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Prima di passare al punto capitale della mia ricerca, cioè alla infiltrazione tedesca nella scuola e negli studî italiani, diamo un'occhiata agli ultimi risultati del metodo filologico scientifico in Germania.
Tali risultati sono, con matematica inflessibilità, conseguenti alle premesse. Dichiarati superflui e nocivi, e banditi dagli studî storici, letterarî, artistici, il sentimento ed il gusto, ridotto tutto ad un appuramento e una raccolta di fatti, si giunse, e non si poteva non giungere, al repertorio, alla compilazione. Repertorî e compilazioni pure e semplici sono oggimai tutti i libri tedeschi che pomposamente si intitolano Storia della letteratura, Dottrina metrica, Grammatica scientifica, Storia della mitologia.
Storia della letteratura il famosissimo Christ? Sono date di nascita e di morte, fatti materiali, riassunti. Se ne leggete venti pagine di fila, avrete rapita la palma a Didimo, che per la sua coriacea resistenza di leggitore, fu chiamato stomaco di bronzo. Dottrina metrica il Gleditsch? È un inventario, una poltiglia di schemi ritmici, senza neppure il tentativo di studiare l'essenza del ritmo, di stabilirne i principî, d'indagare le ragioni naturali, storiche, estetiche delle sue multiformi manifestazioni. Le grammatiche del Krüger e del Kühner non sono che repertorî di fatti, e sia pure precisi, precisissimi. Si potrà dichiararle utili a scopi professionali (io le trovo inutilissime); ma per ammirarle ed entusiasmarsene, ci vuol proprio la zucconaggine dei puri grammatici, i quali non sanno deviare un millimetro dalle vecchie rotaie, e sembra non sospettino neppure alla lontana la verità, già a suo tempo mirabilmente formulata dal Giordani, che «la grammatica è parte di metafisica la piú sublime»36. E vorreste chiamare Storia della mitologia il Gruppe? È una bioscia indigesta, una bigutta, una olla podrida. I fatti vi sono buttati a a casaccio, senza ordine, senza discernimento, senza critica, come nel truogolo si gittano al ciacco ossa di manzo, bucce di patate, torsoli di cavolo.
E a mano a mano, neppure come repertorî servono piú codeste opere. Se ne spacciano molte copie in Germania, e fuori di Germania, e massime in Italia. E le nuove edizioni, spesso curate da nuovi filologi, anche piú scientifici degli originarî compilatori, si vanno via via, sulla scorta delle recentissime scoperte, rigonfiando, idropizzando, di fatti, di fatti, di fatti. E tutta codesta abbondanza, che, secondo il concetto scientifico, dovrebbe rendere piú profonda la conoscenza, serve a non far capire piú nulla. Conoscenza è scelta, sceveramento, sintesi. Per esempio, scrivere la grammatica d'una lingua, dovrebbe significare approfondirne l'organismo con criterio filosofico, e scuoprirne i principî regolatori, ai quali possa poi ciascuno agevolmente riferire tutti i singoli fenomeni morfologici e sintattici. Ma se voi trascurate l'analisi profonda dei principî, e mi date invece tutti i singoli fatti, come appunto usano Krüger, Kühner e compagni di Germania, mi trovo precisamente, punto e da capo, a dover rifare per conto mio il lavoro di scelta, di sintesi, d'ordinamento. - Ma pensare, l'abbiamo visto, è antiscientifico. Scientifico è raccoglier sassolini. E mucchi di sassolini, anzi di tritissima sabbia sono appunto codesti recentissimi manuali tedeschi. Per esempio, il dizionario mitologico del Roscher, incominciato, tanti e tanti anni fa, abbastanza bene, è divenuto una selva cosí fitta e intricata di fatti e fattucci e fatterellucci, che per cercare una notizia dovete impiegare una settimana; e poi finite per non scovarla tra quel minutissimo tritume, e dovete ricorrere a qualche altro lessico, per esempio a quello inglese dello Smith, che è del 1815, ma è fatto da un uomo che aveva la testa sulle spalle, e perciò è quel che dev'essere un dizionario, vale a dire offre agevole risposta a ciascuna domanda. Vero è che proprio negli ultimi tempi c'è stato qualche sintomo di reazione «estetica» anche in Germania. Sicuro. Herr Philologus, sebbene lautamente stipendiato, sebbene dichiarato, in Germania, e massime in Italia, vir summus, sebbene pezzo grosso dell'accademia di Berlino, ha cominciato a sentire, cosí a fiuto, che codesta sua produzione «severamente scientifica» è un po' roba da ufficiale di scrittura. Herr Philologus ha riscosso allora, nelle adipose budella, il vecchio sentimento tedesco, e ha cominciato a largire ai profani interpretazioni estetiche. Abbiamo visto di che risma: e, sempre a richiesta dei filologi increduli, eccomi pronto a moltiplicare gli esempî.
