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III.
Sembra impossibile che di Tristano Martinelli, il quale, fra il cadere del secolo XVI, e il principio del secolo XVII, recitò, per circa cinquant'anni, la parte di arlecchino, non abbia fatto menzione quel Francesco Bartoli, che in una specie di Dizionaretto biografico, oggi prezioso, raccoglieva le notizie sui comici italiani del 500 e de' due secoli posteriori.
Tristano Martinelli, se non il primo arlecchino, e forse il primo, per ordine di data, fu certo il primissimo, per eccellenza, fra i comici, che preser tal maschera: il primo, che le desse una sì grande riputazione in Italia, e fuori.
E mi sono ingegnato provare come gli onori da lui ricevuti, la popolarità da lui goduta, superassero di gran lunga, gli onori, la popolarità, di cui, al nostro tempo, possono pur vantarsi d'aver goduto, per esempio in Francia, i nostri artisti più celebrati.
La vita di Tristano Martinelli c'insegna come, fin da tre secoli fa, gli attori italiani fossero accettati in ogni parte d'Europa: e le notizie ad essa attinenti ci rammentano che commedie italiane si rappresentavano in italiano a Parigi anche nel secolo XVI: citeremo i Lucidi del Firenzuola, la Flora dell'Alamanni, mentre in Ispagna, secondo ho già detto, comici italiani recitavano in italiano le commedie dell'Ariosto. E i pittori di scena, gli apparatori italiani andavano in Francia, in Ispagna, e anche in Inghilterra ad adornar que' teatri, per commedie, opere e balli (di questi ultimi già parlai più volte): tanto gl'italiani furono, e potrebbero esser maestri anche in quello, che si crede da molti frivolo, e in cui oggi appena sono scolari. Ciò per ignavia e per mancanza di ragionevoli ordinamenti, poichè oggi la mancanza di coltura, una certa rozzezza, che va, pur troppo, divenendo sempre più italiana, si rivela nel voler intendere per severo costume, e saviezza ciò che, rispetto all'Arte, è barbarie imperdonabile, di cui sentiamo, e sentiremo presto, maggiori, i danni.
Ma torniamo al mio Arlecchino.
Da Bologna l'8 maggio 1559, Tristano Martinelli scrive al Granduca di Toscana: l'avverte che un attore della Compagnia, il celebre Frittellino (dico celebre, poichè questo attore ha un posto nella Storia del Teatro) sa nientemeno che il modo di ristorare il tesoro della Toscana!
Perchè sempre sono stato affezionatissimo alla A. V. gli fo sapere che qui in Compagnia nostra vi è un mio carissimo compagno di molto giudicio il quale ha confederato([1]) con me un suo segreto di molto utile, ch'è cosa nova da lui inventata, che sarebbe la intrata di parecchi mila scudi, senza agravare nissuno, anzi di utile al popolo.... Lui scrive a V. A. la poliza, ch'è qui rinchiusa, la quale V. A. la legerà et subito la si degnerà farmi scrivere la sua intencione a me, perchè il compagno si fida molto di me, et vole che io sia quello, che venga a scoprire questo segreto a V. A....
Tristano Martinelli, detto Arlechino, il quale scrive di sua propria mano per non si fidar d'altri.
E la polizza annunziata del comico Pier Maria Cecchini è del seguente tenore:
Ha piaciuto a Iddio di mostrarmi una strada con la quale posso con mio utile e senza danno di alcuno accrescer a V. A. S.a l'entrata di parecchi milla scudi. Per tanto, a questo effetto, manderò Arlechino([2]), comico mio compagno, per trattare con l'A. V. S.a il negocio et anco quello ch'io ricerco per mia mercede, che sarà una decima di questi frutti ogn'anno, assicurandolo che il popolo minuto n'è per trar qualch'utile, la nobiltà non ne sentirà alcun danno, e pur con strada facile e di buona coscienza voglio, senza cavare da l'altrui borse, rimetere nella sua buona soma de dinari.
