Ettore Romagnoli
Minerva e lo scimmione

VI. LA FILOLOGIA DI VENTURA

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VI.

LA FILOLOGIA DI VENTURA

 

«Plutarco era un gran cretino!» - Queste parole, scandite con incertezza fonica e con pretta sicumera teutonica, mi percossero in pieno petto la prima volta che io, giovinetto, misi piede nelle aule dell'Università di Roma. Le pronunciava Giulio Beloch, chiamato dalla acefala Minerva, che presiede alle sorti dell'istruzione pubblica, ad insegnare storia antica a giovani d'Italia. E mi diedero subito una chiara visione della nobiltà di sentimento, della elevatezza di forma che dovevano aleggiare in quella scuola sacra alle rievocazioni classiche, e, dunque, anche italiche: Plutarco era un gran cretino!

Nel mio ultimo articolo, a proposito dei professori tedeschi piovuti ad insegnare in Italia, tentai il confronto coi soldati di ventura che una volta scendevano d'Alemagna per rialzare le sorti di questo o quel signorotto d'Italia: né penso di dover abbandonare tale confronto.

E infatti, se esiste verità apodittica, questa è che ciascun popolo deve conservare gelosamente i suoi segni specifici, quelli per cui si distingue da tutti gli altri popoli, ed afferma il proprio carattere42. Quindi, a rinnovare, a rinsanguare la cultura d'un paese, conviene, , strappare i germi maligni, ed anche tentare prudenti innesti da piante esotiche; ma occorre innanzi tutto ricercare amorosamente tutti gli antichi virgulti e gli antichi germi calpestati e imbozzacchiti, e risollevarli e rieducarli con ogni sollecitudine: occorre studiare a fondo la mente, il carattere, i costumi del popolo, per vedere quali forme di cultura gli convengano e possano riuscirgli utili, quali invece disutili o addirittura deleterie. Ora, questa è opera di devozione, d'amore, opera di figli: la compierono, in Italia, Giosuè Carducci, Francesco De Sanctis, Alessandro d'Ancona, tutti gli altri uomini insigni di cui discorsi nell'ultimo articolo.

Ma si poteva pretendere, era ragionevole sperare che si sobbarcassero a tale bisogna professori tedeschi spinti sino a noi dalla plètora scientifica che inturgidiva le loro università, o mandati con una missione di fiducia dal governo del kaiser? Santa ingenuità di tanti che se la bevvero! Nella migliore ipotesi, si limitavano a travasare frigidamente nei vasi di coccio italiani quel po' po' di panacea che da un pezzo, come vedemmo, andava inacidendo nelle ferree botti d'Alemagna. Nella peggiore, erano spioni camuffati da «persone scientifiche» che, grazie al sèsamo apriti della filologia berlinese, intrufolavano il grifo in tutti i ripostigli, scientifici e non scientifici. Nel maggior numero dei casi, esercitavano quella forma media di spionaggio, inventata e praticata con entusiasmo da tutti i nipoti di Lutero, e che si esplica nel render convinta ogni persona della supremazia unica ed assoluta della scienza tedesca, della politica tedesca, della vita tedesca: nello iniettare in tutti gli spiriti la persuasione che la somma felicità di tutte le creature umane consisterebbe nel divenire scimmie dei tedeschi e tributarie del kaiser. Natural corollario di questa cavalleresca propaganda, era, come s'intende, lo svalutamento di quanto fosse italiano. Le Pleiadi - direbbe Pindaro - non possono rimaner lungi da Orione.

Tutti i tedeschi, abbiamo detto, s'adoperavano a questa santa predicazione; ma s'intende facilmente qual pulpito prezioso dovesse essere una cattedra scientifica! Abbiamo visto, negli scorsi articoli, come i tedeschi, grazie al metodo filologico, avevano dimostrato, fra tante altre belle cose, che la nostra famosa romanità, in ordine civile e giuridico valeva assai poco, in ordine artistico e letterario, zero. Dal momento che queste erano verità indiscutibili, acquisite alla scienza, come il fatto che idrogeno piú ossigeno fa acqua, era non solo lecito, bensí doveroso insegnarle dove che fosse: dunque, anche in Italia, anche a Roma.

