Ettore Romagnoli
Minerva e lo scimmione

PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE

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PREFAZIONE

ALLA PRIMA EDIZIONE

 

Poiché c'è fra gli uomini certa stoltissima razza, che schifa

le patrïe cose, e all'estranie rivolge bramoso lo sguardo,

con irrita speme sviandosi dietro fantasime vane.

Pindaro: Ode Pitia III.

 

Nei primissimi giorni della guerra, un professore tedesco, in non ricordo quale giornalone di Monaco, ammoniva solenne: «Ricordino soprattutto i nostri nemici che dinanzi alle nostre schiere non marciano i quattrocentoventi, bensí la vergine egidarmata Minerva».

Si poteva discutere l'opportunità della reminiscenza classica; ma l'idea era ben chiara. Non già l'immane materiale bellico accumulato in cinquant'anni di tenace preparazione aveva consentita ai tedeschi la strepitosa gesta contro il misero Belgio; bensí quella famigerata superiorità intellettuale che dovrebbe autorizzare l'homo germanicus a rimpastare secondo la propria effigie tutti i popoli della terra.

A prima giunta immalinconii: ché mi sembrò vedere la pura Dea dell'Acropoli inquadrata, come una qualsiasi principessa prussiana, tra le file dell'esercito di Guglielmo, fitto sulle chiome ambrosie il negro colbacco degli usseri della morte. Ma subito mi sovvenne che nessuna affinità, né etnica, né psicologica, esiste fra l'antico popolo ellenico e l'accozzaglia versicolore che obbedisce oggi ai cenni del re Costantino o del presidente Venizelos6: onde l'ibrida immagine dileguò presto dal mio spirito; e un'altra ve ne fulse, d'uno sconcio urango, che con le lunghe braccia villose e con la ventosa della sozza bocca irrompeva sulla fanciulla divina. Ma facilmente questa, con un colpo della sua lancia invincibile, allontanava l'amplesso mostruoso.

Da questa fantasia germinò l'idea prima del mio libro.

 

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Alcune ragioni dell'alterigia teutonica son certo da ricercare in qualità profondamente insite nello spirito dei tedeschi. Ma conviene aggiungere, a loro discolpa, che alla folle prosunzione li ha spinti anche la tedescolatria che per tanti e tanti anni ha imperversato in tutto il mondo, e massime in Europa.

 

 Ed anche questa tedescolatria, nella sua forma generica, ha fondamenti e giustificazioni. Oggi come oggi, di fronte agli altri popoli d'Europa, i tedeschi hanno questo fortuito vantaggio: che il loro rinascimento, venuto ultimo, è, per conseguenza, piú vicino a noi. I loro poeti, i filosofi, gli storici, gli umanisti, e i musicisti sommi, sono, si può dire, nostri contemporanei. Le loro opere rispecchiano quindi sentimenti, passioni, aspirazioni, ed anche usi, che ci sono familiari, che sono quasi i nostri: onde possiamo penetrarle senza alcuno di quei sussidî e riferimenti eruditi che sono indispensabili a intendere ed apprezzare interamente gli artisti e gli scienziati del passato, e siano pure della nostra stirpe. Perciò, per un effetto di prospettiva, li vediamo giganteggiare dinanzi ai nostri occhi, e ne restiamo stupefatti.

E questa vicinanza implica un'altra illusione. Il momento glorioso del pensiero e dell'arte germanica è oramai tramontato. Incominciato, a tracciar grandi linee, con Bach, con Winckelmann, con Lessing, si può dire concluso con Heine, con Mommsen, con Wagner. Quelli che vengono dopo, sono epigoni assai minori. Ma questi epigoni seguitano a fruire in larga misura i benefizi della loro nobile origine. Vicinissimi ai loro grandi padri, appaiono ancora tutti circonfusi della loro luce. E dovranno correre lunghi anni prima che le maggioranze, le quali vedono sempre in ritardo, imparino a distinguere queste lucerne da quelle stelle.

