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II.
Erano le sette della sera quando il Delphin, il bellissimo transatlantico tedesco, levava le áncore e fendendo dolcemente le chete acque del porto di Genova, che le ultime luci di un bel tramonto di settembre empivano di riflessi rosei e di barlumi madreperlacei, cominciava il suo viaggio, diretto a New-York. Dalle banchine che le ombre della sera cominciavano a oscurare, la folla degli amici, dei parenti, dei curiosi che con diverso animo avevano assistito alla nostra partenza, ci mandavano gli ultimi saluti con il fazzoletto. Il vaporino del pilota, che guidava la nostra bella casa galleggiante in mezzo alla doppia fila di piroscafi ancorati, di velieri, di barcaccie piene di carbone e di botti, di zattere, di chiatte, ci salutava allegramente con il fischio della sirena. Davanti a noi la bocca del porto si apriva con i suoi due fari accesi e giranti, e molti dei miei vicini, come me appoggiati ai comodi parapetti della nave, sotto le bianche lance di soccorso, appese, eleganti e leggiere, sopra le nostre teste, molti dei miei vicini avevano gli occhi umidi, sebbene fingessero di fare l'animo forte.
Era la prima volta che lasciavo l'Italia per un vero viaggio. Non lasciavo, è vero, come moltissimi dei miei compagni, nè parenti, nè figli, nè moglie e neppure un'amante la cui mancanza m'empisse gli occhi di lagrime e il cuore di tristezza o di sgomento; ma lasciavo gli amici, la mia spensierata vita di giovinezza, il cumulo delle mie illusioni di poeta.... lasciavo soprattutto il mio paese. E si può essere forti, corazzati, imbevuti di tutte le più libere massime moderne, ma la prima volta che ci si distacca dal nostro paese, il cuore si stringe e uno strano solletico vi infastidisce la gola. Quando si ha venticinque anni, almeno, e si è poeta!
Intanto il Delphin aveva sorpassato le due punte dei moli che servono d'imboccatura al porto di Genova; il vaporino del pilota ci aveva lasciato, e dopo averci salutati con un'ultima prolungata vibrazione sonora della sirena aveva voltato la prua indietro e filava ora rapidamente fra le larghe ondate mosse che dividono il gran mare libero da quello prigioniero, quasi stagnante, del porto.
Il Delphin era libero ormai: solo padrone di sè e del mare sconfinato che ci si stendeva dinanzi, acceso ancora, qua e là, per gli ultimi bagliori del cielo color di rame ad oriente. Davanti a noi era il mare immenso, i lunghi giorni di viaggio, la mèta, l'avvenire: dietro il bellissimo anfiteatro di Genova e delle Riviere che si andavano allontanando, sfumando nella nebbia cilestrina piena delle ombre della sera. I monti, in alto, erano ancora accesi: scintillava qua e là, nell'ombra, sui dorsi grigiastri, qualche vivido guizzo di luce, e i vetri di qualche chiesa o di un villino che ci mandava l'ultimo saluto del sole del nostro paese: in basso, tutto si perdeva nelle grandi ombre della notte vicina. Il mare, sotto di noi, veniva a baciare i fianchi del naviglio con le sue larghe carezze spumose. Vedevo ancora in alto, macchia oscura e poderosa contro il cielo luminoso dell'orizzonte, la grande figura del capitano von Moser, il comandante del piroscafo, in uniforme, ritto sul suo ponte di comando. Poi tutto sparve nell'oscurità della notte e non furono più che tenebre, dietro, avanti e sotto di noi.
In alto il cielo sereno pareva guardarci con i suoi milioni di stelle, vivide come diamanti.
*
Quando mi rialzai dalla mia contemplazione, – non per nulla era un poeta, io! – mi accorsi ch'ero rimasto solo, a godere del mistico incanto del primo tramonto a bordo. I miei compagni di partenza e di viaggio avevano raggiunta ciascuno la propria cabina.
Il Delphin era un solido ed elegante piroscafo di lusso: le cabine erano quasi tutte di prima classe, poche di seconda.
Era l'invito a radunarsi nella sala da pranzo, pel pasto della sera.
Ne approfittai per conoscere e studiare un poco i miei compagni di viaggio.
