Ettore Romagnoli
Minerva e lo scimmione

I.   IL PIEDE DI CRETA

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I.

 

IL PIEDE DI CRETA

 

La seppia è, come tutti sanno, uno scaltrissimo animaletto. Provocata e inseguita, spruzza dalla sua borsa un liquido nero come l'inchiostro, e intorbida le acque, in guisa da rimanere invisibile e inafferrabile.

La filologia è come la seppia. Essa, in un travaglio oramai secolare, ha accumulato un prodigioso tesoro di parole tecniche, di segni convenzionali, formule, abbreviazioni, sigle, riferimenti, ed anche peculiari stranissimi atteggiamenti di pensiero: tutto un gergo ostico ed incomprensibile ai profani. Provate a toccarla con la punta d'un dito, ed essa schizza intorno a sé nero e nero, senza parsimonia. Nessuno ci capisce piú nulla; e appena i filologi si mettono a discutere, i non filologi scappano.

Ora io vorrei provare a chiarire un po' le acque, a ridurre il gergo in linguaggio comprensibile, a rendere accessibili a tutte le persone culte alcuni dei piú ardenti dibattiti «filologici» agitati questi ultimi anni in Italia. L'eco ne sarà giunta anche a molti dei cosí detti profani.

- Un momento - m'interrompe l'amico lettore. - A chi volete che giovi, a questi lumi di luna, tale chiarificazione? Chi volete che s'interessi alla filologia, ai filologi, alle loro diatribe bizantine?

Non sono bizantine come tu pensi, amico lettore. Chi dice filologia, dice, in ultima analisi, cultura tedesca. La filologia è il tipo, il modulo, l'impronta che la mente tedesca ha impresso e va imprimendo su tutti gli studî. Un tempo c'erano la storia, la letteratura, l'eloquenza, la lessigrafia, la stilistica; e ciascuna di tali discipline aveva contenuto e metodo propri. Adesso tutto è filologia, Philologie. Questo cefalopodo (metafora, come sei giusta!), nato e cresciuto in Germania, ha lanciato i suoi viscidi tentacoli sopra ogni provincia di cultura, e tenta di soffocare quanto ciascuna di esse aveva di caratteristico e di nazionale.

Il processo di soffocazione è tuttavia in corso: apro una parentesi e cito un esempio. Nelle Università italiane ci sono tre cattedre: di grammatica greca e latina, di letteratura latina, e di letteratura greca. Ora la Commissione Reale per la riforma universitaria ha proposto pari pari che queste tre cattedre si trasformino in due cattedre uguali di Filologia classica. Capite bene, eh! Anche la letteratura latina, la prima gloriosa pagina della nostra civiltà, deve convertirsi, anodinamente, come nelle università tedesche, in «filologia classica»: anche il nome: latino deve sparire dalle università italiane! E molti universitari italiani hanno approvato ed applaudito. Domani un'altra Commissione reale proporrà anche la conversione della Letteratura italiana in Filologia moderna, alla pari con la Letteratura tedesca; e allora applaudiranno anche i barbassori di Berlino. - La parentesi è chiusa.

La filologia, dicevo dunque, cioè il metodo tedesco, cerca di soffocare dappertutto, e anche e soprattutto in Italia, ogni altro metodo. Proteste si sono levate, e si levano: è di ieri la polemica di Alessandro Bacchiani sul Giornale d'Italia. Ma ad ogni tentativo di protesta, interviene la «competenza scientifica», ed impone silenzio al buon senso. Comincia la diffusione del nero di seppia, e la gente volta le spalle. Vediamo un po' se una volta tanto ci riesce di afferrare il malizioso mollusco. Vediamo se ci riesce di scernere ben chiaro che cosa sia questa benedetta filologia tedesca, e quanto abbia giovato il suo dominio alla scuola italiana, e quanto abbia nociuto, e se convenga lasciarla ancora spadroneggiare e imperversare. Parlerò più specialmente della filologia classica, perché è questa il centro e la matrice in cui s'è formata e da cui s'irradia ogni specie di filologia: e ciò che si dice di essa si può estendere, piú o meno, a tutte le sue derivazioni.