Troppo tardi, Herr Philologus! Nessuno, neanche un Latino, cioè un uomo che pur nasce con ottime disposizioni all'arte, può fabbricarsi di punto in bianco una giusta sensibilità artistica: il tirocinio dell'arte è assai piú lungo, cari signori, che non sia il tirocinio della vostra scienza. Voialtri poi, carissimi lanzi, doti native di intelligenza artistica non ne avete punto37, e dovete fabbricarvele artificialmente, come hanno tentato tutti i vostri migliori, a cominciare dal Goethe. Lavoro doppiamente lungo. I vostri nonni e bisnonni ci si erano sobbarcati. Ma avevate appena incominciato a tirarvi su, a furia d'iniezioni di ellenismo, di romanesimo, di italianismo, e voi, ciechi nepoti, pieni di voi perché avevate fabbricato cannoni, attivate industrie, allineate ferrovie, presumeste scuotere quei gioghi volontariamente accettati, e voleste rifar tutto al solo ed unico lume dei vostri cervellacci. Cosí, raschiata in brev'ora la vernice di umanesimo applicata con tanta pena, è riapparsa in tutta la sua rozzezza la vostra mentalità originaria.
Cosí siete tornati a non capire la grande arte classica, e nel vostro puzzolentissimo orgoglio l'avete dichiarata inferiore. Cosí quando volete spiegarla a voi stessi ed agli altri, spacciate, ad onta delle vostre sterminate cognizioni scientifiche, tali corbellerie, che il piú tarpano scolaretto, il piú inculto uomo del popolo che ha avuto la fortuna di nascere in Italia, può rilevarle e ridere alle vostre spalle massicce.
Tal sia di voi, lanzi. Il vostro male è oramai profondo e immedicabile. Davvero non vorrò io cercarne i rimedî. Cosí potesse la vostra barbarie venir ricacciata, e per sempre, nelle selve originarie, dalle quali uscite ogni tanto per tuffare l'umanità in orrendi lavacri di sangue.
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Ma il vostro morbo s'è appreso all'Italia. L'Italia ha bevuto per lunghi e lunghi anni, come nettarei farmachi, i tòssici pestiferi che voi le andavate propinando. Questo mi avvilisce e mi cruccia: e non è avvilimento e cruccio estemporaneo. E adesso, deposto lo spirito di cordiale antipatia che sinora animava le mie pagine, mi accingo a studiare il male della nostra patria, con l'ansia dolorosa di chi vede languire e sempre piú estenuarsi una persona diletta.
E non è studio facile. Anche qui abbiamo un intreccio fittissimo di cause e di effetti, un corrodimento tenace e dannoso, che, esercitandosi per piú di mezzo secolo nella scuola, nella cultura, nello spirito italiano, ha prodotto effetti rovinosi. Il processo deleterio fu di quando in quando avvertito da uomini di spirito indipendente; e sorsero voci di allarme. Ma troppo piú numerose, arroganti, sicure, si levaron le proteste dei tedescofili; e quelle voci rimasero solitarie, furono soffocate. Nessuno tentò una vera diagnosi. La relazione della Commissione pel riordinamento universitario è opera di persone fornite di molta dottrina e di molto ingegno. Ma ha il difetto originario di tutte le relazioni: non è lavoro organico, bensí compilazione di opinioni e vedute spesso diametralmente opposte. Le singole osservazioni, prese ciascuna per sé, saranno eccellenti: messe a raffronto, risultano quasi sempre contradittorie: sicché nel complesso sembrano il discorso di un uomo cultissimo, il quale affermi che il tale oggetto è bianco, e per provarlo dimostri che è nero, e per rispondere a previste obiezioni sostenga che è verde pisello. Per giungere a qualche risultato, conviene invece raccogliere ed elaborare tutti gli elementi della discussione nel fuoco d'una sola mente. Ed è questo il tentativo a cui appunto mi accingo.
