Ettore Romagnoli
Minerva e lo scimmione

II.   IL CORVO CON LE PENNE DEL PAVONE

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II.

 

IL CORVO

CON LE PENNE DEL PAVONE

 

 

C'era una volta un corvo che saltabeccava beato e tranquillo nel bugigattolo d'un ciabattino. Un bel giorno trovò le spoglie d'un pavone; e invaghitosi di quelle penne versicolori, tanto piú appariscenti del suo piumaggio nero, se le mise indosso, e cosí camuffato, andò tra gli altri pavoni, nei giardini del re....

No, via, non divaghiamo: ripigliamo il filo. Nell'articolo scorso asserivo che, se chiedete agli iniziati in che cosa propriamente consista questa benedetta filologia, probabilmente otterrete tante risposte diverse quanti sono gl'interpellati.

E non c'è da farne meraviglia. Per ragioni che si chiariranno in questo articolo, i filologi si sforzano ad affermare e dimostrare che la filologia è tutt'altra cosa da ciò che essa è in effetto. E quest'altra cosa, naturalmente, ciascuno la vagheggia, la immagina, la definisce, secondo il proprio desiderio, la propria fantasia, il proprio ingegno. È troppo ovvio che ne derivi una babele. E ingenuità somma sarebbe quindi rivolgersi, per risolvere la questione, ad essi i filologi. Cercare la verità attraverso un dedalo d'errori, non è facile, non è piacevole, non è pratico: onde noi cercheremo di raggiungerla battendo una via maestra. Ora, qui, come in tutte le quistioni intricate, nulla giova tanto ad illuminare quanto il rifarsi dal principio. Sia dunque longanime l'amico lettore, ed abbia la pazienza di seguirmi in una rapidissima corsa, dalle origini, alla decadenza, mascherata da apoteosi, della filologia classica.

 

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La filologia classica sorge, come tante altre cose belle, in Italia. Senza parlare dei precursori, tra i quali, per altro, è Dante Alighieri, e i manualetti tedeschi non se ne accorgono, incomincia con Francesco Petrarca, salutato anche dai manualetti tedeschi, resuscitatore dell'antichità classica; e in breve giro d'anni vanta, per ricordare i sommi, il Boccaccio, Coluccio Salutati, Niccolò dei Niccoli, Leonardo Bruni, Giovanni Aurispa, il Guarino, Vittorino da Feltre, Poggio Bracciolini, Flavio Biondo, Ciriaco d'Ancona, il Filelfo, il Valla, Marsilio Ficino, Angelo Poliziano (muore il 1494), e, grandissimo epigono, Pietro Vettori (muore il 1585).

Francamente, è un pantheon davanti a cui impallidisce anche la kaiseriana superaccademia di Berlino. Si conceda pure ai manualetti e ai manualoni tedeschi che tutti questi umanisti - i quali però scrivevano il latino in guisa da rivaleggiare con Cicerone e con Orazio, mentre parecchi accademici di Berlino lo scrivono come sguatteri - non intendessero affatto il «contenuto» degli scrittori di Roma: si conceda che non intendessero né lo spirito né la forma dei poeti greci, sebbene vorrei vedere quanti dei filologi «scientifici» sarebbero capaci di scrivere versi greci come quelli di Angelo Poliziano, con quell'onda musicale, con quella nitidezza cristallina, con quella intensità di colore: si deplori col Voigt che questi umanisti fossero pieni d'orgoglio, a cominciare dal Petrarca, il quale, del resto, ne avrebbe avuto miglior diritto di qualche filologo tarpano: ai ammetta, si riconosca tutto questo e quante altre cose vogliono i moderni scienziati; ma rimane indiscutibile il fatto che essi, gli umanisti, svelarono al mondo moderno imbarbarito la radiosa civiltà degli antichi. Con un ardore che divampa tuttora dalle loro pagine tante volte secolari, con abnegazione e tenacia indomabili, a prezzo di stenti, di patimenti, di rischi, questi uomini meravigliosi, che accoppiavano l'ardimento dell'avventuriero alla pazienza del monacello amanuense, corsero il mondo a cercare in fondo ai conventi e tra le insidie di contrade barbare i preziosi manoscritti depositari dell'antica civiltà, li trascrissero, li pubblicarono, li lessero e commentarono alle genti attonite; fecero rivivere nell'uso, con tutto l'antico splendore, la fulgida lingua di Roma; tradussero da quel greco che «non conoscevano», e tradussero molto, e tradussero bene. E per merito loro il nome latino e il nome italiano suonarono, anche una volta, alti, gloriosi, per tutto il mondo civile.