 

*

* *

 

Che cosa è dunque questa benedetta filologia? - Se rivolgete la domanda, non dico ai profani, ma anche ai piú profondi iniziati, otterrete tante risposte diverse quanti saranno gl'interpellati. La filologia è, o sembra a prima giunta, proteiforme. E perciò non ti sgomentare, amico lettore, se, dopo averne sentito parlare come d'un cefalopodo, adesso, ai primi approcci, te la vedi giganteggiare dinanzi come un colosso.

Proprio cosí. Aprite un catalogo tedesco, di Teubner, di Weidmann, di Reimer. Non c'è autore che non sia pubblicato in edizioni critiche, in edizioni scolastiche, in edizioni scientifiche. Aprite una di queste edizioni. Ecco un solido blocco di varianti, l'apparato critico: segue il testo, in pagine fitte fitte, e, in genere, tipograficamente corrette: copiosi indici chiudono i volumi. Le note formicolano di erudizione. Per tutti i principali autori c'è un lessico speciale. Poi vengono i dizionarî generali delle lingue, poi i dizionarî di cultura, d'arte, di vita, e via dicendo, dove son registrati minutamente tutti i fatti, tutte le notizie dell'antichità classica. Insomma, c'è tutto, c'è piú che tutto. E tutto in ordine, schierato, ammassato, pronto a far fuoco. Sicché, dopo un esame anche superficiale, non potrete a meno di esclamare: , la filologia tedesca è un colosso di bronzo.

 

*

* *

 

È un colosso di bronzo. Ma questo colosso ha un piede di creta. Ed io voglio nel mio primo articolo, anche per cominciare senza troppo tedio, picchiare su questo piede di creta. Apri con me, amico lettore, una delle piú grandi creazioni del genio ellenico: l'Agamennone d'Eschilo. Leggilo pure in una qualsiasi versione: io terrò sotto gli occhi una delle edizioni tedesche che vanno per la maggiore: quella del signor Keck.

E leggiamo dalla prima scena.

La scolta notturna che veglia sulla reggia degli Atridi. in Argo, ha visto brillare fra le tenebre il segnale di fuoco, che, acceso da monte a monte, è giunto da Troia ad Argo, ad annunciare la caduta della città di Priamo. La scolta ha avvertito la regina Clitennestra, e questa ha chiamato a sé i vecchi d'Argo (il Coro), ed ha partecipato la notizia. Rimasti soli, i vecchi levano preghiere di ringraziamento, e indugiano nei ricordi del passato, quando la città suona improvvisamente di grida: ed essi fanno i seguenti commenti. Traduco, poi si vedrà perché, verso per verso, parola per parola.

 

Del fuoco per il lieto messaggio -

attraverso la città muove un veloce -

clamore: se veritiero -

chi sa, se sia un divino inganno?=

 

Chi è cosí fanciullesco o dissennato -

(che) del fuoco per gli annunzi -

recenti essendosi infiammato in cuore, poi -

per il mutamento (arrecato dai) dei discorsi s'abbatta?=

 

Ad indole di femmina s'addice -

prima che appaia il fatto allegrarsi=

 

Troppo credula l'indole femminile è -

precipitosa; ma sollecita -

muore la buona notizia data da donne.=

 

