Egisto Roggero
Le ombre del passato

MISS ETHEL.

I.

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MISS ETHEL.


 

 

 

 

I.

 

– Nulla di nuovo per me?

– Qualche lettera e dei giornali.

Questo il breve dialogo che avveniva sulla soglia di un vecchio palazzone cinquecentista, posto nella via più tranquilla e più solitaria di una città di questo mondo. I due interlocutori erano: la mia vecchia portinaia ed io. Dopo del quale, fattomi padrone della mia posta del mattino o della sera, faceva, leggero o di corsa (la leggerezza e la corsa dell'artista e della giovinezza), la dozzina e più fra rampe e pianerottoli che, dal selciato sì poco noto e battuto della silenziosa via, m'innalzava sino a quel complesso di stanze, di cose svariate e sopratutto di disordine, che io chiamava il mio nido d'arte.

Quassù giunto, io spalancava la porta e con un ah! di soddisfazione dimenticava tutte le prose e le malinconie della strada e le volgarità della vita da cui saliva: il cattivo pranzo del restaurant, i pettegolezzi degli amici, la infedeltà delle amiche, la vecchiezza della mia portinaia e, sopra tutto, le parecchie dozzine di scalini moltiplicate per quindici (tanti per ogni rampa) che io aveva fatti di volo e d'un sol fiato. Appena entrato nel mio regno, nel mio nido d'artista, la luce che entrava sovrana dalle quattro ampie vetrate, i fiori sparsi da per tutto (una mia debolezza), gli abbozzi, il cavalletto, l'aroma acuto dei colori e delle vernici, il mio tavolo da lavoro ingombro d'ogni sorta di cose, delle più disparate e lontane, accatastate nel più sovrano disordine, tutto ciò mi rendevacontento, tanto soddisfatto, metteva in tutto il mio essere un senso così perfetto di felicità, che ancor oggi rimpiango sinceramente.

Allora aprivo le vetrate, lasciavo entrare liberamente il sole – a quel tempo io l'adorava il sole! – poi mi sdraiavo sopra una vecchia ed economica seggiolona a dondolo, e dopo aver accesa la mia artistica pipetta, circondato dai nuvoli opalini del sacro fumo, io diventava l'essere più beato e soddisfatto della terra.

Io era completamente felice!

Poichè bisogna che vi dica che in quell'epoca preziosa della mia vita io era – o sognavo di essere – due cose: e due cose egualmente belle, egualmente spensierate ed egualmente inutili. Io era – o sognava di pittore e poeta. Ahimè, sì! anche poeta! E poeta nel senso più vero e più miserando della parola: cioè scrivevo versi. Scombiccheravo anche, è vero, lunghe chiacchierate artistiche, critiche teatrali, bozzetti, novelle: ma il fondo della mia, dirò così, energia letteraria erano i versi.

Come pittore scombiccheravo dei bozzetti, degli studi; tentavo di fermare sulla tela una mia concezione vaga, indecisa – eravamo in quei giorni in piena fioritura simbolistica – e sognavo una figura mistica e solenne di donna, che rappresentasse tutto: la Vita, la morte, la gioia, il dolore.... tutto, ripeto, in una parola.

Intanto andavo assottigliando ch'era un piacere il non vistoso, certamente, patrimonietto lasciatomi da mio padre, prodigando i miei ventiquattr'anni, empiendo le quattro stanze aperte al sole e un pochino anche al vento che formavano il mio nido d'artista, di cose inutili, e lavorando, sul serio, pochino o nulla.

In fondo io non era contento di me. Sentivo tutta l'inutilità dalla mia vita e cominciavo a lasciarmi vincere, mio malgrado, pian piano, dalla malattia che prende tutti i giovani che non debbono lottare per conquistare ad ogni costo il pane e la vita: da quella sottile inerzia e stanchezza che altro non è, in fondo, che pura svogliatezza prodotta dalla vita oziosa e vuota.

Fu appunto in quest'epoca della mia giovinezza che mi accadde lo strano fatto che doveva poi in seguito essere come il fondamento del romanzo della mia vita che io ora vo narrando ai lettori.

