
Era il conte de Vaudrec. Dopo essersi scusato con le signore, Du Roy andò a stringergli la mano.
Ritornato, disse: «È un uomo meraviglioso, Vaudrec. Si sente subito il sangue blu, standogli vicino.»
La signora Walter non rispose. Era un poco stanca, e il respiro le sollevava faticosamente il seno, attirando lo sguardo di Du Roy che di quando in quando s'incrociava con quello della «Padrona», uno sguardo turbato, incerto, che si posava su di lui per sfuggirgli subito. E Georges pensava: «Guarda guarda. O che ho incantato anche questa?»
Passarono le dame della questua. Le loro borse erano colme di monete d'oro e d'argento. E sulla pedana fu appeso un altro cartello con su scritto: «Grrrrande sorpresa.» I membri della giuria tornarono ai loro posti. L'attesa era grande.
Apparvero due donne armate di fioretto, in tenuta di scherma, con una maglia scura, un gonnellino cortissimo, a metà coscia, e un piastrone rigonfio sul petto, tanto da costringerle a tener alta la testa. Erano carine e giovani. Sorridevano salutando il pubblico. Furono a lungo applaudite.
Si misero in guardia tra un brusio di frasi galanti e lepidezze appena bisbigliate.
I giudici, cavallerescamente, avevano atteggiato le labbra al sorriso, e accompagnavano ogni colpo con un piccolo: «brava!»
Gli spettatori apprezzavano molto tale scontro, e non lo nascondevano alle due fiorettiste che accendevano le brame degli uomini e stuzzicavano, nelle donne, quel gusto tutto parigino pei vezzi un po' scollacciati e le finezze da trivio, la falsa bellezza e le false grazie, le cantanti da caffè-concerto e i ritornelli delle operette.
Ogni volta che una delle schermitrici faceva la spaccata, un fremito di piacere correva fra il pubblico. Quella che voltava le spalle agli spettatori, due belle spalle pienotte, faceva restar tutti a bocca aperta e con gli occhi sgranati. E non certo per ammirare in lei soltanto l'agilità del polso.
Scrosciarono frenetici applausi.
Seguì uno scontro alla sciabola, ma nessuno lo degnò d'un'occhiata, giacché tutta l'attenzione era rivolta a ciò che stava succedendo al piano di sopra. Per alcuni minuti s'era sentito un gran tramestio di mobili spostati, trascinati sul pavimento come in uno sgombero. Poi, d'un tratto, s'udì attraverso il soffitto il suono d'un pianoforte, e ben distinto un rumore cadenzato di piedi. La gente del piano superiore stava offrendosi un ballo in risarcimento di non aver potuto veder nulla.
Una gran risata si levò dal pubblico della sala d'armi, poi le donne, prese dalla voglia di ballare, non s'interessarono più a quanto accadeva sulla pedana, e cominciarono a chiacchierare ad alta voce. L'idea del ballo organizzato dai ritardatari piacque molto. Non dovevano certo annoiarsi, lassù. Avrebbero voluto esserci anche loro.
Ma già due nuovi schermitori s'erano salutati, mettendosi in guardia con tanta maestria da richiamar lo sguardo di tutti sui loro movimenti.
Si spaccavano e si rialzavano con elastica grazia, con misurato vigore, con tal sicurezza, tal sobrietà di gesti, tal correttezza, tale equilibrio nel gioco da lasciar sorpresa ed entusiasta anche la folla profana.
La pacata prontezza, l'intelligente agilità, i rapidi movimenti, così ben calcolati da apparire lenti, attiravano e fermavano l'occhio, non fosse che per la perfezione dello stile. Il pubblico sentiva d'esser di fronte a uno spettacolo bello e raro, che due artisti veramente grandi nel loro genere gli mostravano quanto ci fosse di meglio da vedere, tutta l'abilità, l'astuzia, la motivata sapienza, la destrezza fisica di cui possono esser capaci due maestri.
Tutti li guardavano attentissimi, e nessuno parlava più. Poi, quando si furono stretta la mano dopo l'ultimo colpo di fioretto, scoppiarono grida ed urrà. Gli spettatori urlavano e battevano i piedi. Tutti ne conoscevano il nome: erano Sergent e Ravignac.
Gli animi esaltati si fecero aggressivi. Gli uomini si guardavano attorno con una gran voglia d'attaccar briga. Avrebbero sfidato il vicino per un sorriso. Anche chi non aveva mai preso in mano un fioretto abbozzava col bastone da passeggio attacchi e parate.