Nei codici che ci hanno conservato l'Agamennone, codesti versi appaiono cosí, uno dopo l'altro, senza distinzione o designazione di personaggi. Ma appare ovvio che nella recita saranno stati distribuiti in quattro gruppi: quelli che ho distinti con le sbarrette doppie. Ora, sapete che cosa ha escogitato il Keck? In uno di quegli accessi d'ipersensibilità estetica assai frequenti nei nipoti di Arminio, ha visto una scena molto piú mossa: ha cioè immaginato che ciascuno di quei versi fosse recitato da un attore diverso. Avete ben capito? Uno dei vecchi avrebbe incominciato: Del fuoco per il lieto messaggio....; e il secondo, levandogli la parola di bocca: attraverso la città muove un veloce...; e il terzo, interrompendo il secondo, a vendicare il primo: clamore: se veritiero...; e il quarto: chi sa, o se sia un divino inganno; e il quinto dopo il quarto, e cosí via sino al dodicesimo. - Uccellin volò volò: come giuoco di società è raccomandabile. - E dopo questa «teoria», il Keck, glorioso e trionfante come un mio pappagallo buon'anima, che, messa a posto una beccata, si gonfiava e pavoneggiava tutto, commenta: «In ogni caso, la simmetria di queste esclamazioni involontarie, scoppiettanti qua e fra le righe dei coreuti come un fuoco di plotone (ah, prussiano!) è cosí perfetta, che non solo ne risulta la divisione (fra varî personaggi) di questo brano, ma d'ora in poi non si può  neppure dubitare che il numero dei coreuti in questa tragedia era di dodici»13. - Convincente, eh! - Adesso poi, se un lettore malizioso va a contare i versi, vede che invece sono tredici. Ma il Keck non si arresta dinanzi a cosí lieve ostacolo. Rimaneggia un po' il testo, aggiunge di suo un emistichio al 2.° verso, un emistichio e un verso intero al 4.°, affida a due dei personaggi due versi per ciascuno, e fa tornare il conto giusto. Sistema comodissimo, pratico, concludente, che i tedeschi hanno applicato ed applicano in lungo e in largo ai poeti greci, riuscendo in tal modo ad ottenere simmetrie e fondare «teorie» divertentissime.

 

*

* *

 

Ma - obietteranno i competenti - questo ed altri non meno sollazzevoli esempî che si possono raccogliere dall'opera del Keck, non concludono molto. Il Keck è senza dubbio uno scientificissimo filologo; e per questo noi lo pigliamo sul serio, ad onta della incontestabile sua grullaggine: ma non è addirittura una sommità. Sceglietene uno di prima fila.

Vi servo subito, illustri competenti. Scelgo un altro nome che riuscirà nuovo ai profani (è l'allegra vendetta del buon senso), ma farà chinar reverenti le fronti degli iniziati: Federico Blass.

Federico Blass è senza dubbio filologo d'erudizione immensa e sicura; e possiede anche una nitidità di pensiero e d'espressione non troppo comune fra i tedeschi. Ma stringi stringi, è tedesco anche lui: e sentite un po' che cosa va ad arzigogolare intorno ad una scena delle Eumenidi di Eschilo. La sacerdotessa del santuario d'Apollo entra un istante nel tempio, e ne esce esterrefatta da una visione orribile. Sentiamo le sue stesse parole (traduco fedelmente):

 

Ai penetrali ed alle sacre bende

m'accosto: e vedo su la pietra un uomo

supplice, sozzo d'un delitto: sangue

stillano ancor le mani, e il ferro ignudo;

e stringe un ramo di montano ulivo

tutto avvolto di pii candidi bioccoli.

E dinanzi a costui, sovressi i troni,

sopito giace un mostruoso stuolo

di femmine: non femmine, anzi Gòrgoni

io le dirò: se ben, neppure a Gòrgoni

le posso assimigliar, quali dipinte

io le vidi a Finèo predar la mensa:

ché senz'ali son queste, e negre, e tutte

lorde: con ammorbanti aliti russano,

e sozze marce giú dai cigli colano.

 

Dunque Oreste, sgozzata la madre in Argo, è corso a rifugiarsi, inseguito dalle Furie, ai piedi dell'altare d'Apollo; ed ha le mani ancora intrise di sangue.

