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VI.
Arlecchino invia al Cardinale Gonzaga, in data del 26 Ottobre 1612, le lettere scritte a lui e al Duca di Mantova dalla regina Maria di Francia.
....In la risposta datemene segno, il qual starò a spettare con desiderio grandissimo et vi prego a non mi fare far la morte del cane di Nerone, che morì guardando certi salami. Io vi mando la letera di S. M. comadresca, in la quale io m'imagino ciò che ella volle et lo vedrete. Lei non scrive per altro a V. S. Ill.ma e al S.r Compadre Duca a ciò che ambi due dobiate fare una bona e perfetta Comp.a....
E aggiunge: e qui è il punto su cui richiamo il lettore:
Toca a voi dui signori Compadri ad acomodare queste creature insieme, perchè la forza Arlechinesca non è bastante a farlo. Sopra di questo non vi dirò altro: solo che io ò promesso a S. M. di andarla a servire per 6 mesi, mentre che vi vada una buona Comp.a come lei desidera: et se la Compagnia che si farà non sarà nel modo che S. M. desidera, io mi dichiaro di restarmene a casa mia, per non perdere quella poca di reputacione che mi sono acquistato in Francia.
Vedete che cervelli avevan gli attori italiani circa trecento anni fa! Credevano essi perdere della loro reputacione artistica, andando a recitare con mediocri attori. Oggi i cervelli sono stati rimpendulati? Vediamo attori, giunti all'apogeo della gloria, andar guitteggiando con infime Compagnie, passando sopra a ogni jattura dell'Arte, quasi avessero bisogno di sagrificar tutto, anche sè stessi e il loro nome, per un tozzo di pane!
E poi vi è tra costoro chi ha il coraggio di lamentare la decadenza dell'arte; il poco rispetto, che vi è ad essa in Italia. Ma, che rispetto potrà avere un'Arte, i cui apostoli, diciamo pure così, la danno, per primi, a motivo di dileggio? Volge un periodo in cui nell'arte che amiamo, anche i migliori, salvo qualche eccezione, sembran guasti dalla tabe dell'istrionismo; e ci resta appena da cercare un conforto, una speranza nei giovani, che non seguano tristi vestigia, e che, per ora, fra tante caligini, non sappiamo ove siano. Forse ce n'è uno, forse ce n'è più d'uno: l'Italia aspetta questo attore ispirato.
Ma bisogna, sopra tutto, accostumare i nostri giovani artisti a udir la verità, che pochi possono lor dire, e dalla quale si sono dissuefatti, tanto riesce loro incomportabile. Alcuni smaniano, all'udirla: minacciano di mordere: come se non fossimo straziati abbastanza dall'averli sentiti abbaiare.... Certi Attori ci fanno paura in un solo momento — quando recitano! La verità si deve dire anche a' migliori, forse infatuati troppo di sè. Bisogna porgere ad essi, come si porgono a certi fanciulli, abbenchè ripugnanti, le medicine onde s'aspetta la loro salute.
Torniamo al nostro Arlecchino.
Un giorno la regina di Francia vedendo che le bizze dei comici e delle comiche non quietavano, scrive al duca di Mantova.
Mio Nipote,
Il Re, mio signor figlio, ed io avendo desiderato di avere una buona compagnia di comici italiani, ho scritto ad Arlecchino di formarla al più presto possibile, ma io temo che, senza il vostro comando, e la vostra intromissione, non possa fare la Compagnia così completa come io desidererei. Perciò vi prego di ordinare a' suoi commedianti, che stimerete buoni personaggi, particolarmente a Florinda e a Flavia, di accordarsi insieme e disporsi a partir subito. Assicuratili che tutti ritorneranno contenti.
E innanzi la Regina avea scritto ad Arlecchino (3 settembre 1612):
È necessario fare il vostro possibile per vincere le difficoltà di quelli della vostra Compagnia ed insieme assicurarli che mai nissuna Compagnia di commedianti è stata tanto bramata in Francia, come sarà la vostra: essendo perfettissima, secondo mi assicurano. Ho avuto grande piacere, sentendo che Florinda e Flavia erano contente di venire in mia consideratione, ma mi rincrebbe assai che non siano d'accordo insieme. Farò in modo tale che si accorderanno e tutti quelli che si imbarcheranno con voi se ne ritorneranno sodisfatissimi. Se fosse possibile di menare Fritellino et Flaminia l'haverei a caro.
