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IV.
Dunque, la formidabile macchina della filologia scientifica, incominciò ad entrare in funzione.
E prima di tutto, mutò la posizione del filologo dinanzi alle materie del suo studio. Il povero umanista, di fronte alle opere degli antichi, stava, come un innamorato, in atto di perenne adorazione. I filologi scientifici se lo figurarono e lo gabellarono per un semplicione tutto facilonità e dabbenaggine, pronto a sdilinquire per ogni pius Aeneas di Virgilio (testuale). Su questo fantoccio tirarono a palle di fuoco, lo abbatterono, lo calpestarono. E assunsero poi, di fronte ai poeti, ai pensatori, agli storici antichi e moderni, la posizione obiettiva.
Sicuro. «Lo scienziato - dicevano - non deve lasciarsi prender la mano dall'entusiasmo. Che direste d'un chimico, d'un anatomico, d'un patologo, che indulgesse al sentimento, alla passione, alla sensibilità estetica, nella determinazione d'un peso atomico, nell'analisi d'un fascio di fibre, nella descrizione d'una colonia di batterî? Lo scienziato deve rimanere sereno, freddo e impassibile. E sereno, freddo e impassibile deve rimanere il filologo, che è anch'esso uno scienziato, nello studio dei fenomeni storici letterarî artistici».
«L'interprete filologo - scriveva ancor ieri un macellaro filologo, che ha sconciamente sbrandellato Virgilio, e che studiosi italiani hanno avuto il fegato di lodare - deve, a servizio delle sue ricerche trascendentali, trattare il coltello con mano sicura, e piantarlo a fondo, senza riguardo a ragioni sentimentali»23.
E in base a questi ragionamenti, la cui fallacia fu chiarita nello scorso articolo, ecco il filologuccio tedesco inforcar gli occhiali a stanghetta, sedere a scranna, e assumere con molto sussiego, dinanzi ad Omero ad Eschilo a Tucidide a Lucrezio ad Orazio a Tacito, la posizione obiettiva. Lasciate cioè le frasche sentimentali, passionali, estetiche, Herr Philologus si mise, come i cultori delle scienze esatte presi a scimmieggiare, a fabbricare strumenti di precisione, a dettare norme metodiche, a creare algoritmi, a fondar teorie, a scuoprire leggi.
Strumenti di precisione. - Dizionarî generali, dizionarî speciali, grammatiche, repertorî, prontuarî, manualetti e manualoni, e indici di ogni specie, costruiti con meticolosità infinita. Ne ho parlato e ne riparlerò.
Norme metodiche. - Anche di queste ho fatto cenno. Nella bisogna filologica si presentano varie operazioni. Decifrare i codici, trascriverli, raffrontarli, compilare liste di varianti, portare tutto al tipografo, correggere le prime, le seconde, le terze bozze, e via dicendo. Tutte queste operazioni furono scrupolosamente distinte, classificate. E per ciascuna di esse si stabilirono norme metodiche. Già dissi che qualsiasi persona intelligente codeste norme le possiede pel solo fatto che ha un cervello. Esempio: se due codici, A e B, presentano il medesimo testo, si possono fare due ipotesi: o l'uno dei due deriva dall'altro, o tutti e due derivano da un terzo. Herr Philologus pensò che questa e simili altre peregrine verità non potessero balenare alla prima a qualsiasi mente, e le espresse con formule teoriche, e le raccolse in appositi manuali ad uso dei neofiti.
Algoritmi. - Son dunque i segni e le cifre convenzionali che la matematica e le altre scienze esatte creano per rendere piú spicci i calcoli. La filologia si fabbricò anch'essa algoritmi, stabilendo un segno convenzionale per ciascun numero del bagaglio classico (opere, codici, etc), e per ciascuno strumento della sua ricchissima suppellettile scientifica. Il terzo canto della Iliade? Basta scrivere Γ, spiccio spiccio. - Il quinto dell'Odissea? Basta ε. - Rendiconti dell'Accademia di Monaco? Stz. d. b. Ak. - Codice laurenziano d'Eschilo? Si scriva A, e bott lí.
Tutte cose, in apparenza, innocenti come l'acqua, e magari, a tempo e luogo, opportune ed utili. Se non che, quando Herr Philologus si trovò a manovrare con codeste sigle misteriose24, immaginò subito d'essere un nuovo Newton alla caccia di qualche nuova legge universale. Guardate un po'. L'astronomo scrive, per esempio:
θέλεν Μθέλει A b f del. Karst. N. I. Ph. III, 48, 3, cfr. Wil. Her. 121.