Vedremo poi come Arlecchino e il Cecchini([3]), sì intimi e carissimi amici, diventassero, a un tratto, secondo accade facilmente, tra gli artisti, vani, ambiziosi, di carattere commovibile, nemici implacabili.
L'amicizia sembrava caldissima nel maggio 1599: nel luglio 1600, mentre la Compagnia italiana recavasi a Parigi, ed era trattenuta dal Duca di Savoia per alcuni giorni in Torino, scoppiavano fra i due divi (non ci dispiace con nuove ridicolezze parlar delle antiche) grandi malumori. La scissura durò un pezzo: e ne riparleremo!
Del primo viaggio d'Arlecchino a Parigi ho già accennato: le notizie sono scarse: mentre ci abbondano quelle relative al secondo viaggio.
Le trattative fra la Corte di Francia e quella di Mantova, per aver Arlecchino e i comici italiani, durano sei anni: — da Enrico IV a Luigi XIII!
Lo spazio di due regni è riempito dalle bizzarrìe, dai ripicchi, da' puntigli, dalle gelosie, dalle vanità di prime donne e di primi attori: cose che sembrano incredibili ma i documenti ci attestano vere!
La Regina di Francia, Maria de' Medici, scrive ella stessa ad Arlecchino:
Io prego mio fratello, il Duca di Mantova, di mandarci una compagnia dei migliori comici italiani, che siano costà. Procurate di essere della partita e accomodarvi agli ordini che detto mio fratello giudicherà in proposito e fate che tutti insieme siate a Lione nel mese di settembre.... Io darò gli ordini al mio Tesoriere.... e saprà ben contarvi il denaro pel vostro viaggio, di maniera che voi e la vostra Compagnia resterete contenti. Non mancate dunque, come non mancherò io. Addio. Maria.
Non lo desideravano soltanto i Re, le Regine, ma perfino i cardinali: e il cardinal Gonzaga gli fa premure perchè vada a Roma, e non ne avverte il Duca di Mantova suo padre, che rifiuta il permesso ad Arlecchino, allorchè questi si presenta a chiedergli comiato.
Arlecchino è sulle spine, perchè vede sfumare un bel guadagno, e scrive di soppiatto al cardinale per insegnargli com'addolcire il padre, e gli strattagemmi, affinchè egli possa recarsi a Roma.
Subito.... io mi messi all'ordine per andare dove lei mi comandò, cioè a Genova, per menare la Compagnia a Roma, ma prima, per el debito mio, andai a tor buona licentia da S. A. S. et dirgli adio, dove che S. A. intendendo che io venivo a Roma, mi fece una bravata criminale, dove che io restai tuto atonito.... Se lei non mi aiuta a scrivere due parole per mio conto a S. A. S. che mi lasci venire a Roma, o lasciarmi andare a Milano, io perdo duecento o trecento ducatoni, i quali sarebe un buono aiuto di costa per me....
Due o trecento ducatoni! Un ducatone era uno scudo d'argento, equivalente oggi a sei franchi. In quel tempo, dunque, mille duecento, mille ottocento lire erano una buona somma, un buon aiuto di costa, per un grandissimo artista. Che differenza nel valore del denaro — e degli artisti!
Ho riferito che sovrani e sovrane, in quei secoli, tenner spesso a battesimo i figliuoli de' nostri comici.
Arlecchino sta per avere un secondo figlio: del primo ho già parlato: e scrive alla Regina di Francia che voglia tenerlo a battesimo.
Peregrina è la lettera, in risposta, di Maria de' Medici.