Una sera che mi era ritirato più presto del solito, io era rimasto al balcone a godermi lo spettacolo sempre interessante di un grande temporale estivo che si preparava su nel cielo. – Come ho già avuto l'occasione di dire, il palazzo ov'era posto il mio studio e con esso la mia abitazione, era un vecchio fabbricato cinquecentista, un bel modello severo ed elegante dello stile, ed era circondato da ville al di delle quali s'intravvedeva la campagna sconfinata. Io dal balcone tenevo fissi gli occhi su quel cielo, nerissimo, rotto a tratti da vivissimi lampi che aprivano come grandi squarci di fulgore negli abissi celesti, accendendo nel loro guizzo istantaneo di mille strani bagliori e forme le grosse nuvole accatastate. Sotto, le ville, irrorate dalle prime stille della pioggia, mi mandavano il loro alito fresco e soave, fatto di quei mille odori della terra e delle piante che la pioggia sa trarre dal seno delle foreste e dei boschi. A un tratto l'uragano si scatenò e l'acqua cominciò a venir giù a dirotto. Io mi godetti la scena per più di un'ora, quindi vinto da un'improvvisa e invincibile sonnolenza mi buttai sul letto e mi addormentai.

Il lettore deve qui conoscere che io avevo fatto porre il mio letto nella più vasta delle quattro stanze del mio "studio" e precisamente in quella ove tenevo la scrivania che v'ho accennato, testimone e complice dei miei infelici delitti poetici. Doveva essere adunque nel cuore della notte quando mi svegliai e sebbene la camera dovesse trovarsi nella più profonda oscurità pure io fui sorpreso da una sensazione singolare. Io vedeva distintamente intorno a me. Distingueva perfettamente i vari oggetti nella camera, la mia scrivania, con quanto sopra vi era, i quadri alle pareti, gli abbozzi appesi qua e in disordine: in una parola io distingueva tutto nettamente, come di pieno giorno. E pure era notte profonda, nessun lume era acceso; luce dalle vetrate dei balconi non ne poteva entrare, stante la cupa oscurità del cielo, giacchè la pioggia seguitava a venir giù, lenta ora ed eguale. E pure, ripeto, io vedeva benissimo. Questo è un fenomeno abbastanza bizzarro ma non tanto raro ad avvenire: e sono sicuro che se il mio lettore penserà alquanto e ricercherà nella sua mente, ricorderà certamente che qualcosa di simile è, almeno una volta in sua vita, avvenuto. Egli ricorderà di essersi svegliato nel cuor della notte – o almeno, e qui forse è la spiegazione del mistero, di aver avuto la sensazione di svegliarsi – e sebbene la camera avesse dovuto ragionevolmente trovarsi nella piena oscurità, distinguere chiaramente le cose intorno a . Spesso tale sensazione non dura che brevi istanti: altre volte, come nel caso mio, la sensazione è più lunga, e prende tutta la consistenza e la coscienza della vera vita naturale.

Mi trovavo adunque in questo stato d'animo quando scorsi distintamente in mezzo alla mia camera una donna: una giovane donna alta, bianca nel volto, dai tratti fini e regolari, incorniciati da capelli nerissimi e ricchi. Essa era in piedi, aveva un'acconciatura come da viaggio, ma senza nulla in capo, e camminava. Si diresse verso la mia scrivania, vi si sedette di contro, appoggiò il gomito allo spigolo e nella palma della mano reclinò la testa: parve rimanere alquanto pensierosa, quindi prese la penna, l'intinse nel calamaio e mi sembrò tracciare qualcosa sopra uno dei fogliolini bianchi di carta che ingombravan sempre la scrivania, in attesa delle mie ispirazioni poetiche. Io seguiva attentamente ogni suo moto: e ricordo che non risentivo, per la strana apparizione, nessun sentimento inquieto di terrore. Osservavo tranquillamente la giovane donna seduta davanti alla mia scrivania: e una forza misteriosa mi teneva immoto e silenzioso.

Poi l'apparizione si alzò e svanì.

Io ricaddi profondamente addormentato.

Il mattino dopo mi risvegliai più tardi del solito. Il sole già si era fatto padrone da un pezzo d'ogni angolo della mia camera, e credo anzi che fosse appunto esso col suo tepido e indiscreto bacio sulla fronte che mi avesse svegliato, altrimenti avrei continuato a dormire chissà per quant'altro tempo ancora.

Mi alzai pigramente e cominciai a vestirmi. Allora solamente mi ricordai del sogno – non seppi dargli altro nome in quel momento – della notte.

Bah! – dissi ad alta voce, – sogno, fantasia, evanescenze! conseguenza dei nervi eccitati dal temporale.

Purtuttavia, mentre andavo vestendomi, la mia mente non poteva a meno di soffermarsi ancora sulla strana visione della notte. La rivedevo nettamente: e con tanta precisione di contorni e con tanta evidenza era rimasta impressa nella mia memoria – e specialmente in quella facoltà che i moderni fisiologi chiamano memoria visiva, che chiudendo gli occhi io la rivedeva viva e palpitante, seduta come durante il sogno – se pur sogno era – davanti alla mia scrivania.