E accanto all'opera loro si svolge, non meno20 ardente e proficua, quella dei «librai». Diamo un'occhiata, cosí alto alto, alle prime edizioni di classici. Dal 1465, anno iniziale, sino ai primissimi del '500, per una edizione dei Paradossi di Cicerone, apparsa a Magonza, per un Manilio di Norimberga, per un Terenzio e un Valerio Massimo di Strasburgo - e basta - abbiamo 16 classici stampati a Roma; 32 a Venezia (conto per uno gli Oratori attici); 6 a Firenze; 3 a Milano; ed altri a Subiaco, Bologna, Brescia, Napoli, Vicenza, Ferrara. E sia pure che molte di queste edizioni fossero provvisorie e da emendare con la collazione di nuovi codici; sia pure che qualche umanista, abusando della sua favolosa facilità nel latino, correggesse un po' troppo liberamente i testi; ma anche qui sussiste ineliminabile il fatto che, mentre tutto il mondo, Germania compresa, stava a guardare, gli umanisti italiani scopersero e pubblicarono tutti i principali classici greci e latini; li pubblicarono in edizioni in genere corrette, e, quando possedevano il materiale occorrente, meravigliose: tanto che, se confrontate qualche edizione aldina con qualche novissima edizione di Lipsia, passata per la trafila di cento collazioni, avete l'edificante sorpresa di trovarvi dinanzi al testo medesimo; li tradussero, e le loro traduzioni spesso rimasero base fondamentale di tutte le traduzioni future: li commentarono: in una parola, scopersero e diedero al mondo moderno quasi tutto il materiale per la conoscenza e per lo studio del mondo antico. Gli altri avranno fatto meglio di loro: ma tutti dopo di loro. Cose note, arcinote; ma non è male precisarle e ricordarle.

 

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Scoperta la terra, disegnata la configurazione generale, ecco avvicinarsi gli altri popoli, la cui attività comincia appunto quando quella italiana, raggiunta la piú ardua mèta, incomincia a declinare. Enrico Stefano ed Erasmo di Rotterdam, corifei dei due grandi periodi filologici francese ed olandese, nascono rispettivamente il 1460, il 1466: il principio della loro attività cade quindi fra il il 1480 e il 1490. Angiolo Poliziano, aquila ed usignuolo dell'umanesimo, moriva nel 1494. Gl'Inglesi vengono assai dopo; il Bentley, il loro corifeo, nasce il 1662. I tedeschi, qui come in tante altre cose, arrivano ultimi. L'Agricola, il Reuchlin, lo Schwarzert, non possono davvero passare per precursori: e solamente col Winckelmann (nasce il 1717) incomincia in Germania un vero risorgimento umanistico.

Il periodo francese è veramente gloriosissimo. Esso vanta, per non ricordare che i nomi piú famosi, tutta la dinastia degli Stefani, il Turnèbe, che Montaigne chiamò il piú gran letterato da mille anni ai suoi giorni, il Mureto, sovrano d'ogni eleganza, Giuseppe Giusto Scaligero, l'«aquila fra le nubi», il Casaubon, l'uomo piú dotto dei suoi tempi. Questi filologi, e i minori, ripubblicarono o pubblicarono i testi greci e latini con diligenza, con disciplina, con un materiale di studio che gli umanisti non possedevano ancora. La loro potenza di lavoro era formidabile, favolosa. Il solo Enrico Stefano (il minore), pubblicò 74 autori greci e 58 latini, fra cui diciotto edizioni principi. E questa non è se non la parte minore, il fregio della sua opera: il suo capolavoro immortale è il Tesoro della lingua greca (1572), che in cinque volumi in folio racchiude tutta la grecità. È, sino ad oggi, l'unico gran dizionario greco: è opera di dottrina e genialità infinite: da esso derivano, piccoli rigagnoli, tutti gli altri vocabolarî, compresi il Passow ed il Pape, tedeschi, famosi, e mediocri. - Prima di lui, Roberto Stefano aveva pubblicato il Tesoro della lingua latina (1531), che rimase anch'esso unico sino al lessico del Forcellini, italiano, che anche ora giganteggia su tutti gli altri. Cinque accademie tedesche hanno adesso radunati gli sforzi per compilare un nuovo vocabolario. Ma chi sa quando sarà finito, e chi sa come sarà finito. Per il poco che ne possediamo, si presenta, al pari di tante modernissime operone tedesche, come un mare magno. E non è detto che non vi si possano pescare anche granchi.