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E dunque, il giorno in cui la patria nostra fu ricostituita a dignità ed unità di nazione, fra gli altri compiti si presentò anche quello di rianimare e riordinare la cultura languida e dispersa. Come principalissimo tramite di tale riordinamento, si presentavano, naturalmente, le Università. E quindi si procede' ad organizzare ed unificare le molte Università italiane, che, per ben cognite ragioni, erano diversamente ordinate, e s'erano andate immiserendo, dove piú, dove meno, in tutte le regioni.
Stabilito il piano unico di riforma (legge Casati del 1859), emerse la necessità di crear nuovi professori. E, quasi per miracolo, si trovò un nucleo d'uomini insigni per dottrina, per ingegno, per carattere: Carducci, De Sanctis, Settembrini, Bonghi, Comparetti, D'Ancona, Amari, Villari, Bartoli (Atto Vannucci, storico insigne, e per nostra vergogna quasi dimenticato, non ebbe, ch'io sappia, cattedra universitaria).
Questi uomini non provenivano da veruna scuola tedesca. Erano tutti di fabbrica paesana. Il De Sanctis, come tutti sanno, usciva dalla Scuola del Puoti. Il poeta dei Giambi ed epodi aveva studiato dagli Scolopl. Il Settembrini s'era tirato su per avvocato, per avvocato il Bartoli, per notaio, e l'esilio gli troncò gli studî, Alessandro D'Ancona. Michele Amari era impiegato alla Tesoreria di Stato in Sicilia, Ruggero Bonghi «o bene o male, venne su da sé». Il Comparetti spiccò l'altissimo volo verso il mondo ellenico dagli alberelli e dalle teriache d'una farmacia. Alla stretta dei conti, furono tutti un po' autodidatti, e si fecero, piú che altro, studiando gli autori, allacciandosi alle tradizioni italiane. E ciò non ostante, nessuno vorrà dire che abbiano tenuto con poco onore le cattedre ad essi affidate.
Se non che, di alcune discipline recentissime, per esempio glottologia, sanscrito, lingue neo-latine, scarseggiavano o mancavano cultori. Ed anche per le discipline piú coltivate, il numero degli studiosi era insufficiente, anche perché le Università italiane erano troppe. Erano troppe, e non si ebbe il coraggio di ridurle: germe di male, questo, che difficilmente si potrà estirpar mai dalla patria nostra.
Dunque, occorrevano professori. E l'Italia fece quello che fanno in simili occorrenze gli acquirenti giudiziosi, che ricorrono ai magazzini meglio forniti e accreditati. Né credito né merce mancavano alle Università di Germania, che da tempo erano divenute un'ampia manifattura di filologia, come con singolare chiaroveggenza osservava fin dal 1845 il Giordani38, il quale, dal Bonghi in giú, vien dichiarato, da ragazzi e da non ragazzi, puro stilista, cioè puro babbione, e invece espose, in quasi ogni suo scritto, ed anche in quistioni di cultura e di studio, verità profondissime, e da meditarle anche noi modernissimi, acutissimi, profondissimamente rihegeliani. E l'Italia si provvide in Germania. E si provvide in due maniere. Togliendo di peso professori tedeschi che venissero a effonder direttamente fra noi qualche raggio del loro sapere sublime; e mandando in Germania studiosi italiani che si illuminassero alle empiree fonti di Berlino, di Lipsia, di Gottinga, e tornassero poi a darcene qualche riverbero.
E cosí, dal '60 in giú, ebbe luogo la organizzazione scientifica delle Università italiane; e tutte le cattedre, le antiche, le nuove e le nuovissime, furono affidate ad autentici rappresentanti del metodo scientifico. A poco a poco, la organizzazione scientifica fu compiuta. E in un suo scritto, il buon Pascoli, che era molto fino, ma in certe questioni travedeva stranamente, compiacendosi dello stato attuale della cultura italiana, osservava che oramai gli stranieri badavano anche a noi, e ci lodavano. «Oh bravi, guarda! Ci siete arrivati anche voi?» - Sí, oh buono e grande poeta, che guardavi molto i campi e poco le miserie accademiche: sí, la Facoltà di lettere nelle Università italiane è divenuta istituto perfettamente scientifico: sí, ci siamo proprio arrivati anche noi.