E i contorni dell'apparizione eran nella mia mente così esatti, precisi, palpabili, materiali quasi, che stentavo, nel mio raziocinio, a crederla una semplice allucinazione di sognatore.

A questo punto, avendo terminato di vestirmi, mi appressai, con una certa ansietà, lo confesso, alla mia scrivania. Ero però convinto in fondo che nulla di anormale, di come io l'avevo lasciata la sera prima, vi avrei trovato.

Mi appressai dunque alla scrivania e mi chinai al di sopra di essa per veder meglio.

Mi sentii gelare il sangue.

In mezzo ad essa, posto bene in evidenza, sopra la cartella di marocchino ove solevo riporre i miei manoscritti, era un fogliolino di carta scritto, con caratteri a me assolutamente ignoti!...

Rimasi non so quanto tempo così, ritto in piedi, pietrificato, è la vera parola, dalla sorpresa e da mille sentimenti contrari.

Dunque non era stato un sogno!...

Misi qualche tempo prima di poter raccapezzare le idee. Un confuso sentimento sorgeva in me: una vaga inquietudine, e, bisogna lo confessi anche, un vago terrore per gli strani fatti per me nuovi e incomprensibili di cui era costretto ormai ad ammettere la realtà.

Vincendo il naturale turbamento, mi feci coraggio e presi in mano il libretto.

Non conteneva che poche parole, fra italiane e inglesi, queste:

"To die, to sleep.... Laggiù nel tenebroso Oceano, è nel sogno, il gelo della Morte.... La fatalità, la speranza! Sweet moments...."

Null'altro.

Rimasi molto tempo così, trasognato e perplesso, col misterioso biglietto in mano, non sapendo che pensare.

Mille idee diverse e cozzanti turbinavano nella mia mente. Ci fu un momento nel quale accolsi persino l'ipotesi d'uno scherzo per parte di qualche amico burlone, o meglio ancora, di qualche amica.

Ma non tardai a riflettere e convenire che questa ipotesi era semplicemente assurda.

Chi poteva inerpicarsi, su per i balconi, a quella altitudine alla quale era situato il mio "studio?" Nessuno poteva essere entrato durante la mia assenza, e, maggiormente, nessuno poteva uscirne giacchè io aveva l'abitudine di chiudere a chiave la porta.

Pensai, almanaccai altre ipotesi, ma su nessuna potei fermarmi seriamente.

Il fatto vero e palpabile era questo: che i miei occhi avevano veramente veduto, e non in sogno, e che io aveva in mano la prova materiale della strana apparizione notturna.

Mi sedetti ad osservare minutamente il biglietto.

Il carattere era di donna, largo, preciso, un poco rigido; vero carattere inglese. La mano che l'aveva tracciato era ferma e sicura: nessuna indecisione nella forma delle lettere, non un filetto più grosso o marcato degli altri, che potesse indicare tremito o pressione causati da sentimento qualsiasi.

Vero carattere da spettro – se di spettro era stata veramente (e come dubitarne ormai?) la mano che l'aveva vergato.

E le parole inglesi?...

Ripensando alla figura veduta durante la notte riconobbi che il tipo, tutto l'insieme, era quello di una donna inglese, di una signora, dovrei dire, perchè sì i tratti fini e delicati (ch'io vedeva nettamente nella memoria) che le movenze e l'abito, erano di signora, e di aristocratica signora.

– Che diabolico mistero è mai dunque cotesto?... – mi chiesi seriamente inquieto e turbato.

Ma non doveva certamente da me venirmi la risposta a questa imbarazzante domanda.

Intanto le ore passavano, e mi accorsi che l'ora destinata abitualmente alla mia colazione era trascorsa da un pezzo.

Posi il misterioso biglietto nel mio portafogli, presi il cappello e uscii.

