Ettore Romagnoli
Minerva e lo scimmione

APPENDICE

III.   INTERVISTA CON UGO FOSCOLO SUI POETI CLASSICI E L'ASINITÀ DEI PEDANTI

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III.

 

INTERVISTA CON UGO FOSCOLO

SUI POETI CLASSICI

E L'ASINITÀ DEI PEDANTI

 

Dal Giornale d'Italia del 24 luglio 1917.

 

Dico la verità. Quando ho visto, nel Giornale d'Italia, tante e tante autorevoli interviste allinearsi come le perle d'una preziosa collana, ho sentito vacillare in me le piú salde e meditate convinzioni. Mi mancava il conforto d'una parola concorde. E poiché mi veniva rivolto pubblico invito a cercare nelle «sfere dell'alta coltura» tanti studiosi che consentissero meco quanti erano quelli che tiravano a palle di fuoco sul mio calloso Scimmione, mi colse un attimo la tentazione di mettermi a tale ricerca.

Un attimo appena. E súbito dopo, un dilemma inevitabile mi trattenne fra i suoi corni acutissimi. «O tu invece che alleati trovi nuovi contradittori; e la tua solitudine risulta perfetta e fatale. O ti dànno ragione. E tu, che nello Scimmione hai proverbiata l'Università italiana perché suddita ai metodi alemanni, avrai contribuito a dimostrarla invece italiana, italianissima. E allora , ti sarai data la zappa sui piedi».

E allora, mi balenò un'idea - è una cosa che può accadere a tutti: quella d'intervistare qualcuno dei nostri grandi del passato, di quando la germanofilia non era stata ancora inventata.

E incominciai da Ugo Foscolo. Né tedierò adesso il lettore narrandogli come, sviluppando un piano di Wells, potei giungere, nel regno delle ombre, a quel Grande. Ma della fedeltà fonografica della intervista tutti potranno accertarsi confrontando le parole del Foscolo, che io riferisco, con la edizione Le Monnier delle sue opere, che io cito scrupolosamente, tomo per tomo e pagina per pagina. Tronco il preambolo, e comincio.

 

*

* *

 

Io - Io reputo, Maestro, che fra i grandi Italiani sii tu quegli che ha conosciuto piú profondamente ed intimamente la lingua e gli autori greci. Forse piú del divino Leopardi; e certo un po' piú di Ruggero Bonghi, che ti vorrebbe apporre, ma ti doveva aver letto poco. Ed anche dei Latini fosti dottissimo. E assai chiaro insegnasti, e provasti con l'opera, qual succo vitale si possa derivare dallo studio dei classici per le nostre lettere e per la vita civile. Perciò a te mi rivolgo, affinché tu disciolga alcuni gravi dubbî che m'irretiscono oggi il pensiero.

- Io so che tu sin da fanciullo assai ti nutristi dei miei scritti, e molto mi amasti e venerasti. Onde voglio appagarti. Di' liberamente.

Io - Arde oggi gran guerra tra i letterati ed i filologi d'Italia. E alcuni, e dei famosi, sostengono che l'unico lavoro possibile e serio intorno agli autori classici sia quello strettamente filologico: cioè copiare e collazionare codici, e allestire edizioni critiche. E hanno lanciato alla Patria un bando, che, se raccogliesse consenso, convertirebbe tutti gli studiosi, e massime quelli di piú forte ingegno, in una repubblica di stampatori. Che dici di questa idea. Maestro?

Foscolo - Dico che «io vorrei che cessasse questa libidine di codici e di varie lezioni. Questi sono i fasti della bella letteratura italiana nei secoli passati. E la libidine ricomincia a penetrare le fibre cornee degli eruditi italiani, che, violando le prime ed ottime edizioni di Dante Alighieri, vanno ripescando strane lezioni nelle tarlature dei codici». (I, 403).

Io - Lascia Dante e la letteratura italiana. È un altro vespaio, dove per ora non voglio cacciarmi. Torniamo ai classici greci e latini. E dimmi: con quale altro mezzo, se non con questo cercar nelle tarlature dei codici, si potrà stabilire sicuramente il testo dei grandi autori?

Foscolo - Il testo, il testo! Sii pur certo che quanto piú ci allontaniamo dal nostro grande Umanesimo, tanto piú i testi si corrompono ed imbarbariscono. Rammenti che cosa intervenne a me, quando volli tradurre la Chioma di Berenice? «In tanta battaglia ed incertezza di lezione, mi rifuggii alla piú antica, ove non riuscisse inintelligibile e assurda; prendendomi per esemplare l'edizione principe, e quella dell'età Aldina: certo almeno che sono estratte dai codici». (I, 241).