Ora lasciamo stare che codeste famose verità erano invece asinerie e menzogne degne di frusta e di capestro. Ma anche se avessero racchiuso qualche parte di vero, conveniva proprio lasciarle predicare sopra una cattedra italiana da un professore straniero? Avrei un po' voluto vedere come i tedeschi avrebbero conciato un professore italiano, il quale fosse andato, poniamo, a Berlino, a dimostrare che Martin Lutero era uno sporcaccione, e che le qualità predominanti dei tedeschi sono la brutalità, la caparbietà, e la tontaggine! Se non che la bonarietà degli italiani è, come la misericordia di Dio, senza fine; e la sozza propaganda fu tollerata: perché alla menoma obbiezione, Giulio Beloch, per esempio, rispondeva che l'università era il «tempio sereno della scienza pura».

Giulio Beloch, peraltro, meriterebbe un monumentino di riconoscenza nazionale. Ecco perché.

A codesta opera di esaltazione della germanità e di svalutazione del latinesimo, nessun pulpito, come ho detto, era meglio adatto d'una cattedra universitaria. I giovani, si sa bene, e massime i piú ribelli, sono molli e plasmabili come cera; e un professore tedesco o tedescofilo, razza prolifica come gli insetti nocivi, ha presto fatto di mettervi al mondo una nidiata di tedeschini. E questa opera deleteria si può compiere alla chetichella, senza menare scalpore, magari cuopreudosi con un costellato manto d'italofilia. Le parole volano, e specialmente volano le parolette gittate , a caso, con qualche droghetta d'ironia alemanna, fra l'una e l'altra dimostrazione scientifica.

Le parolette volano, ma gli articoli restano. E l'egregio Giulio Beloch, prototipo per eccellenza della professoraggine tedesca in Italia, si lasciò trascinare una volta a scrivere un articolo.

Ed ecco come. Un bel giorno, lontana essendo ancora la guerra, influendo ancora gli scienziati di Berlino, come del resto influiscono tuttora, vergognosamente, perfino sulle attribuzioni di cattedre universitarie italiane, qualcuno pensò ad affidare a Guglielmo Ferrero una cattedra di storia romana in Roma: vicino, dunque, a Giulio Beloch.

Giulio Beloch fiutò subito i non lievi pericoli d'un confronto, fra lui storico scientificissimo e soporiferissimo, e un giovane italiano che forse era meno scientifico, ma coi suoi libri di storia aveva saputo interessare il mondo. E corse ai ripari. Corse ai ripari, scrivendo un articolo polemico: e cosí avviene che nella Rivista d'Italia 1911, 15 dicembre, si trovi conservato il piú bel documento, lucido, meridiano, definitivo, della mentalità professorale tedesca, in sé, e nei suoi rapporti con la nostra grama Italia. Proporrei che se ne tirassero a spese del pubblico erario cento o duecentomila copie da distribuire alle persone culte d'Italia, aggiungendovi come appendice la risposta che a volta di corriere (gennaio 1912), gli fece, nella medesima rivista, Ettore Pais.

Lo scritto di Ettore Pais è un piccolo capolavoro di forza logica e d'umorismo. L'immagine del gatto e del topo ha la barba lunga parecchie spanne; ma leggendo questo scritto, non riusciamo a discacciarla dalla nostra fantasia.

Beloch è proprio il povero sorcio, un sorcio tedesco, per giunta, impacciato quanto lurco: Pais un gatto dalle unghie affilatissime; e si diverte per pagine e pagine, costringendolo ai piú strani ed inaspettati capitomboli.

