Ettore Romagnoli
Minerva e lo scimmione

VII. LA SELEZIONE ALLA ROVESCIA

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VII.

LA SELEZIONE ALLA ROVESCIA

 

Quando in Italia si procede' al riordinamento degli studî classici, la raccolta e l'epurazione del materiale, non solo per i grandi autori, ma anche per i minori e per molti dei minimi, attraverso le grandi trafile dei periodi filologici che abbiamo esaminati (cap. II), erano già compiute: anzi si poteva scorgere qua e qualche sintomo del decadimento, che s'è poi manifestato, dovuto alla manía di far qualche cosa di nuovo dove tutto era già stato fatto.

E perciò sarebbe stato perfettamente inutile che gli Italiani ricominciassero questo lavoro per proprio conto. Essi avrebbero dovuto piuttosto profittare di quel materiale, elaborarlo secondo la propria indole, e dare al loro paese tutto quanto mancava nel campo della cultura classica: ristampe corrette di classici, classici commentati, traduzioni di tutti gli autori, lessici, studî generali e speciali intorno alla letteratura, la storia, la filosofia greca e latina.

«Un momento - m'interrompe qui un puro filologo - . Gli eroi della filologia alemanna erano andati ben oltre il semplice lavoro di preparazione. Essi avevano anche date alla patria tedesca tutte quelle ulteriori elaborazioni, tutti quei lavori di sintesi che voi avreste vagheggiati per la patria italiana. Dal momento che, come voi dite, avremmo dovuto servirci del loro lavoro analitico, perché non profittare anche delle sintesi? Era piú comodo e sbrigativo».

Adagio, signor mio. La prima parte, dico la preparazione del materiale, cioè la bisogna strettamente filologica, è realmente opera di carattere oggettivo; sicché, salvo imponderabili differenze, tanto vale la edizione critica d'un tedesco, quanto quella d'un francese. Ma in ciascuna ulteriore elaborazione entrano subito in folla elementi fortemente soggettivi: il gusto, il sentimento, la passione, in una parola quel complesso di doti che costituiscono il carattere specifico, vuoi d'una persona, vuoi d'una stirpe: complesso ineliminabile, senza il quale nessuna opera di pensiero sarà mai altro se non grama tediosa compilazione. Ora quei libri, composti bene, e spesso benissimo, per la patria tedesca, non potevano convenire, e non convengono infatti, a cominciar dagli ottimi, alla intelligenza, al carattere, al sentimento italiano. E quali insidie possano poi nascondersi in simili travasamenti, fu ben mostrato da Aldo Sorani, con l'esempio di certi volumetti fatti tradurre dal tedesco in italiano, a edificazione dei giovani e delle persone culte, da quei filologi medesimi che reclamano la originalità del lavoro italiano nelle trascrizioni dei codici. In uno di quei volumetti, per non citar che un esempio, si insinua con molto garbo che l'impero tedesco è il legittimo erede del potere della saggezza e del gusto di Atene e di Roma43.

Torniamo a noi. Gli studiosi di cose classiche avrebbero dovuto in Italia dedicarsi a questa ulteriore elaborazione. Ad essa li esortavano la opportunità del momento, la nativa attitudine degli Italiani, meglio disposta alla sintesi che non alla semplice analisi, e infine i grandi precursori, dal Poliziano, al Leopardi, al Foscolo; i quali tutti, e coi precetti, e con l'esempio, insegnarono che precipua dote dello studioso di cose classiche dev'essere, non la pazienza, dichiarata dai tedeschi requisito supremo del filologo, bensí il fine intuito letterario44.

Ma i valentuomini chiamati allora a riformare, a dirigere tali studî, erano infatuati, imbevuti, intossicati sino all'intime fibre di germanesimo e di metodo scientifico. Scientifico è, vedemmo, secondo i novissimi filologi, solo l'appuramento di fatti precisi, per quanto minimi e in apparenza trascurabili. E però, stringi stringi, vennero dichiarati scientifici solo i lavori di questo genere:

1) Trascrizioni di codici (magari fotografie: anzi, piú scientifiche, perché piú fedeli).