Quale delle due formule è piú scientificamente decorativa? Quella dell'astronomo o quella del filologo? - Herr Eselkopf nuotava nel latte e miele: e cominciò a concepire per le menome deiezioni del suo cerebro augusto, una tenerezza, una stima, una ammirazione illimitate. E coniò una terminologia cònsona ai sentimenti. Se scavizzolava in qualche ignoto scoliasta la notizia che Euripide, putacaso, mangiasse busecca nelle feste Lenèe, questa era la scoperta di Eselkopf. Se si figurava che Sofocle avesse imitato alcuni versi di Eschilo, questa era la teoria di Eselkopf. Se con una accurata statistica vi dimostrava che quella mala zeppa di Aristofane nutriva spiccatissima predilezione per una certa parola alla quale dànno vivo sapore d'attualità i virili costumi della Germania di Guglielmo, la dimostrazione di questa predilezione diveniva la legge di Eselkopf.
Ma voi capite che quando un mortale ad ogni pie' sospinto fa una scoperta, ad ogni parola sputa una teoria, con ogni articolo stabilisce una legge, allora questo mortale è lontano assai dalla misera terra, è già prossimo, oh Pindaro, alle bronzee soglie d'Olimpo.
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Coi nuovi acuminati strumenti Herr Philologus procede' alla revisione scientifica delle letterature antiche e moderne.
E prima di tutto, accumulò sassolini, sassolini, sassolini, cioè fatti, fatti, fatti. Col sussidio dei suddetti strumenti, mercé i quali il primo venuto può fare in dieci minuti una ricerca che, per esempio, ad Enrico Stefano sarebbe costata mesi e mesi, Herr Philologus si fu presto cacciato in tutti gli anditi, in tutti i ripostigli ed i buchi dell'arte e del pensiero antico. In ogni momento della sua vita egli vi sapeva dire quanti και si trovano in ciascun dialogo di Platone, e in che proporzione; vi enumerava tutti gli schemi metrici delle elegie di Tibullo; vi diceva quante volte fa e quante volte non fa posizione la tal consonante doppia in Omero. Ma ancora questi fatti non erano abbastanza positivi, abbastanza cibanti, per lo stomaco di Eselkopf, uso alla salsiccia, alla birra, al sauerkraut. Eselkopf ne cercava di piú sostanziosi. E non dormiva i sonni tranquilli finché non avesse saputo per filo e per segno che qualità di papiro adoperasse Pericle per scrivere i bigliettini dolci ad Aspasia, con che lardo Orfeo ungesse i bischeri della sua cetera, e come si chiamassero e che mestiere esercitassero lo zio e il prozio e l'arcibisnonno di qualche tanghero scazzottatore celebrato da Pindaro (Wilamowitz). E quando poi si trovò cosí addentro nei fatti di casa del mondo classico, quando ebbe frugato e rifrugato ben bene in tutti gli angoli, anche nei meno puliti, allora Eselkopf si credette e si proclamò sovrano assoluto di quel mondo. Come se il topo della reggia, che va a ficcare il muso in buchi inaccessibili anche ai mozzi di stalla, si figurasse di regger lo scettro, e di sedere in trono, ammantato di porpora.
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Un sovrano assoluto può introdurre nel suo regno le mutazioni che piú gli garbano. Ed Eselkopf procede' bravamente a parecchie riforme che gli sembravano urgenti.
Prima mutò le livree. Dalle sue sterminate cognizioni gli risultava che, per esempio, gli scrittori greci del quinto secolo non adoperassero, per designare il suono s, quei segni σ e ς che s'erano usati sino alla nuova proclamazione scientifica; bensí l'unico segno c. Alla squisita sensibilità estetica di Eselkopf, tutti quei σ davano noia. E con gran solennità, nelle nuove edizioni, introdusse la nuova, cioè la piú antica forma.
Dalle livree passò a qualche ritocco sulla viva carne, come si mozza la coda o si tosa il pelo a un bull-dog o ad un maltese. Per esempio, Eselkopf sapeva che Saffo aveva scritto in dialetto eolico; e vedeva che certe forme delle poesie di Saffo giunte sino a noi non corrispondevano alle forme eoliche quali avrebbero dovuto essere secondo i paradimmi dei suoi manuali. Ed Eselkopf mutò senza esitare le forme: perché, secondo lui, Saffo, artista liberissima e capricciosissima, in un tempo in cui non esistevano né regole né grammatiche, avrebbe dovuto scrivere in dialetto eolico obbligato.
À tout seigneur tout honneur. Il tiro piú bello lo fecero ad Omero. Un certo Fick - che dico? l'insignissimo filologo scientifico Fick, fittosi in capo che la forma originaria dei poemi omerici dovesse essere differente da quella che possediamo, in un dialetto eolico ricostruito teoricamente, si prese la scesa di testa di tradurre da cima a fondo i poemi di Omero in codesto eolico teorico, e di presentarli al mondo scientifico come la vera autentica lezione, quella uscita diritta diritta dalle labbra del non mai esistito cantore d'Achille. E non lo mandarono al manicomio. Anzi io rammento di averlo sentito proclamare solennemente, da una cattedra dell'Università di Roma (non di letteratura greca, per fortuna), principe degli omeristi.