Rimando il gentile lettore all'articolo del Pais, assicurandolo che sarà ampiamente compensato del breve disagio di cercar la rivista; ed espongo in brevi parole il perfido ed esilarante scritto di Giulio Beloch.

 

 

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«C'è qualcuno - dice Giulio Beloch - che vorrebbe offrire una cattedra di Storia Romana a Guglielmo Ferrero. Ma se la cosa dovesse avvenire, gli studî di storia antica ripiomberebbero nello stato in cui si trovavano una ventina d'anni fa.

«Una ventina d'anni fa - riferisco alla lettera le sue parole - la scienza storica italiana era tanto screditata, che all'estero non si teneva conto alcuno dei lavori di storia antica pubblicati di qua dalle Alpi.

Invece in questo momento l'Italia tiene il primato nel campo della Storia romana.

E come ha conseguito questo primato?

L'ha conseguito mediante quattro lavori. Cioè:

1) La Storia romana di Ettore Pais, il quale è scolaro di Mommsen.

2) La Storia dei Romani del De Sanctis.

3) Due volumi di Giovanni Costa, che raccolgono e vagliano criticamente tutto quello che è necessario per preparare una edizione dei fasti consolari di Roma.

4) Uno scritto di Prospero Varese, che pone su una nuova base (non accettata, per quanto io sappia, da nessun competente) la cronologia della prima guerra punica».

Siccome poi il De Sanctis, il Costa e il Varese sono scolari del Beloch, è logico ed onesto aggiungere un quinto paragrafo, quinto d'ordine e primo di valore: la Scuola di Giulio Beloch.

Ora, Ettore Pais è, senza iperbole, un colosso. Il De Sanctis è uomo d'immensa dottrina, d'acume straordinario, d'attività prodigiosa. Onde, se il Beloch, dovendo scegliere i luminari della scienza storica in Italia si fosse attenuto solamente ai loro due nomi, si sarebbero potute, senza dubbio, deplorare parecchie omissioni; ma non si sarebbe potuto gridargli la croce addosso.

Ma gli altri due eletti dal Beloch a completare il quartetto, erano giovani appena usciti dalla università, e quei lavori, le loro tèsi di laurea. E lasciamo stare che «i loro metodi e i risultati ottenuti non sono giudicati favorevolmente dai piú autorevoli rappresentanti della stessa loro scuola» (Pais, articolo citato). Erano, ripeto, giovani, e ben si poteva sperare che facessero, in seguito, qualche cosa di buono. Ma quando due ragazzi e due speciali lavori di laurea vengono citati come documenti del primato dell'Italia negli studî storici nell'anno di grazia 1911, allora il piú modesto cultore di studî dell'antichità doveva domandarsi:

«Corpo di Bacco, ma che cosa hanno fatto, dunque, tutte quelle brave persone che occupano cattedre universitarie, e che si sono procacciata bella fama negli studî di storia antica? Che cosa hanno fatto Giacomo Boni, Rodolfo Lanciani, Ettore De Ruggiero, Dante Vaglieri, Luigi Cantarelli, Iginio Gentile, Attilio De Marchi, Oberziner, Cocchia, De Petra, Pirro, Columba, Ciaceri, Niccolini, e, passando al diritto, che è tanta parte della storia romana, che cosa hanno dunque fatto Vittorio Scialoia, Carlo Fadda, e il Bonfante, il Pacchioni, il Costa, il Riccobono? Questi bravi signori, evidentemente, hanno scroccato fama e prebenda, se tutto il loro lavoro, per mole almeno, gigantesco, deve cedere il passo, che dico, deve senz'altro andare eclissato dinanzi alle dissertazioni di laurea di due ragazzi

Ma, lettor mio buono, quei due ragazzi uscivano dalla scuola del Beloch, dunque erano di fabbrica tedesca. Di fabbrica tedesca erano anche, secondo il Beloch, sebbene erano e sono italianissimi, il De Sanctis e il Pais, scolaro del Mommsen. Dunque, se l'Italia ha conseguito il primato negli studî di storia antica, gli è che un italiano s'è andato a perfezionare nel paese della birra, e un tedesco è venuto a insegnare nel paese del vino. Gli altri, senza bollo tedesco, sono un branco di ciuchi.