Ché se poi restringiamo la nostra osservazione al campo degli studî storici e letterarî, noi vediamo come la sconfinata ammirazione, il credito immenso onde godono i grandi tedeschi del passato e, piú ancora, i piccoli d'oggi, si debba a un certo metodo che questi ultimi sono andati via via foggiando e imponendo, e grazie al quale il primo venuto, pur senza vocazione, pur senza ingegno specifico, e senza ingegno di nessun genere, può aver l'illusione di divenire critico storico umanista, può aver la soddisfazione di sentirsi proclamare tale da una schiera eletta di accoliti e da una folla innumera di persone bevigrosso. L'applicazione di questo metodo, che da parecchio tempo travolge a decadenza gli studî anche in Germania, riusci fatale al nostro paese. A tale dimostrazione è consacrato il presente libro.

 

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Il quale è formato di articoli apparsi in una rivista di Milano7, e ripubblicati quasi integralmente. E a riunirli e ripubblicarli mi hanno indotto alcune considerazioni che espongo qui brevemente.

Io non oserei certo fare alcun prognostico circa il tempo e il modo onde finirà la guerra che insanguina il mondo. Ma una cosa mi sembra di vederla chiara: che cioè, qualunque sia per essere il suo risultato, essa, nei nostri riguardi, sarà stata combattuta invano, se, all'infuori d'ogni mutamento politico, dal suo gorgo cruento non debba uscire una Italia assai differente da quella di prima, ringiovanita, anche se estenuata, in ogni sua fibra, come un corpo umano dopo la crisi d'un terribile morbo. La patria nostra deve essere rinnovellata dalle radici, in ogni ordine di attività, nelle industrie, nei commerci, nei pubblici ufficî, e anche, e soprattutto, negli studî.

Un simile problema si era già imposto nella prima fase del nostro risorgimento; e si crede' di risolverlo egregiamente intedescando la cultura italiana. Mezzo secolo di esperimento dovrebbe oramai aver dimostrato anche agli orbi che le conseguenze del dominio intellettuale tedesco sono state, senza iperbole, funeste. Tuttavia, ora che esso, per tanti segni palesi, accenna a crollare, molti scienziati e studiosi, durante il fragore della guerra che assorda e distoglie, già foggiano le catene per un nuovo servaggio.

E non parlo di quelli che fanno apertamente l'apologia della Germania. In questi momenti, riuscirebbe forse piú opportuno e simpatico il loro silenzio; ma almeno hanno il coraggio delle proprie predilezioni; e poi, un nemico palese si combatte meglio. Assai piú pericolosa è l'opera di altri, i quali, pur protestando fiera ed intransigente italianità politica, fanno poi ampie riserve intorno alla questione scientifica, e sotto sotto tengono caldo il posto al futuro dispotismo intellettuale tedesco.

Il loro ragionamento, per dire la verità, è seducente e specioso. - I problemi dello spirito - dicono su per giú questi signori - devono rimanere lontani ed illesi dalle considerazioni politiche. Noi odiamo e protestiamo con tutte le nostre forze contro la brutalità militare tedesca. Ma quanto alla scienza, oh, la scienza bisogna lasciarla da parte. Qui i tedeschi sono maestri ai maestri, e noi dobbiamo inchinarci a loro, e continuare ad essere loro discepoli. -

E perché non si affermi, come altra volta intervenne, che questi signori esistono solamente nella mia immaginazione, e che io mi fabbrico un fantoccio di fantasia per divertirmi poi a buttarlo giú a palle di stracci, addurrò tre esempi, sotto i quali, come sotto a moduli, si possono aggruppare le varie forme di apologia della Germania scientifica.

1) Fervorino di smisurata esaltazione scientifica, spiccando il salto, per arrivare piú su, dal trampolino dell'aborrimento politico.