E dopo le tosature, vennero i tatuaggi e le multiformi mutilazioni degli emendamenti. Tutte le volte che non capiva, ed è incredibile quanto spesso i tedeschi non capiscano le cose piú ovvie, Eselkopf, senza esitare un momento, emendava. Non saprei dire a che punto giungesse la aberrazione degli emendamenti. Aprite l'Eschilo commentato dal Wecklein. Ad ogni pie' sospinto, dove non ce n'è il menomo bisogno, dove tutto è chiaro, Wecklein sovrappone o sostituisce il tran tran del suo grecuccio teutonico alla divina armonia di Eschilo, e spesso senza neppure avvertirvi della sostituzione. È uno spasimo. Se avete senso d'arte, una ribellione vi solleva le intime viscere. E nessuno dei poeti greci e latini si salvò dalle oscene manipolazioni.
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Se non che, numera και, cambia terminazioni, volta in eolico, avvenne a poco a poco un fenomeno curioso: avvenne che ad Herr Philologus codesti famosi classici non parvero poi quelle meraviglie che avevano detto gli umanisti. Ed è naturale. Prendete Elena argiva, uccidetela, scuoiatela, e non vi rimane che un pezzo anatomico ributtante. E analogamente, nelle opere di poesia e di pensiero, fate astrazione dagli elementi sentimentali, passionali, estetici, e vi resta una putrescente poltiglia di vocaboli. Herr Philologus, pituita grossa come gli scarponi, non sentiva il lezzo di cadavere. Herr Philologus procedeva gagliardo alla bisogna, numerava, comparava, moltiplicava sillabe, punti, virgole. E siccome, manipola, manipola, codesta grandezza magnificata dagli esteti Herr Philologus non la vedeva; e siccome Herr Philologus, scienziato per grazia del kaiser e dell'accademia di Berlino, non poteva ammettere d'essere un ottuso; con un rapido passo delle zampe elefantesche, Herr Philologus passò dalla obiettività alla svalutazione.
Già. Avvenne proprio come quando, ai tempi barbari, non raggiando ancora sul mondo la luce della Kultur, un povero europeo naufragava in qualche inospite plaga dell'Africa o dell'Australia: che gli aborigeni, prima lo pigliavano per un dio e lo adoravano; poi, a mano a mano, gli tiravano il naso e le orecchie; quindi lo mettevano in una stia ad ingrassare; e infine lo accoppavano e ne imbandivano succulenti manicaretti. Cosí i filologi tedeschi. Cominciarono, con Winckelmann, con Lessing, con Goethe, a idolatrare i Greci e i Romani, e ad assumerli modelli per dirozzare i proprî costumi, la lingua, lo stile. Poi, preso coraggio, vennero le benevole confidenze: il ganascino a Catullo, una tiratina d'orecchi a quello sporcaccioncino di Tibullo, un colpetto di palma sulla pancetta pulcinellesca di Plauto. Poi cominciarono le parole grosse e gli scappellotti. Cicerone era un mozzorecchi, Livio un leccazampe contafrottole, Orazio uno scimmiotto dei Greci, e bazza a chi tocca. Ma le incursioni tentate dalla bordaglia scientifica in territorio latino, gustosissimamente scorbacchiate in una poesia dello Zanella, sono note a tutti. Meno risaputo è che da qualche tempo i filologi lanzi hanno rivolto i quattrocentoventi del loro metodo contro il Partenone.
Sicuro. Per esempio, il signor Richter, oberlehrer (leggi caporal maggiore) nel ginnasio di Breslau, in un aureo libro in cui una serie di riassunti (il forte dei tedeschi) si dàn l'aria d'uno studio tecnico sulla drammaturgia di Eschilo, dirà pari pari, a proposito della prodigiosa Orestea, che appena si riesce a concepire una maniera piú unilaterale e superficiale di trattare la poderosa materia25. Oh, se l'avesse trattata il caporal maggiore, con la rinocerontesca profondità alemanna!
