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XI.
Ritto, in mezzo al vasto studio, che le ricche tende abbassate sino a terra empievano di mistica ombra, che aveva qualcosa di religioso in quel momento, il vecchio segretario si fermò.
Ci guardammo.
Lo stesso pensiero, lo stesso sentimento ci aveva côlti.
Un senso di rispetto, di misteriosa riverenza per l'Anima assente, per il morto padrone che tante ore aveva là dentro, in quella pace raccolta e quasi claustrale, trascorse; che tante ore di palpiti e – lo sentivo – di dolore aveva là dentro soffocate.
E davanti a quella cassaforte alta e brunita nel suo lucido acciaio, davanti a quella sacra e vigile custodia che per tanti anni aveva silenziosamente custodito un segreto e che stava per aprirsi a me e rivelarmene il mistero, io non poteva non sottrarmi ad un indefinito sentimento che mi rendeva perplesso e mi faceva battere più celere il cuore.
Il vecchio segretario, pallido, alzò una mano tremante e accennandomi all'intorno, mormorò a bassa voce, come in una chiesa:
– Erano trent'anni che lo vedeva qua, tutti i giorni.
E appuntando la scarna mano malferma verso un piccol tavolo rotondo, di legno bruno, su cui posavano ancora, nell'ordine nel quale l'assente stesso li aveva lasciati, gli oggetti comuni ch'ei soleva adoperare nelle sue ore di tavolino, di raccoglimento, di pensiero o di lavoro, fra cui alcuni libri, soggiunse:
Difatti tutto non era morto, là dentro, il padrone.
Io ne sentiva aleggiare intorno misteriosamente l'anima buona ed afflitta, nella quale gravava un dolore ch'io, per sua volontà, stava forse per conoscere.
E un pensiero profondo e insistente si fe' strada ancora nel mio spirito.
Perchè il destino mi aveva condotto colà?
Che voleva da me il misterioso potere che mi guidava e che dalla pace spensierata e pazzerellona del mio studio di giovane artista scapato, mi aveva trascinato prima ad esser testimonio e in parte attore di un dramma miserando, e quindi a unire la trama della mia vita con quella di altre esistenze delle quali pochi mesi ancora innanzi io ignorava persino l'essere?
Quale sarebbe stata la fine, la meta, di questo bizzarro e molteplice succedersi di avvenimenti da' quali la mia vita serena passata era così lontana?
Quale inaspettata soluzione voleva da me il destino in questo alternarsi di casi drammatici e dolorosi?
E come sempre chinai la testa, rassegnato alla potenza occulta che mi guidava e mi faceva agire.
E il consueto pensiero di fede e di fiducia in Colui ch'è padrone del nostro destino e che tutte guida e dirige le nostre azioni ad uno scopo che Egli solo conosce, mi sorse spontaneo e sereno dall'animo.
Intanto il buon Thompson era rimasto sempre immobile e silenzioso in mezzo all'ombra queta dello studio.
Ma le sue labbra pallide non erano immote: egli pregava.
Alfine sollevò la grigia testa e mormorò con un sospiro:
– Ed ora si compia la volontà del mio povero signore.
Trasse un mazzetto di chiavi, ne scelse una e s'appressò alla cassa forte.
Scorsi subito, poggiata sopra alcuni fasci di carte, la cassettina di legno nero.
Il segretario la prese e inchinandosi me la porse.
Era una cassettina di ebano, lunga circa una trentina di centimetri per dieci di larghezza. Ed era molto leggera.
– Io sono a vostra disposizione, mister, per obbedire al mio buon signore, quando lo crederete opportuno e per quanto vi piacerà domandarmi, – concluse il vecchio segretario.
*
Però decisi di non aprire subito la cassettina: di non approfondire subito il mistero, forse il dramma, che indovinavo e che mi turbava, mio malgrado, profondamente.
Le commozioni di que' giorni avevano scosso il mio spirito. Io era stanco, accasciato, affranto.
Decisi di lasciare un po' di riposo alla mia mente agitata. E pensai di recarmi a passare qualche giorno nella villa che la generosità dell'infelice mister Charnwood aveva fatta mia.
Vi giunsi in una fresca e serena mattina di ottobre. Allo svolto di un largo viale ombreggiato da platani immensi, appena oltrepassato il sobborgo di P...., il cocchiere accennandomi un vasto ammasso di verzura che il sole ammantava con la sua luce dorata, esclamò:
Visto da quel punto, lo spettacolo era magnifico. In mezzo al parco, folto e silente, spiccava un elegante castello grigio, la cui svelta torretta si librava agile e snella nell'azzurro intenso del cielo.
Il paesaggio intorno era quieto e sereno: grandi ville maestose ponevano qua e là la cupa massa de' loro parchi annosi; verdi collinette ondulavano dolcemente il terreno, sparso di bianche casette che ammiccavano tra il verde. Si aprivano lunghissimi viali alberati, che si perdevano nella campagna, a perdita di vista. E all'orizzonte, come nelle vicinanze de' porti di mare, vedeva sfumare nella lieve nebbia del mattino una selva di caminiere, di fumaiuoli, di parafulmini, di pinnacoli: erano i lontani quartieri industriali che fanno corona all'immensa e popolosa città, come una ferrea cinta di lavoro, di ricchezza e di forza.
Vennero ad incontrarmi i guardiani, ancora piangenti della terribile disgrazia toccata al loro buon antico padrone. Mi accolsero ossequiosi e commossi: erano stati avvertiti del mio arrivo e mi proffersero fedelmente i loro servigi.
Mi trattenni con essi a parlare delle virtù e della bontà di mister Charnwood. I poveretti lo piangevano come un padre.
Del resto, sempre, ne' giorni che trascorsi alla villa, dovetti convincermi del grande amore e della devozione che il ricco e benefico signore si era saputo acquistare da tutti in que' dintorni. Era un compianto sincero, profondo e commovente.
Il castello, non vasto, era finito con tutti gli agi e le moderne raffinatezze che solo gli americani del nord – che amano e sanno godere la vita in tutte le materiali e morali soddisfazioni che l'ingegno moderno può loro procurare – possono racchiudere e riunire in un breve luogo di abitazione.
Il parco che lo circondava, co' suoi profondi viali de' quali il sole invano tentava la conquista, con i suoi pittoreschi recessi ombrosi, le sue vasche popolate di ninfee, di cigni e di statue di pietra e di marmo, con i suoi antri misteriosi di verdura e i suoi praticelli verdissimi, era un vero incanto.
Passai alcuni giorni cacciando, facendo lunghe passeggiate, passando lunghe ore sdraiato nell'erba de' boschetti impenetrabili, godendo infine di tutta la libertà che la mia nuova condizione di padrone mi permetteva.
Quando la mia salute e il mio spirito mi parvero aver riacquistato la serenità e l'elasticità che avevano pur troppo perduto in quel cumulo di bizzarri e dolorosi avvenimenti, mi ricordai che un dovere da compiere aspettava il mio senno e la mia coscienza.