2) Collazioni dei medesimi.

3) Cataloghi (anche spropositati).

4) Discussioni e accertamenti di fatti singoli, purché «ben limitati; perché tanto piú è limitato, e tanto piú chiaro riesce il campo d'osservazione». Microcefalico, ma testuale.

5) Congetture. Questa è la piú gran fabbrica di mulini a vento. Ma era di gran moda in Germania, e strideteci.

Questi dunque, ed altri di tale risma, lavori scientifici: gli altri tutti, dove bisognasse far lavorare un po' il cervello, bollati in blocco come fantasticaggini, castelli in aria, esercitazioni da dilettanti.

Ora, poiché la maggior parte, anzi, tutti quelli che in Italia si dedicavano a tali studî erano, come tuttora sono, persone che debbono guadagnarsi il pane quotidiano; poiché dinanzi a loro non c'era aperta altra via se non la cattedra; poiché, infine, per giungere alla cattedra, bisognava passare sotto le forche caudine di esaminatori scientifici, i quali nel giudicare i titoli non sempre sapevano fare astrazione del genere, e giudicare il valore intrinseco: ne venne, ineluttabile conseguenza, che tutti questi studiosi, convinti o non convinti, si diedero anima e corpo alla sedicente produzione scientifica, trascurando l'altra; che, o mancò assolutamente, o rimase affidata a mestieranti.

Uno dei corollarî pratici di tale uniforme indirizzo fu che la scuola italiana, sino ai nostri giorni, rimase sprovvista quasi interamente di strumenti proprî, e dove' dipendere dalla Germania. E adesso che, se Dio vuole, le vie della Germania sono chiuse, ce ne siam dovuti accorgere.

Ma questo sarebbe il meno. Gli è che codesto cieco esclusivismo, con un sottilissimo ingranaggio di cause e d'effetti, condusse ad una strana svalutazione dell'ingegno italiano, agli occhi degli stranieri, e agli occhi nostri medesimi. Esaminiamo anche questo processo.

Il cosí detto metodo scientifico, fu, come vedemmo, invenzione tedesca. Esso si adattava perfettamente, senza una grinza, alle loro facoltà di formiche: onde nel maneggiarlo sono e rimarranno sempre superiori a tutti; ma meno di qualsivoglia popolo riusciranno ad emularli gli Italiani, immaginosi, nervosi, insofferenti. Essi invece si lasciarono scioccamente indurre alla impossibile gara. E poiché la loro inferiorità riuscí piú che tangibile, con la loro morbosa prontezza a denigrar sé stessi, si affrettarono a riconoscerla. I tedeschi presero atto, con benevolo sussiego.

Anche piú palese fu la miseria dei risultati. E questa, oltre che dalle minori attitudini degl'Italiani, derivava necessariamente da un'altra ragione. Come abbiamo già detto, quando l'Italia fu spinta nel nobile arringo della filologia scientifica, il meglio del lavoro era già compiuto. Le vigne erano state già vendemmiate, s'era fatta anche la ribrúscola. Non rimaneva che qualche acino qua e , sfuggito agli occhi líncei delle spigolatrici. Fruga fruga, i poveri Italiani trovavano poco o nulla. Onde, in quella cinquantina d'anni che durò questo travaglio da pitocchi, gl'Italiani, paragonando alla produzione veramente colossale della filologia tedesca quel pochissimo che riuscivano a mettere insieme, si sentivano striminzire, sentivano via via germinare in fondo al caro cuore lo scoraggiamento e la disistima di sé medesimi, e giganteggiarvi sempre piú l'ammirazione per gli eselkopfiani.

«Non siamo ancora abbastanza scientifici! - badavano pertanto a gridare i maestri. - In Germania, in Germania! sono le uberrime fonti del sapere!». I poveri neofiti sgobbavano, vincevano le borse di perfezionamento, correvano in Germania, facevano ogni sforzo per intedescarsi. Ne ho conosciuto qualcuno che, non miope, inforcava occhiali di puro vetro, non calvo, si radeva la zucca a fil di rasoio, per somigliare anche nell'aspetto ad un filologo tedesco. Ma tutto era inutile. Qui, dove fiorisce il mirto, la filologia scientifica non si acclimava. Veniva su stentata, cachettica, con le fibre attossicate.