Pindaro, quei campanari dei Greci suoi coetanei si deliziavano tanto all'armonia dei suoi versi, che incisero in lettere d'oro tutta una sua lunga ode, la Olimpica VII, sulle pareti del tempio di Atena Lindia. Ma il Wilamowitz, quello che scuopre le fonti d'Eschilo negli stornelli di Lamporecchio, e che è professore all'Università di Berlino e consigliere intimo del kaiser, ha l'orecchio piú fine di tutti gli antichi Greci messi in un fascio. E quindi assevera che il poeta di Tebe, essendo beota, non riusciva ad esprimere bene i suoi concetti, non sapeva costruire bene le sue frasi e render chiaro il nesso dei suoi pensieri mediante le ricche particelle della lingua greca, non aveva il menomo orecchio per molte regole di eufonia universalmente riconosciute (in Germania?): sicché le sue perifrasi convenzionali penzolano flosce flosce26. Ho tradotto alla lettera. E che bocciatura gli avrebbe appioppata, Wilamowitz a Pindaro, se questi si fosse presentato all'esame di greco a Berlino! - E in Italia lo spalleggiarono. Sicuro. Un uomo di gran nome accademico, che non era ellenista, ma era filologo27, popolarizzaudo in un suo scritterello codeste preziosità wilamowitziane, precluse la via perfino alla discussione, sentenziando che in simili questioni avevan diritto di giudizio solamente i pari. Intendeva forse gli accademici di Berlino. Deutschland ueber alles! Vada al diavolo l'arte classica, ma rimanga intatta, e neppur sospettata, la moglie di kaiser, l'accademia di Berlino, che dà le croci di ferro. E non soltanto di ferro.
Adesso poi l'hanno presa anche con Omero. Ed ecco come.
Corinna, emula di Saffo, gli antichi la chiamarono mosca, e non certo per dimostrarle soverchia ammirazione. Quello che di lei conoscevamo fino a poco tempo fa era davvero troppo poco per valutare la convenienza di tale epiteto; ma nel 1906 uno dei famosi papiri ci diede un paio di frammenti abbastanza importanti. Si faccia coraggio il lettore, e scorra la versione, che io gli sottopongo, del piú lungo di essi. C'è dunque un profeta, il quale consola il fiume Asopo, indignato, non sappiamo perché, contro i Numi, e gli rammenta che questi ebbero la degnazione di fecondargli nove figliuole28.
«Delle tue figlie, tre ne possiede Giove padre, sovrano d'ogni cosa; tre ne sposò il signore che governa il ponto; di due Febo governa i talami;
ed una l'ebbe Ermete, il buon figlio di Maia: ché cosí Amore e Cipride li convinsero a venire nascostamente alla tua casa, a rapire le nove giovinette.
Esse daranno alla luce una stirpe d'eroi semidei, e saranno molto feconde ed esenti da vecchiaia, secondo mi convince il tripode fatidico.
Questa dote ottenni solo io fra cinquanta gagliardi fratelli, e fui profeta degli àditi venerandi, avendo ottenuto di profetare senza menzogna.
Ché il figlio di Latona concesse ad Euonimo di bandire per primo oracoli dai suoi tripodi. - Lo scacciò poi dalla terra, e conseguí per secondo tale onore, Urièo
figlio di Posídone; e poi lo ebbe Oarione, mio genitore, che riconquistò la sua terra. Ma esso ora abita in cielo, ed io ottenni questa carica.
Perciò dico i veri responsi. E tu desisti dalle tue liti con gl'Immortali29.
Cosí disse il santissimo vate. Ed Àsopo, lietamente presolo per la mano, e versando pianto dagli occhi, gli rispose cosí».
Coraggio lettori, la risposta dell'Asopo non c'è, e l'altra poesia ve la risparmio. Se la traducessi, comincereste a comprendere sempre meglio la mosca degli antichi: questi due frammenti son proprio ronzii. Ma insomma, il caso potrebbe anche aver giuocato un brutto tiro alla povera Corinna; e né io né voi ci arrischieremmo a pronunciare ancora un giudizio.
A Wilamowitz questo coraggio non manca. I discorsi di Pindaro non gli vanno giú30; ma questa pappolata dell'ignoto profeta di Corinna proprio gli rifinisce: e fa alla signora poetessa tanti bei complimenti. E transeat, e vada a conto della cavalleria, il forte dei nipoti di Wodan. Ma non è contento, se, per effetto di contrasto, non tira un calcio a un poeta maschio; e questa volta azzecca Omero. Asseverato che i frammenti corinnei offrono, come pendant all'epica ionica (quella d'Omero), un saggio dell'epica dorica, proclama al mondo che essi lo soddisfano assai piú delle sganasciate opere dei rapsodi che vanno sotto il nome di Omero e di Esiodo31.
Quando ho veduto questa roba, ho creduto sul serio d'aver le traveggole; tanto piú che mi sembrava di ricordare che, sulla base dei frammenti di Corinna già conosciuti, miseri anch'essi, ma certo piú graziosi dei nuovi, il Wilamowitz in altri tempi avesse espressi giudizî poco favorevoli sulla povera poetessa. Ho riletto la pagina due o tre volte, ho provato a leggere dall'ultima parola alla prima, ho messo insieme le lettere iniziali, per vedere se in queste apparenti grullaggini il Wilamowitz avesse nascosto, per manía acrostica, qualche arcano aforisma filologico. Niente: dice proprio cosí: Corinna gli piace piú d'Omero32.