Penseresti, amico lettore, a chiedere di chi sia quel sangue? - Ma i tedeschi sono coscienziosi, vogliono mettere tutti i puntini su tutti gli «i». Quindi Federico Blass, angustiato dal dubbio scientifico, si propone e cerca di risolvere il grave problema. E, cerca cerca, scavizzola un po' oltre le seguenti parole, che Oreste, abbandonato il santuario di Apollo, pronuncia ai piedi del simulacro di Minerva:

 

Langue su la mia man, si strugge il sangue.

Del matricidio la recente macchia

lavata è già: col sangue d'un porcello

presso l'ara del Dio fu cancellata.

 

Che raggio di luce! Oreste ha dunque sacrificato un porcello ad Apollo: il sacrificio fu compiuto prima della scena in cui Oreste ci è apparso tra le Furie, perché al fine di quella scena Oreste fugge, né in séguito torna piú nel santuario d'Apollo: conclusione... conclusione: «naturalmente il sangue non è quello della madre, bensí quello del porcello sacrificato ad Apollo»14. E dice proprio naturalmente: natürlich. Perché è incredibile quante cose che a noi sembrano dell'altro mondo, siano naturali per i filologi tedeschi e per i loro tirapiedi italiani. Scommetto che qualcuno di essi, leggendo queste mie righe, mentre tu, o lettor profano, ridi, starà meditando gravemente se il Blass non possa per avventura aver ragione lui15.

Dunque, o profani, avete inteso bene anche questa volta? I poeti greci sono grandi, ma sono anche remoti; e per intenderli occorre l'aiuto dell'ermeneuta. Eccolo, l'ermeneuta. Mentre voi, dinanzi a quella portentosa fantasia tragica, raccapricciate, mirando le mani insanguinate del matricida, l'ermeneuta viene, barbone e occhiali, e vi susurra misterioso all'orecchio: Attento bene, o profano! Quello è sangue di porco!

 

*

* *

 

E senza abbandonare Eschilo, veniamo finalmente al piú grande dei moderni ellenisti, al pontefice massimo, al gran lama, al kaiser della filologia moderna: Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff. Questo nome, , fa tremare le vene e i polsi a tutti i filologi autentici, serî, veramente scientifici. Per avere denunciate alcune sue gustosissime amenità pindariche16, io mi sono attirato l'odio teologico di quasi tutti i filologi italiani. Ma questo non interessa il lettore. Il Wilamowitz è poi anche abbastanza noto al gran pubblico, perché durante la guerra è piú volte uscito dal suo guscio filologico, per fare clamorose ed esilaranti dimostrazioni patriotiche. Un giorno, in una seduta magna dell'accademia di Berlino, dopo che altri luminari ebbero schiccherato parecchi discorsi imperialisti e mangiacristiani, come usavano allora, si levò solenne, nella candida maestà della barba fluente. Religioso silenzio. E mentre tutti attendevano dio sa quali fiumi di eloquenza demostenica, intonò con voce gagliarda il Deutschland über alles. Sarebbe come se, a una tornata solenne dei Lincei, Pasquale Villari, putacaso, si alzasse a cantare: Si scuopron le tombe, si levano i morti. - Un'altra volta interruppe la lezione, e dopo un discorsetto di circostanza, rivolto alle studentesse: È guerra - disse - le studentesse alla calza! - L'ultima fu il permesso solennemente accordato alla patria tedesca di rappresentare sulle scene alemanne i drammi di Shakespeare. Eravamo ai grassi giorni della neutralità, e codeste bertoldaggini erano riferite nei giornali italiani dai corrispondenti germanofili con accenti di commossa ammirazione.

Il Wilamowitz, dunque, ha pubblicato, pochi mesi fa, un grosso volume di interpretazioni eschilee; e nella prefazione scrive queste sacrosante parole: «L'interprete d'un'opera d'arte deve fare ben piú che spiegare parole e proposizioni: egli deve sentire simpaticamente col poeta, deve sentire l'opera e il poeta come qualche cosa di vivo, ed insegnare agli altri a sentire». - Benissimo! Proprio quello che io vado ripetendo da oltre un decennio ai wilamowitziani d'Italia, i quali rimarranno adesso un po' male, sentendo queste parole pronunciate dal loro idolo.