Io - Lasciamo la critica dei testi, vedo che è poco nelle tue grazie. Non vorrai però negare che ci sono altre importantissime bisogne filologiche, volte ad assodare, come dicono ora, le minime verità, che son pure indispensabili a conoscere le grandi, ed è cómpito della scienza indagarle. Pensa. Siamo ancora perplessi se debbasi dire Virgilio o Vergilio: sussistono dubbî se Plauto si chiamasse Accio o Maccio; e chi scrive intelligens, e chi intellegens; e chi scrive cum, e chi quum....

Foscolo - «Fuggiamo, figliuol mio, fuggiamo a tutto potere le liti de literis vocumque apicibus! Se debbasi scrivere cum o quum, lacrimae, lacrymae o lachrymae, coelum o caelum, e siffatte quisquilie grammaticali, ho creduto sempre riverenza a chi legge, a me stesso, ed al tempo, il non disputare». (I. 242). «A chi vedi che possano giovare dei volumi sull'abbiccí o sull'uso d'un pronome?». (I, 403).

Io - Tu non m'hai lasciato finire. Non è quistione solo di incertezze e quisquilie grammaticali, bensí anche d'altre cose assai piú palpabili e massicce. Il presidente dell'Atene e Roma, palladio in Italia degli studî classici, ebbe a sentenziar pubblicamente che «la visione storica del mondo antico non può aver luogo se non si volga l'attenzione anche alle minime e meno estetiche manifestazioni di vita intellettuale e morale». (Giornale d'Italia, 27 aprile).

Foscolo - «Rispondigli con Seneca che indagare chi fu la madre di Enea, e se Saffo si concedeva o non si concedeva a prezzo, e se Anacreonte fu piú vinolento o piú salace, questa e simili cianfrusaglie, anziché volerle apprendere, chi le sa converrebbe le dimenticasse». (I, 228).

Io - E sia! Lasciamo anche i fatti minuti. Ma, e le chiose, e i commenti, e le discussioni, che servono a far meglio penetrare nello spirito degli autori antichi? Guarda la questione omerica....

Foscolo - Chétati, figlio, per l'amor del cielo! «Chi ad ogni verso dell'Iliade o dell'Odissea ponesse dieci volumi di chiose, sarebbe forse discreto, immensa è la biblioteca degli scrittori commentatori d'Omero dal secolo di Pisistrato al nostro. Quanto profitto ne abbia ricevuto la poesia nostra, quale profitto abbiano in noi fatto tante lezioni d'ogni genere, dall'analisi grammaticale sino alle teorie metafisiche intorno ad Omero, non veggo». (I, 317).

Io - Mi sembra, con sopportazione, che tu sii dotto, ma vivace ed esagerato. Se concludono tanto poco queste ricerche e discussioni e teorie metafisiche, come spieghi il fatto che solennissimi dotti consumano in esse tutta la loro vita? Come potrebbero sussistere tanta dottrina e tanta capinsaccaggine?

Foscolo - Ricorda le parole, ch'io feci mie, di Gian Giacomo Rousseau: «I dotti hanno la piú parte mente ancor di fanciulli. La loro vasta erudizione risulta piú da una moltitudine di immagini che non da una moltitudine di concetti. Le date, i nomi proprî, i luoghi, tutti gli oggetti isolati e spogli d'idee, ricordano solo per la memoria dei segni». (I, 409).

Io - E non ti pare già essa da sola mirabilissima dote, questa memoria?

Foscolo - Mai no. «Non v'è molto da meravigliarsi che la facoltà della memoria sia fortissima, quand'è procacciata a spese di tutte le altre facoltà. Quando il cuore si rimane senza affezioni domestiche, l'immaginazione senza illusioni, il raziocinio senz'attività nelle altre operazioni dell'intelletto, la memoria, anche senza essere naturalmente straordinaria, trova libero il campo ad agire senza interruzioneimpedimenti. La mente umana in siffatta situazione è piú inerte e meno industriosa ch'altri non crede». (IV, 279).

Io - E questa è la bella stima che tu fai degli eruditi? Li reputi anime e cervelli vuoti?

Foscolo - Vuoti no, ma colmi di stoppa. «Hanno pieno il capo di alfabeti e di citazioni, che il cervello fugge e va a stanziare ove dovrebbe esservi il cuore: ed il cuore.... dov'ei sia, né io né tu né essi lo sanno». (I, 407).