Mi era diretto macchinalmente verso il mio solito restaurant, ma a metà strada mi fermai: riflettei che avrei trovato i miei amici e sulla fine dell'asciolvere, vale a dire quindi disposti in sommo grado al chiasso. E io sarei capitato in mezzo a loro pallido e turbatopoichè sentivo che il mio aspetto doveva quel mattino rivelare che qualcosa d'anormale m'era avvenuto. Avrebbero domandato spiegazioni, avrebbero voluto sapere il perchè della mia figura di allucinato.... Ah no, era meglio sottrarsi a tutto ciò. Entrai nella prima osteria che mi trovai a lato e mi sedetti ad un tavolo. Ordinai sopra pensiero quello che il garzone volle che gli ordinassi e mi rimisi meditabondo ad aspettare. Mentre mangiavo stentatamente e senz'appetito m'accorsi ch'era capitato in luogo ben modesto e solitario. I piccoli tavoli bianchi e allineati aspettavano invano e malinconicamente gli avventori che non venivano. In fondo alla saletta il garzone che mi aveva servito, che mal celava la sua magrezza sotto la iridiscente marsina d'altri tempi, mi guardava stupito, quasi fosse maravigliato di dover finalmente servire un avventore.

Finito il magro e stentato asciolvere, mentre stavo sorbendo un infelice caffè perfettamente in relazione con il color locale di tutto quanto mi circondava, vidi entrare – finalmente! – un collega: intendo dire un altro avventore.

Questo rispettabile signore entrò a piccoli passi guardinghi, si fermò in mezzo alla saletta, osservò attentamente i vari tavolini.... vuoti, quindi venne a sedersi a quello prossimo al mio. Lo osservai.

Era una bizzarra figura davvero. Mingherlino, magro, color della pergamena: una rada barbettina gli ballonzolava continuamente sul mento per effetto di un leggero ticchio nervoso che gli metteva continuamente in moto l'osso mascellare inferiore, con una strana parvenza di ruminante. Portava degli enormi occhiali e teneva involta la grama figura in un ampio soprabitone già scuro, sotto il quale avrebbe anche potuto sdoppiarsi, che vi avrebbe trovato sempre lo spazio sufficiente. Un che di mezzo tra il negromante e il modesto bohémien, il filosofo peripatetico e lo scrivano.

Lo strano personaggio cavò un giornale e fece mostra di mettersi a leggere. Dico fece mostra perchè in realtà mi andava osservando da capo a piedi con molta attenzione da sotto gli smisurati occhiali, che gli pendevano grottescamente dal naso.

A un certo punto avendo io, nell'estrarre il portafogli per pagare e levarmi da quel misero ambiente che incominciava a infastidirmi, fatta cadere sul tavolo la busta di una lettera qualsiasi che aveva ricevuta il mattino, il grottesco personaggio lasciò il giornale e piantò su di essa gli occhi. Molto studiato ed anche un po' seccato lo guardai.

Ma egli seguitava a tener fissi gli occhi sulla busta, anzi per meglio osservarla allungò così un cotal poco la testa e accostò la persona al mio tavolo.

– Se vuole osservarla meglio, – feci allora io ironicamente, – la prenda pure in mano.

E feci l'atto di porgergliela.

L'altro allungò la mano.

Grazie, signore, è proprio quanto desideravo.

E si mise ad osservare attentamente e con molta gravità la mia povera busta.

Io rimasi male. Era un matto o voleva prendersi giuoco di me?

Intanto il bel tipo, dopo aver osservato le poche parole di scritto, mi restituì la busta e disse:

– Chi ha scritto queste linee è un uomo, giovane, di carattere vivace, ricco di fantasia....

Alzai la testa: difatti questi erano precisamente i caratteri del mio amico Gustavo, l'autore della lettera chiusa nella busta.

Peccato, – continuò il misterioso individuo, – peccato però che qualcosa d'indeciso, come una sorda preoccupazione, direi quasi il timore di un pericolo imminente....

– Ebbene? – feci io.

– Sì, è così.... – continuò colui, sempre analizzando la busta, – ai miei occhi nulla sfugge! Ebbene, io leggo in queste linee come una sorda preoccupazione per un pericolo imminente....

Mi posi a ridere.

– Avete ragione, – esclamai, – il mio amico Gustavo si trova veramente, in questi giorni, esposto ad un pericoloso cimento....

– L'ho intuito, io! – esclamò trionfante il filosofo-mago.

– È in procinto di prender moglie, – finii con una risata.

Anche il mago si degnò sorridere.

– È difatti un cimento pieno di dubbi e di pericoli, – sospirò egli, melanconicamente.

– Ma voi chi siete, dunque? – dissi.

– Ah, signore! Io attendeva cotesta vostra domanda. Voi vi trovate di fronte ad un genio, o signore, sconosciuto, è vero, incompreso, ah sì! ma non meno profondo, come avete veduto....

– Difatti....

– Ah, signore! io sono il più appassionato, il più profondo, il più completo cultore e scrutatore dei misteri d'una nuova scienza, destinata a grandi destini a prò dell'umanità....