Benissimo! Ma come sente poi il Wilamowitz? Come insegna a sentire? - Del suo volume mi occupo altrove, lungamente17. Qui, a conclusione di questo già lungo articolo, citerò un paio di esempî.

 

 Apriamo, anche una volta, l'Agamennone. Quando il re d'Argo, reduce vittorioso da Troia, si presenta sul carro dinanzi alla reggia. Clitennestra, che medita già in cuor suo di ucciderlo, lo saluta con un lungo discorso tutto miele, infinte lusinghe, velati sarcasmi. E conclude:

 

            Ed or che il male

sofferto è già, con cuor lieto, quest'uomo

dirò cane fedel della sua casa,

gómena che salvezza è della nave,

saldo pilastro dell'eccelso tetto,

figliuolo unico al padre, terra apparsa

ai naviganti contro ogni speranza,

giorno fulgente dopo il turbine, acqua

di vena al peregrino arso di sete!

Questo è il saluto ond'io t'onoro.

 

Sapete che cosa ha inventato il Wilamowitz? Nei Canti popolari Toscani ha letto i seguenti versi:

 

L'è rivenuto il fior di primavera,

l'è ritornata la verdura al prato:

l'è ritornato chi prima non c'era,

è ritornato il mio 'nnamorato:

l'è ritornata la pianta col frutto,

quando c'è il vostro cuore, il mio c'è tutto:

l'è ritornato il frutto con la pianta;

quando c'è il vostro cuore, il mio non manca:

l'è ritornato il frutto con la rosa;

quando c'è il vostro cuore, il mio riposa.

 

Questo canto e le parole di Clitennestra sembrano al Wilamowitz una sola cosa; onde egli induce dalla somiglianza non so qual profondo misterioso rapporto; e scrive, senza paura: «Io credo fermamente che i carmi convivali o i canti popolari greci offrissero qualche cosa di simile. Questo non si può riuscire a provarlo; ma questo rispetto amoroso ci fa vedere a quale sfera il poeta abbia attinto i colori per la finzione ipocrita (di Clitennestra)», etc, etc.18.

Per capire bene l'amenità di questa osservazione, bisogna rileggere l'intera scena e l'intero discorso di Clitennestra, e vedere come tutto quel che precede prepara l'animo in modo che queste ultime lusinghe della femmina feroce suonano nell'anima del lettore come un sarcasmo d'altezza tragica infinita. Allora viene l'ermeneuta, e vi susurra all'orecchio che dovete pensare ad uno stornello paesano.... Con che cuore, con che cuore! - E poi notate: «a quale sfera il poeta abbia attinto i colori!» Come se Eschilo, la fantasia piú vulcanica che il mondo abbia mai avuto, andasse a racimolare qua e bricciche per comporre le sue tragedie. Avrebbe potuto almeno ricordare, il kaiser dei filologi, che nelle Rane d'Aristofane appunto Eschilo rimprovera al suo rivale Euripide un simile sistema di composizione poetica!

E quasi piú interessante è la interpretazione o visione wilamowitziana della scena di Cassandra.

Come tutti rammentano, la fanciulla profetica rimane muta ed immobile durante tutta la scena dell'arrivo. Esce poi Agamennone, esce Clitennestra, i coreuti intonano il loro tristissimo canto, né essa segno di vita. Sembra, secondo la icastica espressione del coro, una belva or ora presa. Riappare Clitennestra, la invita a piú riprese ad entrare nella reggia, i coreuti la esortano, ma non ottengono risposta. La regina rientra, i coreuti rivolgono alla fanciulla un'ultima affettuosa esortazione. Né essa risponde; bensí, d'un tratto, rompe in un inatteso grido straziante, che fa tuttora correre un immenso brivido tra le file degli spettatori.