E poi ho cominciato a farmi una ragione, badando ad un suo accenno a qualche somiglianza che intercede fra Corinna e i poeti ellenistici e gli alessandrini. E qui conviene fare un'altra sosta, e parlare d'un bestialissimo dirizzone che stanno pigliando ai nostri giorni i filologi biasciapiri.
Tutti sanno che, conclusa la serie dei grandissimi artisti greci con Euripide, con Platone, con Demostene, incomincia un periodo di carattere assai diverso: l'alessandrino. È assai difficile significare l'impressione di asfissia che prova chi, dopo aver vagato attraverso le foreste magiche della gran poesia classica, si affaccia alle soglie dell'alessandrinismo. Di colpo, quasi per malefico sortilegio, vediamo sparire tutte le mirabili doti dell'arte greca: la spontaneità, la schiettezza, la luce, la libertà, la fantasia, la virtú plastica, l'ampiezza di linea, la musicalità profonda, quell'aderenza alla realtà e insieme quel perenne battito d'ala verso l'azzurro; e ci troviamo d'innanzi all'artificio, alla frigidità, alla pedanteria. Dai liberi campi dove s'incrociavano tutte le luci e tutte le fragranze, passiamo di colpo nel chiuso, tra polvere di libri e tanfo di lucerna. Salvo qualche eccezione - luminosissima Teocrito, che per altro non era greco, ma siciliano - i poeti alessandrini, a cominciare da Callimaco, sono proprio aurei mediocri, cioè aurei seccatori. Prima c'era solamente l'arte: con loro incomincia la letteratura per la letteratura, peste e flagello della umanità sofferente.
Se non che, questi frigidi poeti erano meravigliosi eruditi, bibliotecari, raccoglitori di libri, compilatori di edizioni. Oltre che la letteratura, inaugurarono essi la filologia.
Ora appunto questa attività filologica provoca, per affinità elettiva, la simpatia dei filologi scientifici. Non solo; ma quella loro gessosa poesia, tutta compaginata di fatti precisi e documentati (Nulla canto che non sia documentato, diceva Callimaco), limata, stropicciata in ogni giuntura di sillabe con lo smeriglio della pedanteria, assoggettata spesso e volentieri a rompicapi di regole cretine, è l'unica che i moderni emarginatori di filologia, sordi alla grande arte classica, possano comprendere e gustare sinceramente.
Per un po' hanno taciuto, ché i nomi di Omero, di Pindaro, di Eschilo, si imponevano, e il filologo in genere è rispettoso delle opinioni belle e fatte. Poi, a mano a mano, hanno preso animo a ragliar fuori le vere predilezioni delle loro animule stoppacee. Pindaro non sa il greco, ma Callimaco è il principe dei poeti. Corinna è una poetessa grande, e l'Iliade e l'Odissea due chitarronate.
Ah no, signori miei, fermi un momento: a che giuoco si giuoca? Voci alte e fioche, in questa benedetta terra d'Italia, hanno invocata a vostro favore la «libertà del cattivo gusto», hanno ammonito, con pituitosa sapienza, che la infinita dottrina concede al Wilamowitz il diritto di esprimere qualsiasi giudizio gli frulli pel capo.
No, signori miei. Queste carte di libero transito per le insidiose bestialità non possiamo concederle. L'arte non è un passatempo, è una fede. È la sola virtú capace di sollevare gli spiriti dalle miserie terrene; e non per nulla la religione cattolica, che è, non solo la piú alta ed umana, ma anche la piú saggia delle religioni, la volle compagna in ogni sua manifestazione33. Cento e cento grandi artisti hanno pianto, sorriso, fremuto d'entusiasmo alle sacre pagine dell'Iliade e dell'Odissea. Noi, che non siamo sciocchi, ritroviamo, ogni volta che torniamo ad esse, quel pianto, quel sorriso, quegli entusiasmi. Se un frigido sofista viene, senza altri argomenti se non quello della sua sterminata erudizione, a dirci che quelle pagine sono chitarronate, non rimane che il gesto di Gesú contro i mercanti invasori del tempio: pigliare la frusta.
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Dunque, i filologi scientifici andavano facendo tabula rasa dell'arte classica. Ma non perché si svalutasse la materia perdevan credito gli strumenti che erano serviti alla svalutazione. Anzi, quanti piú guasti esercitavano, tanto piú acquistavano prestigio. Si capisce. Il fàscino che esercita sugli spiriti gentili un bel quattrocentoventi è in ragione diretta col numero delle statue che gitta giú, di un sol colpo, dalle nicchie di una cattedrale. Ma ci pensate! Gli strumenti della filologia scientifica servivano, non soltanto a penetrare sino negli intimi recessi delle opere, ma anche a dimostrare che in fondo queste opere non erano gran cosa.