Comincio a comprendere.

– La Grafologia. Ah sì, o signore! Prospero Barbetti, vi sta dinanzi, il più grande dei grafologi viventi....

– Ne ho avuto la prova.

– E il più povero, o signore, – finì egli melanconicamente.

– Ah, signore, il mondo è scettico verso il vero ingegno e sorda è la coscienza degli uomini verso i grandi innovatori della scienza....

Mentre il povero grand'uomo parlava, un'idea luminosa mi traversò la mente.

Sentite, – gli dissi, – voi potreste rendermi un grande servigio.

– Sono ai vostri ordini, signore.

– E vi saprò ricompensare, – aggiunsi.

– Farete del bene ad un povero disconosciuto cultore della scienza, – rispose il buon Barbetti.

Allora trassi il portafogli e ne cavai il misterioso biglietto della notte.

Il grafologo lo prese e cominciò ad osservarlo attentamente.

Io attendeva commosso e turbato, nello stesso tempo.

– Ebbene, – mormorai, – chi ha scritto questo biglietto?

– Queste linee, – profferì gravemente il grand'uomo, – queste linee sono state tracciate da una mano giovane.... di donna....

– Di donna! – esclamai.

– Di donna, sì, o signore, – ripetè il grafologo guardandomi da sopra gli occhiali, – e dalla poca sicurezza che scorgo nelle lettere che formano le parole italiane paragonate con quelle inglesi, arguisco subito che colei che ha scritto non sia italiana, ma forse inglese, straniera certamente.

Io ascoltava stupefatto.

– Questo carattere di donna mi rivela una tempra forte, robusta, un'anima abituata a vita austera e di sacrifizio. Colei che ha scritto ha sopportato qualche grande dolore, nella sua vita, o qualcosa di strano e di fatale sovrasta su di lei.... Altro non so dirvi, o signore.

Io non sapeva più che dire e che pensare.

– Dunque, – mormorai, – questo è veramente il carattere di una creatura vivente....

Il grafologo mi guardò sorpreso.

– Ma sicuro, viva, vivente e che gode di forte e robusta salute! L'anima, al più, di cotesta creatura mi appare malata.... come vi ho detto.

Trassi del danaro.

Grazie, – dissi in fretta, – non mi occorre altro. Tenete.

E gli porsi il denaro.

Il grafologo lo prese con aria grata e mi consegnò in contraccambio il suo biglietto: Professor Prospero Barbetti, grafologo.

E uscii.

 

*

 

I giorni che seguirono furono per me molto noiosi. È inutile dire che la mia calma e la mia spensieratezza passata ne furono molto turbate.

Per quanto facessi per distrarmi, il pensiero della strana apparizione notturna era sempre presente alla mia mente.

Le notti trascorrevano per me insonni: sempre nell'attesa di riveder la fantastica creatura ch'era venuta a turbare con la sua apparizione la giocondità della mia vita folleggiante di giovane artista pieno di belle speranze.

Ma essa non volle più rinnovare la visione. Invano passai intere le notti sveglio: nulla venne più a turbare la profonda quiete della notte e del mio "studio."

Tanto che finii per convincermi d'essere stato preda veramente d'un'allucinazione.

Ma e il biglietto, che seguitavo pure a conservare, materiale e palpabile, nel mio portafogli?

Mistero!

Però non parlai con nessuno di questa mia strana avventura.

Qualcosa, in fondo al mio animo, che non riuscivo a comprendere, m'impediva di far partecipe altri degli strani sentimenti e dei dubbi ch'essa aveva risvegliato nel mio cuore.

Pure tutti i miei amici si accorsero che qualcosa di anormale turbava il mio spirito. Si fecero le più strane congetture: chi mi disse innamorato, chi ammalato, chi.... sbilanciato negli interessi, chi prossimo a commettere uno sproposito. Se ne dissero di tutti i gusti, secondo l'umore e la benevolenza de' miei cari amici.

Io però, ripeto, tenni a tutti celata la vera cagione delle mie alterate facoltà.

Il fatto è che anche la mia salute n'era scossa. Io era ammalato, veramente ammalato – non solo di spirito, ma benanche di corpo.

Fu allora che un medico, mio ottimo amico, mi fece un'accurata visita e mi consigliò di cambiare aria, di distrarmi, di fare insomma un lungo viaggio.

Trovai ragionevole il consiglio e adatto. Perciò disdissi l'affitto del mio vecchio "studio" posto su in alto del bel palazzone cinquecentista e feci i preparativi per un lungo viaggio di mare.

 


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