Io - E come spieghi dunque la reputazione grande che riscuotono presso la gente?

Foscolo - Varie ne sono le ragioni, ed io t'esporrò le principali. Innanzi tutto, «pochissimo scrivono» (II, 144), e questo pochissimo in «latino barbaro, in italiano semibarbaro, con formole matematiche: un caos pieno di citazioni e di note che non possono stare né col testo né senza il testo: come i carciofi vecchi, spine di sopra, barbaccia irta di sotto». (II. 269). Poi «nei loro libri recitano a un tempo da sofisti e da poetastri, assottigliando il fumo, e gonfiando le minime cose. E minacciano e gridano per dar peso alle loro inette tragedie, di che van pieni infiniti volumi che fanno noiosa la lettura dei classici». (I, 242). Terzo «son gente clamorosa, implacabile, intenta ad angariare i sudditi ed a scomunicare i ribelli». (I, 242). Sicché, tra per non potere leggerlicapirli, e per credere alle loro apologie, e per temere le loro furie, la gente si tace e li ammira. Aggiungi poi che, sebbene si azzannano e dilaniano fra loro perennemente, dinanzi alle credule turbe non ristanno dal magnificare le opere uno dell'altro. Già Addison, con parole che pure ho riferite nei miei scritti, osservava come questi rugumatori di pergamene «fan grido l'uno all'altro assai piú che non le persone di vero ingegno. A leggere i titoli magni ond'essi onorano chi, verbigrazia, stampò un classico o collazionò un manoscritto, lo crederesti gloria della repubblica letteraria e meraviglia dell'età sua. E, se cerchi bene, avrà rettificata una particella greca o aggiustato un periodo fra le sue virgole». (I, 228).

Io - Dunque non è cosa tanto difficile procacciarsi fama di erudito?

Foscolo - No no: «fu sempre ed è agevole impresa l'usurparsi titolo di Maestro con poco sudore, e l'ostentare al volgo dei letterati e dei grandi certo lusso d'inoperosa dottrina». (II, 79).

Io - Beh, insomma è inutile insistere: tu hai proprio in uggia grammatici dotti ed eruditi.

Foscolo - Assai piú che non immagini. «Io l'ho giurata all'anima dei pedanti. Il cane è nemico del gatto, il gatto del topo, il ragno dei moscherini, il lupo delle pecore ed io de' pedanti». (I, 407).

Io - E nessun conto fai di quella multiforme attività che essi dichiarano «severamente filologica» o «filologica scientifica»?

Foscolo - Dovresti oramai avere inteso che secondo me «le vane congetture e le correzioncelle e le faticose bazzecole dei critici sono meri giuochi e futili ostentazioni d'ingegno che servono ad affaticar l'animo del lettore anziché ad erudirlo» (I, 228), e a «far noiosa la lettura dei classici». (I. 242).

Io - Sta, ch'io t'ho colto in fallo. Tu disprezzi e beffi questi compilatori di congetture e correzioncelle e aridi commenti. E di che cos'altro hai tu rempiuto il tuo commento alla Chioma di Berenice, che d'intorno a quarantasette distici si venne gonfiando per trecento pagine in ottavo grande?

Foscolo - Ah, ah, ah, tu vuoi farmi ridere! Anche tu «hai preso per moneta giusta quel mio scritto?» (I, 407). «E non sai tu dunque che tutto questo lavoro non è altro che una grave e continuata ironia sulle verbose disquisizioni dei commentatori? Non sai tu che da prima dispensai ad arte poche copie dell'opera; indi, vedendo effettuato il mio disegno, misi fuori i rimanenti esemplari, con un'appendice che chiamai l'addio ai miei lettori, dove, mentre svelo l'inganno, faccio CONOSCERE I MISTERI E GLI ABUSI DELLA FILOLOGIA?». (XI. 308).

Io - Questo e non altro, hai voluto fare?

Foscolo - , appunto. Scrissi «tale quale avrebbe scritto un solenne pedante o grecista o grammatico o bibliotecario, ch'ei son, poco piú poco meno, lo stesso cervello in diversi petti». (I, 407).

Io - E perché sobbarcarti a tanta fatica?

Foscolo - «Perché i pedanti e grecisti e bibliotecarî quando io ridevo dei loro libri non gridassero piú: fate altrettanto!; e lo han pur gridato, quelle anime di cimici!». (I, 407).

Io - Oggi ti direbbero d'usare espressioni «piú parlamentari». Ma lasciamola . E concludiamo. Codici no, collazioni no, emendazioni no, erudizione neppure, metafisica meno che meno: mi sai dire che diamine si dovrebbe fare intorno a questi benedetti autori classici?