E sempre al Cardinal Gonzaga, Arlecchino scrive, a proposito della incontentabilissima e capricciosissima Flavia:
In unire questa benedetta Compagnia ci vuole altro che autorità Arlecchinesca, però sarete contento di cominciare a disporre la signora Flavia, a ciò la venga a questo servicio, et se lei si scusasse con dire che gli è malsana, ditegli che li farete dare delle medicine soave, chè la guarirà, et se lei dicesse che non li piace le medicine per esser dolce, ditegli che gliene darete di brusche, essendo che a lei gli piace più il brusco che il dolce: ciò intendendo, la si potrebbe contentare: et non mancate di gracia di mettere le vostre forze perchè si faccia una bona Compagnia da andare in Francia questa quaresima.
Il 27 maggio 1613 la Regina tornava a far nuove premure per aver i comici italiani e scriveva al Martinelli:
Oltre la lettera, che vi ho scritta in replica a quella che mi avete diretta a nome della Compagnia, che ha tanto indugiato a risolversi, ho voluto particolarmente con la presente ringraziarvi delle cure, che vi siete dato per riunirla, e mi ricorderò di provvedere a tutto ciò che sarà necessario perchè tutti quelli che ne faranno parte restino sodisfatti. In quanto a voi, in particolare, dovete tenervi per assicurato che tutta l'Arlecchineria se ne ritornerà contenta del re, mio signor figlio, e di me....
Un accenno, e importantissimo anche questo per la Storia dell'Arte, troviamo in una lettera del Martinelli circa le recite de' comici antichi date al pubblico.
Da Fontainebleau scrive il 14 ottobre (1613):
Staremo qui fino a ognisanti, et poi a Parigi, dove reciteremo in pubblico: quello sarà il magior guadagno.
Ciò indica che gli spettatori affluivano numerosi alle commedie: e che i prezzi erano assai alti, per quel tempo, come vedremo.
E continua:
Sin ora mè stato donato sei vestiti, tutti interi, con i ferajoli fodrati di felpa, et denari, sichè sin hora io ho avanzato mile et due cento ducatoni.
Circa cinquemila franchi, dacchè aveva appena cominciato questa gita in Francia e aspettava maggior guadagno.
In altra lettera, parlando del duca Emanuele di Savoja, ha alcune linee preziose, da cui si ricava com'eran pagati i comici: qual era il prezzo del biglietto d'ingresso a una recita.
Gli fecimo (al Duca di Savoja) una comedia, la quale gli piacque assai et ne fece fare altre sei comedie a Torino et, in termine di 13 giorni, ne spedì con ducatoni 400, et 100 ne diede il duca di Nemours (in tutto circa duemila franchi): ce ne venissimo a Lione, dove anco questi S.ri hanno voluto 4 comedie in pubblico. Abbiamo fato pagare 10 soldi, che sono 33 de' nostri, per persona; in 4 comedie abiamo fato ducatoni 220 in circa et sobito gionti il Tesoriere di S. M. ne diede D.t 1200 in oro (circa 11 franchi l'uno) sichè le nostre cose sono pasatte meglio di quello che io credevo: dimane noi partiremo per Parigi....
Il biglietto d'ingresso era stato dunque di dieci soldi. Il soldo francese rispondeva allora a quindici centesimi nostri: il prezzo d'entrata era stato quindi d'un franco e mezzo. S'incassavano 220 ducati, circa millecinquecento lire: in quattro recite!
Sarebbe una ottima media, anche oggi, per una delle nostre Compagnie più importanti.
E in altra lettera, da Lione (26 agosto 1613):
Arrivando a Chambery l'Ecc.mo signor marchese di Lanoze governatore ne fece un affronto di ducatoni cinquanta per una comedia et pagò tutte le spese cibatorie alla Comp.a et poi giungessimo qui (a Lione) dove il luoco tenente del sig. Governatore con tutti questi signori ne fecero pregare, et ne accomodò una stanza a sua spesa et per forza ne ànno fatta fare in publico quatro comedie....
E da tali linee, abbiamo pure un'indicazione assai importante sulla specie di Teatri in cui recitavano al pubblico: una stanza qualsiasi, cioè, accomodata per tale scopo.
Abbiamo veduto, anche nel nostro tempo, attori di qualche reputazione tributarsi da sè gli onori di busti, di glorificazioni, più o meno legittime, ma sempre sincere, per la persona da cui muovevano e che le offriva a sè stessa, con indiscutibile spontaneità.
Così Arlecchino, il quale aveva edificato un molino in Bigavello, faceva apporre all'ingresso del medesimo tale iscrizione:
Mi son quel bel Molin de Bigavel
Acquistat d'Arlechin comic famos, ecc.