Il Wilamowitz, come ho detto, offre di questa scena una interpretazione sua: e per apprezzare questa interpretazione, bisogna che rileggiamo insieme tutta la scena. Riferisco la mia versione.

 

Clitennestra

Esce dalla reggia, e si rivolge a Cassandra.

 

Entra tu pure. - Dico a te, Cassandra.

Poi che benignamente volle Giove

che i sacrifici tu partecipassi

fra i molti servi, stando presso all'ara

del Dio custode della casa. Scendi

dal cocchio, scaccia il tuo soverchio orgoglio.

Anche il figlio d'Alcmena, un tempo, dicono,

fu venduto, e dove' piegarsi a forza

a servil giogo. Allor che su noi piomba

di tal sorte la forza, è assai fortuna

trovar padroni d'opulenza antica:

ché quanti ricca messe hanno ricolta

oltre ogni loro speme, in tutto crudi

sono coi servi, oltremisura. Tu

quanto conviene troverai fra noi.

 

A

a Cassandra che rimane muta.

 

Chiare parole t'ha dirette. Or tu

obbedisci, poiché sei nelle reti

fatali. Ma obbedir forse non vuoi!

 

Clitennestra

 

Se pur la lingua sua barbara, ignota

non è, simile a quella delle rondini,

parlando il cuore suo convincerò.

 

A

 

Seguila: il meglio che poteasi in questa

sorte ella disse. Lascia il carro, cedi!

 

Clitennestra

 

Non ho tempo da perdere dinanzi

a questa porta. Stanno già le vittime

sull'ara, in mezzo della casa, e attendono

il macello ed il fuoco. - Oh chi sperava

mai questa grazia! - Or tu, se ciò che dissi

vuoi far, non indugiare: e se t'è dura

nostra favella, e dir non sai parola,

con un barbaro cenno almeno esprimiti.

 

A

 

D'un efficace interprete bisogno

ha la straniera, sembra. I modi suoi

sono come di belva or ora presa.

 

Clitennestra

 

D'insania è colta, e i mal pensieri ascolta.

È giunta qui, lasciata la città

arsa or ora, né sa patir le redini,

se pria non spuma la sanguigna bava.

Ma non oltre m'abbasso a favellarle.

 

Entra nella Reggia.

 

A

 

Non io m'adirerò. Pietà mi stringe.

Lascia quel cocchio, sventurata, cedi

al tuo destino, al nuovo giogo piègati.

 

Cassandra

prorompendo improvvisa

 

Ahimè, terra! Ahimè, terra!

Apollo! Apollo!

 

A

 

Perché d'ahimè saluti il nume ambiguo?

Non si addice a quel dio funebre nenia!

 

Cassandra.

 

Ahimè, terra! Ahimè, terra!

Apollo! Apollo!

 

B

 

Con grida infauste ancor saluta il Nume

cui non s'addice assistere a lamenti.

 

Cassandra

 

Apollo, Apollo!

Mio duce e mio sterminio!

Mi perdi, e non a mezzo, anche una volta!

 

C

 

Sue sciagure predir sembra: fra i lacci

di servitù, vive il fatidico estro.

 

Cassandra

 

Apollo, Apollo!

Mio duce e mio sterminio!

Dove condotta m'hai? Verso qual tetto?

 

D

 

Al tetto degli Atridi: io te lo dico,

se non lo sai: né troverai ch'io menta.

 

Cassandra

 

A tetto inviso ai Numi, di consanguinee stragi

conscio, di lacci fatali, a macello

d'uomini, a suolo gocciante di sangue.

 

B

 

Come can la straniera ha nari acute,

e fiuta, per trovare odor di strage.

 

Cassandra

 

Ecco, ecco i testimonî che fede a me ne fanno

questi fanciulli piangenti sgozzati:

maciulla il padre le carni combuste!

 

A

 

Sapevamo per fama il tuo profetico

estro; ma niun profeta andiam cercando.