Ho inteso con piacere dalle notizie, che mi mandate, come vostra moglie, oltre il figlio che Dio v'ha dato per suo mezzo, sia incinta d'un altro. Per ciò vi dico che ho accettato volentieri la preghiera, che mi fate con la vostra lettera, di presentare al battesimo la creatura, di cui vostra moglie si sgraverà, scrivendo in proposito alla signora Ippolita Todra,... per rendere di costà cotesto buon ufficio in mio nome. Io vi rimetto la lettera e sono sicura che vi sarà gradita la scelta che ho fatto e resterò ben contenta di quella che avete fatto del mio nipote, il principe di Mantova, che lo presenterà.
Non gli manda subito il regalo perchè, gli ripete, lo aspetta a Parigi.
....non l'ho differito che per darvelo in proprie mani e a questo effetto v'incarico e vi prego di riunire con voi una buona Compagnia di comici italiani e incamminarvi a questa volta il più presto, e, frattanto, io darò ordine di farvi recapitare il denaro per il vostro viaggio.
Ma doveano scorrere altri due anni, non ostante i reali voleri, prima che Arlecchino si recasse in Francia.
Avuta per comare la Regina, incomincia a chiamarla, nelle sue lettere, comadre regina gallina (cioè: Regina de' Galli): e a firmarsi: compare cristianissimo! e il cardinale Gonzaga chiama: compadro gallo della gresta rossa.
Deve aver un altro figliuolo: e il 4 ottobre 1613 scrive da Fontainebleau al conte G. Striggi in Mantova:
Mia moglie.... fra pochi giorni partorirà, et il Re à da essere il Compadre et sua sorella la Regina di Spagna la Comadre: et lo vogliono tenire de sue mane proprie al battesimo et se gli è maschio il re lo vuole per lui, et se gli è femina la Regina la vuole per lei, et mia moglie lo vorebe per lei, sì che io sono intrigato a contentargli tuti tre: io ho pensato, per levare l'ocasione di questo romore di.... et darviene uno per uno a ragion de' gatti, ch'el pare che i figliuoli di Arlecchino siano gatticini da donare....
Ormai Arlecchino, indirizzandosi al Duca di Mantova lo chiamerà sempre «signor Compare et serenissimo signor cugino:» e così altri Principi!
Nel 1614, Arlecchino è costretto a partir da Parigi, poichè
....cominciò la guerra civile, dove la Compagnia ne ha avuto gran danno.
E, in Piemonte, lo ferma, e gli doventa compare, anche Carlo Emanuele il Grande, di Savoja.
Le relazioni fra Arlecchino e il duca di Savoja (che egli chiama arlecchinescamente: il duca de su voia)([4]) meritano un po' d'attenzione.
Rilevo questo branetto di lettera, che l'attore scrive al Duca di Mantova:
Io me ne vive inanti con la mia famiglia per Savoia, et dieci giorni sono, pasando per Vercelli, trovai il S.° Duca de sua volontà, o de sua voia, il quale era un quarto de milia lontano di verze ch'el faceva pasar la sua armata; et vedendomi mi chiamò et mi adimandò dove era i comedianti, perchè el voleva de le comedie; io gli dissi il tutto; al fine el mi donò il mio solito tributo, che è un cavalo, sempre che paso per Turino, ma, perchè i cavalli erano tutti impediti, el mi donò un mulo di ducati 60, et intendendo che il Re (Luigi XIII) et Mad. sua sorella aveva tenuto un mio figliuolo a battesimo et che mia moglie era gravida, el me dise che voleva esser mio compadre ancor lui; io stavo in dubio di acetarlo, et poi, consideratis, considerandi, considerai, che se dicevo di non lo volere per compadre el non mi dava el prefato mulo.... Sì che io lo accettai ancor lui in l'accademia d'i miei compadri, che non è poco favore questo io gli ò fatto....
Si veda, dunque, che importanza aveva Arlecchino e come non gli mancassero motivi di vanto; e ciò è sì vero ch'egli non si perita, scrivendo a sovrani, o a gentiluomini, parlare di sè, al plurale, con questa formula di prammatica
....la nostra arlechinesca persona!