E, se è il primo, non è certo l'ultimo Arlecchino, che si sia gratificato di epigrafi, o di altre espressioni laudatorie in pietra, in marmo, o magari in autografi. Hanno capito che, in certe cose, non si può mai essere così ben serviti come da sè stessi.
Gli anni corrono, ma non cessan le ire, gli sdegni, i puntigli fra i comici: fra coloro che furon chiamati i virtuosi da un uomo, che certo si serviva della parola a nascondere il pensiero.
Fra loro si minacciano persino di morte... Come si vede, l'accordo fra camerati fu sempre perfetto!...
Tra le lettere inedite di Arlecchino, che presto auguriamo possano essere tutte pubblicate, ve n'è una al Duca di Mantova, in data del 16 ottobre 1620:
Io fo sapere a V. A. — scrive Arlecchino — che Nicola, fratello di Flaminia, avendo inteso che V. A. m'à fatto la lettera per il signor Ambasciatore perchè avisi Frittellino che ne lassa stare e ch'el non disvii dalla Compagnia Aurelio, l'à uto a dire che vol venire alla strada a mazzar Aurelio e queli che aveva fatto dispiacere a Frittellino, dove prego V. A. S. per levare i scandali, che potrebero intravenire perchè costui à amicizia, se non de' ladri et gente cative, come V. A. S. debe sapere, mandar subito a Mantova et farlo retenire sin tanto che posiamo esere a Turino....
Il Martinelli ebbe, come ho accennato, un fratello, Drusiano, che negli anni 1577 e 1578 fu in Inghilterra e recitò dinanzi alla regina Elisabetta, la sorella di Maria Stuarda: fu dieci anni dopo con lo stesso Tristano in Spagna, e quindi in Francia, come oggi si direbbe, capocomico, della Compagnia degli Accesi. Ebbe per moglie un'attrice, Angelica, che levò grido di sè, ed egli in una lettera, scritta da Firenze al Duca di Mantova, si firma: Drusiano Martinelli, marito di M.a Angelica.
I bisticci, gli scandali sollevati da questa donna sono inenarrabili.
Se Niccola fratello di Flaminia — come scrive Tristano — voleva mazzar Aurelio su la strada — ecco ciò che scrive Drusiano a un capitano del Duca:
Gaspero Impriale, pavese, è qui in Milano risoluto di tagliare il volto ad Angelica per comisione della Malgarita comica....
Fino gli uomini mascherati — in bauta — lo perseguitavano.
Quelli due imbautati che ho detto a V. S., sono stati anco tuta sera imbautati su questi cantoni e, pasegiando molte volte inanti la mia porta, io gli ho fatto parlare per signor Julio Tornelli scrimatore. Loro gli hanno risposto che la strada è comune. Io ho mandato a chiamare il loro tenente del bariselo (Bargello), che loro erano qui, et è venuto, ma mi ha detto non aveva alcuna comisione de pigliarli. L'uno de questi dicono, se adimanda Ottavio Caura, et l'altro dicono esser un guantaro, tuti dua soldati di corte.
Ma lungo troppo sarebbe al mio proposito il raccontar qui, con minuzia, tutto ciò che si riferisce a Tristano — singolare artista, così ingiustamente dimenticato.
Finirò col dire ch'egli morì ricco: sorte ch'ebbe comune con altri istrioni fortunati e pur di assai minor ingegno di lui.
Il suo testamento ci dà un'idea delle dovizie da lui possedute.
Lascia a Cassandra De Guanteriis sua moglie tutti i gioielli, le vesti di seta e d'oro, le catene regalategli da regine, da principi, com'era uso, le argenterie, tutti i quadri, gli arazzi, le tappezzerie di cuoio dorato. Però vuole che i quadri, i cuoi dorati, sieno depositati nella cappella del Rosario da lui fondata nel villaggio di Due Castelli.
Lascia legati ai figli legittimi e ad un figlio, che lo aveva accompagnato in Francia nel viaggio del 1601, e che era nato da una tal Caterina di Parigi.
E, fra gli altri lasciti peculiari dell'Arlecchino Martinelli, c'era questo: che ogni martedì mattina si dicesse per lui una Messa nella chiesa della SS. Annunziata di Firenze, all'altare privilegiato, per liberare la sua anima dal Purgatorio.
E giova credere che a quest'ora sia stata liberata!
Arlecchino morì a 75 anni.
L'attore Pedrolino, suo contemporaneo, recitava sempre a 87 anni; e faceva ridere, dicono: il che crediamo senz'alcuna difficoltà.
Il solo veritiero racconto della Vita di questo Arlecchino è una buona commedia.
Forse non fummo male ispirati a tesser in breve tale racconto. Le buone commedie sono oggi sì rare!