Per tornare alla filologia francese, accanto a questi due monumenti degli Stefani, bisogna collocare i Glossarî della media ed infima latinità e grecità del Du-Cange (1678-1688), la sua edizione degli storici bizantini, e la Paleografia e la Biblioteca dei manoscritti di Bernardo di Montfaucon.

Colgo i punti culminanti; e quanto al periodo olandese, che corre quasi parallelo al francese, mi limiterò a ricordare il Lipsio, il Meurs, il Grozio, il Gronovio, la cui opera amplia ed integra in certo modo quella dei filologi francesi.

Ora, in questo periodo che diremo, per intenderci, franco-olandese, si precisano meglio il cómpito e gli scopi della filologia, rimasti nel periodo umanistico un po' indeterminati e confusi. Gli umanisti italiani, nel loro sconfinato entusiasmo, avevano voluto quasi cancellare il torbido periodo dell'età di mezzo, riallacciare a Roma e ad Atene il pensiero e l'arte contemporanea, far rivivere il passato. Sbollita la prima ebbrezza, si vide quanto fosse chimerica tale aspirazione. Rievocare il pensiero e l'arte antica, assimilarli, cercare in quel primo radioso periodo della nostra civiltà fulcri ed impulsi per i futuri progressi, andava bene; ma vuotare la vita attuale del suo contenuto per iniettarvi quello di un'altra epoca, non era possibile e sarebbe stato male. Gli umanisti francesi ed olandesi, piú o meno compiutamente, restrinsero e definirono con gran chiarezza l'essenza e il cómpito della filologia classica. Pubblicare gli scrittori antichi nella forma presumibilmente piú vicina alla forma originale; e per giungere a questo risultato, radunare tutti i codici conservati di ciascun autore, correggerli ed integrarli col paziente confronto. E intorno a questi autori, raccogliere quante notizie antiche servissero ad illustrarli.

Tale il programma. Programma non clamorosamente bandito, bensí strenuamente, pazientemente attuato. Allora non c'erano tante «teorie», tanti contrasti di metodi, tante imposizioni. E non ce n'era bisogno. L'opera era molto ardua nella pratica; ma quanto ai criteri generali, per menti lucide come quelle, non potevano sorger dubbî. Nessuno di quei gagliardi si dev'essere proposta mai la domanda che sembra angosciar tanto le menti tedesche: che cos'è la filologia. Badarono ad operare, ed operarono a bono, E se anche tutto il lavoro filologico compiuto dopo di loro andasse perduto, potremmo ancora, senza troppo disagio, leggere tutti i classici greci e latini. Furono lavoratori ciclopici.

Lavoratori solamente? - Certo l'aureola che cinge i nostri umanisti non circonda le loro fronti. Altro è scoprire una terra, altro è metterla in valore. Il giudizio del mondo che, a lungo andare, tribuisce a ciascuno il suo, colloca questi dotti in una sfera un po' meno luminosa di quella in cui brillano il Filelfo, Marsilio Ficino, Angiolo Poliziano; ma suonano tuttavia immortali i nomi degli Stefani, del Mureto, del Grozio, del Du-Cange.

 

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Un passo innanzi si deve al Bentley, con cui comincia dunque la filologia inglese. Il Bentley è una di quelle menti inglesi d'acume indefettibile, che fissano, senza offuscarsi un momento, i problemi piú abbacinanti. Qualche filologo alla tedesca volentieri trova da apporre al suo gusto; ma insomma egli guardò veramente con occhio nuovo tutto l'immenso materiale della dottrina classica, e vide quasi dappertutto fatti e fenomeni sfuggiti ai piú acuti indagatori. A lui si deve la scoperta del digamma in Omero, dalla quale rampollarono tante verità in parecchi ordini di studî; egli intuí il vero studio scientifico della metrica; e molte delle vie che batté21 poi con tanto clamore la filologia tedesca, furono, in realtà, dischiuse da questo grande Inglese. Ma né di lui né di altri pure insigni, che mossero sulle sue orme, posso parlare piú a lungo: non voglio però tacere che in questo milluogo di studio sorge anche Giorgio Grote, che, vissuto sempre nel mondo bancario, scrisse una storia della Grecia che rimane, per chiunque non sia acciecato da pregiudizi filologici, mirabile e insuperata.