Presiedeva il capitano von Moser – un bel tedesco alto, poderoso, calmo come un vero tedesco, ma bruno viceversa nei capelli, ne' baffi e nel volto come un siciliano.
Doveva esser cortesissimo ma inesorabile con i suoi uomini, per la disciplina.
Intorno a lui si venivano collocando man mano i diversi passeggeri – non molti ma scelti, come mi avevan detto a Genova, all'Agenzia, ove avevo fatto acquisto del biglietto di viaggio – quelli co' quali avrei dovuto dividere le peripezie e le avventure del mio primo viaggio per mare.
Presi posto anch'io tra un grasso signore, dai formidabili baffi e dal cipiglio minaccioso, e una malinconica figura di filosofo o di asceta: alto, magro, pallido, dalle labbra sottili e dagli occhi vaganti, d'uno strano grigio ceruleo, taciturno e misterioso. Vicino all'uomo dai grandi baffi e dal minaccioso cipiglio v'era una pétillante figuretta parigina, dagli occhi ridenti, dal nasino provocante, dalle labbra rosse – ahimè, troppo rosse – e dal visetto birichino incorniciato da una folleggiante aureola di capelli rossi, dai riflessi di rame.
Accanto alla malinconica figura di asceta invece v'era una giovinetta bianca e seria – la figliuola, si comprendeva subito – tranquilla e composta, dal profilo di madonnina, che faceva singolare contrasto con la "avventante" scapigliatura dell'altra, della parigina.
Di fronte avevo alcune buone famiglie tedesche: il solito reiche Vater grasso e imbottito di birra, la frau pacifica, un paio di fräulein serie e contegnose, la bonne inglese o francese e qualche meditabondo marmocchio dagli occhi azzurri.
Ancora un personaggio però mi colpì subito, sino da quella prima sera.
Era costui una figura inspirata di cantante o di poeta: alto come una pertica, con una grande chioma spiovente, le labbra sempre in moto, come mormorante tra sè e sè chissà quali arcane melodie, e sorridente spesso in silenzio, sempre tra sè.... e per sè.
Il giorno dopo, ottenuta l'amicizia e la confidenza dell'ottimo comandante von Moser, venni a conoscenza dell'essere di tutte queste rispettabili e interessanti persone.
Lei, la parigina – l'unica personcina demi-mondaine della brigata – una molto nota divette dei Bouffes parigini: una piccola stella che i boulevards colmavano ogni sera di mazzolini da cinque lire e di applausi, che aveva fatto girare la testa a lui – l'uomo dai baffi formidabili – ch'era un banchiere americano, di New-York, che aveva preso la decisione di rapirla al suo pubblico entusiasta per portarla a respirare un po' di aria satura di dollari e di carbon fossile della grande metropoli.
Dopo un idilliaco viaggetto in Italia, volavano ora portati dalle grandi ali del Delphin e dell'amore alla ricca città.
La malinconica figura di asceta con la figlia, formavano una specie di coppia cantante, di rapsodi rumeni, i quali, dopo un mese di riposo e di vagabondaggio romantico nelle belle contrade della nostra Italia, ritornavano, sempre con quell'aria trasognata e dell'al di là, ai trionfi delle serate dei concerti: e iniziavano un grande giro artistico nell'America del nord.
Del capelluto signore misterioso l'ottimo von Moser non ne sapeva ancor nulla. Doveva però essere un maestro compositore. Egli altro non seppe dirmene che il nome.
*
E dopo due giorni di viaggio, passate le Colonne di Ercole, mentre l'Oceano cominciava a cullarci con le sue ondate enormi, il ghiaccio fu rotto.
Il truce banchiere americano, rapitore della divette, si degnò di rivolgerci la parola: il rapsodo rumeno ci disse della sua arte: il maestro chiomato cominciò a cantarellare a voce spiegata, mentre la nave co' suoi dondolii batteva il tempo: le frau e le fräulein con i rispettivi genitori fecero amicizia con noi: e la petillante parigina empì la coperta e i saloncini di sottocoperta con il suo brio diabolico, di vera gamine boulevardienne, sebbene contenuta dalla pruderie dell'ottimo comandante e dal resto dell'onesta brigata.