Herr Eselkopf, per quanto benevolo, non poteva non accorgersi di tanta miseria. Non ritirò l'augusta sua protezione, ma trattò i famuli di qui e la loro produzione col massimo disprezzo. Tutti i sassolini fan brodo (son proprio brodi di sassolini): ma quelli italiani, Eselkopf non li raccattava neppure. Vo' dire che i filologi tedeschi, pur proclamando che «bisogna tener conto di tutto», dei lavori scritti in Italia non tenevano il menomo conto, anzi si guardavano bene pur dal citarli. E i filologi italiani talvolta strepitavano un po'. Ma come i cúccioli, che guàiolano per alle legnate, ma finiscono per ritenere dotato di poter sovrumano chi glie le ha appioppate sul groppone.

 

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Questo per la produzione. Nelle aule delle Facoltà di lettere il metodo scientifico produsse poi un effetto deleterio, allontanando dagli studî letterarî quei giovani appunto che a tali studî avevano inclinazione e reali disposizioni.

I giovani che si presentano nelle Facoltà di lettere si dividono nettamente in due categorie.

1) Quelli dotati di reale passione per gli studî letterarî.

2) Quelli che mirano al diploma, e basta.

I primi, ebbri del giovanile amore per l'arte e per la poesia, che nel cuore degli eletti avvampa con piú furia di ogni altro amore, vengono alla Università a chiedere una parola di luce, a chiedere la rivelazione d'un mondo appena intravisto nelle scuole secondarie. Nel Liceo, pensano, tutto è necessariamente monco, superficiale, annegato nella miseria scolastica. Ma nell'Università tutto sarà elevatezza e fulgore. Qui spazieremo infine a nostro agio, dietro le orme di guide sapienti, nei giardini meravigliosi, nelle foreste incantate della poesia e della storia. Qui apprenderemo, infine, a cogliere la magica poesia d'un inno di Pindaro, la ermetica saggezza d'un canto di Lucrezio, la luce armonizzata d'un canto del Paradiso. Il loro cuore trepida come quello dei Coribanti sulla soglia del santuario.

Entrano nel santuario, e che cosa trovano? O, per meglio dire, che cosa trovavano, poiché il metodo scientifico ebbe stesa in tutte le Università la ferrea tirannide che oramai, per fortuna, da qualche anno in qua, comincia a vacillare?

Ahimè! Un soporifero semibalbuziente, per cinque o per dieci lezioni, attraverso un formicolio di nomi e di opinioni tedesche, stillava frigidi sudori per decidere se convenisse dire Virgilio o Vergilio, Marco Accio Plauto o Tito Maccio Plauto. E questa era la letteratura latina.

Un altro consacrava un anno intero per allineare tutte le opinioni, e abbiamo detto quanto possano concludere, schiccherate dai perdigiorni tedeschi e seguaci intorno alla famigerata questione omerica. Omero magari non si leggeva. E questa era la letteratura greca.

Un terzo dettava da qualche suo scartafaccio, per un anno o due, schemi metrici copiati da qualche codice inedito, o impiegava qualche lezione a stabilire se il tal poeta fu battezzato il 14 a sera o il 15 mattina. Questa si chiamava letteratura italiana.

Un quarto, e poi basta, ché anche il ricordo mi nausea, vi metteva sotto il naso qualche cronicaccia medievale, e vi faceva trascorrer l'anno a leggiucchiare e tentare emendamenti del testo spropositatissimo. Quando per un paio d'anni avevate ingoiata simile bigutta, par di sognare, ma vi assolvevano ad insegnare storia moderna.