 

Sua Eccellenza Luigi Luzzatti, nel discorso solenne all'Istituto Veneto:

 

I Tedeschi hanno due coscienze non comunicanti fra loro, e si possono assomigliare ai compartimenti stagni di un poderoso naviglio da guerra. In una di queste coscienze vi è la scienza eccelsa, eletta, meravigliosa nelle analisi e nelle sintesi, ideale e pratica, colle sue alate indipendenze8, colle sue improvvise temerità, intrepida ricercatrice, e all'uopo demolitrice delle cose umane e divine; nell'altro compartimento vi è l'ossequio supino allo Stato, cioè al Governo che lo rappresenta, quale si sia.

 

2) Parata difensiva e botta a fondo contro gli iconoclasti.

Programma della Rivista Indo-Greca-Italica (Napoli, 20 agosto 1916).

 

La Direzione e gli amici della Direzione non appartengono alla classe di quei facili costruttori di ideologie che ogni giorno dalle colonne di certi quotidiani procedono, in assenza di avversarî, e con quanta autorità nessuno saprebbe dire, alla piú allegra e lucianesca svalutazione o vendita all'incanto di filologi e filosofi di vecchio stile. Entro e al disopra di ogni sano sentimento nazionale noi abbiamo vivo il culto e giusto il riconoscimento di quanto da noi o da altri è ormai acquisito alla scienza e patrimonio del genere umano.

 

3) Propositi e incitamenti a tornare, finita appena la guerra, al dolce giochetto della tedescolatria.

Girolamo Vitelli, Marzocco, 30 luglio 1916.

 

Debbo alla Germania moltissimo del poco che so, e principalmente la visione sicura del quanto e del come importi sapere. E poiché né le mie deboli forze in quaranta e piú anni di onesto lavoro, né le maggiori doti dei miei colleghi riuscirono in tempo relativamente cosí breve a togliere ai tedeschi la gloria della filologia classica e cacciarli di nido, dopo che sapientemente avevano organizzate le filologiche trincee, mi è toccato d'insistere in ogni occasione sulla necessità assoluta di far capo ai Tedeschi per chi volesse proficuamente giungere ad Omero e Tucidide. Molti dei miei scolari non ignorano, e qualcuno me lo ha ricordato non a titolo d'onore, come io pretendessi da ogni futuro filologo quale condizione indispensabile la conoscenza sicura della lingua.... tedesca! E pur troppo, neppure dopo questa guerra, che ai governanti e a tanta parte di governati tedeschi toglierà molte cose - fra il resto la facoltà e la voglia di asservire l'Europa, - potrei fare e farei diversamente, se mi fosse concesso di vivere e fossi riobbligato a fare il professore.

 

Ora io inviterei questi assennati discriminatori a fare un altro paio di distinzioni, o se preferiamo, considerazioni.

1) A distinguere la scienza tedesca sino al '70, da quella dei nostri giorni9. La prima fu veramente grande e mirabile. L'altra, la famigerata Kultur, è, come io m'industrio di provare per la filologia, come valenti scienziati vanno dimostrando per altre discipline, è troppo spesso una vera cultura di scempiaggini e di follie. Abbiano un po' la bontà, i sullodati germanolatri, di levarsi i parocchi, di distogliersi un po' dalle rotaie su cui hanno incominciato sin da ragazzi a camminare con cieca fiducia, di dare un'occhiata in giro, e di vedere se per caso quelle rotaie invece di guidarli a sicura mèta non li inabissino verso qualche oscuro precipizio.

2) Si mettano un po' a riflettere sul serio se davvero in ogni caso possa riuscire utile un travaso di cultura e di metodi da popolo a popolo. Senza dubbio avviene spesso che un popolo barbaro e senza eredità di cultura propria, per un certo tempo divenga scolaro di un altro popolo. Se tra i due popoli interceda affinità etnica, cioè intellettuale, i risultati possono anche essere buoni, come buoni furono in Roma quelli dell'assimilazione ellenica. Ma nel caso nostro doppiamente erroneo fu il tentativo di travasamento. Primo, perché fra la mente italiana e la mente tedesca vaneggia un abisso che nulla saprebbe colmare. Secondo, perché l'Italia non era un paese inculto, bensí un paese già cultissimo, in cui la cultura era decaduta e arretrata. Ma non c'era bisogno e non conveniva a nessun patto andare ad accattar fuori di casa germi forestieri da coltivare faticosamente. Bisognava, e perché non fu fatto allora, bisognerà farlo adesso, ricercare gli antichi virgulti sviati, erratici, intristiti, e ricondurli, riallacciarli, rieducarli amorosamente.