Che questo ragionamento lo facesse un tedesco, nessuna meraviglia. Un asino spalanca il gorgozzule, non chiedetegli un trillo di rosignolo. Avrebbe invece potuto far meraviglia che codeste castronerie si trovi in Italia una rivista che le stampa, gonzi che se le bevono, succubi intellettuali che le applaudono e fanno la corte a chi le ha scritte.

 

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Avrebbe potuto e potrebbe far meraviglia: ma non fa a chi conosca da vicino il feticismo per la Germania che imperava e che impera tuttora, per quanto opportunamente larvato, nelle nostre università. Mi sono un po' seccato delle documentazioni; e siccome documentazioni di tal fatta si rinvengono a prima vista negli scritti di qualsiasi universitario, stralcio dai miei ricordi personali qualche aneddoto ameno.

Tizio, discepolo, in una discussione di laurea, riferisce a Caio, suo esaminatore e filologo di grido, certe argomentazioni illogiche, al solito, e puerili, di un qualsiasi Eselkopf alemanno. Caio fraintende, crede che le suddette argomentazioni siano di Tizio; e, siccome fuori della filologia è persona di buon senso e di mente acuta, ne riconosce la goffaggine e la puerilità, e le combatte con finezza e con arguzia, divertendocisi, senza badare alle proteste di Tizio. Il quale, solo dopo l'intera confutazione riesce a far intendere che quegli argomenti non sono suoi, bensí di Eselkopf, e che egli anzi vuole confutarli. Momento di silenzio imbarazzato: e poi, incredibile se non l'avessi udito con le mie orecchie, gli argomenti di Eselkopf sono accettati come assiomi, e confutata animosamente la confutazione di Tizio.

Un altro filologo, a un giovine che gli ha inviato un volume di cinque o seicento pagine, risponde: «Ho letto con piacere il suo diligente lavoretto. Ha consultato l'opera del Wilamowitz?» (saranno state una dozzina di pagine e no).

Terzo ed ultimo aneddoto. Ad un esame, uno scolaro dice che sotto l'apparenza scherzosa le satire d'Orazio nascondono un contenuto serio. E il filologo professore, perentoriamente: «Un tedesco le ha chiamate eine lachende Satir». Capite? Mica Buecheler, o, che so io. - Un tedesco. Tanto nomini nullum par elogium. - E per non essere bocciato, lo scolaro dove' striderci.

 

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Ma - interrompe a questo punto l'arguto lettore, - e che razza d'uomini erano quelli invasi da cosí cieco fanatismo? Asini? Citrulli? Procaccianti?

Neanche per sogno. Erano, tranne qualche eccezione, uomini di gran coscienza, di molta dottrina, e spesso non privi di un certo gusto letterario. Se non che erano intossicati sino alle midolla dai batterî della Filologia scientifica, che ho isolati e studiati a lungo nel corso dei miei articoli.

E poi, c'era anche un'altra ragione, d'indole non interamente intellettuale, bensí pratica; ma non però meno efficace e spiegabile.

Gli studiosi italiani che dal '70 all'80 circa si recavano in Germania, lasciavano un paese dove gli studî erano tenuti in pochissimo conto, gli studiosi remunerati poco o nulla, le biblioteche sprovviste, le facoltà universitarie incomplete o addirittura informi. E in Germania trovavano invece una organizzazione perfetta, cattedre per qualsiasi ramo dello scibile, scuole di magistero, biblioteche ricchissime, ordinatissime, larghissime nei prestiti, bene illuminate e ben riscaldate.