Il povero neofita cascava dalle nuvole. E vuoi subito, vuoi dopo qualche vano tentativo di resistere a quel martirio, fuggiva per disperazione le aule soporifere. E a mano a mano, tale aureola di papavero ebbe circondate le Facoltà di Lettere, che i giovani d'ingegno neppure le cercarono piú, ma tentarono lor ventura in plaghe meno paurose, nella libera letteratura o nel giornalismo: e formarono, e formano tuttora, un nucleo di cultura interamente separato dal mondo universitario.

Ora poi, mentre i giovani forniti di attitudini artistiche e letterarie venivano a mano a mano dissuasi o respinti dalle Facoltà di Lettere, gli altri, quelli del diploma, venuti senza reali attitudini, e, del resto, senza neppur presunzione d'averne, si trovarono d'un tratto a sentirsi cresciuto, come per miracolo, il piú pronunciato bernoccolo per la letteratura scientifica. Molti che nel Liceo ce la sfangavano e no, col minimo dei punti, che stentavano a legger correntemente un brano di latino, detestavano i poeti greci, sudavan freddo a mettere giú una paginetta d'italiano e a leggere a garbo una terzina di Dante: tutti questi ragazzi si trovarono come confezionati apposta da Domeniddio per gli studî universitarî. Riveder codici, frugacchiare archivî, stender cataloghi, allineare le opinioni altrui, respingere come dilettantesimo ogni velleità di gusto, ogni aspirazione artistica, erano mestieri che parevano inventati apposta per loro. Ci si buttavano a corpo perduto, c'ingrassavano a vista d'occhio. E non vi so dire se i professori scientifici, sempre piú inaciditi via via dal palese abbandono in cui li lasciava intanto il mondo culto non accademico, tenevano cari quei docili apostoli. Li accoglievano, li tiravano su a bricioline e pillole di severità metodica, li assolvevano dottori, e poi cominciavano ad arrabattarsi e mestare per procurare ad essi il viaggio di perfezionamento a Gottinga, la cattedra di Liceo, la cattedra, poverini, d'Università. Erano, , un po' ridicoli e scocciatori; erano svaniti di molto e cacasenni; ma anche erano, càttera, i puri rampolli del buon seme scientifico, quello procurato in Germania. E a suo tempo avrebbero spigato altri cacasennini piú piccinini, ma sempre a loro immagine e somiglianza. E cosí finalmente la filologia italiana sarebbe divenuta davvero e per sempre, quali essi la vagheggiavano, tritume, polverume, poltiglia di parolette. E le facoltà di lettere si avviavano gloriose e trionfanti al rimbambimento completo.

Aggiungiamo súbito che non ci sono arrivate e non ci arriveranno mai. È ben difficile che dall'Italia vada assolutamente in bando il buon senso. Reazioni sursero qua e , alcune ebbero buon esito, molte ridicolaggini furono proscritte. Tuttavia è indiscutibile che nel loro complesso le Facoltà di Lettere italiane sono tuttora infeudate ai metodi, e ahimè, purtroppo, ai professori tedeschi. Anche ora, in tempo di guerra, l'atto d'autorità d'uno di quei padreterni squinternati, conta, agli occhi delle «persone serie», piú che non le logiche argomentazioni e gli incontestabili documenti d'un povero diavolo italiano.

Cosí dunque, per anni ed anni, si venne esercitando, nelle Facoltà di Lettere, una vera selezione alla rovescia. Allontanati gli eletti, furono allevati con gran cura quelli negati all'arte e alla letteratura; i quali, o bene o male, formarono dunque un gruppo a sé, il gruppo che diremo classico-scientifico, recisamente opposto all'altro, che diremo letterario artistico. Fu un vero scisma. E, naturalmente, le due parti si guardarono in cagnesco.

 

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Questa scissione implicò uno snaturamento profondo degli studî, dell'arte, della mente italiana.