 

Cassandra

 

Ahimè, ahimè! Che mai

disegni? Quale immane

novello immane lutto

disegni in questa casa? Insopportabile

pei tuoi, senza rimedio!

E lontana rimane ogni difesa!

 

A

 

Questi ultimi presagi io non intendo;

intendo il resto: tutta Argo lo grida.

 

Cassandra

 

Ah, scellerata! Questo

farai! Lo sposo tuo,

il compagno del letto,

mentre nel bagno tu lo immergi.... Come

dirò la fine? E presto

sarà! Mano su mano avventan colpi!

 

A

 

Non anche intendo; ché irretito io sono

fra vaticinî cui l'enigma accieca.

 

Cassandra

 

Ahi, terrore, ahi, terrore! Che visione è questa?

Forse d'Averno è un laccio?

La compagna del talamo è la rete,

la complice! Discordia, insaziabile

contro questa progenie, innalzi un ululo:

ché pietre, poi, vendicheran lo scempio!

 

A

 

Quale tu invochi Erinni che si levi

su questa casa? Il tuo dir non m'allieta!

E refluisce al cuore la crocea stilla, come

a chi trafitto cade di lancia, e quivi ha termine

con i postremi raggi

della naufraga vita. E vien rapida morte.

 

Cassandra

 

Ahimè, ahi! Vedi, vedi! Tieni, tieni lontana

dal toro la giovenca!

L'afferra al peplo con le negre corna,

a tradimento lo colpisce: piomba

nel bagno molle.... - Di feral lavacro

insidïoso a te la storia narro.

 

A

 

D'essere acuto intenditor d'oracoli

vanto io non meno; e pur, somiglia questo

a presagio di male. Quale fausta parola

mai dissero i responsi? Ma ben con le sciagure

gli ambigui vaticinî

al cuor dell'uomo insegnano profetico terrore.

 

Cassandra

 

Ahi, me infelice! Al suo dolore mischio

il mio dolore! Oh povera mia sorte!

Perché, perché m'hai qui condotta, misera?

Perché con lui m'avessi una la morte?

 

A

 

Tu deliri. T'invasa furor divino: e intoni

su te díssono canto,

come il fulvo usignuolo

non mai sazio di pianto,

che, chiuso nel suo duolo,

Iti Iti per tutta la sua vita

piange, di mali innumeri fiorita.

 

Cassandra

 

Oh! la sorte del garrulo usignuolo! Le membra un Nume a lui cinse di penne; dolce vita gli die', scevra di lagrime. Me attende, a farmi a brani, una bipenne.

Ora, questa figura di vergine fatidica, voi profani la immaginate immota, sorda, perfettamente distaccata da tutto quanto la circonda, seguendo, con gli occhi sbarrati nel vuoto, l'intima visione dell'imminente scempio d'Agamennone: e quando l'orrore è giunto ad un culmine insostenibile, prorompe in quel grido straziante.

Nossignore, voi sentite e vedete male. Il Wilamowitz, il quale sa che al mondo non c'è effetto senza causa, dice che la fanciulla è indotta alla repentina esclamazione dalla circostanza che l'occhio le cade sopra l'idolo di Apollo, suo innamorato e causa prima delle sue sciagure; idolo di Apollo, il quale era poi un cono di pietra, il quale in origine era un paracarri, e si poneva innanzi ad ogni casa, come ci hanno insegnato i nuovi frammenti di Menandro. Visto il paracarri, allora no, Cassandra non sa piú stare alle mosse, e leva il suo grido d'orrore!19.

 

È proprio tempo di concludere. Codesti volumi, codesti commenti «filologici» son tutti ugualmente ameni, da cima a fondo? - Ah, no davvero! Se cosí fosse, sarebbero altrettanti capolavori d'umorismo, e i loro autori meriterebbero una nicchia accanto ai grandi benefattori dell'umanità. Piú spesso le loro «teorie» (i filologi tedeschi battezzano cosí ogni piú ovvia loro idea, ogni piú grama ipotesi) sono d'una monotonia tetra e asfissiante. Ma tutte, tetre o amene, si dimostrano, quasi sempre, prodotti dei seguenti fattori:

 

1) Uno spirito d'analisi minuto, microscopico, ma miope e freddo: uno spirito da revisore di conti, da curatore di fallimenti.