 

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Ed eccoci infine alla Germania, cioè al punto capitale della nostra discussione. E qui abbia un po' di pazienza il lettore, e freni per un momento qualche obiezione che potesse affacciarglisi. Per chiarezza d'esposizione, devo enunciare fatti fondamentali, senza tener conto, volta per volta, di minori fatti concomitanti, che sembrerebbero talora smentirli. Ad uno ad uno riesaminerò poi questi fatti: ora debbo cogliere i punti essenziali. La matassa è arruffatissima; e se non sbrogliassimo i capi uno per uno, non arriveremmo in fondo.

Iniziatori della rinascenza classica in Germania furono non già eruditi, bensí l'araldo dell'arte greca, Winckelmann, lo scienziato poeta, Humboldt, e grandi scrittori e poeti: Lessing, Herder, Klopstock, Goethe, Schiller. Il battesimo fu meraviglioso, e se ne vide il buon frutto; ma questo è uno dei punti cui dovremo troncare.

Dunque, il periodo filologico tedesco comincia tardi. Ma è doveroso soggiungere che è però d'una fecondità straordinaria: se oggi contate l'esercito dei filologi tedeschi, esso stritola senz'altro gli eserciti riuniti di tutto il resto del mondo. Che se poi domandate ad un filologo benpensante quali siano i tratti caratteristici del movimento filologico tedesco, egli vi risponderà senza dubbio:

1) Una metodologia piú raffinata, sicché solo coi tedeschi la filologia diviene veramente scienza.

2) Un approfondimento delle discipline filologiche.

3) Un ampliamento delle sullodate discipline.

4) L'organizzazione del lavoro scientifico.

Questa organizzazione è, in fondo, la parte fondamentale, che diventa poi fabbrica di esportazione, mezzo d'espansione, strumento di conquista: merita d'essere discussa a parte. Per ora, occupiamoci degli altri tre punti, e vediamo che liquore si nasconda, in realtà, dietro i seducenti cartellini.

1) Metodologia scientifica. - Nessuno ignora che i tedeschi hanno la mania di fabbricar teorie. Metteteli al punto, e vi scrivono un volume di mille pagine sulla «teoria» d'infilarsi la giubba. Cosí fecero per la filologia, - Nel confrontare diversi codici per derivarne la lezione presumibilmente piú vicina al testo originario, nell'emendare secondo la grammatica e le norme stilistiche l'archetipo cosí derivato, e in simili altre bisogne filologiche, conviene certo seguire certe regole. E il buon senso le detta, e i grandi filologi in genere le avevano seguite senza sciorinarle, senza organizzarle né farne pompa, I tedeschi formularono, riunirono, codificarono, articoli, commi, sottocommi. Ricordo un professore di storia che all'Università ci intrattenne per un anno intero sulla metodologia, insegnandoci che conveniva citare sempre l'ultima edizione scientifica, e quando si riferiva un brano d'un altro scrittore, avvertire che non era nostro, e chiuderlo fra virgolette, e citare la pagina precisa, e mettere un sic fra parentesi se l'opinione non ci persuadeva, e via di questo passo.

Dunque, metodologia, asfissía. Ma in conclusione, ciascuno lavora secondo il proprio genio. Se i tedeschi per filar diritto hanno bisogno di tutti questi «freni teorici», adoperino pure questi freni teorici. L'essenziale è che non deviino, che il risultato sia buono.

E a dire il vero, per il lavoro filologico, secondo il concetto determinatosi nel periodo francese - raccogliere, dunque, e ordinare, - i tedeschi possedevano qualità di prim'ordine: pazienza, resistenza, tenacia. A nessuno passerà per la mente di scemar valore ad opere insigni come, per es., il Corpus delle iscrizioni greche del Boeck, la raccolta dei frammenti dei comici del Meineke, la edizione plautina dei Ritschl, l'Aglaophamus del Lobeck - semplice raccolta di materiale anche questa, checché possa sembrare ai filologi impenitenti.

2) Approfondimento. - Qui cominciano le dolenti note: in questo approfondimento ebbero ampio campo da esplicarsi alcune delle meno buone qualità del tedesco.