Ma a poco a poco la folla tornò su salendo la scaletta. Andavano a bere, finalmente. L'indignazione fu grande quando s'accorsero che quelli del ballo, prima d'andarsene brontolando ch'era stata una vergogna scomodar duecento persone per niente, avevano fatto repulisti dei rinfreschi.
Non era rimasto nulla di nulla, né un pasticcino, né un goccio di champagne o di sciroppo o di birra, né un dolce, né un frutto. Avevano saccheggiato, razziato, ripulito ogni cosa.
Chiesero ragguagli ai domestici, che fecero facce da funerale per nascondere la loro voglia di ridere. «Le donne era più accanite degli uomini,» affermarono costoro «e hanno mangiato e bevuto fino a schiattare.» Pareva d'udire il racconto dei sopravvissuti al sacco d'una città, durante un'invasione.
Non restò dunque che andarsene. Certuni rimpiangevano i venti franchi offerti, indignati che quelli del ballo avessero fatto bisboccia senza tirar fuori un soldo.
Le patronesse avevano raccolto più di tremila franchi. Rimasero, detratte le spese, duecentoventi franchi per gli orfanelli del sesto arrondissement.
Du Roy, di scorta alla famiglia Walter, attese il landò. Nel riaccompagnare la Padrona, sedutole di fronte, ne incontrò ancora una volta lo sguardo carezzevole e sfuggente, turbato, gli parve. E pensò: «Capperi, mi par che abbocchi davvero», e sorrise a quella nuova prova della sua fortuna con le donne, confermatagli del resto anche dalla signora de Marelle, che dopo la ripresa dei loro amori appariva pazza di lui.
Madeleine lo aspettava in salotto.
«Ho delle novità,» disse. «La faccenda del Marocco si complica. È probabile che la Francia invii là un corpo dì spedizione, fra qualche mese. Comunque, sarà un buon pretesto per rovesciare il governo, e così Laroche potrà approfittare dell'occasione per beccarsi gli Esteri.»
Du Roy, per punzecchiare la moglie, finse di non credere a nulla di tutto ciò. Non sarebbero stati così matti da ripetere la sciocchezza di Tunisi.
Ma lei alzò le spalle spazientita: «Ti dico di sì! Ti dico di sì! Ma non capisci che per loro si tratta d'un grosso affare e di quattrini? Oggi, caro mio, in politica non si deve più dire "cherchez la femme", ma "cherchez l'affaire".»
Con spregio, tanto per aizzarla ancor di più, lui fece:
«Bah!»
Lei si irritò:
«Lo vedi che sei più ingenuo di Forestier?»
Voleva pungerlo, e s'aspettava uno scoppio di collera. Invece lui sorrise e rispose:
«Vuoi dire di quel becco di Forestier?»
Lei rimase male, e mormorò: «Oh, Georges!»
Con aria insolente e provocatoria, lui replicò: «Be', che c'è? Non me l'hai forse confessato tu, l'altra sera, che Forestier era un cornuto?»
E aggiunse, con profonda commiserazione: «Poveraccio.»
Madeleine gli voltò le spalle, non ritenendolo degno di risposta; poi, dopo un breve silenzio, riprese: «Avremo gente, martedì: la signora Laroche-Mathieu verrà a pranzo da noi con la contessa de Percemur. Vuoi invitar tu Rival e Norbert de Varenne? Io andrò domani dalla signora Walter e dalla signora de Marelle. Forse verrà anche la signora Rissolin.»
Da qualche tempo Madeleine stava allargando la cerchia delle proprie conoscenze, valendosi dell'influenza politica del marito per attirarsi in casa, di buona o di cattiva voglia, le mogli dei senatori e dei deputati che avevano bisogno dell'appoggio della Vie Française.
Du Roy rispose: «Benissimo. Penserò io a Rival e a Norbert.»
Era contento e si fregava le mani, avendo trovato un buon ritornello per far perder le staffe alla moglie e per dare sfogo all'oscuro rancore, alla confusa e pungente gelosia sorta in lui dopo la passeggiata al Bois. D'ora in poi, parlando di Forestier, non avrebbe dimenticato di chiamarlo becco. Sapeva benissimo che a questo modo avrebbe finito col far andare in bestia Madeleine. E per una decina di volte in quella medesima serata trovò modo di pronunziare con ironica bonomia il nome di «quel becco di Forestier».
Non lo faceva più in odio al morto, ma per vendicarlo.
Sua moglie faceva finta di non sentire, e restava sorridente e impassibile davanti a lui.
L'indomani, dato che Madeleine doveva recarsi a invitare la signora Walter, volle precederla per trovar sola la Padrona e veder se davvero era invaghita di lui. La cosa lo divertiva e lo lusingava... Eppoi... perché no... se fosse stato possibile?