Come conseguenza naturale, data la felice presenza a bordo di tanti artisti, fu improvvisato nel saloncino un piccolo teatro e furono organizzate delle rappresentazioni.
La divette furoreggiò subito. Si chiamava mademoiselle Aline. Ella si produsse con il suo famoso caval di battaglia: una birichina chansonnette internazionale, da lei creata e resa popolare a Parigi e che era appunto quella che aveva finito per conquistare completamente il cuore del truce banchiere newyorkese.
Quando la fulva Aline si presentò alla ribalta dell'improvvisato teatrino, sfolgorante di luce elettrica, nel suo scintillante costume, corruscante tutta di brio e di diamanti, con que' diabolici suoi occhi ch'eran due lampade elettriche essi soli, un soffro del boulevard parigino invase quel ristretto saloncino, sperduto, nella notte, nel seno enorme dell'Oceano. All'amante newyorkese, al posto d'onore, la caramella incastrata nell'occhio, parve respirare nuovamente l'alito infuocato di quella sala sfolgorante, laggiù, nella diabolica città, che l'aveva ammaliato.... Il capelluto maestro, gli occhi intenti e il volto arrubinato, non cantarellava più, le buone frau e le fräulein guardavano stupite, e l'indiavolata mademoiselle Aline incominciò a cantare la sua chansonnette internazionale, il clou de' suoi grandi successi parigini:
Il n'est pas chaud, dehors, to day!
Bobonne aux cheveux blonds, à la svelte tournure,
En mettant sur ma couverture
Thè, pain beurré, lait, confiture
Tandis que je goutais le repos du matin.
Mais, penché j'attirai l'enfant scandalisée,
Dont la peau de satin par la bise est rosée,
Et dis, faisant la pige à Rudiard Kipling:
Dehors il est bien froid, mais, posant ton plateau
Daisy; viens près de moi! Vois si mon coeur est chaud?
Et tu seras ma Queen, et je serai ton King.
E come a Parigi il successo fu delirante.
Mentre il Delphin, tranquillo e sicuro della sua forza, fendeva le nere onde, una scintilla della gran fiamma parigina ardeva là dentro, ne' suoi fianchi, tutte le teste, anche le meglio equilibrate, anche quella del modesto vostro amico che per voi scrive coteste linee in questo momento.
Calmato l'entusiasmo suscitato dalla inarrivabile divette, la luce fu resa più fioca, gli spettatori si raccolsero, e quando l'ambiente parve disposto, comparve il rapsodo con la figliuola. Il vecchio era trasformato: nel severo e caratteristico costume verde-cupo di cantore rumeno, il suo volto ascetico e gli occhi da sognatore avevan preso un'espressione indimenticabile. Pareva una figura d'altri tempi, avvolta nelle grandi nebbie del passato, faceva pensare a civiltà lontane e scomparse, ad altri sentimenti, ad un'altra poesia.... Rievocava veramente, quel vecchio severo ed inspirato, la visione di que' leggendari cantori di Omero, che avevan qualcosa di divino nella maestà del volto e nella dolcezza della voce.
La figliuola, anch'essa in costume, tutta bianca, gracile e fine, pareva una di quelle delicate vergini nordiche, fatte di poesia, di sogno e di nebbia, che un soffio della vera vita rude sembra debba far scomparire....
Nel silenzio e nell'attenzione degli spettatori, trasportati d'un colpo in un altro mondo e in altri sentimenti, il vecchio, accompagnato con un lungo e bizzarro liuto dalla fanciulla, cominciò una vecchia ballata popolare rumena: la storia di Manolo.
Il vecchio cantava nella favella del suo paese: strana favella che ha la lontana dolcezza della madre lingua, la latina, resa più ruvida e dura dalla sovrapposizione e l'infiltrazione delle lingue slave che quasi la opprimono. Cominciò lento e a bassa voce: con pochi e parchi gesti. Ma il suo volto si era acceso: gli sguardi parlavano; noi comprendevamo perfettamente. E la dolorosa e romantica storia di Manolo penetrava, lieve ed evanescente come un sogno lontano, nelle nostre anime. Noi sentivamo lo strazio dell'infelice architetto della grande basilica di Curtea d'Argem, perseguitato da una misteriosa e maligna potenza. Le mura ch'egli durante il giorno innalzava, erano nella notte gettate al suolo da una forza strana ed invincibile; indarno egli le faceva solidissime e resistenti: come ad un soffio, esse crollavano infrante al suolo.... Finalmente il derelitto Manolo ha un sogno. Egli potrà rompere l'incanto in un sol modo: un orribile modo che, anche nel sonno, lo fa fremere d'orrore. Le sue muraglie resisteranno al soffio malefico e distruggitore il giorno che nelle fondamenta di esse egli avrà murato viva la prima donna che il domani gli si sarebbe presentata durante il lavoro.