Pensate un po', infatti, al tipo del letterato italiano, quale, delineatosi fin dagli albori della nostra vita nazionale, s'è poi mantenuto sino agli ultimi tempi. Dante scrive trattati teorici di letteratura, di lingua, di politica e di scienze, e compone la Vita Nuova, il Canzoniere e la Divina Commedia. Il Boccaccio si sprofonda nella piú minuta e riposta erudizione, e dalla vita piú libera e godereccia toglie i colori pel suo libro immortale. Petrarca è padre dell'umanesimo, veglia le notti a decifrare codici, scrive lettere e libri e un poema in latino; e la piú sottile e viva psicologia, il piú raffinato sentimento musicale ispirano le rime d'amore a cui deve la sua fama perenne. Poliziano inizia la filologia, usa come lingue native il latino e il greco; ma gli studî e le cure minute non ottundono la sua sensibilità artistica, anzi gli offrono incomparabili strumenti alla espressione poetica. Machiavelli notomizza Livio e scrive le Storie fiorentine; ma nella Mandragola abbandona tutte le briglie alla comicità piú salace e piú sfrenata. Ma che giova moltiplicare gli esempî? Per tutti i nostri grandi, dall'Ariosto al Foscolo, dal Berni al Parini, dal Tasso al Leopardi, l'arte e la dottrina non furono mai due cose, bensí una sola, indivisibile: questa è il terriccio prezioso onde quella attinge linfe purificate e arricchite nel travaglio dei secoli: perciò i frutti ne sono cosí opulenti e fragranti. Questa indissolubile unione è tanto profonda nel sentimento italiano, i genî della nostra stirpe ne ebbero cosí profonda coscienza, che persino i grandi cultori delle scienze esatte non persero mai il contatto con l'arte. E per non parlare del sommo Galilei, basti ricordare il Mascheroni, o il Redi, che lascia le squisite analisi naturalistiche per dispiegare alle nostre pupille attonite l'arazzo luminoso versicolore del «Bacco in Toscana».

Il metodo scientifico spezzò in due, con un netto colpo brutale, quella bella unità; e i due tronconi si divincolano ancora, uno qua, uno , in agonia spasmodica. Da una parte lo scienziato. Lo scienziato tutto irto di cifre, impermeabile a qualsiasi finezza d'arte, che scrive come un emarginator di pratiche, che dichiara indegna dell'austerità scientifica (oh, la volpe e l'uva!) ogni cura di forma e di stile. Dall'altra, il poeta, il romanziere, il drammaturgo, il giornalista, i quali respingono violentemente ogni contatto con la cultura ufficiale, e dal loro orizzonte hanno escluso, a mano a mano, prima il mondo greco, poi il latino, quindi l'italiano classico, e ultimamente ogni e qualsiasi elemento della cultura passata. Tanto ha potuto l'odio suscitato dall'imbestiamento scientifico.

Il benigno lettore avrà visto a sufficienza quale cordiale antipatia io nutra per quel tipo di dotto. L'ammirazione che esso, grazie alla facoltà mnemonica, riscuote da tanta gente, è scroccata. La semplice dote della memoria, scompagnata dall'acume e dalla sensibilità estetica, è vilissima facoltà, di molto inferiore a quella dei grandi calcolatori, i quali pure non dovrebbero riscuotere, salvo nelle fiere, eccessiva ammirazione. Quando tutte le altre facoltà dormono, non è meraviglia che quell'unica cresca e giganteggi45.

E se non deve destare ammirazione per sé, odiosa e repugnante diviene tale facoltà quando quelli che la possiedono unica se ne servono per attaccare chi vale infinitamente piú di loro. L'arma è insidiosa. Quanto piú velocemente in un cervello le idee si trasformano in successive compagini - e in genere il valore d'una mente è in ragione diretta con la velocità di tali metamorfosi - tanto piú difficile riesce che in mezzo al continuo tramutare rimangano immobili nelle loro caselle le notizie precise. Fate che uno di quei microcefali pedanti colga in fallo magari un grande artista, un gran poeta, ed eccolo gridare ai quattro venti: «Vedete! Tizio la fa da pensatore e da poeta; ma per quanto gratti la sua cetra non giungerà mai a sapere quello che so io, filologo scientifico, autenticato dal bollo di Berlino». Il caso s'è verificato. E il pubblico applaude il microcefalo, perché il pubblico ammira i calcolatori prodigiosi, anche se hanno la coda e le orecchie.