Si presentò al Boulevard Malesherbes alle due. Lo fecero passare in salotto. Aspettò.
La signora Walter apparve con la mano tesa in uno slancio di gioiosa premura.
«Nessun buon vento, ma il desiderio di vederla. Una forza misteriosa m'ha sospinto a casa sua, non so perché, senza ch'io abbia niente da dirle. Son venuto, eccomi qua! Mi perdona questa visita mattutina e la franchezza della spiegazione?»
Aveva detto tutto questo in tono galante e faceto, col sorriso sulle labbra e molta serietà nella voce.
Lei se ne stava lì stupita, un poco rossa, balbettando:
«Ma... a dire il vero... io non capisco... lei mi stupisce...»
Lui aggiunse: «È una dichiarazione in forma giocosa, per non spaventarla.»
S'erano seduti vicini. Lei prese la cosa come uno scherzo.
«Dunque, è una dichiarazione... seria?»
«Ma certo! È da un pezzo che volevo fargliela, anzi da un bel pezzo. Ma non osavo. Dicono che lei sia molto severa, molto rigida...»
La signora Walter aveva riacquistato la propria disinvoltura. Rispose:
Poi, abbassando la voce, soggiunse «O meglio, perché da ieri non son riuscito a pensare ad altro.»
Lei balbettò, impallidita a un tratto. «Via, basta con le ragazzate, cambiamo discorso.»
Ma lui le si era buttato ai piedi così bruscamente da metterle a un tratto paura. Tentò di alzarsi, Georges la costrinse a restar seduta stringendola con le braccia alla vita, e ripetendo appassionatamente: «Si, è vero, l'amo follemente, da un pezzo. Non mi risponda nulla. Cosa vuol che le dica, sono un pazzo. L'amo... Oh, sapesse quanto l'amo!»
Lei si sentiva mancare, ansava, cercava di parlare senza riuscire a pronunciare una parola. Lo respingeva indietro con tutte e due le mani, lo aveva preso per i capelli per impedirgli d'avvicinar la bocca alla sua. Girava il capo da destra a sinistra e da sinistra a destra, di scatto, con gli occhi chiusi per non vederlo più.
Lui la toccava attraverso il vestito, la maneggiava, la palpava, mentre lei si sentiva svenire sotto quelle carezze brusche e forti. Georges si alzò d'improvviso e cercò di prenderla, ma lei, rimasta libera un attimo, gli sfuggì con una mossa all'indietro, e si mise a scappare da un poltrona all'altra.
Gli parve ridicolo rincorrerla, e si lasciò cadere su una sedia coprendosi il volto con le mani e fingendo di singhiozzare convulsamente.
Poi si alzò, gridò: «Addio, addio!», e fuggì via.
Riprese tranquillamente la mazza in anticamera e scese in istrada pensando: «Cribbio, mi sa che ci siamo.» E passò dal telegrafo per fissare un appuntamento con Clotilde per l'indomani.
Tornato a casa alla solita ora, disse alla moglie: «Be', ci saranno tutti, i tuoi invitati?»
«Sì,» rispose lei. «Soltanto la signora Walter non è sicura d'esser libera. È incerta, mi ha parlato non so nemmeno io di che cosa, di impegni, di coscienza. Insomma, m'è parsa molto strana. Pazienza, spero però che verrà egualmente.»
Lui si strinse nelle spalle: «Verrà sì, figurati!»
Non ne era sicuro, tuttavia, e stette in pensiero fino al giorno del pranzo.
Quella mattina Madeleine ricevette un biglietto della Padrona: «Sono riuscita con molta fatica a rendermi libera, sarò dei vostri. Ma mio marito non potrà accompagnarmi.»
Du Roy pensò: «Ho fatto benissimo a non tornar da lei. Ecco che si è calmata. Occhio alla penna!»
Comunque ne aspettò l'ingresso con un certo patema. Quando giunse, parve molto tranquilla, anche se un po' freddina, un po' sulle sue. Georges si fece umile umile, discretissimo e sottomesso.
Le signore Laroche-Mathieu e Rissolin erano in compagnia dei mariti. La viscontessa de Percemur parlò d'alta mondanità. La signora de Marelle era affascinante nel suo abito così originale, giallo e nero, un modello spagnolo che le disegnava a perfezione il vitino sottile, il seno e le braccia pienotte, dando un piglio più risoluto alla sua testolina da capinera.
Du Roy s'era messo alla sinistra della signora Walter, e per tutta la durata del pranzo si limitò a parlarle di cose serie, con un rispetto perfino esagerato. Ogni tanto guardava Clotilde: «Eh sì, è più bella e più fresca,» pensava. Poi i suoi occhi si posavano sulla moglie, e neanche lei gli pareva male, nonostante la rabbia repressa, tenace e astiosa che lui serbava in petto.