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Ci siamo arrivati anche noi. Però, miei colleghi universitarî, deponete ogni male inteso amor proprio, e rispondetemi in coscienza. Diamoci un'occhiata attorno. Dopo cinquant'anni d'intenso lavoro scientifico, la scienza filologica italiana ha prodotto opere che si possano equiparare alla Storia della letteratura italiana e ai Saggi del De Sanctis, ai Discorsi sullo svolgimento della letteratura nazionale e ai cento altri studî del Carducci, alla Storia dei Mussulmani in Sicilia dell'Amari, al Virgilio nel Medio Evo del Comparetti, e ai lavori in genere del D'Ancona, del Settembrini, del Bonghi, del Vannucci, del Bartoli? - No, è vero? La risposta non può essere dubbia. Andiamo avanti.
È vero o non è vero che, ad onta di tanti perfezionamenti di metodi e di tanta folla di studiosi, ci troviamo imbarazzatissimi a cuoprire degnamente le cattedre vacanti, e specialmente quelle delle discipline piú importanti, specialmente quelle di letteratura italiana, specialissimamente quelle di letteratura latina? Anche questo non saprete negarmelo.
E ditemi ancora. Quando nei concorsi alle cattedre di scuole medie abbiamo esaminato centinaia e centinaia di giovani aspiranti, dobbiamo o non dobbiamo deplorare quasi sempre che questi giovani, pure usciti da codeste nostre università filologiche scientificamente organizzate alla tedesca, non sappiano leggere con giusta pronunzia né a senso una canzone del Petrarca, non scrivere una paginetta di latino senza infiorarla di spropositi, non intendere a prima vista autori latini che i nostri padri e i nostri nonni, scolari dei preti, sapevano a memoria, interpretavano dormendo?
E quante volte, ricordate, in camera charitatis, abbiamo dovuto deplorare che nelle aule di lettere, e massime dopo il miglioramento degli stipendi, si affollino giovani che per gli studî letterarî non nutrono la menoma passione, che non leggono mai né una storia, né un romanzo, né un poeta, che non dimostrano, in genere, veruno sfavillio di pensiero: e che i giovani di piú fervido ingegno corrano invece tutti alle altre Facoltà, quelle di legge, di medicina, di scienze?
E, uscendo dalla scuola, vi siete accorti che oramai professore e seccatore sono divenuti sinonimi quasi assoluti? Avete badato al fatto che gli artisti, i quali un tempo solevano vivere in fraterna dimestichezza con i dotti, adesso, al solo fiuto del professore, scappano a gambe levate? Avete mai osservato che i grandi movimenti di pensiero e di cultura avvengono, oramai, fuori dell'università, e contro l'università? E le violente ribellioni dei giovani contro la dottrina ufficiale ed accademica, ultima e piú clamorosa il futurismo, le crederete davvero ispirate tutte ad ignoranza, a malanimo, ad astio, ad invidia, insomma a sentimenti ignobili, e quindi da spregiare, da non badarci, da non curarsene?
Sono sintomi gravi, cari colleghi. Tutta la cultura italiana è viziata, attossicata. E dunque, non vi rincresca, se pure avete a cuore le sorti della nostra patria, di studiare anche voi il male, di aiutare la mia ricerca. Io potrò sbagliare la diagnosi, i rimedi che suggerirò potranno sembrare inefficaci o inopportuni. Confutatemi, e riconoscerò volentieri l'error mio. Ma non cadiamo, per carità, nella solita presunzione di crederci ciascuno unico depositario della verità, e di soffocare problemi di capitale importanza, con le velate allusioni maligne, con le insinuazioni personali, con le materiali occulte opposizioni.
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La maggior parte degli uomini chiamati, intorno al '60, a rianimare la cultura d'Italia, erano principalmente studiosi di letteratura italiana; e da persone di senno e di coscienza quali erano, incominciarono con l'esaminare le condizioni della loro disciplina, per scuoprirne le lacune e studiare il modo di colmarle. Ora, questi uomini cosí diversi di cultura, d'ingegno, d'indirizzo, si incontrarono tutti in un punto: nel sostenere che occorreva sostituire ai metodi allora imperanti nelle università un indirizzo severamente positivo. Non parliamo del Carducci e del D'Ancona, è cosa nota; ma perfino il De Sanctis, sospetto, ingiustamente, di spregiare la precisione dei fatti, scriveva testualmente queste parole: «Gl'impazienti ci regalano ancora delle tesi e dei sistemi: sono stanche ripetizioni che non hanno piú eco. La vita non è piú là. Ciò che oggi può essere utile, sono lavori serî, e terminativi nelle singole parti»39.
