Jacopo Alighieri
Chiose alla cantica dell'Inferno di Dante Alighieri

LIBRO PRIMO   Chiose d'Jacopo, figliuolo di Dante Alighieri sopra alla "Commedia"

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Al fine delle sue parole il ladro

  Le mani alzò con amendue le fiche,

  Diciendo: togli Iddio, che a te le squadro

 

A dimostrare della superba e disperata ira del detto Vanni, propiamente così si figura, chiamandosi per lui verso la sua terra che per fuoco ardendo si risolva, da che pur in male operare il suo seme avanza. Il quale seme, cioè principio di lei si considera, che anticamente fosse Catellina Romano colla sua iniqua e disperata gente dietro alla fiesolana patria, secondo che nelle sue istorie si conta. Per le cui antiche maligne operazioni, i presenti suoi discendenti volgarmente così son tenuti approvandosi ancora per più crudele e disperato il sopradetto Vanni contro a Dio, che il re Capaneo, il quale, secondo che nelle chiose del quarto decimo canto passato si conta, dispregiando gli Dii sopra le mura di Tebe da una folgore caggiendo fu morto.

 

Lo mio maestro disse: questi è Caco

  Che sotto il sasso di Mont'Aventino

  Di sangue fecie spesse volte laco

 

 Siccome nelle chiose del duodecimo passato canto si conta, ciascuno avolterato dalla natura in appetito e abito bestiale, violente in altrui principalmente sopra gli altri centauro si chiama; onde con quella forma che figurativamente acciò si conviene qui in questa presente qualità d'alcuno nominato Caco siccome di centauro, così si ragiona, che trascorrendo figurativamente sopra se si porti molti e diversi serpenti, e specialmente un drago ardendo chiunque in lui si riscontri, per lo qual si considera l'ardente appetito pieno di malvagi pensieri che la mente altrui a cotale effetto produce e, per che la violenta sua froda occultamente per lui si fece, però co' suoi fratelli, cioè co' violenti sopradetti centauri non si concede, i quali sanza occulta froda violenza seguiro, come nel sopra detto capitolo si conta; la quale in cotal modo per lui fu usata, che, dimorando alcun tempo ad una sua tenuta in sul Tevero, nominata Monte Aventino, tra la marina e una terra, nominata Palantea, il cui sito al presente Roma si chiama, ispesse volte di persone e di bestie in alcuna caverna sotto il gran sasso che la rocca tenea, lago di sangue faceva, mangiando e vivendo occultamente di così fatta preda, e specialmente di quelle d'Ercole, il quale, tornando delle parti occidentali con grandisima preda di bestiame, avendo combattuto e sconfitto i' re Gerione nella campagna del detto Monte Aventino, per pasturarlo alquanto tempo soggiornando ristette; di che Ercole avedendosi più volte che 'l suo armento iscemava, a guardarlo d'intorno si mise, e così alcuna volta a piè delle grotte di monte Aventino e intorno passando, per lo mughiare del bestiame, che nella detta caverna era nascosto, del suo gran furto s'avide; nella quale finalmente entrando e trovandovi Caco, con una mazza animosamente l'uccise.

 

Com'io tenea levato in lor le ciglia,

  E un serpente con sei piè si lancia

  Dinanzi all'uno, e tutto a lui si piglia

 

 Dimostrata la prima qualità di ladroni, qui la seconda figurativamente così si contiene, cioè di coloro che continuamente con diletto di cotal vizio abituati sono, facendogli da certi serpenti esser compresi, come nel libro qui apertamente si conta, a significare i loro primi abituati pensieri, da' quali continuamente poi nell'operazione son guidati, tra' quali, per notizia e assempro degli altri, d'alcuno Fiorentino, nominato Agniolo d'i Brunelleschi, qui cotal si ragiona, e simigliantemente d'un cavaliere della detta terra, nominato Ciamfa Donati.

 

E quella parte, onde prima è preso

  Nostro alimento l'un di lor trafisse

  Poi cadde giuso innanzi lui disteso

 

 Procedendosi alle sopradette due qualità di ladroni, della terza e dell'ultima, qui così si contiene, cioè di coloro che, non essendo naturalmente abituati, per caso d'alcuna cupidità con diterminato volere a cotale operazione si producono, figurandogli da certi serpenti esser trafitti nel luogo prima disposto al vitale nutrimento, cioè nel bellico e alterando lor forme, come qui chiaramente nel libro si legge. Per la quale figura allegoricamente considerar si dee, che, siccome principalmente nella creatura umana l'accidentale nudrimento per lo bellico si porge, così l'accidentale appetito ad operazione qui trafiggendo gli punga, e che siccome cotal pensiero dell'umana nazione gli diparte, così usando, trasformato l'uno nell'altro divegna; tra' quali d'alquanti nelle infrascritte chiose si fa menzione.

 

Taccia Lucano omai dove tocca

  Del misero Sabellio e di Nasidio

  Ed attenda a udir quel ch'or si scocca

 

 Vogliendosi dimostrare che per Lucano per Ovidio in alcune loro trasformazioni, non così propiamente, come nella presente si procedesse, verso di loro arditamente così si ragiona, le quali figura[te] 37 in cotale modo ne' sopradetti Nasidio e Sabellio per loro favoleggiando si contano, come nelle loro iscritture si contiene.

 

Ch'io non ne scorgessi ben Puccio Isciancato

  L'altro era quel che sol di tre compagni

  Che venner prima, non era mutato.

L'altro era quel che tu Gaville piagni

 

 Ancora di due Fiorentini per simiglianti nella presente qualità si fa ricordanza, de' quali l'un fu de' Galigari, nominato Puccio Isciancato, l'altro de' Cavalcanti, nominato messer Guercio, il quale dagli uomini d'un castello di Firenze, nominato Gaville, finalmente fu morto; per la cui vendetta molti del detto castello da que' di casa sua procedendo poi ne son morti, onde cotal pianto procede.

 

 

 





37 V. P. figurate.



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