Simpatico è invece, in genere, il tipo dell'artista libero, romanziere, drammaturgo, giornalista, quale s'è venuto formando, massime dall'80, in cifra tonda, ai giorni nostri. Si voglia o non si voglia, questi giovanotti che abbandonarono le aule universitarie, e si diedero all'articolo volante, alla polemica, alla corrispondenza di guerra, hanno essi creata una prosa italiana moderna, disinvolta ed efficace; e, stringi stringi, han dovuto imparare da loro anche quelli che avevano altro fondamento e altra serietà di studî. Piaccia o non piaccia ai critici bocche amare, la produzione dei nostri novellieri, dei romanzieri e dei drammaturghi è tutt'altro che da buttar via: e, secondo me, molti dei moderni drammi italiani possono reggere vantaggiosamente il confronto coi migliori di Francia, sebbene questi siano piú appariscenti e continuino ad occludere le scene italiane per un complesso di ragioni che non è qui luogo di esaminare.

Ma concesso tutto ciò di buon grado, conviene anche riconoscere che quanti abbiano larga e piena conoscenza delle letterature del passato, le quali, volere o non volere, rimarranno pur sempre ineliminabile modulo a valutar la presente, sentono che in tutte le opere contemporanee, non escluse le migliori, manca pur sempre qualche cosa: qualche cosa che troviamo invece in tutti i nostri classici, dall'Ariosto al Leopardi, al Manzoni, al Carducci: qualche cosa che mal tollera definizioni, ma pure è quasi un'intima essenza, pel cui alito un'opera ci sembra come sempre esistita, o, meglio, coeva ad ogni età della stirpe nostra.

Ché se cerchiamo d'analizzare questa intima virtú, noi la vediamo complessa di talune doti fondamentali nelle quali s'impernia e si conclude il genio della stirpe. La coscienza sicura del valore dei vocaboli, quale fu in ogni momento della loro variazione ideologica, risalendo dall'italiano al latino, al greco, cosí da poterlo agevolmente flettere a significare i piú sottili atteggiamenti del pensiero. La sicurezza dello stile, non rivolta a virtuosismo, bensí a stringere idee ed immagini in linee sobrie perfette. La tenacia nel ponderare il proprio soggetto, nel contemplarlo a lungo entro lo specchio del nostro animo, sin che non se ne vegga illuminato ogni anfratto piú riposto. La sobrietà nel trascegliere dalla visione i punti essenziali, i quali poi, nella favellata espressione, bastino a suscitare l'intero fantasma. E infine, la scienza della forma, intesa in senso alto e musicale: scienza che, ad onta di illusorie parvenze, è andata sempre immiserendo, e che si vede fulgere via via, risalendo i gradi della nostra tradizione artistica, dagli Italiani ai Latini, da questi ai Greci insuperati.

La semplice enumerazione di queste doti dice come per conseguirle sia indispensabile un forte e tenace studio, non solo dei grandi Italiani, bensí anche dei Latini e dei Greci. Insomma, le basi di ogni seria disciplina letteraria non si possono fondare che sullo studio dei classici.

È dunque tempo che in Italia abbia fine la scissione fra il mondo degli studî e il mondo dell'arte. Ne abbiamo già analizzati gli effetti funesti. Tornino a comporsi in bella armonia; e matureranno ancora i frutti luminosi fragranti onde il nome dell'Italia nostra brillò, segnacolo d'arte e di luce, anche quando la brutalità straniera la teneva costretta di materiali catene.

 

 

 





43 Rivista delle nazioni latine, Anno I, N. 5, pag. 123 e sg.



44 Rimando il lettore alle osservazioni di Ugo Foscolo intorno al modo di tradurre il cenno di Giove in Omero. Cosí s'intende un poeta: e non già travestendolo in un altro dialetto e facendogli addosso computi sballati d'anatomia microscopica.



45 A suo tempo aveva già fatto tale rilievo Ugo Foscolo (In Antiquarî e critici); il quale, del resto, su molte delle questioni che abbiamo discusse, ha osservazioni profonde e geniali.



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