I tedeschi hanno mente disordinata. Regolare un complesso d'idee secondo una linea logica, precisa, sobria, come fanno senza sforzo un italiano, un francese, un inglese, non sanno: quasi ogni loro scritto, anche dei grandi, è perpetua prova di tale affermazione. Il meticoloso ordine di tutti gli oggetti materiali che meraviglia, seduce, ammalia tanti allocchi migrati in Germania, non è se non una difesa, un argine contro questa incoercibile tendenza delle loro idee a scompigliarsi, a sparpagliarsi.

I tedeschi hanno mente poco lucida. Nel diaframma della loro intelligenza le cose si riflettono senza nitidità di contorno, circondate di nebbia, coi lembi sfumati e reciprocamente confusi. Cosí vedono da per tutto oscurità, e quindi punti da chiarire, cioè problemi da risolvere, dove non c'è niente da chiarire né da risolvere. In tempi non sospetti, Giacomo Leopardi, la cui mente ebbe sempre lucidità empirea, aveva già fatto questa osservazione:

 

Che non provan sistemi e congetture

E teorie dell'alemanna gente?

Per lor, non tanto nelle cose oscure

L'un di tutto sappiam, l'altro nïente,

Ma nelle chiare ancor dubbî e paure

E caligin si crea perpetuamente.

 

I tedeschi, per solito, stanno terra terra, salciccia, pipa, e gotto di birra. Ma se, dio ci scampi e liberi, spiccano il volo, eccoli d'un balzo tra la piú fitta nuvolaglia metafisica. Nel cielo azzurro e limpido, nessuno ha mai visto un tedesco, se non brevi istanti, e quando s'era perfettamente infrancesato, come Heine, o grecizzato, latinizzato, italianizzato, come Goethe: e nemmeno bastava.

Tutte queste qualità negative trovarono dunque fertilissimo terreno nell'«approfondimento» della filologia. E seguendo, secondo il genio della propria stirpe, le vie dischiuse dal Bentley, produssero, con fecondità da conigli, centinaia, migliaia, miriadi di scritti, in cui si approfondiva, cioè si costruivano castelli in aria i piú goffi, i piú grotteschi, i piú sbilenchi. Bisogna, come ho dovuto far io, aver letto a migliaia codesti opuscoli, e vedere che cosa sono stati capaci di arzigogolare filologi, anche di nome insigne, su miseri frammenti di poeti, su innocenti figurazioni di vasi greci, per provare dinanzi a questo approfondimento tutti i sintomi del mal di mare. Il frutto, non piú sollazzevole, ma certo piú cospicuo dell'approfondimento, è la questione omerica. Milioni di pagine, tra cui ne n'è da disgradare le amenità di Pulcinella. Oggi i filologi per primi riconoscono che tutta la questione era sbagliata, che tutte quelle pagine non hanno veruna ragione di esistere, che chi ha impiegato mesi e mesi per studiare tutte le teorie del Wolf, del Lachmann, del Hermann, si trova ora con un pugno di mosche in mano - sono parole, sacrosante, di Giuseppe Fraccaroli. Ma io ricorderò sempre un antico mio compagno d'università, preconizzato luminare degli studî ellenici, perché «conosceva a fondo la quistione omerica». Omero, poi, non l'aveva letto, e se l'avesse letto non l'avrebbe capito.

 

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3) Ampliamento delle discipline filologiche. - Questo «ampliamento» risale a Federico Augusto Wolf. Il quale di punto in bianco, identificò la filologia, o meglio la battezzò: Scienza dell'antichità; e le subordinò ventiquattro, dico ventiquattro, discipline, che viceversa, poi, sono di piú, perché molte si potrebbero sdoppiare. Ve ne risparmio per ora l'enumerazione, che c'è da fare una questione pregiudiziale. Che bisogno c'era di questo ampliamento?

Non ce n'era proprio nessuno. Il contenuto e gli scopi della filologia s'erano venuti precisando e determinando nei periodi francese, olandese e inglese: non c'era che da seguire la via tracciata.

E dunque, che cosa pote' indurre il Wolf a questo prodigioso ampliamento? Il bisogno, innato in ogni alemanno, di cercar mezzogiorno alle due pomeridiane? La mania d'annessione, nella quale parecchi vogliono oggi riconoscere la qualità fondamentale del carattere tedesco? Forse. O forse un altro movente, non dirò nobilissimo, ma certo umano: e i filologi non sempre si librano al disopra delle umane miserie.