Foscolo - «Si deve fare un commento critico per mostrare la ragione poetica: filologico per dilucidare il genio della lingua e le origini delle voci solenni: istorico per illuminare i tempi ne' quali scrisse l'autore ed i fatti da lui cantati: filosofico acciocché dalle origini delle voci solenni e dai monumenti della storia tragga quelle verità universali e perpetue, rivolte all'utilità dell'animo, alla quale mira la poesia. Chi piú congiunge queste doti, quegli, a mio parere, consegue l'essenza d'interprete, che io definisco: far intendere la lettera e lo spirito dell'autore». (I, 242).

Io - Quanta roba! E quanta copia di domande mi si affolla nell'animo! E dimmi, prima di tutto: a codesto riduci l'ufficio della filologia? ad un esercizio di etimologia?

Foscolo - Qui tu mi sembri futile e precipitoso. Che etimologia vai dicendo? Hai tu lette le mie osservazioni sul modo di tradurre il cenno di Giove in Omero?

Io - E puoi chiederlo, Maestro? Se ho fatto mai nulla di meno indegno nella interpretazione dei poeti greci, ho imparato piú da quelle tue poche pagine che dai mille volumi della dottrina alemanna. Cosí Voi Grandi insegnate a noi discepoli.

Foscolo - E dunque, vedi in quello scritto che cosa intendo per dilucidare il genio della lingua: ché ora non ho piú tempo di spiegartelo. Sta sano....

Io - Ma no: spiegami almeno che cosa intendi per commento critico, storico, filosofico....

Foscolo - Un'altra volta, figliuolo.

Io - Dimmi almeno questo. Ai tempi tuoi, i filologi tedeschi e intedescati, quando s'impancavano a spiegare i classici, spacciavano tante scempiaggini quante ne spippolano oggi? Un amico mio, in un suo volume recente, ne ha raccolto un sollazzevole manipolo.

Foscolo - Figúrati! Ti basti questa. «L'eruditissimo Walkenaer espungeva il verso in cui Callimaco chiama fulgente la chioma di Berenice perché la costellazione berenicea essendo piú oscura delle altre sue vicine, non poteva esser detta fulgente se non da un poeta senz'occhi. E cosí un letterato che logorò gli anni e gli occhi addosso agli antichi, non imparò che ogni poeta chiamerebbe splendida nei suoi versi anche la costellazione meno visibile, quando in essa vi fosse la chioma bionda d'una giovine donna». (II. 227).

Io - Questa è proprio gemella del sangue di porco del Blass, degli stornelli di Lamporecchio messi sul labbro a Clitennestra dal Wilamowitz, e all'uccellin volò volò del von Keck, denunciati dall'amico mio nel volume ch'io ti dissi. Ma come spieghi tu tali aberrazioni?

Foscolo - Egli è, figliuol mio, che «poeta e grammatico non se la dicono». (II, 211). Egli è che «gli eruditi non hanno né un atomo di mente poetica, né grande abbondanza di retta logica». (II, 226). E le aberrazioni o meglio castronerie di cui tu favelli, dipendono «dalla poca mente di coloro che volendo parlar di letteratura senza sapere né poter essere letterati, architettano vane e inettissime teorie». (II, 81).

Io - Un'ultima domanda, e non t'importuno piú. Non mi pare che tu dimostri in genere molta simpatia per i tedeschi. Ai tempi tuoi, però, erano certo diligenti e coscienziosi.

Foscolo - Disingànnati figlio! Anche allora «gli autori tedeschi lavoravano perché alla fiera di Lipsia i loro scolari e i librai della Germania si provvedessero di volumi stimati nuovi quando erano raffardellati di nuovo titolo e di rancide citazioni». (IV, 91).

Io - Raffardellati? Rancide citazioni? Vuoi tu bestemmiare che le prendessero di seconda mano?

Foscolo - Giusto appunto. «Sedevano con la pipa in bocca, con la bottiglia allato e la penna in mano, e le Antiquitates di Grevio e di Gronovio davanti gli occhi, a comporre e pubblicare ogni mese de' volumi in latino moderno, conditi di greco e di dottissime villanie, onde appurare le faccende dell'antichità». (IV, 46).

Io - Quelle che l'amico mio chiama «i fatti di casa del mondo antico».

Foscolo - Fa' conto che sian quelli. Addio.

Io - No, resta un momento. Ed anche allora gli Italiani avevano lo stolto ossequio d'oggi per i filologi d'Alemagna?