E s'intende bene il perché di questa concordia. Da un lato occorreva reagire ai pessimi vezzi della cultura italiana, al fatuo rimbombo delle cattedre d'eloquenza, allo schematismo vacuo pedantesco dei puristi, alle cicalate e alla zazzera degli epigoni romantici: dall'altro molti campi ancora inesplorati della letteratura italiana richiedevano l'applicazione del metodo che dicemmo ottimo, anzi unico, nelle fasi iniziali di ciascuno studio, quello severamente filologico.
E seguirono anni ed anni di austera disciplina. Se non che, nessuno di quegli uomini perde' mai di vista alcune verità fondamentali. E cioè:
1) Che questi studî positivi avevano carattere di mezzo e non di fine.
2) Che quindi l'indirizzo positivo, ottimo ed unico per preparar materiale, non doveva uscire dal gabinetto dello studioso, il quale, e nella cattedra, e nei libri, doveva offrire una elaborazione superiore di quel materiale.
3) Che la ragion d'essere di questo indirizzo sarebbe venuta a mancare quando fosse compiuta la raccolta del materiale tutt'altro che inesauribile: che dunque tale indirizzo aveva carattere di transitorietà: che era programma di lavoro, e non poteva divenire metodo, di valore assoluto, immanente.
Ho detto che questi uomini non perderono mai di vista tali verità. Forse è piú esatto dire che la coscienza intima di tali verità diresse sempre la loro attività pratica. A nessuno di loro passò mai per la mente di spacciar dalla cattedra, di raccoglier nei libri, fatti nudi e crudi, e di convincere i gonzi come fanno i tedeschi, che quei semplici fatti fossero storia, storia della letteratura, critica letteraria. E non parlo del De Sanctis né del Carducci ché sarebbe superfluo. Ma Alessandro D'Ancona, il quale passa per l'antesignano piú genuino dell'indirizzo storico positivo, elaborava con ogni forza intellettuale e con ogni finezza stilistica le sue lezioni universitarie; ed ogni pagina dei suoi numerosissimi scritti è impregnata del suo simpatico, argutissimo spirito. Altro che impersonalità scientifica, signori miei!
La intima coscienza non si oscurò dunque mai. Ma negli ammonimenti teorici, seguitarono forse a predicare troppo assolutamente il verbo del positivismo storico, anche quando il periodo in cui questo tornava utile, era già trascorso. Forse occorreva già reagire alle esagerazioni del metodo, ciecamente abbracciato e seguito, al solito, dalle «piú deboli forze», quando invece, nel 1883, il Graf, il Nevati e il Renier fondavano il Giornale storico della letteratura italiana, e bandivano, con rinnovata baldanza, il verbo storico positivo40.
Ma questo non m'importa per ora. M'importa stabilire che il metodo storico, autorevole per quei nomi insigni, accreditato da opere eccellenti, divenne ottimo addentellato al metodo filologico scientifico, piovutoci di Germania, specialmente pel tramite della filologia classica. Se si fossero presentati cosí all'improvviso, senza preparazione degli spiriti, gli imperativi categorici di quel metodo si sarebbero mostrati, quali sono in realtà, e quali li abbiamo dimostrati, risibili sciocchezze. Ma gli Italiani erano già preparati da molti e molti anni di metodo storico. Questo e il nuovo metodo tedesco poterono sembrare, e non erano, rami divelti dal medesimo albero. Il metodo scientifico tedesco si innestò sul solido tronco del metodo storico italiano, attecchí, e con la fecondità delle male erbe coprí in breve tutti i campi della cultura italiana d'un fittissimo intrico di cardi, di rovi, di lappole, di pugnitopi. Ed anche in questa macchia impervia entriamo risolutamente, anche a costo di graffiarci le mani, e di lasciare attaccato alle spine qualche lembo delle vesti o della viva carne.