Il professore italiano, si chiamasse pure Giosuè Carducci o Francesco De Sanctis, era in Italia un povero diavolo, che abitava al quarto piano, in un quartiere fuori mano, magari operaio, dentro una casuccia meschina, sguernita, spesso fragrante di cucina e sonora di querele e di risse puerili.

Ed Herr Professor, fosse pure uno impermeabile zuccone, abitava un villino suo, sopra un declivio aprico, con un giardino a roseti e viali di ghiaia, dove scherzavano bimbi rosei, biondi, paffuti, nettissimi. Apriva l'uscio una correttissima Fräulein (possibile fosse una cameriera?) in attillato abito nero. E per una sfilata di ampie stanze ben mobiliate, tra una fresca fragranza di atomi resinosi, il povero neofita italiano (il pidocchioso italiano, come ci chiamano i tedeschi nei momenti d'intimità affettuosa), giungeva nel sancta sanctorum, cioè nello studio di Herr Professor: due, tre stanze, con magnifici scaffali, libri con rilegature di gran lusso, busti, fiori, quadri e diplomi per le pareti, secondo i gusti, il busto dell'imperatore; e in un angolo, serio ed impassibile come un automa, il segretario, che ricopia a mano o a macchina le lucubrazioni di Herr Professor.

E chi poteva essere quello spirito indipendente, quello straccione filosofo, quel protervo buddista, che dinanzi a tanta magnificenza osasse proporre a sé stesso l'irriverente quesito se per caso, ad onta di cosí rutilante allestimento scenico, Herr Professor potesse essere un solennissimo lavaceci?

Arrogi che Herr Professor, venerato dagli studenti e dai cittadini come un Indigete, era in genere cortese ed accogliente verso l'umile ospite: sicché questi vedeva riverberato sopra la sua misera persona qualcuno dei raggi che sprizzavano dalla calva fronte e dai lucidi occhiali del dotto alemanno. Arrogi tutti gli elementi della cultura extra-scolastica, riviste, teatri, concerti, gipsoteche, gallerie, facili, a portata di mano. Arrogi una vita scrupolosamente ordinata, come conviene agli studiosi, una sapida cucina, un confortevole riscaldamento. E tu vedrai, paziente lettore, come al povero studioso che giungeva dal disordine e dalla incuria italiana, la Germania apparisse come la vera patria dell'aspirante alla cattedra universitaria.

E quasi tutti erano giovani, negli anni in cui l'animo si protende avido e duttile per ricevere le impressioni che rimarranno poi incancellabili. Tali impressioni, per questi uomini, si inquadrarono in sagome tedesche. E la immagine del primo amore, che non vanisce mai dall'anima umana, anzi la impronta della sua luce per tutta la vita, ebbe per essi le gote rosee e le chiome bionde d'una sentimentale Margherita.

Ora intenderete bene come tutti i giovani studiosi che trascorsero in Germania gli anni del loro noviziato scientifico, tornati qui in Italia, guardassero poi sempre alla Germania come al paradiso, all'eldorado, al paese di cuccagna degli studî, e vagheggiassero il sogno di costruirne in Italia uno simile a quello. Piú piccino, s'intende, ma perfettamente uguale in ogni sua parte. E per riuscire a tale costruzione, occorreva dunque non perder mai di vista l'originale, il modello da copiare. E cosí fecero quelle brave persone; e cosí dissero che bisognava fare ai loro scolari.

Dunque, le intenzioni erano buone: la condotta di quegli uomini era coscienziosa e umanamente spiegabile.

E riuscí fatale alla cultura italiana.

 

 

 





42 Rimando il lettore ad un libro bellissimo e rimasto quasi inosservato, del General Filareti: La conflagrazione europea e l'Italia (ed. Carabba). General Filareti vi sa di pseudonimo? Anche a me: ma ne so quanto voi.



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