2) La trascuranza o l'inscienza degli elementi irrazionali che entrano nella tempera d'ogni opera d'arte.

3) La mancanza assoluta di sensibilità estetica.

4) Lo struggimento di elevarsi, nondimeno, ad una valutazione estetica: e le conseguenti amenità.

Le qualità medesime e i medesimi difetti si riscontrano in quasi tutte le opere della moderna e modernissima filologia tedesca - la filologia del kaiser, ben differente da quella che l'ha preceduta, che diede frutti insigni, e di cui mi occuperò nei prossimi articoli.

E la conclusione? - È ovvia, mi sembra. La filologia tedesca presenta la medesima preparazione metodica meticolosa e formidabile dell'esercito tedesco. Ma tale preparazione non conduce alla valutazione estetica, cioè alla intelligenza delle opere d'arte.

E se tale intelligenza è, come deve essere, lo scopo supremo d'ogni studio, la filologia del kaiser fallisce - come gli eserciti del kaiser - ai suoi scopi supremi.

Ecco il suo piede di creta.

 

 

 





13 Aischylos Agamemnon griechisch und deutsch, pag. 291; Iedenfalls ist die Symmetrie dieser wie ein Pelotonfeuer durch die Chorreihen hin und wieder laufenden unwilligen Äusserungen eine so vollständige, dass nicht nur die strophische Einteilung der Epodos als bewiesen gelten darf sondern hinfort auch nicht mehr gezweifelt werden kann, dass die Zahl der Choreuten in dieser Tragödie zwölf betrug, wie sich dies Resultat uns auch schon oben aus der Betrachtung der Parodos ergab. - Riferisco nel testo le piú amene di queste teorie, non per fare il tedesco, ma perché il lettore, sorpreso della loro enormità, non creda che io nella versione calchi maliziosamente la mano.



14 Die Eumeniden des Aischylos, erklärende Ausgabe von Friedrich Blass, pag. 14: das Blut ist natürlich nicht das der Mutter, sondern das des von Apollon geschlachteten Sühnopfers, cfr. v. 282 f.



15 Profetica anima mia! Un piccolo filologo ha infatti scritto e stampato che per lui l'opinione del Blass è sostenibilissima.



16 Vedi il mio volume Pindaro, Firenze, Casa editrice italiana, 1909.



17 Rivista, di Filologia e d'Istruzione classica, Anno XLIV, Fasc. I. Vedi anche l'altro mio scritto: Il contenuto degli scoli laurenziani di Eschilo, in Atti dell'Istituto Veneto, Tomo LXXV, pag. 849 sg.



18 Aischylos Interpretationen, pag. 172: Zufällig kann ich aus dem Canti popolari toscani (Rispetti 348) ein Liebesliedchen mitteilen, das sich mit der Rede Klytaimestras berührt. Ich glaube gern, dass griechische Skolien oder sonstige Volkslieder Ähnliches boten: dass lässt sich nicht nachweisen, aber ans welcher Sphäre der Dichter die Farben für die Heuchelei nahm, illustriert doch das Liebeslied.



19 Interpretationen, pag. 173. Es ist ein Schweigen, wie es Aristophanes an Niobe und Achilleus bewundert, wie wir es auch im Prometheus gefunden haben. Dann fällt ihr Auge auf den α̉γυιεύς, den Steinkegel des Apollon, der eigentlich nur der Prellstein ist, der vor jedem Hause steht, wie uns das gewöhnliche μὰ τὸν Απόλλω τουτονι bei Menander von neuem gelehrt hat. Sie beginnt mit Klagerufen. u. s. w.



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