Intendiamoci bene su questo punto, che poi non vengano a dirmi che io consiglio di trascurare l'immenso lavoro che in ogni campo di studî hanno fatto i tedeschi. Dio me ne guardi e liberi!

No, il problema è differente.

Ecco. Non esiste ramo di studî in cui l'Italia non abbia aperta la via alle altre nazioni, compresa la Germania, con opere immortali. E queste opere hanno le impronte della mente latina, cioè la limpidità, la sobrietà, l'equilibrio, e l'unione strettissima dell'arte con la scienza.

La Germania, prendendo le mosse da noi, ha prodotto per suo conto un lavoro colossale. E in questo lavoro è andata via via imprimendo le caratteristiche della propria mente: caratteristiche che sono antipode a quelle della mente italiana.

Ora noi non possiamo certo fare astrazione da questo lavoro. Assai spesso ce ne dobbiamo servire, e sarebbe da sciocchi non farlo. Ma dobbiamo guardarci bene dall'attaccarci quelle caratteristiche mentali, che10 sono troppo disformi dalle nostre, e che anche in linea assoluta sono tutt'altro che ammirevoli e degne d'imitazione.

Invece la tendenza della recente e della recentissima filologia italiana è quella di scimmiottare i tedeschi specialmente nei loro procedimenti logici e nelle loro determinazioni estetiche; i quali e le quali, sono, come si dimostra ampiamente in questo libro, sgangherati e bestiali. Da questa lebbra bisogna guarire, radicalmente, gli studî italiani. I giovani devono certamente impadronirsi della lingua tedesca, per adoperare il ricchissimo materiale di studio accumulato in Germania, con un lavoro che specialmente nei suoi primi periodi fu ammirevole per serietà, per onestà, per abnegazione. Ma il modo d'elaborare quel materiale, ma gli auspici, le norme per intendere i grandi autori classici, non li devono chiedere a Wilamowitz, a Blass, a Leo: bensí a Giacomo Leopardi, ad Ugo Foscolo, ad Angelo Poliziano.

 

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Io intendo benissimo che questa abolizione del dominio intellettuale tedesco11 non debba riuscire troppo accetta agli scienziati germanofili. Essi per mezzo secolo si sono modellati, cogitatione verbo et opere, sui tedeschi: per mezzo secolo hanno faticosamente elevato il proprio piedistallo, tutto di macigno tedesco. Crollato il dominio tedesco, crolla il piedistallo. Intendo pure, che, spezzati i dolci legami con la vita filologica d'Allemagna, non è cosí facile trovare all'estero un altro mercato scientifico nel quale i loro titoli vengano scontati con tanto magnanima larghezza. E quindi riconosco che la loro opposizione è giustificabile, umana la loro disperata difesa.

Ma questo non deve indurre ad una intempestiva tolleranza quanti reputano che l'invasione intellettuale tedesca sia stata e sia tuttora funesta per gli studî italiani. Perciò pubblico oggi Minerva e lo Scimmione.

 

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E non è un libro, come ora si dice, severamente scientifico, nel quale il pro ed il contro delle quistioni si pesino con gli scrupoli dell'orafo, con la gelida insensibilità del notomista. No, questo è un libro di passione.

Ma non di passione estemporanea.