Ecco. Dopo il momento umanistico, dopo i periodi francese, olandese, inglese, cominciando ad esaurirsi il materiale di studio, sfiorendone di giorno in giorno la freschezza, veniva sempre piú in luce un carattere della filologia, che nei primi entusiasmi era come sparito: il suo carattere di mezzo e non di fine, di transitorietà e non d'immanenza. La filologia si mostrava quale essa è veramente, non una scienza a sé, bensí un metodo di lavoro. Ma cosí sparivano gli ultimi raggi dell'aureola che aveva già circondata la fronte dei nostri umanisti: cosí la maestà del filologo discendeva ancora d'un grado.

Ed ecco il colpo di stato di Augusto Wolf, e la conseguente annessione delle ventiquattro provincie. La filologia semplice mezzo, metodo, disciplina scientifica? La filologia è la scienza delle scienze: essa le abbraccia tutte, come l'imperatore di Germania abbraccia o abbraccerà tutte le nazioni del mondo: dalla filologia, come dal kaiser, raggerà la luce su tutte le genti.

Le conseguenze del colpo di stato furono molteplici e varie, e in questo articolo è proprio impossibile discuterle. Ma fin d'ora accennerò a quella strettamente connessa con la nostra domanda iniziale: alla babelica discordia nelle ulteriori definizioni della filologia.

I filologi alemanni, dunque, si trovarono di punto in bianco dinanzi a questo mostro, a questo ircocervo, che era uno ed era ventiquattro; e non vi so dire se, con la disposizione sortita da madre natura per le lucubrazioni apocalittiche, si sbizzarrirono a studiarlo, a sviscerarlo, a definirlo. E ognuno enunciava la sua teoria. Un dilettante di teratologia può con molto frutto andarle a scovare. Io non le infliggerò al lettore, che, del resto, può vederne discusse alcune in un bell'articolo di Raffaele Onorato (Nuova Antologia, 16 maggio 1912). Ma non voglio defraudarlo di quella dell'Urlichs, che apre il famoso Manuale della scienza dell'antichità classica di Iwan von Müller, una lunga serie di volumoni che comprendono l'alfa e l'omega di tutta l'odierna scienza filologica. Dunque, secondo l'Urlichs, la filologia è la scienza dell'idealità concreta. Essa deve dimostrare «la validità e il senso delle antiche testimonianze, la connessione delle manifestazioni singole con le maniere collettive di pensare e d'intuire dell'antichità». E cosí «nelle sublimi creazioni di spiriti originali, offre efficace correttivo alla comune ipervalutazione del realismo utilitario, perché stimola la fantasia, impegna l'intelletto, arricchisce il cuore e acuisce l'ingegno». - Come un aperitivo Dulcamara. Oh dove sei tu, ché in Italia non ti vedo, ombra che pensavi di Gian Domenico Romagnosi!

La risposta è molto filosofica. Ce n'è però una molto piú semplice. La filologia è e dev'essere, né piú né meno, quello che è stato nei grandi periodi classici. Deve preparare edizioni corrette, e vicine, il piú possibile, al testo originario: deve intorno ai testi raccogliere, con la maggior sobrietà possibile, il materiale illustrativo. Arrivato a questo punto, il filologo, in quanto filologo, ha esaurito il suo compito. Se poi oltre che attitudine e spirito filologico, possiede anche autentiche attitudini storiche, critiche, estetiche, scriva storia, critica, letteratura: ma a codeste belle cose, le attitudini puramente filologiche non servono proprio un bel corno; o servono a spacciare amenità, come quelle, documentate nell'articolo scorso, del Keck, del Wilamowitz, dei loro tirapiedi italiani. A scrivere storia, letteratura, critica, si richiedono altre qualità, che non s'acquistano, per trasfusione divina, con la patente di dottore in filologia. Dunque i filologi facciano i filologi all'antica, e non vadano oltre. E che c'è da vergognarsi, ad essere filologo puro?

Il corvo! Ha il brutto vezzo di scarnificar le carogne; ma non è mica un brutto animale, il corvo! Nel bugigattolo del ciabattino, con le ali un po' mozze, col becco grosso e duro, nero nero, lustro lustro, è un sollazzo vederlo saltabeccare qua e , scavizzolando e ingollando chicchi di granturco, bottoncini da scarpe, e in genere ciascun oggettino che luccichi. E perché gli dovrebbe venire lo struggimento d'andare a far la ruota fra i pavoni, nei giardini del re?

 

 

 





20 Nell'originale "mene". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



21 Nell'originale "batte'". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



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