Foscolo - Figúrati! Ci fu perfino un tipografo, che, ristampando l'Alcesti seconda dell'Alfieri, «rase dal volumetto le otto pagine di schiarimento ai lettori, perché gli parve indecente un sorriso sulle labbra dell'Alfieri, massimamente contro ai dotti di Lipsia». (II, 229).

Io - Lasciamo anche i tedeschi. Dimmi. Solevano ai tempi tuoi gli eruditi inferocire contro chi, opponendosi alle loro congreghe, esprimesse le proprie idee liberamente?

Foscolo - Se inferocivano? Bada a ciò che intervenne a me. «Quando pubblicai lo scritto intorno alla traduzione dei due primi canti dell'Odissea, preti, rètori, frati, cortigiani, ruffiani e mercanti di letteratura, bibliotecarî, vocabolaristi, pedanti. Fiorentini sconosciuti, ciarlatani e impostori insomma, aizzati, ispirati e presieduti da una vecchia Antisibilla, mi vennero addosso, e m'uccidevano quasi, e mi provocavano con gazzette quotidiane per le taverne e i crocchi e i caffè; e le calunnie mi afflissero, e me ne accorai. Di ciò mi vergogno: ma me ne accorai». (II, 201).

Io - Tutto bene. Ma poco mi capacitano quei Fiorentini che si pigliano una scalmana per due libri tradotti dell'Odissea. Vedi che non fossero metèci.

Foscolo - O frati, può essere. T'occorre piú altro?

Io - Anzi la cosa principale. Ti dirò tutto il vero, Poeta. L'amico di cui t'ho parlato, e che ha scritto il libro contro la filologia tedesca e intedescata, sono io medesimo. E me gli eruditi e i filologi d'Italia investono e proverbiano e calunniano come fecero a te quei messeri che tu dici. Ed io ero incerto se dovessi continuar la battaglia o ripiegare dinanzi al numero. Ma ora che tu m'hai parlato cosí, io stimo piú il giudizio tuo che non quello di tutti gli altri presi in fascio. E voglio gagliardamente combattere, parola per parola, senza ripiegar d'un pollice.

Foscolo - Pessimo divisamento mi sembra il tuo, figliuolo. Pensa che tu devi attendere ad altre opere; e gli eruditi e i grammatici altra mèta non sogliono prefiggere alla lor vita che d'accapigliarsi in queste inutilissime gare. Onde tu sarai stanco quando quelli penseranno di non avere pur incominciata la zuffa.

Io - E dovrò dunque tacere, e tollerare in pace che si confondano miseramente le mie idee, e, strappata questa o quella dal suo contesto, e grottescamente camuffata, si trascini dinanzi alla gente per confutarla e vituperarla?

Foscolo - Non dartene pensiero. Fa' come feci io nella evenienza che ti dissi. «Io scrissi la risposta, ma la dignità dell'animo mio risorse, e non mi avvilii a pubblicarla». (II, 201). O ricorri all'altro espediente che escogitai quando ero piú maturo d'anni e di esperienza. «Facevo puntualmente ristampare gli stessi articoli di giornali e gazzette, epigrammi, dissertazioni, censure morali e accuse politiche pubblicate a mio lume dai suddetti letterati miei concittadini e stranieri, e tutti maestri miei. Cosí ristampate senza alterare sillaba loro né aggiungervi sillaba mia, io le lasciava distribuire agli amici miei, a' noti e agl'ignoti; ed io usciva di ogni pensiero di quella faccenda». (IV, 77).

Io - Il conto mi tornerebbe poco. Mali tempi corrono, Poeta, e la carta e la stampa costano un occhio.

Foscolo - Odi allora un sogno ch'io feci quando piú contro me infierivano i pedanti gabbati dalla mia Chioma di Berenice. La rupe di Mènnone, onde io avevo ragionato nelle chiose, m'apparve fra le tenebre, e mi disse: «Poeta, io mi levo sul deserto, sola, immobile, gelida nel basalto negro. Si abbattono su me stormi d'augelli, e non vi annidano: nugoli di germi, e non vi allignano: scrosci di piogge, e non mi corrodono. Le genti additano da lungi la mia aridità e la mia solitudine. Ma come il sole sorge, al suo raggio, al suo fuoco, le mie fibre segrete vibrano come le corde d'una lira, e da tutta la mia sostanza si effonde un'armonia purissima, come da un fiore il profumo. Poeta, la rupe risponde solamente al sole».

 

 

 

 


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