Pochi mesi prima che scoppiasse la guerra, un collega, in un documento ufficiale, mi rimproverava la mia poca simpatia per la Germania12. L'accusa era doppiamente inesatta. Chi eventualmente abbia seguito i miei scritti, ha potuto vedere che ho sempre nettamente distinto fra la Germania veramente scientifica ed artistica, e il moderno esercito di filologi scientifici, che, catafratti di tutte le armi della pedanteria, hanno proceduto alla sistematica distruzione d'ogni finezza e d'ogni gentilezza di studio. Meglio che parole d'oggi, riuscirà convincente un brano ch'io stralcio da un mio articolo del 1910 {Cronache Letterarie, 17 luglio).

 

All'uscir dall'adolescenza io mi smarrii nella gran selva del romanticismo germanico: nella selva in cui Nestore il filisteo udi stupito cantare gli alberi i fiori e l'azzurro del cielo. Suonavano ancora per tutti i tramiti e i verdi anfratti gli echi soavi delle odi di Klopstock. Brentano susurrava le sue favole, e Gian Paolo le sue fantasticherie lunari. Fra i tronchi e i cespugli si vedevano errare le figure eroiche e chimeriche di Achim von Arnim, e a notte ammiccavano le creature grottesche di Hoffmann. Dagli invisibili campi remoti giungevano velati gli squilli del Corno meraviglioso del fanciullo. Ma gli steli, le frondi, i rivoli, ripetevano con ondulazioni e oscillii magici le divine melodie di Schubert; e gli accordi di Schumann esalavano un aroma d'ebbrezza. Il turbine Beethoven investiva talora la selva, e tutta la selva si piegava come un arbusto, e si torceva sotto l'impeto dei canti immortali. Ma dopo il turbine, nel cielo terso, effondeva la sua luce tranquilla Goethe, il sidere scintillante.

E questo mondo d'incanti si dissipò quasi dal mio animo, allorché dovei sottopormi all'obbligatorio regime degli studî universitari. Imperversava allora nel cosí detto mondo dell'alta cultura il fanatismo pel metodo scientifico germanico. E mai opera di sterilizzazione fu compiuta con piú testarda tenacia, con piú pettegolo accanimento. Per anni ed anni infierí la guerra sacra all'arte, alla poesia, all'ingegno, combattuta in nome del germanesimo.

Non già, badiamo, in nome dei veri grandi dell'erudizione germanica, di Winckelmann, di Lobeck, di Herder, di Curtius: sotto certe bandiere non si combattono certe battaglie; ma in nome del primo bertoldo che tenesse cattedra in una qualsiasi scuola germanica, in nome dell'ultimo compilatore di Beiträge, di Erläuterungen, di Vindiciae, che periodicamente usasse concedere alle strette dei torchi le goffe lucubrazioni da lui perpetrate per intendere quello che per difetto di natura non poteva intender mai. Come una pianta maligna, la mentalità scientifica italiana rifiutò i succhi generosi che avevano dato fiori e frutti cosí nobili nel paese di Goethe, e assorbí tutti i tossici e tutti gli umori acri, per maturarne bacche venefiche ed irti pugnitopi.

 

Dunque, ho sempre distinto bene. E neanche era esatto chiamare antipatia il mio sentimento verso la filologia novissima. Era un sentimento assai piú violento che non l'antipatia; ma anche aveva maggior fondamento che le antipatie non sogliano avere. Un sentimento molto complesso, che neppure saprei determinare con un nome preciso. Mi spiegherò con un esempio.

Voi state parlando con un pezzo d'uomo aitante, sicuro di sé, pieno di facondia. Quest'uomo è armato.

Per un po' di tempo la conversazione procede benone. Ma ad un tratto vi accorgete che i suoi ragionamenti non filano piú tanto diritti: anzi la loro linea logica va diventando via via malcerta e sgangherata. Ad un tratto, in uno strano lampo delle sue pupille vedete brillar la follia. E il terrore v'invade. Se a un tratto gli saltasse in capo di far uso delle armi?