In fondo avevano un solo vero pregio: quello di offrire ad Eselkopf rottami onde costruire i depositi dei suoi dizionarî, i trinceroni dei suoi manuali, i reticolati dei suoi contributi. Ed Herr Philologus, sulle rovine fumiganti del mondo classico, distrutto una volta da lui, riedificato da lui, ridistrutto da lui, si sentí simile ad un Saturno teutonico, padre di tutte le cose, che genera figli e li trangugia a piacere.
Che piú ti resta? Infrangere
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Eselkopf si sentiva grande. Se non che, quanto piú crescevano la sua grandezza e la perfezione del suo metodo, tanto piú vedeva la gente disinteressarsi delle sue lucubrazioni, allontanarsi da lui. Eselkopf si sentiva grande ed incompreso. E allora vagheggiò la secessione, pensò di allontanarsi dai rozzi profani, in un tranquillo rifugio, insieme con altri grandi della sua risma. E cosí avvenne. I filologi autentici, serî, scientifici, scrupolosamente depurati di ogni scoria dilettantesca, cioè d'ogni sentimento, d'ogni passione, d'ogni sensibilità, si ritirarono, lontani dal mondo e dalle sue pompe, in una loro torre d'avorio (leggi celluloide), parlando fra loro il loro incomprensibile gergo, sdegnosi di comunicare i loro contributi scientifici al vulgo dei profani (die Laien), pei quali si davano tanto da fare quei babbioni degli umanisti. - E i profani non ci trovarono a ridire. Da una parte avevano sentito che quell'arte, quel pensiero, quella letteratura non erano piú gran cosa; dall'altra non capivano il gergo degli eselkopfiani: perché avrebbero dovuto trattenerli per le falde della giubba?
Ma gli eselkopfiani pretesero di piú. Pretesero di essere mantenuti, come a Sparta gli antichi savî, a spese dello stato. - Veramente, avrebbero potuto rispondere i profani, lo stato vi paga coi quattrini nostri; e non si dovrebbero pagare se non i servigi realmente prestati; i quali, avvenuta la secessione, non sussistono piú. - Ma gli eselkopfiani risposero col ragionamento che abbiamo già esposto: che cioè la filologia era una scienza, e che gli scienziati non avevano altro obbligo se non quello di scoprire verità e leggi, senza punto occuparsi delle possibili applicazioni. E i profani abboccarono. Abboccarono: un po' perché non videro la fallacia dell'argomentazione; un po' per il misterioso rispetto che incuteva il gergo eselkopfiano. Il mondo è sempre il medesimo, dagli antichi àuguri ai tavoli spiritici: avido, ingordo, insaziabile di mistificazioni. Per lui chi piú parla difficile piú è bravo.
È tanto umano! Se io, per esempio, mi esprimo cosí: «Caio accetta la tal correzione che nel codice tale della Iliade una seconda mano ha sovrapposto alla prima. Ma ne risulta un esametro con una sillaba lunga nella tal sede, mentre i computi di Tizio hanno dimostrato che per lo piú Omero evita la lunga in quella sede dell'esametro» - : se mi esprimo cosí, tutti capiscono che cosa ho voluto dire; ma tutti capiscono pure che per arrivare a questo ragionamento non c'è bisogno d'una mente galileiana. Ma se io scrivo invece: «La teoria di Caio (Phil. Unt., II, s. 55) che in A 139, m si ha da preferire ad M è dimostrata insostenibile dalla legge, di Tizio, DGR3. 185»; la gente penserà che codeste cifre sibilline racchiudano dio sa quale astrusa e miracolosa speculazione, inaccessibile a chi è fuor del santuario; e mi piglierà per un'arca di scienza. E anche nella ipotesi, tanto spesso verificatasi, che quelle formule, invece d'una anodina osservazione, racchiudano qualche solennissima corbelleria, un ministro della pubblica istruzione non potrà ragionevolmente opporsi ad affidarmi, con l'articolo 69, una cattedra di letteratura greca.
Dunque, i profani abboccarono. E assai piú volentieri abboccò lo stato germanico, il quale, col fiuto commerciale che nessuno saprebbe onestamente contendergli, aveva subodorato nel filologo scientifico un ottimo articolo spiologico. E cosí l'arido rifugio dei filologi austeri venne consolato dalla manna mensile di centinaia e centinaia di marchi. La Tebaide con lo stipendio.