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Di studiosi specialmente versati nelle letterature classiche, in Italia ce n'era in fondo uno solo di grande valore: Domenico Comparetti. E il Comparetti, un po' per l'isolamento, che esclude i contrasti e i loro fecondi risultati, un po' per il suo temperamento, non professorale, non vago di teorie, non paziente di propaganda, non si propose il problema delle condizioni e dei bisogni della sua disciplina in Italia. Per lo meno, non lo studiò con l'ardore del Carducci, del D'Ancona, del De Sanctis: tirò diritto per la sua via, ampia e luminosa. E quindi, per gli studî dell'antichità classica si andò un po' alla cieca. Si chiamarono professori e studiosi tedeschi, come una volta i principotti chiamavano capitani e soldatesche di ventura; e si mandarono, dicemmo, Italiani ad imparare in Germania, come una volta i figli di regoli barbari andavano a dirozzarsi ad Atene o a Roma.
I tedeschi chiamati in Italia non furono moltissimi: l'Italia non è la Turchia, non è la Grecia, non è nemmeno l'America; e il piú elementare sentimento estetico rendeva insopportabile un professore che veniva a raccontarci i fasti di Roma, balbettando e deturpando la lingua di Dante. Non furono moltissimi, ma non furono nemmeno tanto pochi. Per rimanere solamente nel campo degli studî letterarî, ci fu un tempo in cui lo straniero che fosse venuto nella dolce Italia a studiare antichità classiche, avrebbe trovato sulla cattedra di Palermo, ad insegnare storia antica, Adolfo Hiolm. A dirigere il Museo di Bari, Max Meyer. A Roma, alla cattedra su cui aveva seduto Ruggero Bonghi, Giulio Beloch era stato chiamato dalla fiducia del governo italiano ad esporre la storia Romana. Emanuele Loewy (un gentiluomo, questi; e ce ne sarà stato qualche altro; ma ciò non vuol dire) insegnava la storia dell'arte. Adolfo Berwin dirigeva, con la brutalità d'un caporale prussiano, la Biblioteca di Santa Cecilia. La Galleria Corsini era sotto la guida di Paolo (mi pare) Kriststeller. A Torino il Müller insegnava letteratura greca. Questi, e tanti e tanti altri professori d'altre discipline, occupavano posti ufficiali, retribuiti dal governo italiano. Ma in ogni grande città d'Italia c'erano poi istituti scientifici tedeschi, formicolanti, come s'intende, di persone altrettanto scientifiche, stabili o di passaggio. Per rimanere a Roma, e lasciando stare il padre Ehrle, direttore della Biblioteca vaticana, il quale dunque operava su terreno neutro, c'erano i due grandi covi dell'Istituto storico prussiano e dell'Istituto archeologico germanico.
Del primo, non so gran cosa. Le vicende del secondo sono note anche al gran pubblico, perché se ne è parlato nei giornali. Sorse come istituto internazionale; ma con uno dei suoi abilissimi colpi di mano, la Germania se ne rese padrona assoluta. Sicché ora, sfolgorante di stonate policromie, e sempre olezzante di grassa cucina, ricetta una sceltissima falange di giovani archeologi, venuti in Roma a raffinare il gusto nativo con lo studio dei libri tedeschi; e dalla vetta solenne del Campidoglio, in bella simmetria col Monumento al Padre della Patria, attesta all'Urbe la gloria di Guglielmo imperatore e del metodo scientifico alemanno.
Nei primi tempi dell'alleanza fu sede ai dottissimi idillî degli scienziati tedeschi e italiani. Questi frequentavano la biblioteca e assistevano alle sedute: quelli scendevano per tutta Roma, e massime nel Foro, a scavare e far da padroni. Largivano anche, ai piú fedeli aficionados italiani, diplomi di soci corrispondenti, ricercatissimi e gustatissimi.
Ma col tempo, il miele diventa fiele, il vino diventa aceto, l'amore diventa uggia. Un bel giorno, a dirigere gli scavi del Foro fu mandato Giacomo Boni, il quale con molto garbo chiuse le porte in faccia agli ex padroni. - «Ma noi rappresentiamo la scienza tedesca». - «E io rappresento il buon senso italiano». - Da quel giorno gli scavi cominciarono a dare i risultati che tutto il mondo conosce ed ammira41.