Manolo, risvegliato dall'incubo, freme, rabbrividisce, giura che mai egli potrà compiere l'infame cosa, mai egli potrà rompere l'incantesimo.... Ma infine l'amore per l'arte vince in lui i sentimenti di compassione e di umanità. Una specie di ebbrezza lo coglie. Ebbene, sia! purchè la sua arte trionfi, purchè la sua opera d'artista, il suo sogno possa avverarsi! Sia fatta la volontà del malefico genio che lo perseguita! Egli obbedirà. Lo giura.
E il sonno cade finalmente tranquillo e ristoratore sulle stanche palpebre di Manolo.
Il mattino di poi l'artista si reca soletto e di buon'ora sul luogo ove le macerie infrante e accatastate gli mostrano che il genio malefico anche in quella notte ha compiuto l'opera sua. Pieno di dolore egli rinnova ad alta voce il giuramento fatto nella notte alla misteriosa potenza che lo persegue.
Ed ecco una donna apparire da lontano, diretta alla sua volta. Il cuore di Manolo batte precipitosamente. Egli chiude gli occhi per non vedere la vittima che il suo cattivo genio ha designato. Ma la donna è già presso: una nota voce gli fa riaprire sbigottito gli occhi. È sua moglie: la sua donna ch'egli adora! Manolo è affranto: egli freme, si dispera; un'atroce lotta s'impegna nel suo cuore. Il suo amore lotta colla sua arte. Ma quest'ultima vince.
Pazzo, frenetico, delirante egli compie il suo giuramento. Con le sue mani, che acquistan la forza di quelle di cento operai, egli scava la fossa che dovrà racchiudere il corpo vivo e palpitante di colei che ama, e comincia l'opera nefanda che dovrà eternare il suo sogno d'artista. Per riuscire nel suo intento, egli fa credere alla donna che si tratta di uno scherzo: e l'invita, ridendo, a lasciarsi murare por giuoco. E le sue mani cominciano a lavorare febbrilmente. Il muro s'innalza. Già le pietre giungono al ginocchio della vittima. E sempre si accatastano intorno a lei: già ella sentesi soffocare. Allora ella comincia a piangere, a lamentarsi, a invocare il suo Manolo che cessi il giuoco fatale. Ma Manolo non l'ascolta più. Allora ella, tutta in pianto, derelitta, implora e geme: "Il mio corpo si rompe, mi si uccide il figlio nelle viscere, il mio seno spreme lagrime di latte.... la mia vita si spegne! Ecco, io più non respiro: io muoio!"
Manolo, impassibile, trasfigurato, non l'ode più: egli lavora sempre....
Il vecchio rapsodo era terribile. Un alito fatale e profondo gravava su noi tutti, affranti. Le donne singhiozzavano: tutti si sentivano turbati.
Finchè la luce fu rialzata: mademoiselle Aline riapparve; e con essa il riso, la spensieratezza, la gaminerie, la gioia.... Venne portato lo champagne.
*
Eravamo intanto giunti a Barcellona.
Il Delphin gettò l'àncora per ventiquattr'ore di fermata.
Come si è veduto, il tempo a bordo ci passava abbastanza piacevolmente.
Il mal di mare, il grande e noioso tiranno, non aveva fatto ancora troppe vittime – e quelle poche pagavano il loro tributo con soddisfacente filosofia e rassegnazione.
Io passavo il mio tempo sbozzettando i miei compagni di viaggio, leggendo i pochi libri che mi ero portato e fantasticando poi a mio beneplacito.
Il mio spirito andava riacquistando la sua abituale calma e spensieratezza.