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Ma l'uomo è un animale socievole. Dalla loro torre di celluloide, i filologi cominciarono a guardarsi intorno. Che tristezza, aver tante belle cose da dire, e non trovare un cane che voglia ascoltarle! Il canto degli eselkopfiani si sperdeva tristamente nel deserto. Ma che è, che non è, ecco altre voci, fioche, ma pur voci, giungere sulle ali dei venti, da lungi, dalle terre straniere. Oh diamine! E come non averci pensato prima! Sicuro! I filologi delle altre terre, di Francia, Inghilterra, Russia, America, Grecia, Spagna, San Marino, Italia! Quelli potevano imparare la loro lingua, accordarsi al diapason dei loro pensieri, formare con essi una umanità di pari, molto al disopra della povera umanità solita, nel nome e sotto gli auspici della filologia scientifica! E dalla torre di celluloide partí un'altra bomba, carica di gas veramente asfissiante: l'Internazionalizzazione della filologia.
Ma naturale, per bacco! E il mondo in tanti secoli non se n'era accorto! Diamine! E che la scienza conosce patria o confini? E che c'è una fisica tedesca, e poi tante altre fisiche, francesi, russe, inglesi? Fisica è tutta! E analogamente, filologia è tutta! Le letterature di tutto il mondo costituiscono una materia unica, da studiare col medesimo metodo, il filologico, infischiandosene altamente di tutta quella roba che ci andavano a cercare dentro i bisnonni dei nostri arcibisnonni: i pensieri generosi, la commozione, la celebrazione delle glorie avite, l'incitamento a magnanime gesta.
Io non so se questo ragionamento internazionale fosse ispirato agli eselkopfiani da malizia o solamente da matta bestialità. So che esso serviva molto bene ad uno scopo per essi altamente nazionale: cioè alla supervalutazione della letteratura tedesca.
Io non sono partigiano denigratore della letteratura tedesca. La ammiro, non ciecamente, ed ho soprattutto sicura coscienza di conoscerla, direttamente, assai meglio di tanti fanatici germanofili ed ex-germanofili. Potrò errare nell'apprezzamento, ma so quel che mi dico. Ora, la letteratura tedesca, incominciata assai tardi, quando tutte le letterature d'Europa contavano secoli di vita rigogliosa, vanta un solo poeta di primissimo ordine, il Goethe, una sola fioritura veramente geniale, il romanticismo. Ed io ho sempre avuto simpatia, anzi ho sempre sentita vera affinità elettiva con questa candida e rosea fioritura dello spirito umano, che conteneva tanti germi di pensiero di poesia e d'entusiasmo, presto brutalmente calpestati dalle suole fangose del militarismo prussiano. Io ho molto amato Hoffmann, Gian Paolo, Achim von Arnim, Brentano; ed ancora mi son cari, ché non saprei renderli responsabili dell'infamia e del cinismo dei loro tristi nipoti. Ma anche la fioritura romantica è piú di aspirazioni che di opere. È anemica, sporadica, informe. Non è un Olimpo, è un Limbo. E se si guarda a fondo, il suo prestigio piú grande lo deriva dalla musica, da Schubert, da Weber, da Schumann, da Beethoven, che immerge le radici nel classico settecento, ma apre tutti i suoi fiori nel piú ardente romanticismo. Né mai i poeti tedeschi giungono al sereno equilibrio tra l'ispirazione e l'arte cosciente, che costituisce l'intima essenza dei capolavori classici. O tentano il cielo; e si perdono tra le nubi della follia, come Nietzsche, o in una frigidità cristallina, come, assai sovente, lo stesso Goethe. Oppure vogliono tuffarsi nella umanità, e divengono sentimentali, come molti dei romantici, declamatori, come spesso Schiller, frivoli e sgarbati, come non raramente Heine. Forse la lingua stessa, tuttora nel periodo in cui i singoli temi che informano ciascuna parola non sono bene amalgamati, non è matura alle grandi creazioni34.
Il rinnegato Chamberlain, come tutti sanno, sostiene che codesta imperfetta fusione costituisca invece una superiorità; perché ciascuna parola tedesca lascia sempre sentir tutti gli elementi che la compongono: sicché, quando un tedesco dice, per esempio: Finger-hand-schuh (scarpa dei diti della mano, cioè guanto), sente simultaneamente, nell'armonioso vocabolo, le dita, la mano e la scarpa. Ma per confezionare simile ragionamento ci vuole tutta la zucconaggine di chi, nato inglese, s'industria a diventar prussiano. Sarebbe come dire che una cattedrale allora è una vera opera d'arte, quando l'abbiate sbarazzata, magari coi quattrocentoventi, delle sue statue, delle sue vetrate, dei suoi veli di marmi versicolori, dei suoi rutilanti musaici, e ne abbiate messe a nudo le travature, le grappe, i mattoni e il calcestruzzo. La verità è che la parola latina è una gemma iridescente, nella quale sono perfettamente35 fusi tutti i minerali che l'hanno formata; e la parola tedesca è tuttora il fondiglio non amalgamato di un crogiuolo forse mal costruito.