Ma anche da quel giorno cominciarono i malumori. La cortesia teutonica si appannò d'un velo. I direttori sí, rimasero corretti verso gli ospiti italiani; ma lasciarono mano franca ad un bulldog, inserviente ma spadroneggiatore, il quale invigilava gli studiosi italiani come il gatto guarda il sorcio, e piombava su loro alla menoma infrazione ai centomila regolamenti della biblioteca. I diplomi divennero piú rari: fioccarono invece restrizioni su restrizioni. Ad un bibliotecario gentile se ne sostituí da Berlino, per direttissima, uno cerbero. E ad ognuno dei menomi incidenti agrodolci a cui dette origine la politica un po' oscillante degli ultimi anni, partiva dall'Istituto la minaccia di chiudere la biblioteca agli studiosi, e il rimprovero di ingratitudine agli Italiani, perché, avendo quel po' po' di agevolezza di poter usufruire d'una tale biblioteca, non erano abbastanza pronti a curvar la schiena ad ogni beneplacito del divo kaiser e dei suoi rappresentanti di Roma.
Dicevano proprio cosí. È cosa enorme, e pur vera. I tedeschi sono venuti qui da noi per secoli e secoli a sfruttare le nostre biblioteche, le nostre gallerie, i nostri musei e i nostri scavi. Hanno ristampato i nostri classici, riprodotti i nostri quadri e le nostre statue, ed hanno sparpagliato le edizioni e le riproduzioni per tutto il mondo, e specialmente in Italia, e ci hanno convinti che il popolo geniale non erano gli Italiani che avevano create quelle opere, bensí i tedeschi che le riproducevano. Con le riproduzioni hanno fatto fior di quattrini; e fior di quattrini hanno fatto esercitando, legittimamente ed illegittimamente, il commercio delle nostre antichità. Ma il semplice concederci l'uso di una loro biblioteca, era tal servigio da poterlo compensare solamente il nostro piú assoluto vassallaggio. E quando al vassallaggio ci cominciammo a ribellare, ancora assai prima che scoppiasse la guerra, le porte di quel paradiso archeologico furono infine inesorabilmente chiuse ai reprobi Italiani. E chiuse restino, e non si riaprano mai piú. E speriamo che quel goffo baluardo teutonico, e l'annesso palazzo dell'ambasciata, nelle cui sale si pompeggiano, dipinte a fresco, le gesta d'Arminio, e si erge, pronto a ricevere l'incommensurabile kaiser, il rutilante trono imperiale, spariscano una volta per sempre dal Campidoglio, che dovrebbe essere per noi sacro, e fieramente conteso al calpestio di ogni piede barbarico.
E accanto agli istituti c'erano poi sciami di tedeschi «scientifici» che venivano ad appollaiarsi sol suolo di Roma. Chi erano? Donde venivano? Perché non cercavano un posto in patria? Come campavano?
E chi lo sa? Piombavano a Roma con certi visi patiti, si strofinavano alle porte dell'Università, facevano la corte a professori, a giornalisti, a uomini politici, piangendo miseria, piatendo un posto qualsiasi, tanto da poter vivere qui a Roma, ché in Germania c'erano troppo freddo e troppa concorrenza. Ma anche se non carpivano il posto, rimanevano lo stesso, e si ficcavano nella società, scientifica e non scientifica. E dopo qualche mese, si fabbricavano ciascuno il suo bravo villino, attiravano gente, tenevano circolo, predicavano la grandezza della Germania, miagolavano le cantate di Bach, mettevano su cattedra, vera cattedra, non metafisica (Amelung), per consolarsi di quella non potuta espugnare all'Università.
Come campavano? - E chi potrebbe dirlo? Di qualcuno s'è poi risaputo, che, convinto di vergognose speculazioni di cimelî archeologici, dove' in fretta e furia lasciare i posti e restituire le onorificenze ottenute dalla dabbenaggine del governo italiano. Ma gli altri, la maggior parte, rimanevano enigmatici come tanti cavalieri del San Graal scientifico. - Mai devi domandarmi! - E il governo italiano, Machiavelli o non Machiavelli, si guardava bene dal curiosare.
Il danno prodotto dalla invasione di queste cavallette filologiche fu enorme. Ma forse anche piú grande fu quello che arrecarono, in buona fede, gli Italiani andati ad intedescarsi in Germania. E lo vedremo nel prossimo articolo.