Senonchè la Padrona lo eccitava per la difficoltà stessa della conquista, e anche perché la novità attrae sempre gli uomini.
Costei volle tornare a casa presto.
«La accompagno,» disse Georges.
Rifiutò. Lui insisté: «Perché non me lo permette? Mi offende profondamente. Vuol ch'io pensi che non mi ha perdonato? Guardi come sono calmo.»
«Non può piantare in asso così i suoi invitati,» rispose lei.
Lui sorrise: «Bah, si tratta d'una ventina di minuti. Non se n'accorgeranno nemmeno. Se rifiuterà, mi aprirà una ferita nel cuore.»
Lei mormorò: «E sia. Mi accompagni.»
Ma appena furono in carrozza, lui le afferrò la mano, e disse baciandogliela appassionatamente: «Io l'amo, l'amo. Lasci che glielo dica. Non la toccherò. Voglio soltanto ripeterle che l'amo.»
Lei balbettava: «Oh... Dopo quanto m'aveva promesso... Non sta bene... non sta bene...»
Georges finse di fare un grande sforzo di volontà, e rispose contenendo la voce: «Guardi, guardi come mi domino. Ma... ma lasci almeno che le dica questo... che l'amo... Lasci che glielo ripeta tutti i giorni... Sì, lasci ch'io venga a inginocchiarmi da lei cinque minuti, ai suoi piedi, per dirle queste due parole guardando il suo volto che adoro.»
Lei gli aveva abbandonato la mano, e rispose col fiato mozzo: «No, non posso, non voglio. Pensi a quello che direbbe la gente, ai miei domestici, alle mie figliole. No, no, è impossibile...»
Lui riprese: «Non posso più vivere senza vederla. O a casa sua o altrove, io devo vederla, magari un solo minuto al giorno, devo toccarle la mano, respirare l'aria smossa dal suo vestito, contemplare la linea del suo corpo e i suoi begli occhioni che mi fanno impazzire.»
Lei ascoltava fremente questa trita solfa amorosa, e ciancicava: «No... no... è impossibile. Taccia!»
Georges le parlava a bassissima voce, in un orecchio, avendo capito che costei, donna semplice, bisognava prenderla a centellini, che doveva indurla a concedergli qualche appuntamento, prima dove voleva lei, poi dove voleva lui:
«Mi ascolti... È necessario... la aspetterò davanti al portone di casa sua... come un povero... Se non scenderà, salirò io... ma la vedrò... domani.»
Lei ripeteva: «No, non venga. Non la riceverò. Pensi alle mie figliole.»
«Allora mi dica dove posso incontrarla... per la strada... non importa dove... nell'ora che le farà più comodo... purché la veda... La saluterò... Le dirò: "L'amo", e me ne andrò.»
Lei esitava, smarrita. E mentre il coupé infilava il portone del suo stabile, mormorò in fretta in fretta: «Ebbene, domani alle tre e mezzo sarò nella chiesa della Trinità.»
Poi, scesa, ordinò al suo cocchiere:
«Riconducete il signor Du Roy a casa sua.»
Appena entrato, la moglie gli domandò:
Lui rispose a bassa voce: «Fino al telegrafo, per un dispaccio urgente.»
S'avvicinò la signora de Marelle: «Le dispiace accompagnarmi, Bel-Ami? Lei sa che solo a questo patto accetto di venire a pranzo così lontano.»
Poi, rivolgendosi a Madeleine, fece: «Non sei mica gelosa?»
La signora Du Roy rispose lentamente:
«No, appena un poco.»
I commensali stavano andandosene. La signora Laroche-Mathieu pareva una servetta di provincia. Era la figlia d'un notaio, andata sposa a Laroche quando questi era soltanto un povero avvocatuccio. La signora Rissolin, vecchia e presuntuosa, faceva pensare a una levatrice vecchio stampo istruitasi nelle biblioteche popolari. La viscontessa de Percemur le guardava dall'alto in basso. Il suo «zampino bianco» quasi si schifava a toccar quelle manacce volgari.
Clotilde, avvolta in merletti, disse a Madeleine varcando la porta sulla scala: «Perfetto, il tuo pranzo. Fra breve il tuo sarà il primo salotto politico di Parigi.»
Come fu sola con Georges, lo strinse fra le braccia: «Oh, il mio caro Bel-Ami! T'amo ogni giorno di più.»
Il legno che li portava aveva il rollio d'una barca.
«Però non vale la nostra cameretta,» disse lei.
Ma stava pensando alla signora Walter.