E va bene. Ma stabilito il principio che le opere dei poeti e degli scrittori sono pura materia di scienza, da trattare con la medesima obiettività scientifica, che, dunque, non può far differenza tra il diamante e il carbone: ne risulta che, come dinanzi alla infinita grandezza di Dio si agguagliano il moscerino e l'elefante, cosí dinanzi a Sua Maestà la Filologia scientifica tanto vale la letteratura alemanna, quanto, poniamo, la letteratura greca; alla quale, del resto, gli usseri della morte della filologia paragonano insistentemente la letteratura tedesca, in ardite punte volanti eseguite fuori del trincerone scientifico.
Un altro effetto dell'internazionalismo era poi lo svalutamento di tutti i titoli nobiliari artistici e letterarî, È bensí vero che quando Virgilio aveva scritto da un pezzo l'Eneide, i Germani d'Arminio ululavano i loro belluini barditi; ma, ammessa la concezione «scientifica», quale nipote di Virgilio vorrebbe essere tanto rètore da inorgoglirsene di fronte a un nipote d'Arminio?
Previde la Germania, calcolò le conseguenze dell'internazionalismo filologico? Inutile dimanda. Sussiste il fatto che, mentre dal lato estetico esso tendeva a svalutare quello che in ciascuna letteratura è piú prezioso, cioè il carattere: dal lato etico mirava a scancellare quanto v'è nell'animo umano di piú profondo e di piú nobile; e in primissimo luogo, il sentimento nazionale.
Pensate un po'. Noi non siamo Italiani e non ci sentiamo orgogliosi di essere Italiani, perché siamo nati fra tanti gradi di latitudine e tanti di longitudine. Bensí perché abbiamo comuni certe memorie, certe fedi, certe speranze, certi sentimenti, certe passioni. Questo patrimonio comune è retaggio dei nostri antichissimi padri; e viene trasmesso, di secolo in secolo, dalla letteratura. La letteratura è il ponte gittato fra il passato e il presente, il mezzo per cui i nostri grandi avi rimangono sempre fra noi, ci favellano, ci dànno continuamente il frutto prezioso della loro secolare esperienza. E perché questo patrimonio è tanto ricco e fulgido, noi ci sentiamo orgogliosi di possederlo. Ogni scritto è composto, sí, di parole; ma di parole che cadendo nelle anime germogliano vita. Le parole di Dante, le parole del Petrarca, del Machiavelli, dell'Alfieri, del Foscolo, tennero desta nel cuore degli Italiani la sacra coscienza della propria nobiltà, che, trionfando infine d'ogni insidia barbarica, eruppe dalle tenebre alla nuova luce fulgente.
Ma quando Herr Philologus vi fa persuasi che il primo dovere degli Italiani non è quello di sapere a memoria la Divina Commedia, bensí quello di collazionarne minutamente tutti i codici, o di riformarne la grafia e la punteggiatura, sino a rendere illeggibili i versi piú sublimi; allora, quando vi siate bene imbevuti di codesta persuasione, sarete pure convinti che cercare nei nostri grandi scrittori rievocazioni di memorie o incitamenti a grandi opere, è superficialità, è retorica, è dilettantismo. E dal '60 in giú, quanti e quanti, in Italia, si lasciarono instillare da Herr Philologus codesta persuasione!
Dunque, o in buona o in mala fede, la Germania sparpagliò per tutto il mondo sciami e sciami di filologi scientifici, a diffondere il nuovissimo perfido verbo. E per non trovarsi ad averne penuria, cominciò a fabbricarli a macchina; né la materia prima poteva mancare. Abbiamo visto come la concezione scientifica spalancasse le porte a due battenti alle piú deboli forze. Le piú deboli forze corsero all'appello. Come, quando la gran patria chiama, miopi, sciancati, varicosi, denutriti, gibbosi, accorrono a sgozzare Belgi o Serbi; cosí microcefali, deficienti, maniaci, corsero allo squillo della filologia scientifica. E quando furono debitamente ferrati sul metodo, e, con la patente di dottore in filologia, ebbero acquistata la incontrastabile signoria di quelle ventiquattro, quarantotto, novantasei discipline che abbiamo descritte, andarono, con sulle natiche callose il made in Germany della sacra accademia di Berlino, a disseminare ai quattro venti il glutinoso polline della filologia scientifica.
E lavorarono bene. In poco d'ora, in tutti i paesi civili, Francia, Inghilterra, Russia, America, Grecia, e specialmente in Italia, la bruna Mignon sempre sospirata dal sentimentale scimmione teutonico, sorsero, come per incanto, tante e tante torricelle di celluloide, immediatamente collegate con mille fili al gran torrione centrale di Berlino.
E dentro queste torricelle, bene isolati dalla comune dei mortali, vissero e vivono i filologi ortodossi, favellando un lor gergo speciale, ragionando con una specialissima logica, adottando usi e costumi peculiari, strani, ben differenti da quelli della misera gente profana.
E non hanno avuto ancora il loro Figuier.