Non voglio già dire che io prevedessi la guerra: già di politica allora non m'occupavo quasi affatto. Ma pure, sotto il complicato macchinismo delle lucubrazioni filologiche sentivo qualche cosa di sinistro. Vedevo una mastodontica erudizione posta a servizio di facoltà mentali squilibrate e maniache. E nella mia coscienza profondamente latina, avida di chiarezza e di equilibrio, provavo un disagio, un ribrezzo quasi di paura. L'odio mio tenace, specialmente per i piú insigni rappresentanti di quei metodi, ebbe sempre questo solo fondamento, e non mai verun addentellato personale. Coi non moltissimi filologi tedeschi che m'avvenne di conoscere, ebbi sempre rapporti cordiali: per qualcuno di essi debbo ancora, nonostante la guerra, nutrire stima ed affetto.

 

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* *

 

Nel momento di abbandonare alla sua sorte questo mio libro, prevedo che qualcuno, lettolo, potrà farmi una ovvia obbiezione: «Ammettiamo pure che sia giusto il quadro clinico che voi avete tracciato del metodo scientifico tedesco. Ma quanto risponde al vero la immagine che dalle vostre pagine si ricaverebbe, d'una Università italiana interamente minata e mal ridotta dal morbo germanico? Non ci sono forse molti professori, giovani e non giovani, i quali, sebbene abbiano formata la loro cultura su libri tedeschi, sebbene abbiano studiato in Germania, mantengono intatta quella indipendenza e quella italianità di metodo che voi augurate agli studî italiani?».

È vero. Ma sono floridi rami travolti in una torbida fiumana: nel loro complesso tanto le Università quanto le Accademie, che hanno poi non piccola influenza sugli studî superiori e sopra ogni ordine di studî, sono tuttavia quasi interamente infeudate agli stolti pregiudizi del metodo scientifico tedesco.

E perciò, muovi pure senza esitazione, oh mio tenue libretto. Io non so quale sarà la tua sorte. Ma la battaglia che tu combatti a viso aperto non è superfluaintempestiva.

E rivolgiti specialmente agli uomini che, pur non essendo accademici, si interessano della nostra cultura, della odierna sua decadenza, del suo possibile risorgimento. Forse troverai in essi piú volonterosi ascoltatori. Ma se ti riesce, appressati anche a qualcuno dei piú intransigenti scienziati, di quelli che chiederanno la mia testa già solo nel vedere la tua veste, che ti ha leggiadramente istoriata un genialissimo artista d'Italia.

Appressati e digli: «Ritorna un po' a tua scienza, tu che pure sei nato in Italia, e dovresti avere una mente da italiano. Non badare se qualche volta le parole sono un po' grosse; e vedi se queste mie pagine, formalmente eccessive, non contengano per avventura qualche argomentazione degna di essere per lo meno discussa. E allora, piglia la penna, argomenta anche tu, difendi, combatti, cònfuta. È questa la via diritta, l'unica via, per giungere alla verità, che tu ed io amiamo d'uguale amore».

Mi cullo in una chimerica illusione? Forse. Ma non vogliate che io soffi via questo granello di ottimismo dalla prefazione d'un libro che non è precisamente ispirato ai principî di Pangloss immortale.

 

 

 





6 Cosí scrivevo lo scorso inverno. E mi sembra inutile mutare. La storia, e specie la storia greca, va oggi soggetta a troppo rapide metamorfosi.



7 Gli Avvenimenti, Anno 1915, N. 4, 8, 11, 15 - Anno 1916, N. 5, 6, 25, 46, 49.



8 Nell'originale "indipendanze". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



9 Qui un filologhetto italiano presume d'avermi colto in fallo, perché in seguito io elogio studiosi tedeschi di dopo il '70 e ne biasimo altri anteriori. Si potrebbe essere piú tedescamente consequenziarî? Ma non c'è costrutto ad ascoltare questi innocenti.



10 Nell'originale "cha". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



11 Nell'originale "tedessco". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



12 Bollettino ufficiale della Pubblica Istruzione, 5 novembre 1914.



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